Una dissertazione sulla lingua franca
Dr. Renata Zago

www.uwm.edu/~corre/franca/edition3/lingua6.html

Indice

  1. Lingua Franca
    1. Terminologia
    2. Definizione
    3. Periodo, Luogo e Motivi d'Origine
    4. Evoluzione
    5. La Lingua Franca ed i Pidgin
    6. Sintassi della Lingua Franca
    7. Il Lessico della Lingua Franca
    8. Documenti
  2. L'Uso della Lingua Franca nelle Commedie di Carlo Goldoni

1.1 Terminologia

Tre sono le denominazioni che durante i secoli sono state impiegate per designare questa realtà linguistica: lingua franca, sabir e petit mauresque.

Quella più diffusa, divenuta ormai un termine tecnico che indica un insieme ben preciso di fenomeni, è lingua franca, cioè "lingua dei Franchi", come gli Arabi chiamavano indistintamente gli Europei Occidentali. Per spiegare questa espressione si è pensato ad un calco dall'arabo lisân al-ifranj o lisân alfranj, ma essa è perfettamente comprensibile anche da un punto di vista italiano.

Nel Cinquecento, però, questa denominazione stava ad indicare anche quell'"italiano parlato, più o meno bene e con inevitabili adattamenti (dalmatico-veneti), ma speditamente dagli abitanti alloglotti del litorale e delle isole di Dalmazia". Forse ciò è dovuto al fatto che si trattava anche in questo caso, come per la lingua franca, di una lingua romanza, e per di più semplificata nella sua struttura per esigenze di comunicazione: questo può aver indotto qualcuno ad istituire un parallelo fra le due cose ed a credere di poter usare la stessa denominazione per indicare delle questioni che invece sono ben differenti e distinte tra loro.

In più può aver influito anche l'equivoco, citato già da Schuchardt, ingenerato dall'estensione della denominazione "franco" – intendendola nel senso di "godente particolari franchigie – ad ogni lingua commerciale diffusa, dato che si traduceva Freihafen  con  porto franco e Freisprache  con  lingua franca. A questo proposito Sammarco dice: "la lingua italiana era detta franca, non nel senso di francese, ma appartenente a gente godente franchigie…" È questo un punto che va chiarito.

La denominazione sorse, sembra ormai accertato, fin dal secolo IX in Ispagna, dove gli arabi [...] distinguevano in due categorie: [...] rumi, e [...] frang o ifrang, cioè liberi, non sottomessi. Quando le nostre repubbliche marinare ottennero nei paesi del levante quei privilegi e quelle franchigie dalle quali col tempo sorsero le Capitolazioni, i musulmani applicarono a questi privilegiati la medesima denominazione di "ifranghi", "franghi", "franchi". A misura che franchigie e privilegi vennero accordati anche a sudditi di altri Stati, l'appellativo si estese via via anche a questi altri sudditi.

E siccome soltanto gli europei del Mediterraneo Occidentale erano in grado di ottenere franchigie e privilegi dai sultani, l'appellativo medesimo divenne sinonimo di "occidentali."

Altro termine abbastanza diffuso è sabir, ed è nato probabilmente nell'ambiente dei coloni francesi in Algeria. La sua prima attestazione è l'articolo "La langue sabir", citato da Schuchardt, apparso su "L'Algérien, journal des intérêts de l'Algérie" il giorno 11 maggio 1852; ma esso è probabilmente stato suggerito dalla "turquerie" del "Bourgeois Gentilhomme" di Molière (nella V scena del IV atto il Mufti inizia il suo canto dicendo: "Se ti sabir, ti respondir . . . " ). Analogamente a quanto è avvenuto per l'espressione "lingua franca" questo termine è stato poi esteso ad indicare la lingua franca anche al di fuori dell'Algeria, e addirittura certe volte è stato impiegato per classificare tutta una serie di realtà linguistiche intendendo denominare così vari tipi di pidgin. Tuttavia, come osserva Cifoletti, "storicamente [esso] è servito a designare la lingua franca solo nella sua ultima fase, quella di decadenza e sparizione."

Altra espressione che si diffuse, anche se più limitatamente, dopo l'invasione francese del Nordafrica è petit mauresque. Essa si basa su di un punto di vista simile a quello che ha prodotto l'espressione "petit noir" per il creolo francese delle Indie Occidentali e compare addirittura sul frontespizio del vocabolario giunto fino a noi ("Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque").

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1.2 Definizione

Non è facile trovare una definizione per un fenomeno così complesso come la lingua franca, ma di certo in passato se ne sono date le descrizioni più strane: c'è chi l'ha definita
un gergo curioso [...] miscuglio di lingue neolatine
chi l'ha descritta come
idiome rudimentaire [...], étrange jargon [...] tout à fait insuffisant pour [...] relations sérieuses avec les indigènes
o come una
koinè formatasi dopo l'Assise di Gerusalemme nella confluenza dei vari linguaggi occidentali, portati dai crociati e tenuta viva non tanto dai nuclei mercanteschi quanto dagli stabilimenti politici, militari e religiosi, soprattutto dalla Milizia della Casa del Tempio e più ancora dall'ordine di San Giovanni Gerosolimitano.

Mi sembra che vi sia innanzitutto un problema di chiarezza: la lingua franca è un pidgin (nel senso indicato da Whinnom), poichè presenta la tipica struttura dei pidgin, ed è a base romanza; è forse il più antico pidgin di cui si abbia notizia (sembra che i primi documenti risalgano alla fine del '200-inizi del '300) ed è sicuramente il più longevo, se si considera che il suo uso è testimoniato per circa otto sei secoli. Si tratta di una lingua ausiliaria creata dalla necessità di comunicazione tra persone di lingue diverse, e precisamente tra parlanti le varie lingue romanze e parlanti arabo. Essa non è una lingua letteraria nè una lingua scritta, ma è una lingua parlata, tesa ad ottenere i maggiori risultati comunicativi utilizzando i mezzi più semplici. Forse in questo senso la si potrebbe ritenere una lingua "speciale," ma assolutamente non in altre accezioni.

Non è mancato, anche tra studiosi di fama internazionale, chi ha messo in dubbio l'esistenza di questa lingua come entità autonoma, affermando che in realtà si trattava di storpiature di altre lingue standard. Bisogna ammettere che talvolta le prove storiche sono così difficili da interpretare che di fatto viene da pensare a fenomeni di semplificazione e mescolanza di altre lingue operati a Iivello individuale (Whinnom afferma che "all linguistic changes start with individual speakers"), ma proprio questo fattore di individualità comporterebbe una discontinuità e una mancanza di omogeneità che invece non si rilevano nei documenti di lingua franca, chiaro indice evidenziando chiaramente in essi, al contrario, una di saldezza di struttura, dato che "a weakness in the system may result in polygenesis of analogical formations."

Per fugare questi dubbi mi sembra utile ricordare quanto dice Whinnom sull'origine dei pidgin, affermandone le differenze dalle "lingue secondarie" (come il "cocoliche", che egli definisce "a secondary language associated with naïve language-learning")

The essential differences between a pidgin proper and a secondary "language" [...] seem to be [...] that the linguistic product of a process of simple secondary hybridization (ex. cocoliche) exhibits the same characteristics as biological hybrid populations, namely a plethora of variant forms which fill a series of spectra between one language and another, whereas a pidgin exhibits variation not greater than a "primary" language . . .
Questo perchè
pidginization is neither arbitrary simplification nor mechanical mixing, but an adaptation, a selective change to certain ends, and what crucially needs explaining is not the occurrence of the component processes (simplification, mixture), but that these processes should result in a distinct, stable form . . .
Nel caso della lingua franca, infatti, l'esame dei testi ha messo in luce delle costanti strutturali e un'omogeneità sostanziale che hanno permesso a Fronzaroli di stabilire che
quella serie di manifestazioni linguistiche, che chiamiamo lingua franca, non ci si presentano come l'adattamento momentaneo di un parlante arabo inesperto di lingue romanze, ma come una vera e propria lingua sia pure semplificata al massimo nel lessico e nella grammatica, con sue norme e una sua struttura ben salda e ben riconoscibile anche nella naturale rapida evoluzione che le circostanze favorivano.

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1.3 Periodo, Luogo e Motivi d'origine

La maggior parte degli studiosi che si sono occupati di lingua franca ha ipotizzato che essa sia nata durante il periodo delle Crociate, il primo grande momento storico in cui gli Europei Occidentali ed i popoli del Levante si sono trovati in stretto e duraturo contatto. Di fatto la situazione di multilinguismo venutasi a creare in quel periodo (grande varietà di lingue romanze da un lato, e di dialetti arabi, oltre che di turco, dall'altra) sembrerebbe favorevole alla nascita di un pidgin, che può sorgere solo da una situazione di multilinguismo. Nel caso di due lingue che entrino in contatto, il risultato generalmente è una situazione di interlinguismo improvvisato, come afferma Decamp:
two languages in contact can result in an interlingual improvisation [...], but [...] more than two languages in contact are required for the birth of a true pidgin. The common people who are to be the pidgin speakers must come from different and mutually unintelligible language backgrounds, and there must also be a dominant (and usually alien) language which supplies much of the vocabulary.
E' di questo parere anche Whinnom, il quale afferma addirittura:
it arose, as all pidgins arise, in multilingual situation, and, specifically, one in which none of the speakers primarily involved in its genesis had Italian (or an Italian dialect) as first language.
Questa ipotesi sul periodo della nascita, pur così diffusa, non è confortata dalle prove storiche: i primi documenti riguardanti la lingua franca sono notevolmmente più tardi, e non è molto nota neppure le situazione linguistica dei tempi delle Crociate.

Se si è incerti circa la datazione d'inizio, non vi possono essere dubbi sul luogo, e tanto meno sui motivi che hanno determinato questa nascita: il Mediterraneo, in particolare quello occidentale, è stato l'ambiente in cui questa lingua è sorta e si è mantenuta in vita. Quanto ai motivi, già Schuchardt faceva presente la basilare necessità di intendersi tra parlanti romanzo e non-parlanti romanzo; stabilito questo, poco importa affermare, che veniva usata solo in particolari circostanze come fa Perego, che

la langue franque [...] ne servait pas indistinctement à tous les usages. Elle était réservée d'une part aux relations entre maîtres et esclaves (langage de la chiourme, composé en grande partie d'imprécations et de menaces), d'autre part aux négociations diplomatiques et commerciales verbales
poichè queste "lingue di necessità" "haben zwar wichtige, aber keine sehr mannigfachen Aufgaben zu erfüllen; es sind vor allem Handelssprachen" hanno compiti importanti ma non molto variati: sono soprattutto lingue commerciali. Quello che è invece notevole, e che è risultato determinante nel differenziare la lingua franca dalle altre lingue di necessità, è stato il fenomeno della pirateria nel Mediterraneo, che ha comportato una grande concentrazione di Europei (in maggior parte schiavi, ma anche come rinnegati) nelle città del Nordafrica, i quali avevano quotidianamente la necessità di comunicare con i Musulmani (Arabi, Berberi o Turchi), e lo facevano servendosi della lingua franca. La grandissima diffusione ha avuto quindi come risultati una – relativamente – maggiore stabilità del fenomeno linguistico e una specie di "salto di qualità" rispetto ad altre lingue di necessità, poichè anzichè limitarsi alla funzione di lingua commerciale, la lingua franca ha conosciuto un'estensione d'uso a tutti i casi della vita quotidiana, e può darsi che questo sia uno dei motivi che spiegano la sua longevità.

