CRISTO ATEO E POLITICO
esegesi critica del IV vangelo
I -
II - III - IV

Premessa
La madre delle falsificazioni più sofisticate della chiesa cristiana è nelle
sue stesse fondamenta neotestamentarie: il vangelo attribuito a
Giovanni. Che tale attribuzione sia controversa è da tempo noto, essendo
evidenti, e non da oggi, le interpolazioni e manomissioni di varia natura
operate su questo testo, benché resti non meno certo che alcune sue parti siano
state scritte effettivamente da qualcuno
molto vicino all'evangelista e forse da lui stesso. E' altresì nota la differenza semantica tra "falsificazione" e
"mistificazione", avendola già trattata qui.
Qui ora dobbiamo cercare di capire in che modo il IV vangelo, invece di
censurare del tutto l'ateismo del Cristo, giudicandolo assolutamente
inconciliabile con le tesi mistiche di Pietro e Paolo - così come hanno fatto
gli altri tre vangeli canonici -, abbia preferito intraprendere, su questo aspetto spinoso, la
difficile strada della mistificazione teologica vera e propria, trasformando il
Cristo in un fautore del teismo anti-ebraico più sublime.
Bisognerà, a tale scopo, rintracciare, in questo testo, tutti gli episodi o
racconti o dialoghi in cui il Cristo nega l'ateismo proprio mentre afferma
d'essere il figlio di dio. Il problema tuttavia non sarà quello di come
dimostrare che esiste un ateismo mistificato là dove il Cristo parla di
dio-padre e di sé come di dio-figlio; e neppure quello di come dimostrare che,
nell'ambito del teismo, l'identificazione personale del Cristo con dio era
comunque una forma di ateismo superiore a quella ebraica che negava a dio un
qualunque aspetto umano. Entrambe queste cose, con un po' di esercizio, oggi si
possono agevolmente risolvere.
Molto più difficile invece è cercare di scoprire cosa può aver detto di
"ateistico" ill Cristo là dove sostiene posizioni teistiche avanzate. E' infatti
evidente che il teismo del IV vangelo è tanto più accentuato quanto più doveva
esserlo l'ateismo originario, e che se i manipolatori di questo testo non fossero
riusciti a mistificare con grande maestria le parole del Cristo, il rischio
sarebbe stato molto grave: quello di essere facilmente smascherati. Meglio
dunque si sarebbe fatto a censurare del tutto il vangelo di Giovanni,
impedendone qualunque diffusione: i mezzi e i modi per poterlo fare
probabilmente non mancavano. Anche perché, in definitiva, per poter creare il
cristianesimo petro-paolino, i Sinottici erano più che sufficienti.
Questo spiega il motivo per cui il IV vangelo ha avuto una lunga evoluzione
redazionale: si voleva essere assolutamente sicuri che la falsificazione
altamente spiritualistica (che dovette essere elaborate da un'équipe di
intellettuali avvezzi alla filosofia gnostico-idealistica, con l'avallo delle autorità
ecclesiastiche di potere) non mostrasse crepe di sorta. Il lavoro doveva essere
non solo di tipo "teologico" ma anche "linguistico", sfruttando l'ambiguità
insita nelle parole umane, la cui interpretazione non è mai univoca e che invece
si volle rendere tale. Si pensi solo alla parola "spirito": usata dal Cristo
poteva voler dire semplicemente "coscienza"; usata dai redattori ha sempre un
riferimento ultraterreno.
Non a caso comunque questo vangelo per moltissimi secoli è stato considerato
un best-seller mondiale della religiosità cristiana, la punta avanzata di tutto
il Nuovo Testamento. E si può quindi presumere che il giorno in cui questo testo
verrà completamente demistificato, con prove alla mano, la chiesa cristiana non
avrà più ragione di esistere (ammesso e non concesso che si possano trovare
"prove cartacee", poiché la demistificazione potrebbe anche risolversi in una
dimostrazione di fatto, quella che avremo quando il cristianesimo sarà superato
da una nuova concezione di vita, che renderà possibile già sulla terra la
liberazione umana).
Il Prologo
Il Prologo non fu scritto per primo ma per ultimo. E' infatti una sintesi di
tutto il vangelo, benché appaia come una sintesi di tutto il cristianesimo
petro-paolino, che è il riferimento ideologico dei manipolatori di questo
vangelo.
Esso è suddiviso in due parti, scritte in periodi successivi e da mani
diverse: la prima si conclude al v. 13 ed è più filosofica, la seconda
invece è più teologica. Nella prima parte (dove s'intravedono redattori
di origine più ellenistica che giudaica) si parla di dio in senso astratto e di
Cristo come "logos"; nella seconda invece si parla di dio-padre e di Cristo come
di suo figlio unigenito: sembra più concreta dell'altra, ma solo per affermare
un clericalismo ancora più stretto.
