Edizione giugno 2025
Pubblicizza questo libro come credi, anche facendone oggetto di commercio, ma se lo modifichi non attribuire a me cose che non ho mai detto, a meno che tu non pensi di contribuire alla causa di un socialismo davvero democratico.
MIKOS TARSIS
KONTROL
QUALE SOCIALISMO?
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Nato a Milano nel 1954, laureatosi a Bologna in Filosofia nel 1977,
già docente di storia e filosofia, Mikos Tarsis (alias di Enrico Galavotti) si è interessato per tutta la vita a due principali argomenti:
Umanesimo Laico e Socialismo Democratico, che ha trattato in homolaicus.com.
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Premessa
Vorrei cercare di capire perché tutte le volte che critico Stalin nei gruppi di sinistra dei social, mi accusano di trockismo, neoliberismo e sciocchezze del genere.
Non voglio ridurre la questione a un che di psicologico. Infatti non penso che lo stalinismo sia riconducibile solo a quel criminale dittatore. Per me era un sistema inerente alla realizzazione del socialismo statale, tant'è che col maoismo si ripeté uguale, anche se con la variante agraria delle comuni. Molto probabilmente sarebbe avvenuta la stessa cosa anche con Trockij, oppure si sarebbe rinunciato al socialismo statale e si sarebbe passati al capitalismo, come poi è avvenuto oggi (prima privato con El'cin, poi statale con Putin).
Vorrei anche cercare di capire quali sarebbero state le condizioni per rendere la dittatura molto meno possibile. La realizzazione del socialismo non può dipendere dal carattere delle persone. Sappiamo tutti che Lenin era una persona tollerante, ma come sarebbe diventato una volta avviato il processo di statalizzazione della produzione industriale e agricola? Sarebbe continuata la NEP? In fondo è stata una fortuna che sia morto così presto: si è risparmiato i rischi di una pessima involuzione.
Di sicuro con Gorbaciov, ma già con Krusciov abbiamo capito che il socialismo statale non si può democratizzare conservando l'impianto statalizzato della proprietà. La proprietà va "socializzata" non "statalizzata".
Penso che si debba andare anche oltre al fatto che gli archivi privati di Stalin sono andati perduti per sempre. Bisogna puntare su una verità storica: il socialismo statale non funziona, e per me non funzionerà neanche il capitalismo statale né il socialismo mercantile. Si possono bruciare tutti gli archivi di questo mondo, ma la sostanza non cambia.
Quando ho scritto una decina di volumi su Gesù Cristo, non ho dato molta importanza al fatto che, oltre ai quattro vangeli canonici, ve n'erano un'infinità apocrifi, più i testi ebraici e pagani di quel periodo o immediatamente successivo. Ho letto tutto, ma per dimostrare che lui era ideologicamente ateo e politicamente sovversivo, per me i canonici bastavano (anzi dei canonici bastavano Marco e Giovanni, più qualcosina di Luca). Bisognava solo interpretarli in una certa maniera, quella divergente dalla narrativa dominante. Si può arrivare alla verità anche lavorando su dei fantasmi, sulle cose più surreali. Ci si arriva indirettamente e ovviamente non in maniera esaustiva, ma in ogni caso in maniera sufficiente per proseguire in futuro i lavori con scientificità.
Sullo stalinismo non voglio partire dall'inizio, cioè dalle divergenze rispetto a Lenin e fare un'analisi cronologica. Sono già tanti i libri sullo stalinismo, che inevitabilmente finirei col fare la parte della ninfa Eco.
Questo libro ha soltanto l'ambizione di far capire cosa vuol dire democrazia nell'ambito del socialismo. Per farlo ci si è avvalsi fondamentalmente di due corposi volumi: Roj A. Medvedev, Lo stalinismo, ed. Mondadori, Milano 1972; e Dimitri Volkogonov, Trionfo e tragedia. Il primo ritratto russo di Stalin, ed. Arnoldo Mondadori, Milano 1991.
A pochi altri s'è fatto riferimento: Giuseppe Boffa, Storia dell'Unione Sovietica (4 volumi), ed. l'Unità su licenza di Arnoldo Mondadori, che la pubblicò in due volumi nel 1976 e 1979; Roj A. e Zores Medvedev Stalin sconosciuto (Alla luce degli archivi segreti sovietici), Universale Economica Feltrinelli. Milano 2021, ecc.
