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IL SENSO DELLA SCRITTURA
La nascita della scrittura fu un fenomeno così importante che gli storici la fanno coincidere con la nascita delle civiltà, anzi con la storia in quanto tale, poiché là dove non esiste "scrittura" esiste solo "preistoria". Quando Marx scrisse, nel Manifesto, che "la storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe", .Engels, nell'edizione inglese del 1888 di quella famosissima opera, dovette specificare, in nota, che per "storia" si doveva intendere soltanto quella che ci era stata tramandata da fonti scritte. Come si può notare fu una svista di non poco conto, anche perché proprio nel periodo in cui venne scritto il Manifesto esistevano ancora nell'America del Nord decine di migliaia di nativi americani la cui civiltà non aveva mai conosciuto né la scrittura né i conflitti di classe. La stessa Africa, prima del colonialismo europeo ed escludendo l'area egizia, era messa nelle stesse condizioni, e così tantissime aree del pianeta, che si trovarono poi sconvolte dai viaggi di conquista delle principali nazioni europee, delle quali la più ridicola, in tal senso, fu la Spagna, che già al tempo di Colombo, pretendeva d'impossessarsi di terre altrui leggendo le motivazioni del proprio atteggiamento in una lingua, la castigliana, che nessun residente era in grado di capire. Ma qui val la pena rileggere la suddetta nota di Engels, poiché è indicativa del fatto che gli europei erano soliti prendere coscienza delle cose solo quando loro stessi, autonomamente, lo facevano, cioè quando cominciarono a leggere studi specifici sull'argomento, non quando sarebbe bastato guardare oltre i propri confini.
Il che, in sostanza, voleva dire che in Europa eravamo così abituati ad accettare i conflitti di classe e la scrittura che neppure riuscivamo ad immaginare un periodo, che poi si rivelerà lunghissimo, in cui le due cose non erano mai esistite. La scrittura, in realtà, non ha più di seimila anni, esattamente come le civiltà, per cui entrambe rappresentano solo un piccolo anello di quella lunga catena della specie umana. Noi europei, a partire dalla tradizione fenicia, con cui s'inventò l'alfabeto in uso ancora oggi, abbiamo sempre considerato importante la scrittura, poiché con essa, tra le altre cose, si potevano fissare delle regole valide per tutti, ivi inclusi spesso, non sempre, gli stessi uomini di governo. O almeno ci siamo illusi che questo fosse possibile. In particolare abbiamo saputo apprezzare che un piccolo popolo come quello ebraico si fosse dato delle leggi che, nelle intenzioni del legislatore, dovevano essere uguali per tutti, incluso lui stesso. Cosa che, p.es., non si trova tra i Sumeri (i veri fondatori della scrittura in generale, che coi loro codici - il più famoso dei quali è quello di Hammurabi - facevano chiaramente capire che l'applicazione delle leggi dipendeva da chi le violava e da chi ne subiva le conseguenze), e neppure tra gli Egizi, che consideravano i faraoni ben al di sopra di qualunque legge. Anche gli antichi Romani avevano elaborato le leggi delle XII Tavole, ma, confrontate con quelle mosaiche, appaiono molto meno democratiche, non foss'altro che per un motivo: si permetteva abbastanza facilmente di schiavizzare un proprio concittadino giudicato insolvente. In astratto quindi è possibile affermare che il bisogno di darsi delle regole era dettato dall'esigenza d'impedire l'arbitrio da parte di qualcuno: nel senso che la forza o l'astuzia dovevano sottostare alla ragione. Di fatto però le leggi spesso non servivano che a giustificare un abuso già praticato, dandogli una parvenza di legittimazione. Per millenni le classi oppresse si sono illuse che bastassero delle regole scritte, condivise dai sottoscrittori, per far funzionare democraticamente una società. Mosè fu uno dei primi a rendersi conto che le leggi in sé non servono a nulla se non c'è la volontà politica di farle rispettare. E quando vide il tradimento di Aronne e di una parte del suo popolo, pensò che per applicare le sue leggi non bastava