Questa seconda parte vuole essere una sintesi di tutti i
racconti in cui, in tale vangelo, il Cristo sostiene di essere "figlio di dio".
L'ultimo versetto è addirittura una sintesi estrema: "Dio nessuno l'ha mai
visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato". Se si riesce a capire il significato di questo versetto, si saranno poste le
basi per comprendere tutte le parti ateistiche originarie di questo vangelo, che
i redattori han voluto trasformare in teologiche.
Negli anni della sua predicazione pubblica, che cosa poteva aver detto il
Cristo ai suoi discepoli in merito alla questione religiosa, che poi in sostanza
si riduceva al rapporto con la tradizione mosaica, di cui nel Discorso sulla
montagna si può rintracciare qualche elemento? Semplicemente che il popolo
ebraico era stato molto coraggioso a sostenere che se esiste un dio, non ne
possiamo sapere nulla, essendo impossibile a un uomo peccatore il poterlo
vedere. Ovvero ch'erano stati molto intelligenti nel descriverlo in maniera
simbolica e indiretta (p.es. come "roveto ardente"). Gli ebrei erano stati saggi
nell'affermare una posizione così ateistica in mezzo a tante civiltà che invece,
col loro politeismo, si raffiguravano i loro dèi in tutte le maniere possibili.
Ma Cristo era nato circa 1200 anni dopo Mosè: non poteva bastargli un ateismo
del genere. E infatti egli arrivò a dire che se gli uomini non possono pensare
né vivere qualcosa di reale che sia superiore a loro (in quanto dio nessuno l'ha
mai visto, ma soltanto immaginato), allora possono anche credere che non esiste
altro dio nell'universo che non sia l'uomo stesso. Dio non è altro che l'uomo
come dovrebbe essere, e cioè umano. Chi cerca un dio superiore all'uomo,
lo fa perché non crede che l'uomo possa diventare se stesso, cioè non crede alla
possibilità che una modificazione della realtà possa rendere l'uomo dio di se
stesso.
Chi non crede che l'uomo sia dio e che esista un dio la cui divinità sia
assolutamente irraggiungibile per l'umanità dell'uomo, lo fa perché detiene una
posizione di comando e vuole illudere i propri subordinati o a credere che solo
nell'aldilà risolveranno i loro problemi, oppure a credere che rassegnandosi
soffriranno di meno.
Il Cristo dunque collegava il proprio ateismo al progetto di creare una
società democratica, egualitaria, com'era stata prima della nascita delle
civiltà e quindi dello schiavismo. E' dunque evidente che se gli si nega un
qualunque aspetto politico-rivoluzionario, occorre poi negargli qualunque
aspetto favorevole all'umanesimo laico. Cosa che era già stata fatta, a chiare
lettere, dai Sinottici. Si poteva dunque permettere al IV vangelo di comportarsi
diversamente?
La domanda che a questo punto ci si pone è però la seguente: perché la chiesa
non è riuscita a eliminare del tutto questo vangelo? ovvero perché è stato
chiesto a dei redattori particolarmente intellettuali di compiere un'operazione
così complessa e rischiosa? perché non limitarsi a scartarlo tra i documenti
accettati nel Canone, permettendogli una diffusione autonoma tra gli apocrifi?
Giovanni era forse un'autorità politica di così grande spicco da rendere
impossibile una semplice censura del suo operato come politico e come
intellettuale?
Al momento non abbiamo elementi sufficienti per rispondere a queste domande.
Possiamo soltanto ipotizzare che il Giovanni dell'Apocalisse era ancora un
politico-rivoluzionario e che, per questa ragione, egli scomparve ben presto
dalla trattazione lucana degli Atti degli apostoli. E possiamo anche ipotizzare
che il Giovanni del IV vangelo sia stato lo storico anziano, testimone oculare
del Cristo, che voleva dare delle vicende di quest'ultimo una versione più
obiettiva di quella sinottica (in cui le due idee fondamentali, di "morte
necessaria" e di "resurrezione", erano state elaborate da Pietro).
Più di così però non possiamo ipotizzare, poiché sia sull'Apocalisse che sul
vangelo sono intervenute pesantemente varie mani redazionali, al punto che la
figura stessa dell'apostolo preferito dal Cristo (che doveva succedergli alla
sua morte) fu del tutto mistificata, attribuendogli la paternità di tre lettere
che non aveva mai scritto. Noi sappiamo soltanto che i redattori di quelle lettere appartengono agli
stessi ambienti che hanno manipolato il IV vangelo; ambienti non coincidenti con
quelli che hanno manomesso l'Apocalisse, essendo la versione originaria di
quest'ultima antecedente a tutti gli altri documenti del N.T.