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Ribadisco che non voglio ridurre lo stalinismo a questioni psicologiche o caratteriali. Stalin poteva anche soffrire di paranoia, ma qui bisogna arrivare a dimostrare (o forse soltanto a "mostrare") che la Russia bolscevica non aveva in sé (almeno non dopo la morte di Lenin) le premesse per non diventare "stalinista". Cioè lo stalinismo deve apparire come una categoria simbolica, metaforica, addirittura sovrastorica, che va al di là delle persone, e che s'impone tutte le volte che non si rispettano determinate condizioni di base.
In tal senso il libro ha una pretesa progettuale, cioè non vuole essere soltanto una denuncia dei limiti insuperabili del socialismo statale. Ambisce a porre un'alternativa democratica, che per noi non è quella dell'attuale socialismo mercantile realizzato in Cina. Chiediamo di più e di meglio, sia sul piano dei rapporti umani che della tutela ambientale.
Questo libro non vuole essere scientifico ma propositivo in senso etico e politico. Non è un'opera di storiografia, ma vuole offrire una suggestione operativa da attualizzare contro qualunque sistema sociale attualmente dominante nel mondo. Già il solo fatto che uno stile di vita o un modo produttivo e commerciale "domini" su tutti gli altri dovrebbe metterci sul chi va là.
La democrazia, quella vera, deve partire dai limiti del socialismo statale di tutti i Paesi dell'ex COMECON, ma deve farlo per andare oltre, senza inutili passi indietro, come invece han fatto quei Paesi, inclusa la Russia, sprofondati, forse senza volerlo, nel disastro del neoliberismo privato, che in Russia fu scelto da quell'irresponsabile di El'cin, cui per fortuna è riuscito a porre un freno Putin, con la sua idea di capitalismo statale.
A noi non interessano le mezze misure. Non siamo dei politici. Per noi il socialismo o è democratico o non è socialismo. Quando in Europa si parla di "socialismo" si fa riferimento, nel migliore dei casi, allo Stato sociale; nel peggiore dei casi si tratta soltanto di una mera regolamentazione del capitale, con tanto di censura mediatica per i dissidenti.
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Se si guarda a ciò che è successo negli ultimi 6000 anni di storia, ci si accorgerà facilmente di una cosa trasversale a tutte le civiltà bellicose. Esiste un odio che procede simultaneamente in quattro direzioni diverse, strettamente correlate tra loro: contro le comunità locali basate sull'autoconsumo (usando lo sfruttamento del lavoro altrui e il primato del valore di scambio); contro il genere femminile (usando il patriarcato, il maschilismo, ecc.); contro le esigenze riproduttive della natura (usando il dominio della scienza e della tecnica); contro le tradizioni e le culture ancestrali (usando varie forme di ideologia, da quella religiosa a quella scientifica, passando per quella filosofica e politica).
Tutte le rivoluzioni compiute non hanno mai messo in discussione queste grandi disgrazie dell'umanità, questa violenza insensata e autodistruttiva. Se l'hanno fatto sul piano teorico, si sono poi smentite su quello pratico.
In ultima istanza le rivoluzioni sono state lo scontro tra una forma di oppressione (o di sfruttamento) e un'altra, ovviamente nell'illusione che la successiva fosse una liberazione dai limiti della precedente.
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Da ultimo vorrei specificare meglio perché questa non è un'opera storiografica.
A noi non interessa dimostrare la verità di alcun fatto. Non abbiamo gli strumenti idonei, né quindi le necessarie competenze per farlo. Ci siamo fidati di alcuni storici anti-stalinisti, ma non anti-comunisti, e neppure contrari, come invece siamo noi, al socialismo statale.
L'abbiamo fatto cum grano salis, proprio perché sappiamo bene che lo stalinismo ha avuto un'importanza così eccezionale da inficiare o compromettere qualunque moderna concezione di socialismo. Non per nulla noi non avremmo alcuna difficoltà a proclamarci anti-comunisti se qualcuno avesse ancora in mente l'idea di creare un socialismo statalizzato. Questo infatti non è soltanto un libro contro l'ideologia stalinista (che va ben oltre il "personaggio Stalin"), ma anche contro qualunque ideologia che sponsorizzi la costruzione di un socialismo in cui lo Stato giochi un ruolo decisivo.