Una prova indiretta di questa ampia diffusione è data da quanto riporta Coates a proposito del naufragio di una nave algerina sulle coste della Cornovaglia:

On the night of September 27, 1760, a large ship was wrecked on the rocks at Penzance in Cornwall. When dawn came the local citizens found on the beach a group of strange-looking men wearing turbans. The ship was an Algerian xebecque or corsair, and had carried 220 men. The Algerians feared that they landed in Spain, where slavery would have been their lot; they were overjoyed to learn that this was not the case, and exclaimed: "Inglaterra! Inglaterra! bona Inglaterra!" Someone remembered that there was in town a certain Mr. Mitchell who had been in the Levant trade and might be able to talk to the Algerians. He was accordingly fetched; and as he did indeed have some knowledge of the Lingua Franca, he was able to serve as interpreter […] it is an indication of the importance of the Lingua Franca at that time that there should be, in a provincial town such as Penzance, someone able to speak it. This was probably the only occasion when the Lingua Franca was spoken in Cornwall, and one of the few times it was ever spoken outside the Mediterranean area. But in the ports along eastern and southern coasts of the Mediterranean the Lingua Franca was for centuries the principal language used for communication between Europeans and the local populations.

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1.4 Evoluzione

Per lungo tempo la questione dell'evoluzione della lingua franca è stata ignorata dagli studiosi; la cosa è in parte dovuta alla difficoltà di cogliere delle variazioni precise in un fenomeno così fluido come quello qui preso in considerazione &150; tanto più che queste variazioni sono da individuarsi, oltre che sul piano diacronico, anche su quello sincronico, dato il carattere di immediatezza e anche di individualità della lingua franca &150; e in parte è dovuta al persistere di un vecchio pregiudizio che nega valore e dignità linguistica a fenomeni di questo tipo, tendendo ad escludere la possibilità che essi abbiano una vera storia.

Ritengo che sia oltremodo ingenuo sostenere che una lingua – sia essa ausiliaria o standard – che ha avuto una vita ed un uso documentato lungo un arco di almeno quattro secoli, non abbia subito alcun cambiamento e si presenti già completamente delineata sin dagli esordi. E tenendo presente questo fatto si possono valutare in modo diverso anche le prove storiche: alcuni documenti (come ad esempio Il Contrasto della Zerbitana ) possono essere considerati delle prefigurazioni, altri possono gettare luce sulle differenze, anche lessicali, della lingua franca parlata in regioni diverse. Infatti, mentre le testimonianze derivanti dal Mediterraneo orientale non sono concordi (mostrando talvolta "una specie di pidgin a base italiana ma con vari apporti romanzi, a volte un italiano parlato male da persone di madrelingua diversa, a volte un italiano regionale"), le testimonianze magrebine sono più omogenee, e permettono in certa misura di rilevare anche le e permettono in certa misura di rilevare anche le variazioni sincroniche. Già Schuchardt, poi ripreso da Fronzaroli, notava che nei documenti si possono distinguere in ogni periodo due "colorazioni" fondamentali di lingua franca: una di base fondamentalmente spagnola, diffusa sulle coste occidentali del Nordafrica, e una a base italiana sviluppatasi sulle coste orientali, entrambi comprendenti delle semplificazioni fonetiche dovute al parastrato arabo. La Condamine, che visitò Algeri verso il 1731, si esprimeva così:

On dit qu'on ... parle [la langue franque] dans tout le Levant et dans tous les ports de la Méditerranée, avec cette difference que celle qui est en usage du côté de Tripoli et plus en avant vers le Levant est un mélange de provençal, de grec vulgaire, de latin et surtout d'italien corrompu, au lieu que celle qu'on parle à Alger, et qu'on appelle aussi petit mauresque, tient beaucoup plus de l'espagnol que les Maures ont retenu de leur séjour en Espagne.
E lo stesso Dictionnaire opera una distinzione simile affermando che
Cet idiome [...] diffère, même sur plusieurs points, suivant les villes où il est parlé, et le petit mauresque en usage à Tunis, n'est tout-à-fait le même que celui qu'on emploie à Alger; tirant beaucoup de l'italien dans la première de ces régences, il se rapproche au contraire de l'espagnol dans celle d'Alger.

L'elasticità lessicale e la semplicità strutturale – (da non confondersi con la labilità) – avranno permesso delle variazioni locali che sicuramente non saranno state così profonde da creare problemi di comprensione; e con l'andar del tempo si saranno scoperti poi i vantaggi di parole comuni alle varie lingue contribuenti, fatto che, secondo Whinnom, ha determinato "some degree of synonymity: the Arabic-derived taybo alongside Romance bono, etc."

Queste variazioni regionali, che avvengono in un pidgin che non si è mai creolizzato, come è appunto il caso della lingua franca, (contrariamente a quanto affermato da Tagliavini), erano tutte sfumature delle due "colorazioni" fondamentali già individuate, che si contaminarono in varia misura seguendo un processo naturale, e che trovarono il loro punto d'incontro in Algeri, dato il particolare ambiente cosmopolita che si era venuto a creare in questa città, roccaforte della pirateria di tutto il Mediterraneo. Qui la lingua franca commerciale compì il grande salto di qualità che la fece diventare lingua degli schiavi e che ne aumentò estese l'uso. Questo non significa tuttavia che essa abbia assunto delle caratteristiche simili alle lingue degli schiavi (intese come le lingue con cui i bianchi, specialmente in America, comunicavano con gli schiavi neri), dato che quelle si formarono su una base fornita dalla lingua dei padroni (lingua di prestigio), su cui si esercitarono le influenze delle lingue madri degli schiavi; invece la lingua franca trasse il suo vocabolario di base dalla lingua degli schiavi – dato che, per motivi che non è il caso di ricercare in questa sede, erano le lingue romanze ad avere il ruolo di lingue di prestigio – e su questa base agirono le influenze del parastrato arabo.

In più, le lingue degli schiavi, da lingue di mediazione sfociarono in creoli, spiazzando le lingue originarie e divenendo le lingue madri degli schiavi che avevano bisogno di un mezzo comune anche per comunicare fra loro, data la loro diversa provenienza e la reciproca incomprensibilità delle loro lingue materne. La lingua franca, invece, rimase sempre lingua ausiliaria, in uso accanto alle altre lingue, e quindi non fu mai lingua madre per nessuno. Probabilmente è questa la ragione per cui le varie sfumature della lingua franca non raggiunsero mai l'unità linguistica, tanto che anche il compilatore del Dictionnaire sentì di dover sottolineare la differenza di varietà.

L' uso continuo di questa lingua (attestato da documenti diretti o da testimonianze di viaggiatori che, visitando il Nordafrica, accennano sempre a questa lingua curiosa, così diversa dalle altre) fu causa ed effetto della sua importanza, la quale è provata in modo esplicito dal fatto che quando i Francesi intrapresero la conquista dell'Algeria pensarono che fosse opportuno rifornire le truppe di un manuale che aiutasse ad imparare questa lingua, così da favorire il contatto tra i soldati e le popolazioni indigene. Singolarmente, però, questo fu anche l'inizio della fine, nel senso che dopo il 1830 (anno in cui fu stampato il Dictionnaire e anno in cui l'Algeria fu conquistata dai Francesi) la lingua franca si francesizzò sempre più – come testimoniano i documenti relativi a quel periodo – ma almeno fino alla fine del secolo mantenne una sua autonomia ben precisa. Ma intanto altri fattori stavano agendo determinando la perdita del suo vigore: mi riferisco, oltre che all'annessione del litorale nordafricano da parte delle potenze europee (che disponevano di altri canali per la comunicazione), alla sparizione delle più importanti comunità miste, al prestigio superiore attribuito ad altre lingue (quali il francese, l'inglese, l'italiano), senza tralasciare la caduta dell'Impero Ottomano, il declino del commercio mediterraneo a favore di quello atlantico, ed altri fattori ancora.

Schuchardt, che scrive il suo articolo nel 1909, afferma che la lingua franca era ancora in uso, seppure "sie ist auf die Berberai beschrankt, und zwar wohl mit Ausschluß Marokkos"; invece Cohen, nel suo studio sulle possibili interferenze della lingua franca con il dialetto degli Ebrei di Algeri, sostiene che essa è già una lingua morta: è fuor di dubbio, comunque, che la sua estinzione sia avvenuta nei primi anni di questo secolo del Novecento.

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1.5 La Lingua Franca ed i Pidgen

Intendo spiegare ora perché neI Paragrafo 1.2 "Definizione" io abbia affermato che la lingua franca è un pidgin, e nell'usare questo termine ho presenti, oltre alla definizione Whinnom già citata, anche quella data da Decamp:
A pidgin is a contact vernacular, normally not the native language of any of its speakers. It is used in trading or in any situation requiring communication between persons who do not speak each other's native languages. It is characterized by a limited vocabulary, an elimination of many grammatical devices such as number and gender, and a drastic reduction of redundant features. [...] Most pidgins, are European based, i.e. each has derived most of its vocabulary from one or more European languages. [...] a pidgin [...] functions only as an auxiliary contact language [...] is so limited, both lexically and structurally, that it is suitable only for specialized and limited communication. Pidgins are therefore short lived. Rarely does a pidgin survive for a century [...] If the interlingual contact ends, the pidgin usually also ends [...] there is no longer a need for it and there are no sentimental attachments or nationalistic motivations for preserving a dead pidgin. If the interlingual contact is maintained for a long time, usually one group learns the standard language of the other [...] The only way in which a pidgin may escape extinction is by evolving into a creole...
Le lingue di mediazione, come i pidgin, si assomigliano tutte nella loro struttura fondamentale, perchè sono tutte nate in circostanze simili, cioè in condizioni in cui confluivano parlanti lingue diverse e che avevano necessità di comprendersi usando i mezzi più semplici.

Più precisamente questo obiettivo veniva viene raggiunto esprimendo ciascun elemento significante invariabile con almeno una forma che fosse sia fonologicamente distinta e di carattere definito ed invariabile. Se si tiene presente alla luce di questo principio, risultano subito chiari alcuni tratti fondamentali dei pidgin: i pronomi personali compaiono con un aspetto invariabile che corrisponde alla formulazione più caratteristica e maggiormente significante della lingua di base; i verbi compaiono in forme estremamente definite per quanto riguarda il significato semantico ma assolutamente scevre di ogni connotazione temporale, una specie di "idea pura" in senso assoluto, non collocata in un tempo definito ma assunta nella sua originaria formulazione al di sopra del tempo. Saranno altri i segnali che conferiranno la nozione temporale, e anch'essi avranno una forma invariabile, autonoma e fortemente caratterizzata. E questo è anche l'aspetto che avranno tutte quelle unità che possono modificare ulteriormente l'"idea pura" in senso negativo (particelle di negazione), in senso modale, spaziale e così via (avverbi di modo, di tempo, di frequenza). Risulta comprensibile, in questa ottica, anche la soppressione degli articoli e di altri determinatori nominali – sentiti come attributi inessenziali alla formulazione dell'"idea pura" espressa dai sostantivi – e la perdita di alcune preposizioni, talvolta sopperita dall'allargamento delle funzioni di una sola di esse, che acquista tanto vigore da diventare uno degli elementi di base del mezzo di comunicazione. Altro tratto fondamentale e comune a tutti i pidgin è la limitatezza del vocabolario, che talvolta viene definita "impoverimento" implicando un giudizio di merito negativo. In realtà la questione non va posta in questi termini, in quanto non si deve guardare alla quantità del vocabolario, bensì al suo carattere di adeguatezza; e il vocabolario dei pidgin è adeguato alla natura stessa di queste lingue: è un vocabolario speciale perchè queste sono lingue speciali. Con questo intendo dire che non vanno giudicati in senso negativo né la cancellazione di tutta la serie delle discriminazioni semantiche che di solito avviene nei pidgin (la quale ha come effetto il persistere di due sole, grandi categorie di idee: quella enunciativa ed il contrario di essa. Nella lingua franca, ad esempio, questo determina la netta divisione tra bonou e non bonou, eliminando i gradi intermedi) né il fatto, che è conseguenza dell'altro, che spesso i sostantivi ed i verbi non indichino solo una idea, una cosa, un atteggiamento, ma tutta la serie di quelle idee, di quelle cose, di quegli atteggiamenti (ad esempio, in lingua franca il verbo mirar, oltre ad unificare delle sfumature tipo "scorgere", "intravedere", "rimirare", elimina anche la distinzione fondamentale tra "guardare" e " vedere" ).