Insomma qui bisogna dimostrare che ogniqualvolta il Cristo rischiava, in
questo vangelo, la lapidazione non era per il suo teismo esclusivo ma per
il suo ateismo assoluto.
Il vangelo di Giovanni Battista
Tutto il lungo racconto giovanneo del rapporto del Cristo col Battista è
servito unicamente a far credere che tra i due non solo non vi fu alcun dissenso
politico, ma neppure alcun rapporto di tipo politico; anzi l'uno arrivò persino
a riconoscere, prima di tutti gli altri, l'origine divina dell'altro.
In realtà il racconto va interpretato in maniera molto diversa. Il Cristo non
poté compiere insieme al Battista la cacciata dei mercanti dal tempio e quindi
l'estromissione dei sacerdoti corrotti dallo stesso, per la semplice ragione che
il Battista non voleva rompere politicamente (ma solo eticamente) con le
tradizioni religiose del suo paese, sfruttate dai sacerdoti per fini di potere
(economico e politico).
Quell'azione rivoluzionaria, che fece tremare le autorità giudaiche, colte
del tutto impreparate, poté essere compiuta solo con una parte del movimento
battista, staccatasi dal proprio leader esseno. Tuttavia il Cristo, non
ottenendo un pieno consenso da parte del partito farisaico (la corrente
progressista guidata da Nicodemo approvò l'iniziativa solo privatamente), fu
costretto ad espatriare dalla Giudea e a rifugiarsi in Galilea (sua seconda
patria), dove trovò grande accoglienza.
Da allora non ci fu più modo di riprendere i contatti col movimento battista
per un'azione politica comune, neppure dopo la morte violenta del leader
Giovanni, e si dovrà attendere anche la morte del Cristo prima che i cristiani
possano reimpostare coi battisti un nuovo accordo, su basi questa volta
esclusivamente religiose: gli uni avrebbero accettato il battesimo di penitenza,
mentre gli altri avrebbero riconosciuto la divinità del Cristo. Ma la parte più
giudaica dei battisti continuerà ad opporsi ai cristiani.
Il colloquio con Nicodemo
Il colloquio di Cristo con Nicodemo (che rappresenta quella parte dei farisei
favorevole alla moralizzazione del Tempo, in mano a sommi sacerdoti e sadducei
corrotti)
è tutto incentrato su questioni di carattere etico-politico.
In sostanza il Cristo fa capire a Nicodemo che i farisei non avrebbero mai
potuto essere conseguenti o comunque coerenti con le loro teorie riformatrici
fino a quando avessero fatto così ampie concessioni all'uso strumentale della
religione. Essi infatti s'illudevano di poter migliorare le cose sostituendo un modo
corrotto di vivere la religione con un altro più rigoroso, continuando nel
contempo a considerare le tradizioni religiose della Giudea superiori a quelle
di qualunque altra etnia ebraica.
Tuttavia se è vero che Nicodemo rifiuta l'idea di poter risolvere il problema della corruzione del
potere politico senza l'aiuto della religione, i manipolatori di questo racconto hanno invece voluto far credere che tra
Cristo e Nicodemo non poteva esserci alcuna intesa, proprio perché i farisei non
avevano intenzione di sostituire la fede in dio che passava attraverso il tempio
(o comunque attraverso le loro sinagoghe)
con quella rivolta direttamente al Cristo, nuovo tempio di dio.
E' infine nel racconto dedicato all'incontro del Cristo coi
Samaritani, subito dopo
la mezza rivoluzione contro i sacerdoti del tempio, che veniamo a sapere che
l'etnia samaritana (considerata eretica dai giudei) sarebbe stata disposta, se
l'obiettivo era quello di abolire il primato politico del culto del tempio e di
organizzarsi militarmente per cacciare i Romani, a rinunciare a fare del loro
culto sul monte Garizim un motivo fondamentale di distinzione o di appartenenza
etnico-tribale.
I redattori invece sostengono che Cristo era entrato in quel territorio per
insegnare loro una nuova modalità di vivere la fede religiosa: quella di amare e
pregare dio "in spirito e verità". Solo che se si fossero limitati a
dire questo, avrebbero fatto della "filosofia religiosa"; siccome invece
bisognava fare della "teologia" vera e propria, ecco la necessità di dipingere
il Cristo che legge nei pensieri della samaritana e che viene considerato dai
compaesani di lei non tanto come il "messia di Israele", quanto piuttosto come
il "salvatore del mondo".
La guarigione del paralitico di Betesda
La prima manifestazione esplicita di ateismo il Cristo non la diede mentre
svolgeva attività politica in Giudea, il cui punto culminante, nella prima parte
del IV vangelo, fu la cacciata dei mercanti, ma la diede quando, dopo un periodo
(qui indeterminato) di esilio in Galilea, salì a Gerusalemme per una festa
imprecisata (e già questo dovrebbe far sospettare sull'autenticità del racconto,
visto che Giovanni, quando non viene censurato, è sempre molto circostanziato).