Secondo i classici del marxismo lo Stato va considerato come uno strumento provvisorio per vincere la resistenza di chi vuol continuare a vivere sfruttando il lavoro altrui, e che, per poterlo fare, è disposto a chiedere aiuto a forze esterne. Secondo noi però, una volta compiuta la rivoluzione o vinta la guerra civile, bisogna pensare subito a quali basi concrete porre in essere per smantellare lo Stato in maniera progressiva. Anzi, sul piano teorico bisogna pensarci prima, per non trovarsi impreparati dopo.
La nuova società civile deve assumersi la responsabilità di eliminare, in quanto pericoloso, il fardello che impedisce una vera liberazione sociale, un'autentica emancipazione delle masse popolari. Qualunque istituzione statale, fosse anche la più innocua o, in apparenza, la più utile, rappresenta una forma di espropriazione della libertà personale.
Le cose non funzionano delegandone la gestione a persone specifiche, ma assumendole in proprio, in tutte le loro sfaccettature. Cioè la responsabilità personale non può essere delegata, se non in maniera molto limitata, soprattutto nelle funzioni e nel tempo. Neanche la rivoluzione può essere delegata a un partito destinato a occupare le leve dello Stato.
Il centralismo va smantellato. "Centralismo democratico" diventa molto presto una contraddizione in termini. La società civile deve essere in grado di autogovernarsi e di autodifendersi. Lo Stato può servire solo nella fase iniziale, che inevitabilmente sarà quella più cruenta. Ma una volta che il nemico, interno o esterno, avrà capito con chi ha a che fare, bisognerà porre le condizioni favorevoli all'autogestione della società, che inevitabilmente dovrà basarsi sulla democrazia diretta.
Il perno attorno a cui deve ruotare l'edificazione del socialismo democratico è la comunità locale, padrona non solo di tutti i principali mezzi produttivi, ma anche della facoltà di gestirli in autonomia, senza dover sottostare a direttive che provengono dall'alto. Le infinite comunità locali devono essere lasciate libere di interagire tra loro, come meglio credono. Non può esistere un ente o un'istituzione che dall'esterno stabilisce i loro rapporti, regolamenta le loro leggi o dirime le loro controversie. Se queste controversie ci sono, gli stessi interessati devono pensare a come risolverle.
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Ho l'impressione che la coesistenza pacifica nel mondo non possa essere imposta da nessuno: è la conquista di una maturità personale e collettiva. Non nasce perché qualcuno vince e un altro perde, perché chi si arrende, s'incattivisce e cercherà una rivincita.
Se la pace è frutto di una guerra, vanno richieste delle scuse e delle riparazioni. Il che ovviamente non impedisce l'uso della legittima difesa, come ha fatto il Donbass nei confronti della giunta golpista di Kiev.
La pace non va pensata come un dono di natura, che alcuni popoli hanno e altri no, o come una predisposizione che si può avere a livelli più o meno accentuati. Se si comincia a diventare bellicosi, vuol dire che in tutti gli altri valori (giustizia sociale, libertà personale, uguaglianza di genere, tutela ambientale, ecc.) c'è qualcosa che non va. E più si tarda a risolvere i problemi sociali, tanto più si useranno i conflitti per nasconderli, per scaricarne il peso al di fuori dei propri confini.
Bisogna creare un sistema mondiale in cui la pace venga messa al primo posto. Va considerata come premessa fondamentale per risolvere tutti gli altri problemi, che ovviamente richiedono competenze specifiche, di ben altra natura.
Questo però vuol dire che tutte le armi di sterminio di massa vanno eliminate (chimiche, nucleari, batteriologiche...); tutte quelle in grado di colpire da lontano, compiendo percorsi molto lunghi; tutte quelle automatizzate, che non necessitano neppure di una presenza fisica; tutte quelle che, per non essere colpiti, richiedono imponenti strutture di difesa; tutte le armi che, una volta partite, non possono più essere fermate; tutte quelle che continuano a funzionare anche dopo la fine di una guerra; tutte le armi che per essere dispiegate, richiedono la decisione inappellabile di qualcuno.