Venendo a contatto con un pidgin l'attenzione è immediatamente attirata dalla preferenza accordata all'espressione di tipo paratattico rispetto a quella di tipo sintattico. Essa trova la sua motivazione nel tentativo di evitare l'accumulazione, in singole unità di superficie, di un numero eccessivo di elementi significanti separatamente intuiti. Per questo si tende ad evitare l'uso di segnali di coordinazione – che determinerebbero unità di superficie più estese – e di procedimenti che combinino le proposizioni in modo ricorsivo, così da creare, per accumulazione, delle unità di superficie più imponenti e quindi più elaborate. Quanto poi al basso indice di subordinazione che si riscontra nei pidgin, esso è ancora più facilmente comprensibile se si pensa che questo tipo di espressione tende a creare non solo delle unità più estese in senso spaziale ma anche più complesse per quanto riguarda l'enunciazione e la comprensione, dato che la subordinazione crea anche delle unità significanti che si interconnettono in vari modi.

Esaminiamo ora più dettagliatamente le caratteristiche che la lingua franca ha in comune con gli altri pidgin. L'eliminazione più notevole è quella della flessione: i sostantivi (ed anche i verbi, v. sotto) vengono presentati in una forma-base che rimane invariata con il mutare delle funzioni sintattiche. Così il Dictionnaire può sintetizzare nel Préface:

L'ami. l'amigo
De l'ami. dell'amigo
A l'ami. al'amigo
Par l'ami. per l'amigo […]
Je vais. mi andar
Tu vas. ti andar
Il, elle va. ellou, ella andar
Nous allons. noi andar
Vous allez. voi andar
Ils vont. elli andar
J'allais. mi andar […]
Va. andar […]
Allons. andar
Anche i pronomi personali conoscono un'unica forma mi, ti ecc., che corrisponde all'accusativo della forma italiana (ed alla forma di alcuni dialetti italiani, in particolare di quella del dialetto veneto) perchè sentita come maggiormente significante e maggiormente stabile:
(Zerb.) come ti voler parlare?
(Enc.) ti istran plegrin [...]
ala ti da
(Haedo) mi estar barbero bono
(Schuch.) guarda per ti (ma anche nos autros )
(Rossi) mi conoscer ti aver bona cabesa
(ma anche tu dire questo)
(Merc.) se ela mi amar [...]
mi avera
(Turco) mi voleri [...]
far de mi quel che voler
(Dict.) mi scométir
il fratello di ti
ti quérir mi andar con ti?
qouando piacher per ti
(Impr.) mi piacer (ma questa forma è meno frequente rispetto ai tipi omo come tu, io non star)
(Pett.) mi servira (ma anche me cognossira e, una sola volta, anca tia)
(Donne) mi star padre
drento de ti (ma anche drio me vegnir e mi te voler parlar, meno frequenti)
(Lugr.) voler ti
e mi testa voler taggiar a ti (ma, più rari, anche se...te no volesse più, mi te voler ben.)

Questi espedienti, che hanno il vantaggio di diminuire le difficoltà dell'apprendimento e di consentire un uso più sciolto, sono i più importanti ma non gli unici casi di semplificazione. Infatti anche gli avverbi vengono quasi eliminati e rimpiazzati dall'attribuzione di un valore avverbiale all'aggettivo corrispondente. Così:

(Dict.) commé star il fratel di ti? Star mouchou bonou.
(=Comment se porte votre frère? Il se porte fort bien)
mi sentir bonou (= J'entends bien)
ti venir dgiousto (= Vous venez à propos)
(Rossi) tuo console nuovo star buono, non cercare me né buono né male
(Zing.) mi no ricorda ninta sert
che [= questo] star bon
mi creder serta
chesti loghi che star bezina
(Lugr.) segnur, star qua vesina/Lugrezia
(Schuch.) come va? Come passar tempo? Va bono?

Ma accanto a questi fenomeni di semplificazione riduttiva se ne registra anche uno di segno apparentemente contrario, cioè espansivo: per indicare il rafforzamento del significato di un avverbio, anziché ricorrere ad un termine nuovo, viene impiegato l'artificio dell'iterazione, cioè viene ripetuto due volte lo stesso avverbio per sottolinearne l'intensità. Così:

(Dict.) si, andar siémé siémé (Oui, allons ensemble)
andar poco poco (Allez doucement)
poco poco star qouatr'ora (Il est bientôt quatre heures).
(Zerb.) barra fuor casa mia
(Zing.) sercata tanta tanta
pressa pressa el tera
mi benir adessa adessa
ti dita menar presta presta
(Schuch.) mi andar semi-semi
(Donne) finzer star bona bona
(Faidh.) chouia-chouai

Ed è probabilmente una motivazione di tipo simile quella che determina talvolta anche la ripetizione della stessa forma verbale:

(Rossi) anda, anda canaglia
anda, anda a palazzo
andare, andare giù in casa mia
(Enc.) stringa da da
pilla pilla per camino
(Donne) ma quando mi voler, voler ti diga sì
(Lugr.) donar, donar amigo

Un altro fenomeno che può essere interpretato a prima vista come un'espansione è quello della sinonimia. Può stupire che nella lingua franca, nonostante il ristretto numero di vocaboli, siano riscontrabili dei sinonimi: talvolta si tratta di una parola araba e una romanza (è il caso di taybo-bono, barra-fuor), talvolta di due parole romanze diverse (sentar e sédir; counchar e fazir; baséo e vouoto.) Questo fatto è però facilmente comprensibile se lo si interpreta non come una necessità di ampliare i confini della lingua, bensì come la stratificazione di rilessificazioni successive. Come tutti i pidgin, infatti, anche la lingua franca è particolarmente esposta al fenomeno della rilessificazione, per la sua stessa natura di lingua di scambio; ed è probabile che delle rilessificazioni parziali ripetute abbiano lasciato delle tracce di questo tipo. Già nel 1612 Haedo notava che dopo l'arrivo di molti schiavi portoghesi ad Algeri, in seguito ad una battaglia persa, l'economia lessicale della lingua franca fu sensibilmente alterata dall'immissione di un massiccio quantitativo di vocaboli portoghesi. E, in un certo senso, la testimonianza resa dal generale Faidherbe certifica che qualcosa di simile fu provocato anche dall'arrivo dei Francesi in Nordafrica.

Sembra quindi di poter pensare alla lingua franca come ad un insieme di strutture espressive chiare e ben definite che si combinano in vario modo con un patrimonio lessicale suscettibile di variazioni, in quanto sensibile alle esigenze dei parlanti. È naturale infatti che venissero rinforzati e mantenuti i tratti lessicali (ed anche quelli morfologici, v. sotto) che risultavano più facili (perché analoghi a tratti della lingua di base) per le due parti entrate in comunicazione, e che viceversa si tendesse a riformulare in termini più "familiari" quei tratti che erano lontani dalle abitudini linguistiche dei soggetti parlanti lingua franca.

La lingua franca presenta delle analogie puntuali con vari pidgin e creoli, che vanno al di là di quei fenomeni che sono genericamente attribuibili al delicato processo della pidginizzazione di cui ho parlato prima: mi riferisco ad esempio al modo di esprimere il tempo del verbo senza usare dei "markers" fissi, oppure alla disgiunzione del complemento oggetto per mezzo di una preposizione; ma presenta anche dei caratteri unici, che la differenziano dalle altre lingue veicolari in quanto sono delle risposte "diverse" a delle particolari esigenze; e la diversità di queste risposte trova ragione d'essere solo nell'essenza intrinseca della lingua franca in quanto mezzo di comunicazione tra romanzi e arabi. Vediamo più precisamente il perché di questa affermazione.

La prima osservazione riguarda il sistema verbale: come più volte ripetuto, la lingua franca impiega l'infinito romanzo per esprimere un'azione che avviene o uno stato, ed il participio passato romanzo per indicare l'azione che è avvenuta nel passato; niente di analogo a quanto si riscontra nelle altre lingue veicolari, quindi. Ed è proprio questa l'occasione che dimostra quale peso abbiano avuto le circostanze particolari in cui questa lingua è nata e vissuta.

Innanzitutto si deve riflettere sul perché si sia scelto proprio l'infinito. Il fatto che il verbo abbia questa forma in quasi tutte le lingue veicolari a base europea è indicativo di una sensibilità comune che identifica l'infinito con una "forma di base" che trasmette un'"idea" senza curarsi del momento storico in cui si colloca lo stato o del grado di realizzazione dell'azione espressi da quest'"dea". È insomma una formula neutra che gode, proprio per questa sua neutralità, del più ampio margine di adattabilità possibile. Poco importa che la radice verbale non compaia al suo stato più puro, e questo è un fatto che, a rigor di logica, non ci si attenderebbe, poiché sarebbe in un certo senso più comprensibile che la preferenza fosse stata accordata all'imperativo, che nelle lingue romanze presenta la forma più vicina alla pura radice verbale; e anche dal punto di vista della comunicazione, è lecito ritenere la nozione di comando come il fulcro di qualsiasi dialogo, per quanto rudimentale ed approssimativo esso possa essere. La scelta dell'imperativo, invece, ha una latitudine molto ristretta e si riscontra solo nel cino-russo di Kiachta e Maimatchin.

E' una mentalità europea, quindi, che determina la scelta dell'infinito come "tempo universale" e che lo offre con questa funzione a coloro che non conoscono le lingue romanze, poiché lo ritiene la forma più semplice da comprendere e da usare. Mi sembra che valga la pena ricordare, a questo proposito, che ancor oggi si tende ad usare un tono di lingua semplificato, che impiega i verbi all'infinito, con una persona che conosce in modo molto approssimativo la lingua italiana. Ed oltre a questo, la riprova di quanto sia spontanea ed immediata la scelta dell'infinito da parte di un parlante romanzo per indicare uno stato o un'azione in via di svolgimento si ha se si pensa a come viene riprodotto il modo di parlare degli Indiani d'America: nei film western è ormai uno stereotipo questo tipo di parlata caratterizzata dai verbi all'infinito.Questa convinzione è così radicata negli Europei da costituire uno degli elementi di base di un preciso tono di lingua, quello semplificato, che si ritrova in tutte le lingue, e che sostanzialmente rimane immutato con il passare del tempo, come ha notato anche Ferguson:

A register of simplified speech which [...] seems quite widespread, and may even be universal, is the kind of 'foreigner talk' which is used by speakers of a language to outsiders who are felt to have very limited command of the language, or no knowledge of it at all. Many (all?) languages seem to have particular features of pronunciation, grammar, and lexicon which are characteristically used in this situation [...] Such registers are, of course, culturally transmitted like any other part of the language and may be quite systematic and resistant to change.
Mi trovo qui a dover accennare al delicato problema che pone il processo della semplificazione: cioè lo stabilire se la semplificazione di una lingua venga operata dalle stesse persone che parlano quella lingua o se sia dovuta ad una imperfetta padronanza che di quella lingua hanno delle persone di madrelingua diversa.

Naro (art. cit., pp. 335-336) ha chiaramente delineato in questi termini la basilare inadeguatezza della "teoria dell'imitazione dell'errore" che in un primo tempo si pensava risolvesse questo dilemma:

One theory that can be dismissed without too much hesitation is that found in Bloomfield […] The general scheme of his Imitation-Of-Error theory […] is this: at first the base speakers use their standard language in addressing non-base speakers, but upon noting that the latter do not reproduce the standard correctly, they resort to using an (imperfect) imitation of these (imperfect) attempts at the standard … This theory survives, in part, in Hall […] who envisages the base speakers as reproducing a replica of the non-base speakers' incomplete speech (their attempts at the base language).
Ferguson, poi, dopo aver stabilito l'esistenza di parlate semplificate per obiettivi speciali in pressoché tutte le comunità linguistiche, afferma:
it may be assumed that every speech community has in its verbal repertoire a variety of registers of a special kind for use with people who are regarded for one reason or another as unable to readily understand the normal speech of the community (e.g. babies, foreigners, deaf people.) These forms of speech are generally felt by their users to be simplified versions of the language, hence easier to understand, and they are often regarded as an imitation of the way the person addressed uses the language himself […] Baby talk and foreigner talk are not the only forms of simplified speech. English, for example, has special usages for telegrams and formal instructions which resemble baby talk and foreigner talk in omitting definite article, preposition, and copula, and the resemblance of these usages to early childhood language behavior has been noticed […] The conventional nature of these usages, which native speakers explain as being more economical of space, time, or money, is shown by their use where the limitations are irrelevant.
Ferguson (pp. 143-144) giunge a stabilire un rapporto di interazione e di interferenza reciproca, allinterno del registro semplificato, tra il parlante e la persona interpellata ("in both baby talk and foreigner talk the responses of the person addressed affect the speaker, and the verbal interaction may bring some modification of the register from both sides.") E questa mi sembra lipotesi più accettabile.