la democrazia tribale, ci voleva anche una volontà autoritaria, che punisse senza pietà i trasgressori. E fu così che sterminò una parte del proprio popolo, servendosi dell'altra metà. Aveva capito che più importante della legge era l'obbligo a farla rispettare. Con gli ebrei non nasce solo l'ideologia della scrittura, ma anche la cultura giuridica a scopo politico. La legge diventa una sorta di divinità, un totem da adorare e tutta la cultura ruota attorno all'interpretazione che si può dare dei suoi tanti precetti. Ecco perché quello ebraico è stato e ancora oggi è un popolo di intellettuali. Noi occidentali, in virtù della mediazione cristiana, facciamo risalire queste cose agli ebrei, ma in realtà i Sumeri conobbero la scrittura ancora prima che nascesse il "popolo ebraico". Gli ebrei presero il meglio dei Sumeri (Abramo uscì dalla terra di Ur) e il meglio degli Egizi (Mosè uscì dalla terra dei faraoni) e lo fusero in una legislazione che ancora oggi è a fondamento di tutte le legislazioni del mondo. Non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la donna altrui... non sono forse precetti su cui si basano tutte le Costituzioni del mondo? Persino le dittature sono costrette a riconoscerli; anzi, esse sostengono che solo in maniera autoritaria è possibile far rispettare quei precetti. La dittatura è necessaria perché in presenza della democrazia quei precetti non vengono osservati. Dunque per quale motivo "leggi scritte" e "democrazia" non riescono a stare insieme? Perché ad un certo punto, immancabilmente, la democrazia si trasforma in una sorta di anarchia e le leggi scritte, nonostante il loro indiscutibile valore teorico, non servono a nulla di positivo? Il motivo è molto semplice. L'esigenza di darsi delle regole scritte non fa parte di una civiltà autenticamente democratica, ma solo di una che al massimo vorrebbe diventarlo e che però non vi riesce. Una civiltà, o anche solo una società democratica, non ha bisogno di alcuna legge scritta, proprio perché la democrazia o esiste effettivamente nella realtà o non esiste affatto. Non può esistere solo sulla carta e quando esiste davvero, non ha bisogno della carta per essere confermata. Il divieto di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male venne posto quando ormai lo si stava per fare. Si pone un divieto per impedire che dilaghi un determinato arbitrio, ma è evidente che senza autoconsapevolezza il divieto non servirà a nulla, posticiperà soltanto un evento inevitabile. Quando gli ebrei si diedero i comandamenti, lo fecero allo scopo di darsi un sistema di vita migliore di quello egizio, dove la volontà schiavista dei faraoni, dei sacerdoti e dei nobili poteva imporsi a dispetto di qualunque legge, salvo che i ceti subalterni non si ribellassero. Ma poi, invece di diminuire il valore della legge, lo si aumentò a dismisura, aggiungendo precetti a precetti, in un crescendo continuo, in modo che alla fine la società era divisa tra coloro che conoscevano le leggi per potersene servire a loro piacimento, e coloro che le subivano in tutte le maniere. I vangeli cristiani sono pieni di denunce contro l'ipocrisia di chi "diceva" e non "faceva", di chi "faceva" secondo la legge e "disfaceva" i rapporti umani (la contraddizione più evidente era quella del sabato). Di fronte all'inefficacia di un precetto i capi giudei provvedevano a formularne un altro ancora più restrittivo, imponendo la necessità di una dittatura per farli rispettare. In questi ultimi seimila anni la scrittura non è servita a nulla, né a far crescere la democrazia politica né a migliorare il senso di umanità. Forse avevano ragione i Sumeri quando dicevano che l'applicazione delle leggi non può essere assoluta ma relativa, a seconda di chi fa i torti e di chi li subisce: peccato che il legislatore si mettesse sempre dalla parte del più forte. Anche Marx diceva che non ha senso affermare l'uguaglianza di fronte alla legge quando nella vita si è tutti diversi. E allora cosa fare in attesa che nasca una società o una civiltà totalmente priva di scrittura e, nel contempo, a