Chi non vuole eliminare armi di questo genere, va emarginato, boicottato, escluso da tutti gli organismi internazionali. Ci vuole una specifica Carta dell'ONU su questa tipologia di armi.
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Uno storico, se vuole essere un minimo serio, deve poter accedere agli archivi o consultare testimonianze dirette sui fatti che vuole raccontare, oppure deve avere a disposizione del materiale inedito. Poi naturalmente potrà anche interpretare queste fonti in una maniera tendenziosa, ma non è questo il punto. Il punto è che deve cercare di non diventare un mero ripetitore di storie altrui. Diventerebbe noioso. Deve invece partire dall'idea che l'interpretazione dei fatti può essere anche più importante degli stessi fatti. In fondo l'originalità sta proprio in questo, nel cercare d'essere "obiettivi" in maniera diversa dalla narrativa prevalente, dai criteri di giudizio dominanti. Sarà poi il lettore a decidere a chi prestare maggiore fiducia.
Noi ci guardiamo bene dal dire che i fatti parlano da soli: neanche un fatto può ambire a questa pretesa. Anche se potessimo accedere a tutti gli archivi necessari per scrivere qualcosa di realistico, questo non ci autorizzerebbe a credere di poter fare un'attendibile ricostruzione dei fatti.
è vero, quando non si dispone degli elementi fondamentali che caratterizzano una professione così importante come quella dello storico, ci si dovrebbe limitare a dire che le proprie interpretazioni sono soltanto ipotetiche. Ma anche quando si hanno questi strumenti, è bene evitare giudizi apodittici, unilaterali. Umilmente ci si deve inchinare al giudizio della storia, sia che si parli di fatti, sia che ci si limiti alla loro interpretazione.
D'altra parte sarebbe davvero il colmo che, di fronte a dei manipolatori dei fatti, quali erano tutti gli stalinisti, ci si comportasse nella stessa identica maniera. Come sarebbe alquanto ingenuo pensare di poter ristabilire la verità dei fatti limitandosi semplicemente a dire il contrario delle falsità staliniste.
Purtroppo la verità è una cosa maledettamente ambigua, che non verrebbe fuori neppure consultando tutti gli archivi del mondo, neppure ascoltando le testimonianze di tutti i diretti protagonisti. E siccome è così, non è affatto detto che chi ha vissuto in prima persona determinati eventi storici sia più vicino alla verità di chi può guardarli solo da lontano.
La questione delle fonti
Nell'esaminare lo stalinismo come fenomeno storico, bisogna anzitutto chiedersi se la questione delle fonti sia di cruciale importanza o secondaria.
Stando al terzo capitolo del libro scritto dai fratelli Medvedev, Stalin sconosciuto (op. cit.) è impossibile venire a capo di qualcosa di veramente utile a una storiografia che pretenda di porsi in maniera sufficientemente obiettiva. La ricostruzione esatta della realtà è un tentativo assolutamente velleitario.
Ancora oggi non si sa, neppure approssimativamente, quante persone abbia eliminato lo stalinismo. Di sicuro tra il 1934 e il 1937 sono scomparsi, secondo i dati ufficiali dell'URSS, circa 6 milioni di persone.1 Ma in oltre un decennio, dal censimento del 1926 a quello del 1937, la cifra può arrivare anche a 8-10 milioni (e le persecuzioni sono andate ben oltre il 1937!).
Quando il censimento fu concluso (gennaio 1937), risultavano non i 170-2 milioni di abitanti che la propaganda prevedeva, ma solo 162 milioni: gli scomparsi erano morti per fame, nei gulag, fucilati, deportati e periti durante il viaggio verso i campi di lavoro nel biennio 1932-33, o anche mai nati a causa del crollo della natalità.
Di fronte a tale catastrofe demografica il governo non trovò di meglio che abolire il censimento! Il motivo fu naturalmente pretestuoso: si disse ch'era inquinato da spie corrotte dalle idee di Trockij e Bukharin. Gran parte degli addetti alla rilevazione statistica furono eliminati.
I dati rilevati nel gennaio 1937 rimasero segreti per 55 anni. Quando fu rifatto il censimento nel 1939, Stalin volle che la popolazione fosse aumentata fino a 170.600.000.