L'ingresso in città fu privato, talmente privato che in 47 versetti del cap. 5
non viene citato alcun discepolo (e anche questo rende sospetto il racconto).
Durante quella festa Gesù compie di sabato la guarigione di un malato cronico
presso la piscina di Betesda (o Betzaetà), che gli archeologi dicono di aver
rinvenuto presso la Porta delle Pecore. Poiché, secondo gli esegeti, in quel
racconto per la prima volta Gesù parla di sé come del figlio unigenito di
dio-padre, il sottotitolo del racconto non poteva che essere questo: "Primo
rifiuto della rivelazione".
A questo punto le strade per un esegeta laico possono essere soltanto due: o
il racconto è stato completamente inventato (descrivendo p.es. un miracolo
incredibile proprio allo scopo di dimostrare che tra Gesù e Dio non vi era
alcuna differenza), oppure la rivelazione originaria ch'era stata fatta non era
di tipo teistico, bensì ateistico e il racconto è appunto servito per
mistificarla.
Supponendo ora che questa seconda ipotesi sia quella giusta, come possono
essere andate le cose? Gesù e i suoi discepoli avranno prestato assistenza a
quel povero disgraziato e, siccome era sabato, saranno stati accusati di violare
la legge; al che il Cristo avrà risposto che di fronte a un caso del genere non
c'è legge che tenga.
Sentendo questa motivazione, i giudei fanatici l'avranno accusato di farsi
come dio, padrone e signore di ogni legge, e lui avrà risposto che, se il
bisogno è legittimo e la legge impedisce di soddisfarlo, non c'è alcuna
necessità di aspettare dio per cambiare la legge: può farlo anche l'uomo. Quella
volta la violazione del sabato era motivo sufficiente per essere condannati. Non
dimentichiamo che per il mondo ebraico (come oggi per quello islamico) la
differenza tra violazione religiosa e violazione civile era così sottile da
essere impercettibile.
Si noti ora come interviene la mano redazionale. Al v. 18 è scritto:
"cercavano di ucciderlo perché non soltanto violava il sabato, ma anche perché
chiamava dio suo padre, facendosi uguale a lui". Per i giudei uno che si
comportava così era reo di bestemmia, cioè ateo, e andava lapidato. Dio -
per gli ebrei - era padre di tutti e non di uno solo, anzi era riduttivo,
minimalista, chiamarlo "padre", poiché dio era signore e creatore del cielo e
della terra: "padre" degli ebrei poteva semmai essere considerato Abramo, poi vi
erano i patriarchi e Mosè era il supremo legislatore, come Davide e Salomone
erano i modelli della monarchia israelitica. I sacerdoti di dio non avrebbero mai permesso a
nessuno di violare il precetto del sabato (anche se poi loro stessi lo faceva di
fronte all'altro precetto della circoncisione), poiché veniva fatto risalire addirittura ai
tempi della creazione (al settimo giorno dio "fece sabato", cioè riposò),
anche se
di fatto era stato imposto da Mosè per impedire che gli ebrei, non potendo
compiere, in quel giorno, alcuna azione, agissero negativamente (nei confronti
dei propri correligionari).
Si faccia ora attenzione alla mistificazione, poiché se si comprende bene
questo versetto, tutti gli altri, sino alla fine del capitolo, saranno
facilmente decodificabili. I redattori dovevano essere ben consapevoli che Cristo
predicava l'ateismo, ma per loro questo argomento era tabù, in quanto del tutto
contraddittorio al cristianesimo petro-paolino. E tuttavia se nei Sinottici era
stato abbastanza facile censurarlo (fu sufficiente far credere che Gesù era
un guaritore eccezionale), nel IV vangelo invece l'operazione doveva essere
diversa, più sofisticata.
Infatti, qui i giudei lo accusano sì di ateismo, ma non tanto perché il
Cristo stava negando l'esistenza di un dio assolutamente superiore all'uomo (in
realtà faceva anche questo), quanto perché egli aveva la pretesa di
identificarsi in maniera esclusiva a questa entità, e giustificava il proprio
esclusivismo sostenendo addirittura che dio era suo padre, l'unico suo vero
padre.
In altre parole, mentre nella versione originaria di questo vangelo è
possibile ipotizzare che Cristo apparisse ateo dicendo che ogni uomo è dio di se
stesso e che non esiste alcun dio superiore all'essere umano, i redattori invece
han voluto far credere che Cristo appariva ateo
soltanto ai giudei che non credevano nella sua figliolanza divina, da lui
dimostrata a più riprese (in vita) compiendo miracoli eccezionali (sovrumani),
per i quali aveva tutte le ragioni (divine) a non fare alcuna differenza
tra sabato e giorno feriale.