misura d'uomo? Occorre che nella fase di passaggio si elaborino delle leggi a favore di chi ha meno, per indurre chi ha di più a rispettarle. Il segno che la democrazia sarà aumentata verrà dato dal fatto che le leggi diminuiranno. Ma chi potrà assicurare che questa diminuzione sarà frutto di una aumentata democrazia e non invece di una trasformazione di questa in una dittatura? Per eliminare progressivamente la scrittura, e quindi le leggi, che ne sono la quintessenza, occorre che la democrazia sia rivoluzionaria e che gli artefici di questa rivoluzione vigilino anzitutto su loro stessi. SCRITTURA, MOTORI DI RICERCA E SAPERE ENCICLOPEDICO La scrittura è un effetto della "civiltà" in senso lato (che nello specifico ha prodotto anche il nostro sistema di vita) e scomparirà quando non solo il nostro sistema ma anche il concetto in sé di "civiltà" saranno completamente trasformati. Si dovrà arrivare al punto in cui la scrittura non verrà avvertita come esigenza vitale, cioè come qualcosa che serve per tenere in piedi un determinato sistema sociale o per combatterlo. Al massimo la scrittura potrà sussistere come forma artistica di libera comunicazione, ma sarà certamente molto diversa da quella attuale, che di artistico sembra avere molto poco. Già oggi la scrittura, anche quando si vuole porre in essere qualcosa di alternativo rispetto al sistema dominante, ha un valore molto limitato, tant'è che consideriamo il mezzo audiovisivo assai più efficace: la politica si fa in televisione, al massimo nel web, certamente non nei programmi scritti. La mistificazione passa attraverso la propria faccia, le proprie parole e non tanto attraverso la propria scrittura. Si è convinti che il modo migliore di convincere l'interlocutore sia quello di guardarlo negli occhi attraverso una telecamera, parlando molto tranquillamente. Chi vuole sovvertire il sistema non ha ancora capito questa trasformazione e continua ad affidarsi alla scrittura. Chi vuole avere informazioni più precise si rivolge alla carta stampata (destinata a scomparire se fosse privata dei finanziamenti pubblici) e anche alle reti telematiche. Oggi è l'idea stessa di "enciclopedia del sapere" che dobbiamo superare. E' l'illusione di poter trovare all'interno di testi scritti una risposta a tutte le nostre domande. Quest'illusione, da quando sono nati i motori di ricerca, di natura generalista, a disposizione gratuita di tutti, è enormemente accresciuta. Il sapere universale a portata di mano su qualunque argomento ci offre l'illusione di poter risolvere qualunque nostro problema. Anzi l'illusione sarebbe ancora maggiore se i motori fossero specializzati su argomenti specifici, in modo tale da ridurre al minimo il tempo della ricerca. L'illusione raggiungerebbe addirittura l'apice se, in luogo di tanti testi mirati, ottenuti durante la ricerca, non se ne ottenesse neanche uno, ma solo la possibilità di interloquire con una persona specializzata in un determinato settore, ponendole una domanda precisa. Solo questa persona, debitamente pagata dalla collettività, dovrebbe avere accesso alla mole sterminata d'informazioni, mentre noi, che non vogliamo perdere neanche un minuto a ricercare le cose su migliaia e migliaia di documenti, penderemmo dalle sue labbra, dai suoi responsi, come se fosse un oracolo, una sibilla, un sacerdote del sapere universale. C'illuderemmo al massimo grado dei benefici che ci potrebbe dare un'interazione a distanza, che potrebbe anche essere a pagamento. Infatti chi vuole una risposta efficace a un proprio quesito, se davvero gli sta a cuore averla, dovrebbe essere disposto a sborsare qualcosa, altrimenti la sua è solo una curiosità fine a se stessa, vuota e intellettualistica. L'illusione del sapere universale e specializzato nello stesso momento è appunto quella di chi pensa di poter ottenere, in qualunque momento, un'efficace risposta ai propri dubbi o problemi, da parte di chi gli è emotivamente estraneo, non avendolo mai visto né conosciuto, non sapendo nulla del suo pregresso e che, nonostante questo, si sente autorizzato a