In ogni caso - dicono i fratelli Medvedev - "una parte significativa delle carte di Stalin fu deliberatamente distrutta dai suoi eredi politici, compresi un gran numero di documenti e una considerevole parte del suo archivio personale" (p. 71).
La distruzione dei documenti fu resa necessaria dal fatto che lo staff di Stalin non voleva essere coinvolto nei suoi crimini dopo la sua morte. Erano tutti criminali come lui, anche se in forme e proporzioni diverse, ovviamente. Molti leader avevano spadroneggiato quando lui era in vita, convinti di esser protetti in tutti i modi, ma alla sua morte non volevano finire i loro giorni in galera o fucilati. Si coprivano a vicenda. Molti di questi leader vennero eliminati dallo stesso Stalin quando bisognava scaricare su qualcuno la colpa di taluni fallimenti economici. Oppure venivano eliminati quando sapevano troppe cose. Comunque tra i suoi più stretti collaboratori (che lui non riuscì a eliminare perché morì improvvisamente), l'unico a essere tolto di mezzo subito dopo la sua morte fu Berija: gli altri morirono o di malattia o di vecchiaia.
Tale rimozione delle fonti storiche è forse un classico di tutte le dittature. La si ritrova persino nel cristianesimo primitivo, che codificò il proprio Nuovo Testamento secondo una visione del mondo certamente molto diversa da quella di Gesù Cristo.
Il potere dominante vuole passare alla storia come l'ideologia ufficiale, quella che non incontrò ostacoli alla propria affermazione. Sulla base di questa ideologia i posteri devono essere costretti a leggere i fondamentali eventi storici. Le fonti vanno interpretate così come i redattori le hanno elaborate. Ecco perché possiamo tranquillamente dire che di tutto quanto ci è stato tramandato dalla storia, la gran parte è falso o inventato o mistificato.
Nel caso dello stalinismo, quindi, come di qualunque altra dittatura, bisognerebbe rifarsi alle fonti degli oppositori. Qui però è difficile dar torto a Roj Medvedev quando scrive che né le opere degli storici borghesi, né quelle dell'emigrazione Bianca, né quelle trockiste possono essere considerate "scientifiche". Generalmente infatti sono troppo tendenziose, capziose, inaccurate, distorte (gli aggettivi, nei suoi scritti, si sprecano). L'autore le snobba perché tutte buttano via l'acqua sporca (lo stalinismo) col bambino dentro (il socialismo).
Ciò è senza dubbio molto vero, ma il problema cruciale è un altro, cioè non è tanto quello di ristabilire una verità storica calpestata, quanto piuttosto quello di cercare un'alternativa praticabile al socialismo statale.
Paradossalmente anche se tutti i documenti dello stalinismo fossero stati conservati, ciò non ci aiuterebbe di un'unghia nel soddisfare le condizioni dell'obiettivo politico e sociale che vogliamo perseguire. La verità storica può aiutarci a far luce sui crimini del passato, ma qui dobbiamo guardare al presente, per porre le basi di un futuro a misura d'uomo.
L'inutilità delle fonti storiche
Leggendo il libro di Roj Medvedev, Lo stalinismo, fa un po' ridere chi ancora oggi sostiene (come per es. Domenico Losurdo, morto nel 2018) che il Rapporto segreto di Krusciov fu una falsificazione ai danni dello stalinismo.
Quel Rapporto, in realtà, non solo non fu una falsificazione, ma - come scrive giustamente Medvedev - diede "l'impressione che soltanto Stalin, Ežov e Berija fossero responsabili delle repressioni degli anni '30" (p. 420, o.c.). Quindi, se proprio si vuole parlare di "falsificazione", bisogna specificare che lo fu nel senso che minimizzò la gravità della tragedia.
Infatti, secondo lo storico, non solo furono complici di quel terzetto di criminali i vari Molotov, Kaganovich, Malenkov e Vorošilov, e molti altri stretti collaboratori di Stalin, che spesso prendevano di persona l'iniziativa di epurare dei quadri di partito; ma vi erano addirittura "migliaia di persone" che esercitarono "un potere straordinario durante gli anni del culto" (p. 419).
Quando si legge un libro di oltre 700 pagine, e poi se ne legge un altro di oltre 600 (quello di Volkogonov), e si scopre che nella sostanza dicono le stesse cose, e le dicono in quanto russi, anzi "sovietici" che credono ancora nel socialismo statale, se non ci si convince di ciò che dicono, è solo per un pregiudizio inconscio o per cecità intellettuale. A quel punto è inutile pretendere altre fonti.