Delle conclusioni di questo tipo non sono affatto nuove. Già Schuchard notava:

Es ist der Europaer der seinem Infinitiv den Passepartoutstempel aufdruckt; so beherrscht denn dieser alle vermittlungssprachen ersten und zweiten Grades;
e chiariva meglio questo concetto con un esempio:
Niemand bestreit daß ein Araber welcher das Verbum mangiar im Sinne von "essen" kennt, das mittelbar oder unmittelbar von einem italiener gelernt haben müsse, daß er aber mangiar auch für "(ich) esse," "(du) ißt," "iß" usw. gebraucht, das pflegt man auf seine eigene Rechnung zu setzen. Indessen mag auch auf beiden Seitten das Bestreben gleich groß sein mit den eifachsten hilfsmitteln sich verständlich zu machen, und vor allem die flexivische mannigfaltigheit der Grundsprache aufzuheben, wie käme denn der Araber der des Italienischen noch unkundig ist, dazu mangiar als vertreter für mangio, mangi, mangia usw. zu wählen? Nur bei einer sehr großen vertrautheit mit dem Romanischen würde er das statistische Ubergewicht und die funktionelle Allgemeinheit der romanischen Infinitivs erkennen, und selbst dann griffe er, da in seiner Sprache nichts diesem Infinitiv Entsprechendes besteht, wohl eher zur 3. P. Sing. und sagte z. B. mi voler mangiar, sondern mi vuole mi mangia.
Nuova, tuttavia, può essere considerata in un certo senso l'idea, in parte già suggerita da Fronzaroli, che gli Arabi abbiano identificato questo infinito con un tratto della loro lingua, l'incompiuto, e che ciò abbia contribuito a stabilizzare la posizione di questo artificio. Possono aver giocato a favore di questa identificazione diversi fattori, tra i quali spicca la probabile analogia istituita tra le due forme, poiché entrambe sono basilari: l'incompiuto, infatti, é la forma verbale che in arabo conosce l'impiego più diffuso, se si considerano il congiuntivo e l'apocopato come forme di incompiuto "perturbato" da fattori esterni (preposizioni e/o congiunzioni), ed è un'ipotesi plausibile se si pensa che nell'arabo dialettale questi tre modelli vengono unificati nella forma dell'incompiuto. In più, come l'infinito della lingua franca, l'incompiuto del verbo arabo esprime l'azione o lo stato senza un riferimento preciso al tempo, che viene determinato da espressioni quali al-ân (adesso in lingua franca), ghada (domani in lingua franca) eccetera.

Mi sembra inoltre utile ricordare che alcune varietà semplificate di arabo, impiegate ai giorni nostri da arabi che si rivolgono a persone di madrelingua diversa (è il caso dell'arabo parlato con gli immigrati armeni, conoscono l'uso della terza persona maschile singolare dell'incompiuto per tutte le persone, i generi, i numeri e persino i tempi, con una sorprendente analogia con l'uso dell'infinito nelle varietà semplificate delle lingue romanze. Io credo che la ragione di tutto ciò stia nel carattere di indefinitezza che contraddistingue queste due forme verbali; e credo anche che sia questa indefinitezza – di tempo, di modo, di realizzazione del processo, di genere – che, anziché limitarlo, ne consente l'uso più estensivo.

Il polo che si oppone a quello dell'infinito è costituito, nella lingua franca, dal participio passato romanzo. Si tratta quindi di un altro punto di divergenza dai pidgin portoghesi (che determinano il passato prefiggendo all'infinito un "marker"). Qui il passato viene espresso attraverso una mutazione interna della forma verbale e questo è un fatto notevole anche per la struttura intrinseca del participio romanzo, che può non essere prevedibile dal paradigma verbale. Anche per questa scelta le motivazioni individuabili sono molteplici, prima e più significativa il senso di netta opposizione all'infinito che da un punto di vista romanzo è caratteristico del participio passato, che è forse sentito come la forma maggiormente rappresentativa del concetto di tempo passato; in secondo luogo bisogna tener presente, secondo me, la diffusione che hanno avuto le forme composte nelle parlate dell'Italia Settentrionale, dove hanno gradualmente soppiantato le forme del passato remoto, ponendosi come unica alternativa al presente: postulando una premessa di questo tipo è facile comprendere come poi si sia proceduto alla soppressione dell'ausiliare – l'unica parte che varia con il genere, il numero e la persona – compiendo un'operazione di tipo semplificativo perfettamente coerente con la natura stessa della lingua franca. A questo punto diventa secondario ricordare il parallelo che si può istituire tra il participio passato del verbo romanzo e il compiuto del verbo arabo in quanto enunciazioni di una realtà opposta (temporalmente) a quella espressa dalle forme-base infinito-incompiuto; e lo stesso Fronzaroli, che aveva suggerito questo parallelo, ne segnalava anche i limiti.

In conclusione io direi che, data la necessità di trovare un artificio che esprimesse il tempo passato come opposizione al tempo presente, la mentalità romanza ha scelto la forma maggiormente rappresentativa (il participio passato) e priva di difficoltà di flessione (attraverso l'eliminazione dell'ausiliare), quindi più ampiamente utilizzabile. La mentalità araba, dal canto suo ha accolto favorevolmente questo sistema poiché esso richiamava una struttura analoga della sua lingua, e così questo artificio è stato rinforzato dall'uso.

Resta da accennare infine al perchè si sia sopperito ad esigenze comuni ad arabi e romanzi con del materiale romanzo (seppur preventivamente vagliato da parte araba, come si è visto): senza dimenticare che la struttura stessa del verbo semitico, che è generalmente trilittero, avrebbe posto grandi problemi tecnici di integrazione in un tessuto romanzo, ha giocato in questo caso, secondo me, un ruolo fondamentale la nozione di prestigio. Quali che fossero le motivazioni sociolinguistiche, è indubbio che le lingue europee hanno goduto a lungo di un prestigio superiore, e ciò ha determinato la scelta di materiale romanzo per soddisfare delle esigenze comuni ad arabi e romanzi. Già Schuchardt affermava che

für eine Vermittlungssprache zwischen zwei sich ganz fremd gegenüberstehenden, sagen wir Parteien ist die Grundlage immer nur auf einer Seite gegeben; auf welcher, das hängt in erster Linie keineswegs von der beschaffenheit der betreffenden Sprache ab, sondern von äußern umständen. Die L. fr. baut sicht nicht deshalb aus romanischen Stoffe auf weil das Arabische (bezw. das Türkische) für die romanen schwieriger gewesen wäre als das romanische für die andern.

Analizziamo infine l'altra fondamentale differenza tra la lingua franca e i pidgin a base portoghese: mentre quelli non mantengono la distinzione tra generi nei sostantivi, nella lingua franca questo è un tratto fondamentale. Vi sono termini maschili e termini femminili, anche se talvolta sembra esserci confusione tra i due generi. Di nuovo è qui da vedere l'influsso delle circostanze contingenti: è cosa nota che l'arabo possiede un sistema vocalico tripartito e non conosce i gradi intermedi di apertura delle vocali, che sono invece presenti nelle lingue romanze. Per questo, di fronte a fonemi nuovi per il suo sistema abituale l'arabo ha reagito eliminando la differenza ed assimilandoli ai fonemi a lui consueti: può essere questo il caso dei sostantivi "ragione" che diventa ragiuna, "punto" che diventa puntu ecc.

Tenendo presente questo fatto, è comprensibile anche la confusione fra le desinenze -o e -a che si riscontra in quasi tutti i testi in lingua franca: mi riferisco in questo caso a quelle che Cifoletti definisce "le abitudini fonetiche degli arabofoni" dato che

in arabo il fonema /a/ ha maggior latitudine che nelle lingue europee, e perciò può inclinare verso (e) o verso (o), secondo i contesti; inoltre i dialetti arabi conoscono una desinenza /-a/ come caratteristica dei sostantivi femminili, ma non conoscono nessuna desinenza sostantivale in /-o/ (o in /-u/). Perciò un vocabolo di origine straniera può essere integrato fra i sostantivi (quasi tutti femminili) in -a, mentre una desinenza -o del modello straniero stenta maggiormente a mantenersi; è quanto ho potuto constatare studiando i prestiti italiani del dialetto del Cairo, dove spesso una desinenza in -e o -o dell'italiano è resa, nei prestiti, con a.
Può essere quindi che l'Europeo tendesse a presentare delle forme indifferenziate per i due generi, le quali possedevano delle terminazioni diverse da quelle contemplate dal sistema fonetico arabo (ad esempio -o oppure -e); trovandosi a dover usare questi stessi termini, l'Arabo avrà cercato (anche involontariamente) di dar loro una forma che risultasse più facile ed immediata per lui, attraverso la "normalizzazione" dell'elemento di disturbo che viene avvicinato ad un elemento noto (in questo caso la terminazione -a del femminile) fino ad ottenere una sovrapposizione dei due elementi. A sua volta l'Europeo avrà notato questo processo ma non lo avrà capito per quello che era veramente (né poteva farlo), e dato che la desinenza in -a attribuita dall'Arabo al sostantivo coincideva casualmente con la terminazione del femminile, particolarmente in italiano, lo avrà scambiato per un ristabilimento delle categorie differenziate a seconda del genere; così non si sarà preoccupato più di offrire all'Arabo delle forme indifferenziate, ma avrà porto ora l'una ora l'altra, secondo quanto era consono alla sua lingua madre, convinto che l'Arabo facesse altrettanto, ma che confondesse le terminazioni per la sua incompleta conoscenza della lingua. La prova della validità di questo ragionamento mi sembra data dal fatto che la quasi totalità dei documenti in lingua franca riporta questa confusione nelle terminazioni: se gli autori di questi documenti hanno sentito l'obbligo di riprodurre questo tratto, è segno che esso era estremamente rappresentativo di questo modo di parlare, almeno tanto quanto lo erano i verbi all'infinito. Che poi questo tratto sia stato esagerato con intenzioni comiche e parodistiche (specie nei testi teatrali), è un fatto innegabile; ma la sua ampia diffusione sembra testimoniare la sua origine realistica.

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1.6 Sintassi della Lingua Franca

Dato il carattere semplificato della lingua franca, alcuni studiosi hanno ritenuto lecito dichiarare che essa non possiede alcuna sintassi, in quanto si sono rifiutati di considerarla una vera lingua.

È vicino a queste posizioni anche il "Dictionnaire", il quale dichiara nel Préface che essa "n'a […] règles grammaticales bien établies", ma, contraddicendosi, procede subito dopo all'enunciazione di alcune norme.

La questione è stata posta in termini scorretti: in realtà la lingua franca possiede alcune regole precise che sono sufficienti a determinare la struttura, ma il loro numero limitato ha fatto pensare alla loro completa assenza. In più bisogna considerare che, come osserva Cifoletti:

la lingua franca fu lingua veicolare e mai per nessuno lingua materna; pertanto il parlante era indotto ad una pronuncia condizionata dalle sue abitudini fonetiche precedenti […] Considerazioni di questo genere si possono fare, oltre che per la fonetica, anche nel campo della morfologia e del lessico: ed è probabile che le divergenze nell'uso tra i diversi parlanti siano state abbastanza grandi,
dato che chi conosceva le lingue standard avrà certo contaminato la lingua franca con forme provenienti da quelle; tuttavia le divergenze non saranno mai state così grandi da impedire la comunicazione.

Forse la cosa più giusta è pensare alla lingua franca come a

A set of structures into which could be inserted roots deriving from different languages selected according to the nationality of either speaker or interlocutor.