chiedergli d'essere pagato, perché appunto può dimostrare di possedere una conoscenza universale e approfondita, come i sofisti e al tempo di Pericle, che garantivano il successo del loro sapere impartito dietro compenso. SCRITTURA COME FORMA D'ALIENAZIONE Io penso che la scrittura sia solo, in generale, una forma di alienazione, magari leggera ma reale. Basta vedere quand’è nata: a partire dalle civiltà urbanizzate. Prima la trasmissione era solo orale e in Italia, nel mondo contadino, è rimasta tale per molto tempo anche dopo l’unificazione. Forse perché erano meno intelligenti di noi? o perché avevano meno mezzi? No, semplicemente perché vivevano in esperienze collettive dove i rapporti erano molto stretti e non avevano bisogno, per comunicare, di strumenti così artificiosi. Chi mai penserebbe di scrivere qualcosa al proprio partner, vivendoci accanto quotidianamente? Scrittura vuol dire individualismo, a meno che uno non la faccia sapendo in anticipo che quanto scrive sarà oggetto di dibattito con qualcuno. Magari uno scrive qualcosa di un’esperienza perché da questa proviene e vuole condividerla o farne conoscere i problemi a chi non ne sa nulla e che invece potrebbe far qualcosa per renderla migliore (penso p.es. ai carcerati che scrivono contro l’ergastolo o la pena di morte). Scrivere solo per il gusto di scrivere o, addirittura, per ottenere un profitto, mi pare cosa insensata. Dovremmo cercare di occupare il nostro tempo per migliorare noi stessi come persone e l’ambiente in cui viviamo, facendo della relazione sociale il metro di misura della nostra identità. La scrittura è solo un surplus, che tante persone al mondo non possono neppure permettersi. La scrittura ha un che di mistico anzi di feticistico, nei cui confronti siamo come degli adoratori. La contempliamo pensando debba trasmetterci un senso di completezza, di soddisfazione intellettuale, come quando un credente pensa di poter ottenere più facilmente quanto chiede nella misura in cui rispetta scrupolosamente tutte le regole formali e infonde nel rito tutta la propria interiorità. Ci sentiamo appagati come chi crea un'opera d'arte e non ci preoccupiamo affatto di costruire qualcosa di umano intorno ad essa, qualcosa di socialmente significativo, ma pensiamo subito a cos'altro possiamo scrivere, cioè dove trovare una nuova fonte ispirativa, come se dentro di noi albergasse un minotauro da soddisfare periodicamente. Assumiamo una sostanza che ci fa star bene solo mentre l'assumiamo. Poi viene la crisi d'astinenza e diventiamo nervosi, agitati…, sentiamo di perdere qualcosa di vitale, e non accettiamo l'idea d'averlo già perduto prima ancora di prendere la penna in mano. Dovrà pur esserci stato un motivo per cui molti grandi della storia (Buddha, Socrate, Cristo…), consapevolmente, non per ignoranza, non vollero scrivere neanche una parola. Evidentemente dovevano aver compreso che scrivere è come stringere l’acqua in un pugno. Noi siamo figli non del logos ma di una fissazione maniacale: la pretesa illusoria di poter fissare sopra un supporto (che ci piace pensare eterno) i nostri pensieri e i nostri sentimenti, come se non sapessimo che la ricchezza di una persona, la sua profondità, può essere davvero apprezzata (senza mai esaurirla, senza mai poterla afferrare completamente) solo da una relazione diretta, da uno stretto rapporto personale. Il rapporto controverso con la scrittura appartiene anche ai filosofi contemporanei. Basta vedere Wittgenstein, uno dei massimi del Novecento, che, dopo aver pubblicato il Trattato, disse che sarebbe stato inutile pubblicare altro, in quanto non l’avrebbero capito. Col Trattato, scritto in sette anni, aveva avuto l’illusione della chiarezza assoluta, tanto che sull’argomento disse che non c’era più altro da scrivere. Dopo qualche tempo però cominciò a pensare che le parole sono così ambigue che una comprensione univoca è impossibile. Anzi proprio nella loro ambiguità (che permette i cd. “giochi linguistici”) sta la caratteristica principale del linguaggio umano. Insomma nella maturità aveva scoperto l’acqua