Virginia Woolf (1882-1941)
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Virginia Woolf confessò esplicitamente il proprio ateismo nel romanzo “La signora Dalloway”: era una confessione sincera e naturale a favore di un pensiero indipendente da ogni trascendentalismo irreggimentato. Che l’eroina del romanzo fosse coraggiosa, e che quindi lo fosse la Woolf, non pare esattamente vero. L’ateismo era piuttosto presente nelle discussioni inglesi sin dai tempi del filosofo settecentesco Hume, un empirista convinto e quindi un pragmatico senza pari. Il materialismo otto-novecentesco aveva acuito queste discussioni, sino a dare quasi per scontata la posizione antireligiosa. Virginia Woolf veniva da una famiglia istruita e da un ambiente letterario di primo piano. Il padre, Leslie Stephen, era uno storico e critico molto noto ai tempi, mentre la madre Julia era una donna bellissima (aveva posato per il famoso pittore Edward Burne-Jones) e molto intelligente. Seguendo la regola vittoriana, l’istruzione di Virginia avvenne in famiglia: la madre le fece da maestra, il padre aprì alla giovane la sua favolosa biblioteca. Gli “incontri” di Virginia con i classici furono molteplici e profondi. La classicità tutela i valori della personalità umana, dichiara, in definitiva, che l’uomo ha il diritto e il dovere di gestire il mondo. Tutto ciò porta ad una fermezza di comportamenti, ad una certezza di sé che deve essere difesa in ogni circostanza. Porta ad una lucidità mentale assoluta e responsabile oltre se stessa. La Woolf dimostra di avere bene appreso il concetto soprattutto attraverso i suoi saggi (“Il lettore comune”, “Una stanza tutta per sé”), i suoi articoli, le sue critiche, le sue prefazioni a vari libri (autentici gioielli di prosa). Mentre, sulla tenuta del concetto stesso, la grande scrittrice mostra delle perplessità, dei timori, in particolare, nei romanzi “Notte e giorno” (con cenni calorosi alla tematica femminista, molto cara all’autrice, paradigma di una volontà di accettazione di sé, dei propri propositi, da parte degli altri), “Gita al faro” (il suo più famoso) e “Orlando”. Il ricorso sistematico, negli ultimi due, al “flusso di coscienza” per cui il tempo è scandito dalle emozioni e dall’associazione di idee (la Woolf predilige abbandonare le descrizioni cronologicamente ordinate) dimostra quanto sia sfuggente la realtà per la scrittrice, quanto sia difficile usarla adeguatamente. I sentimenti incompiuti sono una pena. La sensibilità è una ferita sempre aperta, una ferita sanguinante, inguaribile. L’insoddisfazione, l’inappagamento sono mostruosità sempre pronte a colpire. Manca il traguardo. Il pensiero è troppo alto e forse troppo esigente: il mondo è quello che è. L’esuberanza della Woolf è incontenibile. I pensieri incalzano, pretendono. La sensibilità sale in paradiso e scende agli inferi in un tratto. Il Bloomsbury Group La scrittrice è circondata di persone, pur raffinate, che non la capiscono. L’ambiente che lei stessa ha promosso, le famose “serate del giovedì”, dove si parla di cultura ad altissimi livelli (è il Bloomsbury Group, di cui, fra i molti altri, fa parte Litton Strachey, storico, E.G. Forster, romanziere, Roger Fry, critico, John Maynard Keynes, l’economista rivoluzionario, Bertrand Russell, il matematico e filosofo all’avanguardia, e Leonard Woolf, marito della Nostra) è un ambiente a suo modo conservatore, specialistico, con rari voli di fantasia, con nessun entusiasmo “folle” e quindi, in fondo, poco creativo. Bloomsbury è un quartiere chic di Londra e si bea della sua elitarietà, specialmente ora che vi alberga la cultura con la C maiuscola. Gli incontro relativi condizioneranno per parecchio tempo la cultura inglese, e non solo, sicuramente in senso positivo rispetto, per lo meno, al passato. Ben diversa è la posizione di Virginia Woolf: lei è nemica della conservazione, lei aspira ad una creatività significativa, progressista in senso conoscitivo più ampio possibile. Soprattutto la Woolf segue i propri impulsi intimi, dà retta alla propria sensibilità, immagina un mondo d’intese sempre più perfette: se si vuole la sostituzione dell’idea divina, bisogna impegnarsi a fondo, bisogna cavare da sé il meglio del meglio. Nel 1924 Virginia Woolf confessò all’amico pittore Jacques Raverat che la sua follia l’aveva salvata. La sua salvazione era riposta, insomma, in una sorta di squilibrio mentale (frequenti i suoi crolli nervosi) determinato, probabilmente, da una inadattabilità al mondo circostante. “Disturbo bipolare” diceva la medicina nei suoi riguardi. Ma, appunto, è più probabile la sofferenza per l’incapacità di vivere in quel mondo a causare il male, come cercherà di dimostrare anche Thomas Szasz, scrittore e psichiatra, in un libro (“La mia follia mi ha salvato: la follia e il matrimonio di Virginia Woolf”) che riguarda la Woolf lanciata verso il suicidio. Chiarite e schiarite La stessa omosessualità della grande scrittrice va vista alla luce di questa sofferenza, il cui lenimento forse più efficace fu la relazione morbosa, e purtroppo problematica, con la poetessa Vita Sackville-West, alla fine degli anni Venti. La West aveva dieci anni meno ed un carattere mascolino. La relazione fra le due fu dolce e tempestoso, tenero e crudele. La Woolf, che pure ebbe altre esperienze omosessuali, ne soffrì parecchio. Dedicò alla West il romanzo “Orlando”. Difficile, dunque, la vita di Virginia Woolf, sempre alla ricerca dell’assoluto e speranzosa, a oltre convinta, di poterlo ottenere. Suo marito, Leonard Woolf l’aveva convinta a fondare insieme una casa editrice, la Hogarth Press che pubblicò soprattutto libri di psicanalisi (Freud vi collaborò attivamente): ma questo non allontanò la Woolf da quella che lei riteneva una specie di missione: contribuire interamente all’emancipazione significativa dell’umanità. Veniva rallentata dall’incomprensione circostante, dall’indifferenza verso il suo impegno superiore. A peggiorare le cose, intervenne il secondo conflitto mondiale. In maniera silenziosa, la Woolf visse questa tragedia finché poté. Poi crollò. Aveva già tentato il suicidio, ma il 28 marzo 1941 fece davvero sul serio. Si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse che scorreva non lontano da casa sua. Si riporta più sotto il testo del biglietto di commiato che lasciò al marito. Materialmente aveva perso la sua battaglia con la vita ideale, spiritualmente era andata sino in fondo, per quel che poteva dati i tempi e data la mentalità, sostanzialmente piccolo-borghese che l’aveva angustiata da sempre. Visse consapevolmente e dignitosamente, senza attaccarsi a nulla di metafisico, a nulla di religioso, cercando di avere fede in se stessa. Il messaggio finale e la scrittura
C’è come un’impossibilità a rivelare appieno il proprio sentire, il proprio pensare in queste righe, per timore di incomprensione. Apprezziamo ora la vera Virginia Woolf. Da “Notte e giorno”, ecco l’incipit altri due brani:
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Dello stesso autore:
it.wikipedia.org/wiki/Virginia_Woolf