Come si è già visto nel paragrafo precedente, la lingua franca ha eliminato la maggior parte possibile di flessioni per esigenze di semplicità.

Questo ha come conseguenza due risultati fondamentali:

Ho già analizzato nel Paragrafo 1.4 le motivazioni profonde che sembrano aver determinato la scelta dell'infinito e del participio passato romanzo, e voglio ora soffermarmi ad analizzare la questione dell'espressione del futuro.

Mentre la mentalità romanza ed europea in genere considera l'azione verbale collocabile in tre grandi momenti temporali – presente, passato e futuro – la sensibilità semita (ed anche quella africana in genere) concepisce una bipartizione fondamentale di aspetto che si basa sulla contrapposizione tra perfettivo ed imperfettivo, dove questi due termini si riferiscono al grado di realizzazione dell'azione; il concetto di futuro quale noi lo concepiamo viene così ad essere già compreso nell'aspetto imperfettivo del verbo. Ed è proprio quello che avviene nel sistema verbale della lingua franca: ad un passato di tipo perfettivo si contrappone un presente-futuro di tipo imperfettivo. Mi sembra qui ravvisabile la forza dell'istanza semitica, che però è riuscita ad imporre il suo modo di sentire solo grazie alla somiglianza che esso presenta con un analogo modo di esprimere il futuro in romanzo con il presente. Tanto in italiano, infatti, quanto in francese ed in spagnolo, l'idea del futuro può anche essere espressa da un verbo di tempo presente.

Dunque l'espressione del futuro attraverso l'infinito, in lingua franca, risultava perfettamente naturale per i parlanti di entrambe le sensibilità. Ma nel Préface il "Dictionnaire" sostiene che l'idea di futuro debba essere espressa in lingua franca attraverso una perifrasi con bisogno, e più precisamente: bisogno mi andar = "io andrò."

Se si escludono i Dialogues del "Dictionnaire", però, si osserva che in tutti gli altri testi da me esaminati questa costruzione non si rileva mai. Il futuro viene sempre espresso dall'infinito o, nei casi in cui la lingua franca risulta più "rilassata," da una forma flessa al futuro. Mi sembra plausibile a questo punto ritenere che la lingua franca non abbia mai sentito la necessità di differenziare il futuro in una forma particolare, e che questa esigenza sia sorta, sotto la spinta di un ragionamento incapace di prescindere dalle categorie temporali romanze, nel momento in cui si è tentato di codificare un fenomeno così fluido come la lingua franca per procedere al suo insegnamento su larga scala; quindi ciò deve essere avvenuto intorno al 1830, quando i Francesi penetrano in Nordafrica ed hanno bisogno di insegnare a soldati e coloni questa lingua per comunicare con gli indigeni, tant'è che redigono addirittura un manuale (il "Dictionnaire"). Perciò questo fenomeno interessa, storicamente parlando, solo l'ultima parte della vita di questa lingua, e sono ben chiare le cause che lo hanno determinato, proprio in quel particolare momento storico.

Già Whinnom aveva notato che la costruzione con bisogno appariva solo in un secondo momento:

we must assume that the repair of this defect, if it can be called such, was effected during the Renaissance or later.
Whinnom adduce a questo proposito delle motivazioni che mi sembrano un po troppo condizionate dal desiderio di dimostrare un nesso tra la lingua franca ed i pidgin portoghesi. Infatti egli afferma che the repair of this defect […] was […] not inconceivably influenced by the Portuguese pidgin system of tense or aspect markers
ed aggiunge in nota che
all the older historical evidence appears to indicate that, like LF, these creoles [cioè quelli studiati da Thompson] lacked this system of markers. This now almost universal system could well be of African origin, propagated via Portuguese pidgin
sottolineando che spesso si era negata la possibilità di evoluzione a questa lingua:
'Repair' is a crucially important concept, which too many pidginist and creolists are reluctant to accept, inasmuch as supposing that a pidgin is in some way a defective language seems to then perpetuate the centuries-old contempt for these languages.
Se infatti è assurdo pensare che una qualsiasi lingua che vive all'incirca sei secoli non subisca delle evoluzioni determinate dal mutare della situazione storica, è altrettanto incredibile affermare che un pidgin come la lingua franca, per definizione così strettamente vincolato alle circostanze contingenti, non abbia sofferto alcun cambiamento dopo il massiccio apporto di soggetti romanzi parlanti la lingua franca creato dall'arrivo dei Francesi in Nordafrica.

Whinnom vede un'altra traccia di questa evoluzione nell'uso del pronome personale. In lingua franca esso ha generalmente la forma mi, ti, per la quale – Schuchardt ricorda – si potrebbe postulare una derivazione dal dialetto veneziano se non comparisse uguale anche in altri pidgin e creoli, per cui sembra più logico pensare all'accusativo dei pronomi personali spagnoli e portoghesi mi (mim), ti ecc. Ora, mentre i testi più tardi disgiungono sempre il pronome personale oggetto (Dictionnaire: qouando piacher per ti) e lo evidenziano attraverso l'uso particolare della preposizione per,

earlier texts, such as the Grion poem or the Encina villancico, would appear to indicate that medieval Lingua Franca regularly employed the weak enclitic pronoun in its normal Romance position: Alà ti da bon matìn, etc.
Ma non bisogna dimenticare le possibili interferenze sporadiche delle lingue standard.

Per quanto riguarda l'uso particolare della preposizione per qui citato, esso trova la sua ragione nella necessità, facilmente intuibile, di evidenziare il complemento oggetto per poterlo facilmente riconoscere, opponendolo chiaramente al soggetto ed evitando così errori di interpretazione. Il modo, tipico delle lingue romanze, di esprimere l'accusativo del pronome personale attraverso la flessione grammaticale e la posizione sintattica, non poteva essere certo efficace in lingua franca, dato che la flessione era stata eliminata e l'ordine delle parole era passibile di variazioni. Per questo si è cercato un segnale ben evidente con l'attribuzione, per convenzione, di un nuovo valore ad una preposizione già nota; ed il fatto poi che anche in semitico la differenza tra pronome soggetto e pronome oggetto sia ben delineata, non può aver fatto che rafforzare la posizione di questo artificio.

Anche altre lingue hanno costruzioni simili: Whinnom avverte che "to indicate the indirect object […] most Portuguese dialects used por," e Schuchardt nota che quest'uso di per è sconosciuto al creolo ma si trova nell'Afrikaans e nell'Indo-Portoghese: è quindi un tratto comune a molte lingue semplificate e forse può essere ritenuto un segnale di pidginizzazione. Ma stabilire il motivo per cui si è scelta proprio questa preposizione e non un'altra, non è semplice: mi sembra che bisogni innanzitutto notare il parallelismo che si riscontra nel Préface del "Dictionnaire" tra le espressioni in lingua franca per l'amigo e la sua traduzione francese "par l'ami"; ed il fatto poi che la costruzione con per compaia in lingue nate dal contatto tra Europei e popolazioni diverse da quelle semite sembrerebbe suggerire che la scelta sia stata fatta dagli Europei. Nel caso della lingua franca, inoltre, questa scelta può essersi rivelata particolarmente felice perchè sentita come un'istanza spontanea anche da parte semita; e affermando ciò ho in mente in particolar modo – oltre a conversazioni da me avute direttamente con persone di madrelingua araba (egiziana) o somala che male comunicavano in italiano, ma che costantemente disgiungevano il complemento oggetto per mezzo della preposizione "per" – quello che viene definito con termine tecnico "linguaggio degli ascari. cioè l'italiano parlato dagli indigeni in Africa orientale, che disgiungeva il pronome complemento proprio attraverso la preposizione per. Ho avuto l'occasione di esaminare parecchie frasi di questo linguaggio inserite in: C. Gaspari, Un uomo e una donna Venezia, 1965. Le analogie con la lingua franca sono numerose: la copula è espressa da star; i verbi sono all'infinito o al participio passato (talvolta con l'ausiliare all'infinito); c'è "confusione" nella terminazione dei sostantivi e degli aggettivi; la preposizione per viene usata come in lingua franca per disgiungere il complemento oggetto; inoltre sono presenti alcuni vocaboli particolari, quali frengi per indicare lo straniero e mangeria per indicare il cibo. Tutte queste analogie fanno riflettere: e se la lingua franca fosse sopravvissuta nei territori dell'avventura coloniale (almeno) italiana? Ciò sposterebbe la data della sua estinzione.

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1.7 Il Lessico della Lingua Franca

La composizione del lessico della lingua franca, quale emerge dalla comparazione dei vari campioni, risulta molto varia ed a volte anche complessa. Questo spiega perchè spesso esso venga identificato con etichette del tipo "miscuglio" di lingue diverse; ma al di là di questo, la base del lessico è inequivocabilmente romanza. Quando si cerca però di andare più a fondo per distinguere gli apporti delle varie lingue, ci si rende conto della difficoltà che alcuni termini comportano, poiché se a volte possono essere comuni ad alcune (o tutte) le lingue romanze, altre volte possono aver subito una modificazione della forma esteriore tale da rendere problematico il riconoscimento.

Gli italianismi sono nettamente prevalenti, spesso addirittura alcuni termini sono identificabili come provenienti da qualche dialetto italiano, come il veneziano (es.: veccio, chapar, sentar), che è particolarmente presente, o il ventimigliese (staca, paizé, giaba). Sarebbe indubbiamente molto interessante poter indicare con certezza quali dialetti italiani abbiano giocato un ruolo preciso nella formazione di questo lessico, ma ciò è purtroppo impossibile; tuttavia mi sembra corretto il suggerimento, dato da Fronzaroli, di un coinvolgimento dei dialetti delle repubbliche marinare (attraverso il tramite di mercanti, marinai e soldati) oltre che del siciliano, per la particolare collocazione geografica della Sicilia all'interno del Mediterraneo.

Un altro grosso quantitativo di termini è ascrivibile allo spagnolo (es.: mouchachou, moukera, querir), e talvolta ne sembrano addirittura presenti delle pronunce antiche (es.: baschiar) o dialettali (es.: gerba).

Rari sono invece i termini catalani (ad es.: baschiar può essere riconducibile anche al catalano "baixar") e, circoscritti al solo "Dictionnaire", appaiono dei latinismi (es.: imago, cinis, viator, brakio) . L'influenza del provenzale è stata spesso mistificata da esagerazioni. Così Hancock, dovendo dare una definizione succinta di lingua franca, si è espresso in questi termini: "basically a pidginized variety of Provençal, influenced lexically by French, Catalan, Italian etc., and various languages of the eastern Mediteranean," probabilmente tratto in inganno dalle affermazioni, dello stesso tenore, fatte da Robert A. Hall Jr., "[who] has claimed that medieval Lingua Franca was based on the language of the Riviera between Marseilles and Genoa...", assolutamente prive di ogni fondamento storico. Indubbiamente il lessico della lingua franca presenta alcuni apporti dovuti al provenzale (ad es. brouquéta, cadiéra, scarfar, boulegar, gantar, ratoun), ma si tratta di un fenomeno molto limitato se paragonato, ad esempio, ai contributi – oltre che dell'italiano – dello spagnolo o anche dell'arabo.

I francesismi sono abbastanza limitati, ma diventano sempre più numerosi negli esempi più tardi (v., ad es., Faidherbe), tanto da interessare addirittura la struttura della lingua (infatti i pronomi mi, ti diventano, nei testi più recenti, moi e toi.)

Un discorso a parte meritano gli arabismi: se il loro numero non risulta sorprendente, ciò che è degno di nota è invece il loro carattere. Alcuni sono semplicemente degli imprestiti (aneb, rai, rebi, seridga, usif, mabul, giaba, abuba), altri sono voci romanze in veste fonetica araba (barmil, castali, corsan, gandufa), altri ancora sembrano essere stati scelti per la casuale somiglianza fonetica tra le voci araba e romanza (casana, maréia, rouss, taour). Alcuni appartengono al romanzo vero e proprio, come meschino/meskine, altri sono di origine araba ma ben noti anche all'italiano (besef, fondouk, carchouf, limoun, tassa) o al francese (cadi, safran, sultan).