Chiunque può accorgersi che c'è una certa differenza tra queste due
concezioni di ateismo. Se quella che vogliono far passare i redattori cristiani
fosse la più veritiera, i giudei non avrebbero forse avuto tutte le ragioni a
non credere nel Cristo? Come si poteva credere a un messia politico che quando
faceva miracoli eccezionali si paragonava direttamente a dio, sentendosi quindi
autorizzato a fare delle leggi quello che voleva? Quanti malati di mente o
megalomani, che apparentemente sembrano normali, credono in coscienza d'essere
superiori a qualunque altro essere umano?
Insomma perché Cristo insegnava l'ateismo? cioè a non credere in alcun dio
del tutto superiore agli esseri umani, un dio di cui i sacerdoti si
consideravano i soli interpreti e custodi? Per la semplice ragione che per poter
compiere un'insurrezione nazionale contro i Romani, bisognava prima aver chiare
almeno due cose fondamentali: 1) che tale insurrezione non poteva essere gestita
o guidata dal clero di Gerusalemme, geloso del proprio potere e persino della propria etnicità, legatissimo
alle proprie, per lo più, false tradizioni, visibilmente corrotto e, nei suoi
strati più autorevoli, persino connivente col nemico straniero; 2) che la
soluzione all'oppressione sociale, una volta ottenuta la liberazione nazionale,
non poteva essere affidata in alcun modo alla casta sacerdotale, che fruiva di
ricchezze e privilegi inammissibili, e neppure a chi si sentiva in dovere di
sponsorizzare un affronto "religioso" delle contraddizioni sociali.
Senza cittadini autonomamente pensanti, in grado di organizzarsi da soli,
rinunciando alla tutela da parte delle gerarchie ecclesiastiche, sarebbe stata
impossibile non solo la realizzazione di una società democratica, ma anche la
stessa lotta di liberazione, essendo l'alto clero abbondantemente compromesso
col potere romano.
Tutto quello che appare dopo, dal v. 19 alla fine del cap. 5, è stato messo
per spiegare il significato del v. 18, là dove viene detto che Cristo si faceva
uguale a dio. Non è neanche il caso di pensare che in questa seconda parte vi
sia stato un testo originario da manipolare.
I pani e i pesci moltiplicati
La cosiddetta "moltiplicazione dei pani" (che può coincidere, almeno in
parte, col Discorso sulla montagna) è un testo politico per eccellenza. I
Sinottici si limitarono a trasformare l'evento politico in un evento religioso
(un uomo non può moltiplicare i pani e i pesci se non è di natura divina);
probabilmente avrebbero voluto censurarlo del tutto, ma essendo stato un evento
troppo noto, non poterono farlo; anzi, per non rischiarare interpretazioni
divergenti da quella ufficiale, rincararono la dose mistica, sostenendo che il
Cristo non solo moltiplicava i pani, ma camminava anche sulle acque del lago di
Galilea.
La vera natura politica di quell'evento fu narrata da Giovanni e proprio su
questa versione i redattori dovettero intervenire con forza. Il racconto
originario, che non doveva essere tanto di tipo ateistico quanto di tipo
politico-rivoluzionario, è stato mistificato proponendo un'immagine del tutto
spoliticizzata del Cristo, che per i redattori cristiani non poteva non
coincidere con una di tipo religioso.
I cinquemila galilei lì presenti volevano salire a Gerusalemme per compiere la
rivoluzione. Cristo glielo impedì sostenendo che una insurrezione nazionale
anti-romana difficilmente avrebbe avuto un buon esito senza l'apporto dei
giudei. Tra galilei e giudei l'odio era reciproco, ma il Cristo volle sottrarsi
a una controversia di tipo etnico, per rivendicarne invece una di tipo più
generale e nazionale: l'affronto del nemico comune avrebbe potuto essere
convincente se la Palestina fosse stata unita, almeno in tutte le sue forze
progressiste, che anche in Giudea, indubbiamente, erano presenti.
I galilei e i samaritani erano stati già guadagnati alla causa dei nazareni:
ora non restava che persuadere la parte migliore dei giudei, e siccome su questo
punto i galilei consideravano il Cristo un illuso, in quel frangente lo
abbandonarono: per loro non era abbastanza deciso in senso rivoluzionario.
Viceversa, per i manipolatori del IV vangelo la defezione dipese dal fatto
che, pur seguendo Gesù per motivi religiosi, i galilei non si dimostravano alla
sua altezza, in quanto chiedono che diventi un re politico-religioso dopo averlo
visto moltiplicare i pani. Volevano una monarchia teocratica in stile davidico,
senza rendersi conto che il suo regno non era di questo mondo.