Se uno non vuole ammettere l'evidenza delle cose, non basterebbero tutti i libri del mondo per fargli cambiare idea. Sotto questo aspetto è inutile mettersi a discutere. Ci si affida al tribunale della storia, ammesso che la vita su questo pianeta ne possa avere uno.
Medvedev non ha mostrato una fuorviante indulgenza neppure nei confronti di Krusciov, il quale, da giovane, era stato uno stalinista convinto, tanto che suscitò un certo scalpore, da parte degli altri stalinisti più vicini a Stalin, quando avviò la politica di destalinizzazione, una politica per la quale Medvedev, giustamente, gli riconosce "un indiscutibile servizio, che mai verrà dimenticato" (p. 427).
Una storia di 2500 anni
Il cosiddetto "lavaggio dei cervelli" in Europa occidentale vien fatto, praticamente, dal tempo delle civiltà egizia e greca, basate sulla schiavitù fisica (statale la prima, privata la seconda). Doveva servire per mistificare la realtà dei fatti. Diventavano schiavi i popoli che non si sottomettevano a una civiltà "superiore". Il concetto di "barbari" in fondo lo usiamo ancora oggi. Chi non era "barbaro", come per es. i Greci o gli Egizi agli occhi dei Romani, era comunque inferiore in qualcosa che costringeva a vivere in maniera subordinata, come una specie di "colonia".
Non c'è filosofo, nel mondo greco-romano, che lotti politicamente per liberare gli schiavi dalle loro catene sociali o materiali. Al massimo si scrive, a loro favore, qualcosa di etico o, appunto, di filosofico. E stiamo parlando di un periodo piuttosto lungo, che arriva sino alla fine dell'impero romano d'occidente.
Per trovare le prime liberazioni di schiavi si sono dovute attendere le invasioni cosiddette "barbariche", cioè delle tribù nomadiche agricolo-pastorali provenienti dall'Asia, che non praticavano la schiavitù come sistema socioeconomico. Che poi, più che di "liberazione" vera e propria si trattò di una trasformazione sociale dello schiavo in servo della gleba, passando per il colonato, già presente durante la crisi dell'impero romano.
Con la nascita della civiltà borghese (al tempo dei Comuni medievali italiani) il servo fu trasformato in operaio salariato e urbanizzato, giuridicamente libero. Questo è il massimo di libertà che la borghesia può concedere, cioè qualcosa di puramente formale, un contenitore che uno poi cerca di riempire con qualche contenuto, anche diventando ladro, assassino o rivoluzionario.
Per realizzare transizioni del genere, passando da una formazione sociale a un'altra, da un modo di produzione a un altro, l'Europa occidentale, in tutto, ci ha messo 2500 anni. All'interno di questo periodo, circa 400 anni fa, è nato il suo figlio più significativo, gli Stati Uniti, che alla fine della seconda guerra mondiale han preso il posto dell'Europa occidentale nel dominio di quasi l'intero pianeta. Oggi lo scettro sta per passare alla Cina.
In due millenni e mezzo l'Europa occidentale e, a partire dal XVII sec., gli Stati Uniti han generato, con loro individualismo, tanti di quei conflitti bellici che contarli è impossibile. Han trasformato la storia in un mattatoio.
Sul piano giuridico hanno raffinato tantissimo le espressioni a favore della democrazia rappresentativa e del diritto umanitario. Oggi però queste affermazioni risultano essere tanto perfette quanto terribilmente smentite sul piano pratico. L'incoerenza è diventata evidente a tutti, non è più sostenibile. E all'orizzonte non s'intravvede una chiara alternativa. Questo per colpa del socialismo statale, che ha illuso l'umanità di poter scorgere nell'idea di socialismo scientifico un'alternativa praticabile al capitalismo, divenuto oggi sommamente finanziario.
La cosa più stupefacente dello stalinismo è che è riuscito a eliminare in 30 anni tutta quella democrazia rurale che nella Russia asiatica aveva ancora resistito, in qualche modo, all'arroganza del potere zarista. All'interno del proprio Stato lo stalinismo ha fatto in pochissimo tempo un disastro che al potere schiavistico e borghese dell'occidente richiese molti e molti secoli.