Sono infine da segnalare dei vocaboli romanzi come fantasia che sono presenti in arabo e nella lingua franca con lo stesso significato, il quale differisce però dall'originario senso romanzo; o come mangiaria, la cui forma è stata persa dalle lingue romanze, ma sopravvive in arabo.

Mi restano da segnalare alcune parole di origine europea (come saboun, taoula), le quali hanno percorso lo stesso iter dei pochi turchismi presenti (tobgi, yoldach, yatagan, bakchich), sono state cioè integrate nell'arabo classico o in quello dialettale già in età antica.

Voglio ora accennare ad alcune caratteristiche lessicali che mi sembrano le più rilevanti, seguendo le indicazioni già fornite soprattutto da Schuchardt e da Cifoletti.

Come tutte le lingue semplificate, la lingua franca tende ad eliminare, per sua stessa natura, i gradi intermedi del valore semantico delle parole, come già notato. Questo comporta automaticamente un restringimento nel numero dei vocaboli posseduti dalla lingua, ma contemporaneamente anche un allargamento dei limiti semantici delle parole mantenute: ecco così che l'aggettivo bono è impiegato nei contesti più svariati, che carta indica, oltre al significato corrente che ha in italiano, anche una "lettera" o un "dispaccio"; e libro può indicare un "libro", un "quaderno", un "registro". Questo fenomeno di "banalizzazione del significato," diffuso in parecchie lingue creole, risponde all'esigenza profonda di contenere i limiti del vocabolario entro poche centinaia di termini, ed è questa stessa esigenza che determina un altro tratto importante, cioè l'avversione – ma forse è meglio parlare di difficoltà – ad acquisire nuove parole a cui si ovvia traendo nuove derivazioni da parole già note: è il caso di forar ("tirare fuori", "portar via") derivato da fora ("fuori"), probabilmente scambiato con un imperativo.

Sempre per un carattere di praticità si tende ad evitare le espressioni figurate (Schuchardt cita massar il fuego come una rarità ed a sostituire i verbi di senso astratto con altri più concreti (counchar per "fare").

Nonostante il limitato numero di vocaboli, è veramente sorprendente notare, accanto alle comprensibili varianti di uno stesso lemma che i testi riportano (dovute alla differenza tra i vari parlanti), la presenza di alcuni doppioni lessicali, che mostrano una voce araba in concorrenza con una romanza, o anche due voci romanze, ma di origine diversa.

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1.8 Documenti

Come già detto nel Paragrafo 1.3, moltissimi studiosi ritengono che la lingua franca sia sorta ai tempi delle Crociate per le particolari condizioni storiche che vennero allora a crearsi, ma ad oggi non conosco alcuna prova diretta riguardante quel periodo. I documenti raccolti da alcuni studiosi sembrano mostrare che, per le questioni legali e quelle commerciali più complesse, i popoli del bacino del Mediterraneo si servivano di un latino abbondantemente contaminato da termini volgari, non fissato in un modello preciso ma variabile, talvolta anche in misura rilevante; questo latino comprendeva a volte delle parole greche, turche ed anche arabe, ma l'impressione di arbitrarietà che il codice di scambio ingenera fa pensare che si cercassero dei termini comprensibili ad entrambe le parti coinvolte nell'operazione, e che il fatto che questi termini potessero essere anche arabi dipendesse dalla situazione contingente e non facesse parte di uno schema stabile. Quindi queste carte non possono nemmeno essere messe in relazione con la lingua franca, la quale risulta essere un insieme ben preciso di fenomeni.

Certo, nel periodo di cui non possediamo documentazione i contatti tra Arabi e Romanzi si saranno svolti ugualmente, attraverso l'impiego di individui che avevano una conoscenza più o meno approssimativa delle lingue delle zone entrate in contatto e che potevano dunque fungere da interpreti; e, qualora delle persone di questo genere non fossero state disponibili, i contatti commerciali saranno avvenuti lo stesso attraverso un commercio silenzioso, basato su alcuni gesti precisi, come l'annuire per accettare o per confermare, lo scuotere la testa per negare o dissentire, l'alzare un certo numero di dita per contare e così via.

Il primo documento per cui si possa ragionevolmente chiamare in causa la lingua franca è Il Contrasto della Zerbitana: si tratta di un componimento poetico databile circa agli inizi del Trecento, che riporta una lingua che sembra essere una "prefigurazione" della lingua franca vera e propria, cioè una lingua veicolare a base italiana non ancora fissatasi nella forma di un pidgin. Infatti i verbi compaiono all'infinito ma a volte anche in forme flesse, indicando un'indecisione nell'uso; un discorso analogo si può fare per i pronomi, i quali hanno una sola forma per le diverse funzioni sintattiche e non sono disgiunti per mezzo di una preposizione se hanno funzione di oggetto. Forti sembrano essere le interferenze delle parlate meridionali, particolarmente evidenti nell'uso del possessivo (casama, filama) e nel dittongo oi derivante da i. Talvolta l'accordo non è rispettato ed il singolare maschile può essere usato al posto del plurale. Mancano gli articoli ma è presente l'artificio dell'iterazione dell'avverbio con scopo intensificativo: l'avverbio appare una volta in forma araba (barra) e l'altra in forma italiana (fuori.)

Il documento immediatamente successivo in ordine cronologico è un villancico di Juan del Encina (1520 circa), che presenta una lingua franca ben delineata, in cui compaiono anche delle forme verbali flesse, ma l'uso dell'infinito è già nettamente prevalente. I pronomi personali conoscono una doppia forma te/ti e sono impiegati nella loro corretta posizione romanza (Ala ti da.) Gli articoli sono stati in massima parte soppressi, ma si riscontrano anche dei casi di concrezione (lobo, lespenda); il lessico comprende anche dei termini francesi ed arabi, ha una grossa percentuale di vocaboli spagnoli, e sono anche presenti delle voci italiane, talvolta addirittura riconducibili a delle pronunce dialettali: sarebbero così spiegabili la mancata riproduzione del dittongo -ou in bono e lobo (= "l'uovo") e la tendenza ad apocopare le parole italiane (adés, cristian, manjar, matin, pan, istran, vin, plegrin.) Come in molti altri esempi anche qui regna una generale confusione nelle finali (bona galino, bono fica,) e viene attribuito un valore rilevante all'intensificazione per mezzo dell'iterazione (Benda benda, da da, pilla pilla, bono … taybo.)

Da tutto ciò si ricava che – nonostante l'intenzione di Encina fosse quella di imitare e non di riprodurre fedelmente la lingua franca, e nonostante il valore linguistico di un testo letterario sia sempre discutibile – questo è il primo documento che possieda una certa organicità e che faccia "intravedere […] una vera e propria lingua pidginizzata che però non sappiamo quanto fosse stabile."

Più tarda di una ventina d'anni circa è una commedia italiana di Gigio Artemio Giancarli, pubblicata a Mantova nel 1545 con il titolo di La Zingana. In essa la protagonista, una zingara appunto, si esprime in un gergo curioso, mescolando a frasi arabe delle parti in lingua franca che risultano quasi sempre essere la perifrasi dell'arabo. Nonostante il testo sia fortemente corrotto e restino ancora molte zone oscure, si possono notare delle caratteristiche costanti: l'uso dell'infinito e del participio passato prevale in maniera spiccata; il complemento oggetto viene evidenziato attraverso l'uso della preposizione per. A questo proposito può essere interessante rilevare che l'espressione bel, largamente impiegata per indicare la disgiunzione del complemento oggetto (più raramente viene impiegato per,) può essere vista come una pronuncia scorretta di per da parte di un arabofono (il passaggio da p a b si spiegherebbe con il tentativo di normalizzare un fonema estraneo alle proprie abitudini linguistiche avvicinandolo ad un fonema noto; e la confusione fra le liquide è un fenomeno che anche altrove si riscontra: v. folistera = "forestiera"); ma può anche essere messa in relazione con b-il arabo, usato frequentemente dagli arabi come intercalare, anche nelle lingue straniere.

Può anche darsi che le due fasi siano conseguenti: l'iniziale integrazione di fonemi estranei, riecheggiando un tratto noto, ha potuto così mantenersi, e le due cose hanno finito per sovrapporsi.

Qualcosa di analogo può essere avvenuto per l'uso dell'articolo: il più usato, in questo documento, è el, che corrisponde ad una forma dialettale italiana, ma che ricorda anche l'articolo arabo al.

I pronomi personali hanno forme varie, corrispondenti a diverse parlate dialettali; c'è incertezza nel segnare le terminazioni; viene ampiamente utilizzato l'artificio dell'iterazione (belo bela, pressa pressa,) anche nell'arabo (meliè meliè, codem codem); si predilige un'espressione di tipo paratattico, in modo da comunicare subito il messaggio essenziale.

Il lessico di questo testo risulta fortemente composito: accanto a vocaboli di sicura provenienza veneta (star megia, drento, el zogia, como ze to lingua) si nota l'influenza delle parlate meridionali (apresso el dia e 'l mia, tornata vui al cà, e forse cunzata ca.) La vistosa sostituzione di alcuni fonemi romanzi estranei all'arabo con fonemi più consueti (p e v sono generalmente resi con b; il gruppo qu ha sempre esito c/ch; cè confusione tra r e l) denuncia chiaramente un sostrato arabo. L'arabo ha un parte rilevante nella parlata della zingara, ma non si è ancora riusciti a stabilire di quale dialetto si tratti, sebbene si sia orientati verso le parlate magrebine per la frequenza del fenomeno dell'"imala" (codem, telete, beled, tezer) e verso un qualche dialetto egiziano – per la presenza di betach in funzione genitiva, del participio eis per esprimere l'idea di volontà e dell'espressione de luoch nel senso di "adesso" – ma non quello del Cairo, data la presenza di gim palatale (tezer, rezel/recel, inzi, zenzibel), mentre è cosa nota che il dialetto del Cairo conosce solo il suono di g duro.

E' comunque certo che quest'arabo non è strutturato in maniera rigorosa, e Pellegrini lo definisce

parlato 'alla franca' (o se si vuole 'alla zingara'), cioè ridotto ad una morfologia semplificata all'estremo, con verbi spesso non coniugati, con forme indifferenziate per il masch. e femm., con inosservanza della regola di omissione dell'articolo davanti a sostantivo con suffissi pronominale [sic] o in stato costrutto ecc."
per esempio Mi sene cal el nes andor enti vorrebbe essere min sha'n kul an-nâs yanzurak; beith abuch è usato sempre in questa forma fissa, anche quando significa "la casa di suo padre"; il pronome di seconda persona è sempre enti, anche quando si riferisce ad un interlocutore maschile.