Su questo i Sinottici sono ancora più reticenti: infatti i galilei sfamati
sulla montagna non immaginano neppure che il Cristo possa essere un leader
politico-religioso; per loro era piuttosto un operatore di miracoli
strabilianti, e quando lo vedono avviarsi con decisione a Gerusalemme, nessuno
pensa che voglia fare l'insurrezione, ma, al contrario, che voglia andare a
morire in croce, per realizzare il disegno divino su di lui, che solo lui
conosceva.
Dunque nei Sinottici Gesù è dio in quanto compie prodigi straordinari e vuole
autoimmolarsi per riconciliare gli uomini peccatori col loro dio, quegli uomini
che - dirà Paolo - sono incapaci di compiere il bene a causa del peccato
d'origine. Il Cristo, religioso e taumaturgo, sarebbe diventato politico solo
dopo la
resurrezione, tornando in pompa magna con le sue schiere armate di angeli. Di
qui l'attesa della parusia imminente, poi posticipata alla fine dei tempi.
Nel IV vangelo invece, in versione originaria, il Cristo doveva apparire ateo
e rivoluzionario, ma nel prodotto derivato che abbiamo appare come un mistico
convinto d'essere l'unigenito figlio di dio e che in nessun modo può essere
adeguatamente compreso dai giudei, i quali, decidendo la sua morte, non
s'accorgono di fare in realtà il suo volere, quello appunto di mostrare che la
liberazione, umana e politica, è possibile solo in chiave religiosa e quindi in
una dimensione ultraterrena.
Sia il discorso nella sinagoga di Cafarnao che la confessione di Pietro sono
stati messi per spiegare il motivo per cui Cristo rifiutò di diventare "re"(6,
15). Nel IV vangelo nessuno capisce mai nulla del Cristo, proprio perché tutti
vorrebbero vederlo come leader politico, mentre lui ostinatamente si presenta
come leader religioso: è un dialogo tra sordi; cosa che nella realtà può
anche essere avvenuta, ma certo non in maniera così sistematica e soprattutto non nei termini in cui i manipolatori di questo
vangelo han voluto presentarcela.
La festa dei Tabernacoli
La parte di verità del cap. 7 riguarda la rivalità etnica tra giudei e
galilei. E' probabile che Giovanni avesse voluto mettere in evidenza le
difficoltà di conciliare politicamente due etnie così diverse per la
realizzazione di un importante obiettivo comune: liberare Israele dai Romani e
dal clero politicizzato e corrotto.
Tra i giudei progressisti vi era chi voleva l'accordo politico coi nazareni;
altri però erano decisamente contrari, specie perché avrebbero dovuto
riconoscere un leader proveniente dalla Galilea, benché la sua vera origine,
come d'altra parte quella di Giovanni, Giacomo, Giuda e di altri ancora fosse
proprio della Giudea: si anteponevano questioni ideologiche a questioni
politiche e sarà questo l'errore fondamentale dei farisei.
I redattori però, rifiutando di analizzare la rivalità interetnica sul piano
politico (i galilei p.es. si sentivano più rivoluzionari dei giudei), hanno
preferito sostenere che nessuno riusciva a capire che l'origine del Cristo non
era affatto terrena bensì divina.
Il realtà il capitolo mostra che anche tra i giudei stava aumentando il
consenso nei confronti del Cristo, al punto che nessuno ebbe il coraggio di
arrestarlo. Dunque la sua strategia sembrava apparire giusta: l'ala
progressista dei farisei, anche se enormemente ostacolata da quella
conservatrice, era possibilista su un'intesa politica anti-romana coi galilei.
Tutto il cap. 8 è stato invece scritto per dimostrare che nessuna intesa era
possibile, neppure con l'ala progressista dei farisei (Nicodemo, Gamaliele,
Giuseppe d'Arimatea, che poté andare tranquillamente da Pilato a richiedere il
cadavere del crocifisso, probabilmente anche Giuda aveva militato per qualche
tempo tra i farisei).
Da un lato infatti si ha l'impressione che Cristo voglia accettare l'intesa
coi farisei progressisti, dall'altro però i risultati del dialogo sono
assolutamente sconfortanti: non vi è intesa su nulla. Lo stesso Cristo sembra
continuamente anteporre alle questioni di natura politica quelle di natura
ideologica, la principale delle quali è la sua figliolanza divina, cui si deve
credere in via preliminare.
Cioè mentre nel capitolo precedente sono i giudei che antepongono le loro
ideologie religioso-messianiche a una pragmatica intesa politica, ora invece
questo ruolo, ben presente nel dialogo sulla figura di Abramo, viene fatto
svolgere, dai redattori, allo stesso Cristo. Il che è assurdo, in quanto un
leader in cerca di consensi popolari, indispensabili per qualunque insurrezione
nazionale, non avrebbe mai subordinato le questioni politico-programmatiche a
quelle relative alle opzioni in materia di fede. I manipolatori di questo
vangelo qui si sono comportati esattamente come i farisei conservatori.