In tal senso lo stalinismo può essere letto come l'espressione più avanzata dell'individualismo borghese non in presenza di un capitalismo privato ma di una statalizzazione di tutti i principali mezzi produttivi (cosa che poteva essere fatta abbastanza facilmente in Asia, ove la civiltà borghese era stata imposta dall'esterno, come una forma di colonizzazione europea, non essendo stata un fenomeno autoctono).
Lo stalinismo ha una somiglianza straordinaria con l'ideologia cattolica dello Stato pontificio, dove l'individualismo assoluto di un papa infallibile s'imponeva politicamente su una società sostanzialmente collettiva, quella rurale. Il cattolicesimo romano tradì tutti i princìpi fondamentali dell'ortodossia bizantina, così come lo stalinismo tradì tutti quelli del leninismo. La Russia bolscevica sperimentò in maniera concentrata ciò che alla Chiesa romana capitò in un tempo molto più diluito.
Una somiglianza tra le due ideologie è presente anche nel loro esito finale. Quella cattolico-romana è stata praticamente assorbita, a partire dal Concilio Vaticano II, dall'ideologia protestantico-borghese. Quella stalinista è stata assorbita, a partire dalla fine della perestrojka Gorbacioviana, dall'ideologia borghese, che con El'cin era a favore del capitalismo privato, mentre con Putin è a favore del capitalismo statale (nel senso che gli oligarchi continuano a esistere ma sono controllati dallo Stato).
Oggi bisogna ricostruire tutta l'opposizione alla civiltà borghese, e di sicuro ciò non potrà essere fatto né con l'ideologia religiosa, né con quella laica del capitalismo, sia esso privato o statale. Molto probabilmente la prossima illusione sarà quella proveniente dalla Cina, la cui attuale ideologia potrebbe essere definita con l'espressione "socialismo mercantile", una variante della Nuova Politica Economica ideata da Lenin dopo la fine della guerra civile, e smantellata dallo stalinismo alla fine degli anni '20. Sarà una grande illusione, poiché sul piano teorico il partito comunista cinese impone di credere nel socialismo scientifico (altrimenti nessuna carriera politica o militare è possibile), mentre su quello pratico permette, entro certi limiti, di arricchirsi in maniera borghese.
Anche questa però è una strategia che abbiamo già visto in atto nell'ambito dello Stato della chiesa. Il papato infatti, in epoca umanistico-rinascimentale (ma la concessione andava avanti sin dal tempo dell'istituzione dei Comuni medievali), aveva permesso alla borghesia di svilupparsi autonomamente come meglio credeva, a condizione di non mettere in discussione l'egemonia politica e ideologica dell'istituzione ecclesiastica. Tale compromesso durò sino alla seconda metà del Cinquecento, cioè sino a quando non prevalse il protestantesimo nell'Europa del Nord, cui la Chiesa romana cercò di porre un argine col Concilio di Trento e con l'aiuto militare degli spagnoli colonialisti.
Al socialismo mercantile capiterà la stessa cosa, cioè diventerà sempre più borghese e sempre meno socialista. Ad un certo punto s'imporrà una frattura insanabile tra politica e società, tra istituzioni e popolo.
Insomma l'umanità deve arrivare a sperimentare tutte le forme possibili di democrazia illusoria e di pseudo-socialismo, prima di poter capire che l'unica civiltà autenticamente democratica e socialista è stata quella pre-schiavistica, cioè "primitiva", preistorica (ma sarebbe meglio dire "primordiale"). Dobbiamo tornare a quel tipo di civiltà con un'acuta consapevolezza di tutti gli errori compiuti.
Attenzione quindi quando si parla di "deindustrializzazione". Il vero problema non è quello di come evitare di uscire dalla competizione capitalistica mondiale, ma quello di come uscirne in autonomia, senza essere trasformati in una colonia da parte di qualche potentato nazionale o internazionale.
Erede o traditore?
Bisognerebbe chiarire una volta per tutte perché, su una questione di fondamentale importanza, molte persone di sinistra hanno le idee confuse: o Stalin fu il migliore erede di Lenin, oppure ne fu il peggiore traditore. Tertium non datur.