calda, e molti critici ritengono che questo ritardo fosse dovuto a una sorta di autismo intellettuale. Dunque scriviamo per comunicare qualcosa a qualcuno su un qualche specifico argomento (e attendiamo un confronto che potrebbe anche metterci in discussione) o soltanto per fare chiarezza a noi stessi? In questo secondo caso: davvero è questo il metodo migliore? Quanti sono i libri che siamo disposti a leggere interamente per due o più volte? Pochissimi. I film possono essere qualcuno in più, perché la visione ci costa meno fatica. I quadri invece molti di più, anzi ci dispiace se qualcuno li sposta. E che dire della persona che amiamo da 30 o 40 anni? Neanche per un momento riusciremmo a immaginare la nostra vita senza di lei. Eppure diciamo che anche i libri ci trasmettono pensieri ed emozioni. Sì, ma lo fanno solo perché in realtà noi ne abbiamo, in qualche modo, già fatta esperienza. Perché un libro possa farci cambiare opinione su qualcosa, deve già trovarci in una disposizione d'animo adeguata. Una persona ci convince prima della verità di qualcosa in cui non credevamo. Le memorie dell'esperienza che avremo avuto con lei le scriveremo quando quell'esperienza sarà conclusa: se lo facciamo prima è perché non abbiamo vissuto quel rapporto sino in fondo. La scrittura è un'esperienza astratta, che necessariamente comporta una forma di estraniazione dalla realtà. Se dovessi scegliere un tipo di scrittura la meno frustrante possibile, sceglierei quella cinese, che unisce alle parole un senso grafico estetico, che le rende piacevoli alla vista. Non dimentichiamo che la scrittura è nata per fare calcoli, quando esisteva già la divisione in classi e gran parte della popolazione doveva portare nei magazzini dei re e sacerdoti i frutti del proprio lavoro, sicché, ad un certo punto, questi s'accorsero d'aver bisogno di qualcuno che calcolasse l'importo esatto di quella estorsione. Gli scribi sono nati al servizio del potere: solo col tempo hanno capito che le loro abilità potevano rivolgerle contro lo stesso potere. Certo è che per uno abituato a scrivere (e io sono tra questi), mettere a confronto la parola parlata con quella scritta è come giocare una partita a pallone sapendo che l'altra squadra non potrà sostituire il proprio portiere infortunato se non con un giocatore qualunque. Nessuno di noi, in questo luogo virtuale, è in grado di prendere le difese delle prerogative di una trasmissione meramente orale del sapere. Bisogna però vedere che cosa ci si aspetta dalle parole: confronto? chiarezza? testimonianza? Se ho bisogno di conoscere un'esperienza, preferisco osservarla di persona, perché, essendo un "occidentale", sono troppo abituato alla perfezione della scrittura, ovvero alla sua tendenza a mistificare la realtà, deformandola in senso negativo o positivo. Quando leggevo Lenin mi stupivo che alle accuse d'incoerenza che gli rivolgevano, rispondesse: "Scrivo per risolvere problemi, non per restare coerente con le mie idee. Il marxismo non è un dogma, ma una guida per l'azione". Ecco, forse bisognerebbe avere il coraggio di sacrificare la propria coerenza intellettuale a vantaggio di un'esperienza spuria ma reale. *** Quando arriveremo a capire che non esiste neanche la più piccola parola il cui significato possa essere univoco e la cui interpretazione possa essere inequivocabile, non ci preoccuperemo affatto dell'eventualità che, per una qualche ragione, tutto ciò che nella storia abbiamo scritto possa andare perduto. In quel momento infatti sapremo bene che cultura non coincide con scrittura. La cultura può essere soltanto il prodotto di un dialogo e questo deve riguardare la necessità di vivere un'esistenza che meriti d'essere vissuta. L'unica vera condanna a morte che dobbiamo temere è quella di non poter dialogare con nessuno, quella cioè di non avere la possibilità di vivere una vita umanamente significativa. A chiunque va data questa possibilità, soprattutto a quelli che, negandola agli altri, si sono illusi di non negarla a se stessi. Testi
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