Il racconto del cieconato e
La parabola del buon pastore
Il cap. 9 presenta il lungo racconto dell'uomo cieco fin dalla nascita,
rielaborato in grandissima parte dai redattori con motivazioni ampiamente
polemiche nei confronti dei farisei, ai quali, in tutti questi capitoli
fortemente teologizzati, non è più possibile applicare la distinzione politica
tra progressisti e conservatori. Il Cristo sembra voler fare cose straordinarie
proprio per rimarcare l'abisso che lo separa anche dagli elementi migliori del
giudaismo. Molte volte peraltro la parola "giudei" nel IV vangelo viene usata in
senso spregiativo, a sfondo razzistico, senza fare differenze di sorta tra i
vari gruppi politici.
Strettamente connesso a questo capitolo è quello successivo, detto "la
parabola del buon pastore", che probabilmente, in origine, voleva mostrare
l'handicap di non poter parlare esplicitamente del proprio nemico, cioè il
tentativo di dover usare un linguaggio più sfumato e indiretto quando
l'autoritarismo non permetteva di comportarsi diversamente.
Infatti con questa parabola (detta in Giudea) il Cristo si pone come leader
politico anche dei giudei e senza chieder loro di esprimersi su questioni
religiose o ideologiche. Quindi si può pensare che il cap. 9 sia stato scritto
proprio per sconfessare il valore politico di questa parabola.
In ogni caso anche su questa parabola è intervenuta pesantemente la mano
redazionale di qualche manipolatore. E' evidentissimo là dove si mostra che una
parte dei giudei era disposta a credergli soltanto perché aveva guarito un uomo
cieco dalla nascita.
Dobbiamo quindi pensare che al tempo in cui venne pronunciata detta parabola,
il Cristo doveva aver acquisito un certo consenso da parte dei giudei: si
trattava soltanto di aspettare il momento propizio per aumentarlo. Nel frattempo
però, poiché l'avversione della parte più reazionaria dei Giudei andava
aumentando, egli, coi suoi discepoli più fidati, aveva deciso di nascondersi
nella Transgiordania, là dove un tempo aveva agito Giovanni il Battista.
La festa della Dedicazione
Ora, prima di passare al cap. 11, che segna una svolta decisiva nella vita
politica del Cristo, è bene soffermarsi sul racconto relativo alla festa della
Dedicazione (10, 22-39).
In quella festa infatti Gesù ebbe un dialogo molto importante con quella
parte di giudei che gli era favorevole. Va anzitutto premesso che anche questo
racconto è stato ampiamente interpolato, e tuttavia in esso vi è un punto che
può in qualche modo aiutarci a comprendere i contenuti della predicazione
ateistica del Cristo.
Alla domanda insistente, da parte dei giudei, di dire loro apertamente s'egli
era il messia tanto atteso, egli risponde dicendo di esserlo non per motivi
politici ma per motivi religiosi. Questa sappiamo essere una palese
mistificazione, anche perché il dialogo si sposta continuamente su temi
ideologici.
Si faccia però attenzione a come i redattori hanno agito. I giudei chiedono
al Cristo se sia il messia, ma non si aspettano una risposta di tipo religioso;
il Cristo invece dà proprio questo tipo di risposta, dicendo - come al solito -
che lo è in quanto "figlio di dio". Al che i giudei riaffermano che sta
bestemmiando (il copione sembra essere il solito), poiché nessuno può esserlo in
via esclusiva: o tutti sono "figli di dio" o non lo è nessuno. Lui però insiste
sulla sua esclusività e quelli tentano di lapidarlo.
Fin qui nulla di nuovo: sappiamo bene che un dialogo del genere è
completamente inventato. Eppure in esso vi è un aspetto su cui si può pensare
che il Cristo abbia detto qualcosa di autentico. Al v. 34, rispondendo
all'accusa di volersi fare come dio, egli risponde: "Non è forse scritto nella
vostra legge [da notare, en passant, la stranezza dell'aggettivo
possessivo, usato come se il Cristo venisse da un altro pianeta]: 'Io ho detto:
voi siete dèi'?".
Tale citazione è stata usata dai redattori per dimostrare che Gesù era
titolato a qualificarsi come "figlio di dio". In realtà, s'egli l'ha davvero
detta, lo scopo era proprio quello di negare il privilegio dell'esclusività che
i redattori sin dall'inizio del vangelo avevano voluto attribuirgli. Quel "voi"
voleva appunto dire "uomini". Era in sostanza un invito di tipo ateistico,
a considerarsi tutti degli dèi, esattamente come faceva lui. Nessuna esclusività
quindi, nessun privilegio.