Questo arabo è accostato alla lingua franca senza che i dominî dell'uno o dell'altro mezzo espressivo siano ben definiti, e talvolta accade che le due parti sconfinino: vedi, ad esempio Rai, perdunata tutta chi far mal bel mi … oppure Aì, aì, valai, star muzinu …

Proseguendo nel tempo, si incontra il primo testo documentario di natura non letteraria: si tratta della Topographia e historia general de Argel di Diego de Haedo, pubblicata a Valladolid nel 1612. In essa l'autore descrive la complessa situazione etnica di Algeri, creata dall'attività corsara, e si sofferma in modo particolareggiato sulla conseguente complessità linguistica che la città presentava:

Tres son las lenguas que ordinariamente se hablan en Argel. La primera Turquesca que los Turcos entre si hablan, y lo mesmo los renegados que estan en sus casas, o tratan con ellos, y tambien ay moros y muchos christianos captiuos que saben muy bien hablar Turquesco, que deprenden con la combersacion de los turcos. La segunda es morisca, y esta es general entre todos, porque no solo los moros, pero los turcos como estan en Argel, algun tiempo, y los christianos que de necesidad tratan con ellos, poco o mucho hablan morisco. Y dado caso que a todos los de Barbaria naturales llamamos generalmente moros, no es, pero vna misma la lengua de todos, ni el modo de hablar de vna manera […] tanto que muchos no se entienden vnos a otros […] La tercera lengua que en Argel se vsa, es la que los moros y turcos llaman franca o hablar franco, llamando ansi a la lengua y modo de hablar christiano, no porque ellos hablen toda la lengua y manera de hablar de christiano, o porque este hablar (aquellos llaman franco) sea de alguna particular nacion christiana, que lo use mas porque mediante este modo de hablar que esta entre ellos en vso, se entienden con los christianos, siendo todo el, vna mezcla de varias lenguas christianas, y de bocablos, que por la mayor parte son Italianos, y Españoles, y algunos Portugueses […]. Este hablar franco, es tan general, que no ay casa do no se vse, y porque tampoco no ay ninguna do no tengan christiano y christianos, y muchas que no ay turco ni moro grande ni pequeño, hombre o muger, hasta los ninos, que poco o mucho y los mas dellos muy bien no le hablan, y por el no entiendan los christianos: los quales se acomodan al momento a aquello hablar: dexemos aparte que ay muchos turcos y moros que han estado captiuos en España, Italia, y Francia y por otra parte vna multitud infinita de renegados de aquellas y otras provincias, y otras gran copia de Iudios que han estado acá, que hablan Español, Italiano, y Frances, muy lindamente…
C'è poi da aggiungere che coloro che Haedo raggruppa sotto l'etichetta di "moros" potevano essere Arabi, Berberi arabizzati e Berberi non arabizzati, il che contribuisce a variegare ulteriormente il quadro.C'è poi da aggiungere che coloro che Haedo raggruppa sotto l'etichetta di "moros" potevano essere Arabi, Berberi arabizzati e Berberi non arabizzati, il che contribuisce a variegare ulteriormente il quadro.

In una situazione linguisticamente molto complicata come quella descritta da Haedo risulta quindi abbastanza facile capire perchè la lingua franca si sia affermata come mezzo di comunicazione tra i vari gruppi etnici: la semplicità strutturale, propria dei pidgin, è un sicuro fattore di successo. Al tempo, però, questa semplicità non veniva apprezzata per quello che era, dato che lo stesso Haedo afferma che

… juntando a esta confusion y mezcla de tan diuersos bocablos y maneras de hablar, de diuersos Reynos, prouincias y naciones christianas, la mala pronunciacion de los moros y turcos, y no saben ellos variar los modos tiempos y casos, como los christianos (cuyos son proprios) aquellos bocablos y modo de hablar franco de Argel, casi vna gerigonça, o a lo menos vn hablar de negro boçal, traydo a Espana de nuevo.
Invece gli esempi che Haedo riporta, seppur limitati, dimostrano che si tratta veramente di lingua franca e non di altre lingue parlate in modo improprio, anche se in questo caso, a differenza di altri documenti, la base non è italiana ma spagnola.

Nel 1670 Molière compone, dietro richiesta del re di Francia, una commedia che contiene degli elementi turchi: nasce così il Bourgeois Gentilhomme, che alla fine del IV atto mostra la conversione all'Islam del borghese Monsieur Jardin per poter sposare la figlia del Sultano. La cerimonia è celebrata in lingua franca, e questo fatto è notevole se si considera che in precedenza alcune battute erano state pronunciate in "turco," poiché era disponibile sulla scena un interprete che le traduceva; ora, invece, dovendo i Turchi comunicare con una persona che non ha la possibilità di comprendere la loro lingua, scelgono l'unico mezzo linguistico che consenta il contatto: la lingua franca.

Il carattere di questa lingua è abbastanza realistico, più di quanto lo sia quella presentata dallo stesso Molière in una commedia di qualche anno prima, Le Sicilien. È probabile che questo sia dovuto al fatto che Molière fu consigliato, per quanto riguarda il "Bourgeois Gentilhomme", dal Cavaliere d'Arvieux – una persona che visse a lungo in Levante e che fu anche inviato dal governo francese a Tunisi e ad Algeri – il quale aveva sicuramente una conoscenza diretta della lingua franca.

È probabilmente a questo precedente che Goldoni ha guardato quando ha pensato di inserire la lingua franca nelle sue commedie, ma non bisogna escludere che a Venezia ci fosse una tradizione in questo senso. Mi riferisco in questo caso ai due canti: Il mercante armeno e Un turco inamorà che sono inclusi in un libretto che raccoglie dei canti popolari settecenteschi, ed ha una sezione dedicata alle varie tipologie etniche, raffigurate attraverso le deviazioni fonetiche che sono proprie dei parlanti delle diverse nazionalità. Dal confronto tra la lingua franca presentata da questi componimenti e quella utilizzata da Goldoni si rileva, nel complesso, una certa similitudine, dato che anche se a volte quella goldoniana sembra più rigorosa ed altre meno, in entrambe i casi essa ha subito un processo di letterizzazione che ha senz'altro eliminato i particolari più spiccatamente realistici.

Proseguendo ancora nel tempo si giunge al più importante documento di lingua franca che ci sia pervenuto: il Dictionnaire de la langue franque. Oltre ad essere di grande importanza storica, esso è dotato di una caratteristica singolare: è l'unico documento in cui la lingua franca viene trattata in quanto lingua franca, e non come strano gergo o parlata corrotta; e questa è una differenza fondamentale, che determina un'impostazione unica.

Il "Dictionnaire", tuttavia, si presenta come un'opera notevolmente carente dal punto di vista della compilazione: l'ortografia è molto trascurata e così, oltre a frequenti varianti grafiche, si riscontra una generale incertezza nel segnare le geminazioni (valga per tutti l'esempio di malattia alternato a mallatia) e le vocali (ma questo può anche essere un'influenza dell'arabo).

Le parole vengono fornite secondo un'ortografia francese, ma la maggior parte è di origine italiana; poco rappresentati sono i francesismi, relativamente più numerosi spagnolismi ed arabismi.

Sono presenti sia gli articoli determinativi che quelli indeterminativi, e le regole di concordanza sono generalmente rispettate (qouesto star véro; ti venir dgiousto, la mangiaria star pronta,) ma non in modo assoluto (in strada grandi, star bouona genti).

Malgrado nel Préface si teorizzi la mancanza del plurale in lingua franca, alcuni sostantivi compaiono solo in questa forma; Schuchardt sostiene che sia stato l'Europeo a fornire direttamente la forma del plurale, che abbia a priori escluso quella del singolare, e che l'Arabo abbia assunto quindi solo quella del plurale. Secondo me, invece, la questione è un po' più complessa: escludendo piskéri (che è l'aggettivo etnico biskri sostantivato), e i plurali di origine spagnola (douros e tapétos) o di oggetti che di solito appaiono al plurale (forbichi, guanti e forse anche detti, piedi, cortiné, volté, scarpé,) per i quali si può accettare la spiegazione data da Schuchardt, in tutti gli altri casi il fonema i è risultato da un fonema e italiano che sembra non essersi mantenuto; e ciò può forse essere attribuito all'intervento di un arabofono che, in presenza di apicodentali o di palatali, ha trovato una grande difficoltà a riprodurre il fonema e, e lo ha mutato in un fonema a lui più familiare, cioè i. Una riprova di ciò mi sembra il fatto che nel "Dictionnaire" la voce francese botte viene tradotta con stivalé, e pantalon con calzoné: se la spiegazione di Schuchardt fosse valida, si dovrebbe trovare un plurale, mentre invece si riscontra solo il singolare.

Ho volutamente tralasciato, in questa breve panoramica sui documenti in lingua franca, le varie testimonianze di viaggiatori che visitarono l'Oriente e il Nordafrica in varie epoche e che, colpiti da questa strana lingua, ne fanno menzione nelle loro cronache: da Lorenzo Bernardo, inviato a Costantinopoli nel 1591, a Covel che visitò l'antica Cartagine nel 1670, a Norden che fu in Egitto tra il 1737 ed il 1738. Certe volte, addirittura, essi includono nei loro scritti qualche breve saggio di questa lingua: è il caso di Pierre Dan, Superiore dei Trinitari, che andò in Barberia nel 1631; o di Frank, che fu medico del Bey di Tunisi dal 1806 al 1815; o, ancora, di un prete milanese, Felice Caronni, che fu catturato dai corsari algerini e poi liberato.

Seppure molto limitati per estensione, questi documenti aggiungono una manciata di frammenti alle conoscenze sulla lingua franca che si ricavano dai documenti principali ma, quel che è più importante, testimoniano la continuità d'uso di questa lingua attraverso parecchi secoli.

Quando i Francesi invasero il Nordafrica la lingua franca conosceva una tale diffusione che si sentì l'esigenza di stampare addirittura un manuale ad uso dei militari e dei coloni (il Dictionnaire, appunto.) Ma l'evolversi della situazione storica, con la sempre più massiccia presenza francese, determinò un progressivo infrancesimento della lingua: gli esempi più tardi, come quelli riportati da Faidherbe e da Schuchardt, mostrano chiaramente questa tendenza. Si può dire, senza ombra di dubbio, che fino alla fine del XIX secolo la lingua franca conservò la sua autonomia. In seguito, numerosi fattori diversi agirono limitando sempre più questa autonomia: mi riferisco, tra gli altri, alla stabile annessione del Nordafrica da parte delle potenze europee, che disponevano di altri canali per la comunicazione; alla perdita d'importanza commerciale del bacino del Mediterraneo per il privilegio accordato alle rotte atlantiche; alla caduta dell'Impero Ottomano ed al prestigio superiore attribuito ad altre lingue, come l'inglese, il francese, l'italiano. Questi ed altri fattori operarono ponendo fine ad un fenomeno linguistico che aveva vissuto per circa quattro secoli.

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2. L'uso della Lingua Franca nelle Commedie di Carlo Goldoni

La prima considerazione che si impone all'attenzione di chi si appresta ad esaminare l'opera di Goldoni sotto il profilo linguistico è l'importanza che lo stesso autore attribuisce al mezzo di comunicazione, importanza in parte dovuta a necessità connaturate al carattere teatrale della sua opera (bisogno di farsi capire, dunque), ed in parte dovuta alla personalità stessa di Goldoni, alla sua particolare sensibilità che percepiva la lingua come una creatura viva, mimeticamente mutevole a seconda dei parlanti e delle situazioni, e quindi imprescindibile da questi due fattori fondamentali; una materia fluida, insomma, impossibile da imprigionare in una forma fissa ma che può essere riprodotta attraverso l'eco dei suoi tratti caratteristici. La lingua goldoniana non è qualcosa che si apprezza soffermandosi sulle sue singole parti – anche se risulta molto piacevole registrare le impressioni che singole parole, in determinati punti, producono – smembrando l'unità e la continuità del parlato, ma è un ritmo che si percepisce astraendosi dal fenomeno contingente, una musica d'insieme, un concerto di parti che dialogano o contrastano.

Solo cogliendo questa essenza intima si possono notare le infinite variazioni del registro tonale, si possono apprezzare i differenti strati del dialetto (quello delle lavandaie, delle sarte, quello dei padroni e così via), le varie articolazioni dell'italiano ed anche, per quel che ci riguarda più da vicino, i diversi livelli della lingua franca.

Giustamente, a mio parere, Folena attribuisce a Goldoni una sensibilità linguistica "musicale psicologica", sottolineando l'ampio spazio che i valori musicali trovano in ogni opera, ed il risalto che essi danno a situazioni psicologiche ben precise: l'indagine psicologica sfocia sempre in una costruzione "musicale" perfettamente appropriata e, fattore importantissimo, riconoscibile anche dagli ascoltatori.

È in questa prospettiva che va quindi collocato il realismo goldoniano, inteso non come registrazione fedele di una parlata (che non avrebbe valicato i confini di una semplice cronaca giornalistica, cosa che non era nelle intenzioni dell'autore), ma come adesione linguistica all'essenza del personaggio, possibile solo dopo un'attenta osservazione ed un accurato studio della realtà, che viene così trasfigurata in arte:

Quando io mi metto a scrivere una commedia […] cerco in natura se si può dare, se è verisimile che si dia quel tal carattere da me preso di mira, e se naturale e verisimile è tutto quello che al carattere attribuisco …
E ancora
… quanto si rappresenta sul Teatro […] non dev'essere se non la copia i quanto accade nel Mondo. La Commedia […] allora è quale esser deve quando ci pare di essere in una compagnia de vicinato o in una familiar conversazione, allorché siamo realmente al Teatro, e quando non si vede se non ciò che si vede tutto il giorno nel Mondo.