Non essendoci alcun dio diverso dall'essere umano, chiunque avrebbe potuto
legittimamente ritenersi un dio. Naturalmente, di fronte a un'affermazione del
genere, le pietre avrebbero potuto ugualmente tirargliele, rendendo inevitabile
la fuga in Transgiordania, ma le motivazioni sarebbero state ben diverse.
La morte di Lazzaro
L'evento che indusse Gesù a rientrare in Giudea, contro il parere dei propri
discepoli, almeno di quelli più prudenti, che temevano un immediato arresto, fu
la sconfitta politico-militare di un importante alleato giudeo dei nazareni:
Lazzaro (o Eleazaro) di Betania.
A differenza dei Sinottici, che hanno censurato del tutto un evento così
politicamente scomodo, il IV vangelo non solo lo riporta in maniera mistificata,
descrivendolo come il miracolo più sensazionale del Cristo, ma gli dedica ben 54
versetti, mostrando così che quell'episodio costituì un vero spartiacque nella
vicenda politica del Cristo.
Infatti fu proprio dopo la sconfitta e la morte di Lazzaro che il Cristo
decise di compiere l'insurrezione armata. Questo perché aveva capito che se ai
giudei egli si fosse presentato come continuatore dell'iniziativa del giudeo
Lazzaro, si sarebbe evitato lo sconforto dei seguaci di quest'ultimo e i
consensi sarebbero aumentati considerevolmente. E così fu, al punto che una
maggioranza non ben identificata del Sinedrio decise di farlo fuori senza
neppure allestire un regolare processo. Il che lo costrinse di nuovo a mettersi
in clandestinità (a Efraim), in attesa che arrivasse tutto il movimento nazareno
a Gerusalemme, messo in stato d'allerta dai suoi discepoli, affinché si
approfittasse della festa di Pasqua.
La domenica delle Palme
L'ingresso a Gerusalemme, per la festa delle Palme, fu trionfale. Nessuno
degli oppositori, stranieri o nazionali, poté far nulla, anzi tremarono. Gli
stessi farisei conservatori dovettero ammettere che "il mondo gli era andato
dietro"(12,19). Persino alcuni esponenti del mondo pagano erano disposti a
scendere in guerra al suo fianco contro Roma (v. 20).
Qui possiamo immaginarci quanta fatica debbono aver fatto i manipolatori di
questo vangelo per togliere agli ultimi giorni del Cristo qualunque indizio
potesse far sospettare che in quella vicenda vi fosse qualcosa di politico. I
Sinottici addirittura avevano deciso di mettere l'epurazione del tempio subito
dopo l'ingresso messianico, come per dire che se proprio vi fu qualcosa di
politico, essa si ridusse a una semplice azione "purificatrice". Come se per
cacciare i mercanti dal tempio vi fosse bisogno di un esercito di cinquemila o
addirittura diecimila persone!
Sbagliando completamente e volutamente la cronologia dei fatti, gli autori
dei Sinottici (che poi il principale è Marco, portavoce di Pietro), miravano a
togliere a quell'ingresso trionfale l'espressa motivazione insurrezionale
anti-romana (ricordiamo che Pietro era armato nel Getsemani, e come lui tutti
gli altri apostoli).
Galilei e giudei insieme, appoggiati dai samaritani, da vari gruppi politici
e persino da alcune compagini di origine greca, se avessero eliminato la
presenza ostile dei Romani, avrebbero contemporaneamente estromesso dal potere
politico i loro collaborazionisti e ridimensionato di molto il potere del clero
corrotto e autoritario.
I redattori del IV vangelo cercarono in tutti i modi di dimostrare che il
Cristo era entrato a Gerusalemme non per vincere politicamente ma per perdere e
quindi per vincere religiosamente. Era entrato lì per morire, e siccome questo
suo desiderio non poteva essere capito, tutti i dialoghi vengono costruiti in
modo che, non potendo egli essere capito, non poteva che essere ucciso.
Sono dialoghi della follia religiosa, sono in realtà monologhi di chi crede
di poter trovare nel sacrificio volontario di sé il significato della propria
missione di vita, che poi coincide col fallimento politico-rivoluzionario del
cristianesimo petrino.
I redattori, cristiani politicamente sconfitti, presentano un Cristo che
vuole consapevolmente suicidarsi; solo che per dimostrare al suo dio che era nel
giusto, che non era un folle senza speranza, fa in modo che siano gli altri a
ucciderlo, dispone cioè le cose in cui risulti che tutta la responsabilità
ricade sui perfidi Giudei, che si servirono degli ignari Romani come loro
strumento di morte.
La principale mistificazione della storia fu costruita sfruttando abilmente
l'ambiguità del linguaggio umano, come solo dei grandi intellettuali di origine
ebraica avrebbero saputo fare.
Vedi l'analisi sulla differenza
semantica tra falsificazione e mistificazione e
L'ateismo del Cristo: motivi di condanna
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