Risulta qui evidente il senso della riforma operata da Goldoni, che lo fa muovere dalla tradizione di plurilinguismo e pluridialettalità della Commedia dell'Arte, ormai condannata ad una fissa irrealtà nei suoi stereotipi, verso la lingua reale di un certo personaggio in un ambiente dato. L'interesse dell'autore è realistico non in senso documentario, bensì in senso drammatico, non segue cioè altri canoni se non quelli dell'"etimo teatrale dei personaggi" e la scelta di determinate forme o termini aderisce ad un unico criterio informatore: la teatralità del mezzo linguistico, cioè l'adeguamento della lingua al grado di comprensione ed al gusto del pubblico.

Per questo egli si muove in direzioni precise, obbedendo ad un chiaro senso della misura, in termini teatrali, che gli fa eliminare tutto ciò che, anche essendo reale ed estremamente caratterizzante, avrebbe potuto non essere riconosciuto dal pubblico o avrebbe potuto disturbarne la sensibilità apportando una nota di realismo eccessivo (è il caso della stilizzazione e trasformazione della lingua franca).

A questo punto risulta comprensibile che non si debbano considerare estremamente accurate – in senso documentario – le testimonianze di lingua franca che Goldoni offre poiché, come nota Folena,

il plurilinguismo […] non riveste […] generalmente funzione realistica, caratterizzante – come era stato nella precedente Commedia dell'Arte – ma soltanto ludica […], vero e proprio lazzo mimico-verbale-musicale.
Infatti, ne La famiglia dell'Antiquario (atto 1, scena 1) quando Arlecchino si traveste da Armeno ma protesta di non saperne parlare la lingua, Brighella gli risponde: "Ghe vol tanto a finzer de essere Armeno? […] basta terminar le parole in 'ira', in 'ara' e el ve crede un Armeno italianà".

Le parlate levantine sono costruite quindi da Goldoni su una impressione generale di assonanza che anche la maggior parte del pubblico aveva sicuramente colto nel quotidiano contatto con questi strani personaggi, relativamente frequenti in ogni porto italiano, ma forse in modo particolare a Venezia.

È significativo di questa funzione ludica attribuita alla lingua franca il fatto che le commedie in cui compaiono dei personaggi che parlano la lingua franca non siano mai incentrate su di essi – ed i titoli lo dimostrano chiaramente: I Pettegolezzi delle Donne, Le Donne de casa soa, Lugrezia Romana a Costantinopoli – eccezion fatta per L'Impresario delle Smirne a proposito del quale l'autore stesso, confermando quanto detto, dichiara:

Per rendere utile e piacevole questa Commedia avrebbe bastato ch'io mi fossi servito d'un Impresario italiano; […] ma per renderla più giocosa, ho immaginato un Impresario turco, al quale arrivano affatto nuove tutte le circostanze che rendono l'impresa laboriosa e pericolosa. (L'Autore a chi legge).

Viceversa, le commedie goldoniane di argomento dichiaratamente esotico – come La Sposa persiana, Ircana in Julfa, Ircana in Ispaan, La Dalmatina, La bella Georgiana eccetera – non presentano alcuna di lingua franca nonostante l'ambiente ed i personaggi descritti siano orientali. Probabilmente Goldoni avrà pensato che l'ambientazione fosse sufficiente a caratterizzare queste commedie, e che una ulteriore sottolineatura di tipo linguistico avrebbe appesantito inutilmente un'opera che si presentava già piena di fascino per degli spettatori curiosi di saperne di più sul misterioso Oriente, i quali mostrarono di gradire enormemente questo tipo di rappresentazione.

In più la lingua franca inserita in un ambiente orientale non avrebbe ottenuto quell'effetto di forte contrasto che è invece una caratteristica fondamentale; l'ambiente veneziano e familiare, invece, poteva risultare illuminato da una luce più viva grazie all'inserimento di personaggi insoliti (ma non troppo) che fungevano da "note di colore" poiché apportavano un esotismo fatto di accenti linguistici particolari e di abiti "turcheschi", gli stessi però che si vedevano e si sentivano nelle calli veneziane.

Mentre per quel che riguarda le sue conoscenze degli usi e costumi persiani Goldoni dichiara esplicitamente di averle tratte dalla lettura di un libro molto famoso ai suoi tempi – e dal confronto con questo testo si nota che ha ripetuto quasi pedissequamente le notizie apprese – nulla di simile è dato purtroppo sapere per quanto riguarda la lingua franca, poichè nelle opere egli non ne parla mai in modo particolare.

È da escludere con ogni certezza un viaggio di Goldoni in Medio Oriente, in Barberia o anche solo in Dalmazia: la sua biografia informa che il punto più meridionale da lui raggiunto fu Roma (anni 1758-1759), ma questo non autorizza a credere che egli non abbia viaggiato; e per quanto riguarda il nostro interesse particolare, mi sembrano degni di nota i suoi soggiorni in due città che, come Venezia, erano aperte ad un gran numero di stranieri di tutte le nazionalità: Genova – dove nel 1736 si sposò, e della cui Repubblica fu anche console a Venezia negli anni 1741-1743 – e Pisa, altra Repubblica marinara, dove rimase per ben tre anni (1745-1748) ad esercitarvi l'avvocatura.

Data la mancanza di altri dati precisi, sembra di dover postulare che l'osservazione diretta sia stata la matrice di ogni personaggio levantino, come lo fu per la creazione dell'armeno Musa ne I Pettegolezzi delle Donne secondo quanto afferma l'autore stesso nei Mémoires:

Nous étions à l'avant-dernier Dimanche du Carnaval; je n'avois pas encore écrit une ligne de cette dernière Piece, je ne l'avois pas même encore imaginée … Je sors ce même jour de chets moi; je vais pour me distraire dans la Place Saint-Marc; je regarde si quelques masques ou quelques bateleurs ne me fourniroient pas le sujet d'une comédie ou d'une parade pour les jours gras … Je rencontre sos l'arcade de l'Horloge un homme qui me frappe tout d'un coup, et me fournit le sujet que je cherchois. C'etoit un vieux Arménien, mal vetû, fort sale et avec une longue barbe, qui couroit les rues de Venise et vendoit des fruits secs de son pays, qu'il appeloit 'abagigi.'

Che le sue conoscenze in materia derivino dalla diretta osservazione della realtà mi sembra plausibile sia tenendo conto delle istanze "naturalistiche" e "realistiche" della sua costruzione linguistica sia perchè, non essendo la lingua franca una lingua letteraria sarebbe difficile risalire a dei testi ben precisi, anche se Goldoni può aver conosciuto alcuni esempi inseriti in opere letterarie (come la Zingana di Giancarli, ad esempio, o altri documenti che a noi possono non essere pervenuti.)

Questo apprendimento diretto spiegherebbe il variare di tono e di vocaboli da un personaggio all'altro, come se all'origine ci fossero state più parlate differenti; o come se Goldoni avesse lavorato inizialmente cercando un riscontro più o meno preciso alla sua creazione (bisogna sempre tenere presente la trasfigurazione artistica) nella parlata di persone reali, ed in un secondo momento, con l'andar degli anni, si fosse basato sul ricordo che aveva di questa parlata, contando in misura maggiore sulla sua inventiva per riprodurre quegli accenti che la memoria aveva conservato.

Sarebbe così perfettamente spiegabile anche perchè Goldoni non distingua questi personaggi a seconda della loro diversa nazionalità, ma li raggruppi sotto la generica etichetta di "levantini"; il che vuole indicare che la loro patria è genericamente un territorio orientale e che quando conversano con dei veneziani (o degli Europei in genere) si esprimono in una lingua particolare. Su questa lingua, poi, si impongono alcune considerazioni: la prima e più importante è se Goldoni abbia o no coscienza che questi personaggi parlano una lingua ben precisa – e non una storpiatura dell'italiano e del veneziano – o se addirittura creda che questa sia la loro lingua usuale. Goldoni sapeva benissimo (anche Salmon lo riportava nella sua opera) che personaggi simili possedevano degli idiomi materni perfettamente incomprensibili ad un Europeo – con il quale comunicavano attraverso la lingua franca – proprio per l'attenta capacità di osservazione che la critica è unanime nell'attribuirgli; ma non so dire se egli si renda conto dell'entità precisa di questa lingua o se la consideri, come altri hanno fatto, un miscuglio di lingue o una parlata smozzicata e corrotta. Nella Lugrezia Romana a Costantinopoli, ad esempio, la lingua franca è definita "taliana" indicando un fraintendimento che richiama alla mente quanto afferma il generale Faidherbe a proposito della lingua franca nelle colonie francesi: che Goldoni abbia captato questa sensazione, che non può nascere dal punto di vista di un romanzo, dalla frequentazione di personaggi levantini? D'altro canto, sia Mirmicaina nella Lugrezia Romana a Costantinopoli che Checchina ne Le Donne de casa soa dichiarano di non capire niente quando parlano i Levantini, lasciando intendere che questa lingua era percepita come qualcosa di assolutamente estraneo all'italiano o al veneziano, qualcosa che aveva una configurazione a sé stante.

Bisogna tenere presente che Goldoni, nelle sue opere, non è mai mosso da un interesse puramente linguistico; ne consegue che generalmente la sua coscienza linguistica non è molto spiccata poiché, come ha sintetizzato Folena, egli possiede "un senso globale della lingua, spesso tonale e mimetico prima che razionale e semantico…"

E probabilmente è stata questa sensibilità ad indurlo talvolta a capovolgere "la fenomenologia dell'interferenza linguistica […] rispetto a quella probabile", analogamente a quanto è evidenziato dallo stesso Folena nell'impiego del francese.

Può essere infatti che la lingua franca sia stata "trattata" per meglio adeguarla al suo vero scopo teatrale: Goldoni mantiene l'italiano come lingua primaria, di riferimento, secondo le sue abitudini di soggetto parlante italiano – e come lui era anche il suo pubblico, non bisogna dimenticarlo – e su questo riferimento adegua la lingua franca, italianizzandola in certa misura, seguendo in parallelo il percorso mentale che risultava più immediato ai suoi ascoltatori. Al contrario, l'adeguamento alla lingua franca di un soggetto parlante una lingua diversa (l'arabo, per esempio) avrebbe tenuto l'arabo come lingua di riferimento e lo avrebbe "franchizzato", se così si può dire; ma questo processo, pur essendo vicino alla realtà, non sarebbe stato altrettanto immediato per gli ascoltatori perchè non sarebbero stati in grado di riconoscervi qualcosa di familiare e quindi di apprezzarlo. Questo pubblico si divertiva a vedere evidenziati in tono comico gli sforzi di un italiano che cercava di parlare la lingua franca: Goldoni ha operato tendendo quindi al fine puramente teatrale della comicità verbale, con un processo voluto e giustificato da moventi teatrali. Il processo opposto invece (tenendo cioè un'altra lingua come lingua primaria di riferimento), pur essendo più reale non avrebbe raggiunto il suo scopo teatrale, poiché avrebbe lasciato pressoché indifferente il pubblico. Ecco perché, forse più che in altre opere, qui non bisogna mai perdere di vista il fine ultimo verso cui tutto è proiettato: lo spettacolo teatrale, che costringe ogni parte di ogni opera ad adeguarsi a dei canoni precisi, a costo anche di alterare lo stato originale dei singoli dati, come può verificare chi compia una ricerca sotto il profilo linguistico.

Thomas Salmon's Travels

A page from the English version of Mr. Salmon's celebrated book, The Universal Traveller…, in which he records the gratitude of a tipsy Emperor of Morocco, responding to his gift by saying: "Buono, buono." Compare this with a similar episode referred to in the glossary.
[Courtesy of the Collection of the American Geographical Library, University of Wisconsin-Milwaukee.]


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