Se è vero il primo caso, bisognerebbe porre sotto accusa lo stesso Lenin; nel secondo invece non si può dare del "trockista" a chi critica Stalin. Semmai si dovrebbe dire che lo "stalinismo", come concezione di vita, non era una prerogativa del solo Stalin, ma riguardava tutta una serie di persone che, in un modo più o meno autoritario, somigliavano a lui.
Dunque, la vera domanda cui bisognerebbe rispondere è: che cos'è lo stalinismo? Perché questo termine va usato come un plurale maiestatis? Perché va associato alla realizzazione del socialismo statale? E perché questa tipologia di socialismo non ha nulla di democratico?
è quindi evidente che l'intento di questa pubblicazione non è soltanto quello di dimostrare i grandi limiti dello stalinismo (cosa già fatta tantissime volte da altri studiosi e ricercatori), ma anche e soprattutto quello di far capire che il fallimento del socialismo statale non dipende dallo stalinismo in sé, quello nudo e crudo della società sovietica e del suo leader più importante.
Infatti il socialismo statale si sarebbe realizzato anche se al potere fosse andato Trockij: l'intero COMECON fu "stalinista". Qui il vero problema da risolvere è quello di come costruire un socialismo autenticamente democratico, cioè umanistico e naturalistico. Questo perché quello progettato dallo stalinismo non aveva nulla né di umano né di naturale, o comunque, se aveva queste caratteristiche, non dipendevano certo dallo stalinismo.
Ma non è finita qui. Vi è un'altra certezza da smontare, quella di chi, pur ammettendo gli errori e gli orrori dello stalinismo, ritiene che, in definitiva, fossero un male inevitabile (data la novità dell'esperimento sociopolitico), se non addirittura necessario ai fini dell'industrializzazione di un Paese economicamente arretrato come la Russia.
Può venir fuori la verità da una certezza falsa? Qui vengono in mente i papi romani, quando, dopo aver stabilito che la madre di Gesù era nata senza peccato originale, stabilirono che al momento della morte fu direttamente assunta in cielo. Questo per dire che non ci possono essere conseguenze "logiche" dalle menzogne, ma solo "surreali".
Vi è persino chi sostiene che se Stalin può essere accusato, sul piano soggettivo, di comportamenti inqualificabili (ma qui si potrebbe tranquillamente usare il termine "criminali"), merita comunque d'essere assolto di fronte al tribunale della storia, in quanto ha sconfitto il nazifascismo. Una sconfitta - come dice chiaramente Anna Louise Strong nel 1956 - sarebbe stata impossibile senza quella industrializzazione da lui tenacemente voluta: "le sofferenze affrontate per la costruzione del socialismo sotto la guida di Stalin, fossero esse frutto di necessità, crimine o errore, nulla sono a paragone di quelle inflitte dalle potenze occidentali interventiste e dall'invasione hitleriana, e infinitamente minori anche solo delle sofferenze che vennero alla Russia dal ritardo frapposto dall'America all'apertura del promesso ‘secondo fronte" (L'era di Stalin, ed. La città del Sole, Napoli, pp. 37-8).
Del valore di queste certezze noi non siamo minimamente convinti. Non useremmo mai, temendo di fare un torto ai milioni di morti causati dallo stalinismo, un'espressione come "sofferenze infinitamente minori". Anzi riteniamo che i danni provocati dallo stalinismo alla causa del socialismo siano stati particolarmente gravi, non facilmente superabili. Ancora oggi non si ha la minima idea nei Paesi dell'occidente collettivo di cosa significhi l'espressione "socialismo democratico": al massimo ci si riferisce al "capitalismo statale".
La Strong sembra una giornalista che si rifiuta di ammettere l'evidenza. Non a caso sostiene che i meriti dello stalinismo furono infinitamente superiori ai suoi demeriti sia perché è stato creato un modello di socialismo storicamente inedito, sia perché è stata data una speranza a tanti Paesi colonizzati dall'occidente. Semmai - così prosegue - dovrebbe essere la classe operaia dei Paesi occidentali, tecnicamente e politicamente evoluta, a chiedersi come questo successo sia stato possibile in un Paese con una grande maggioranza di contadini "ignoranti e retrogradi" (pp. 38-9).
Terribile questo modo di aggettivare un'intera classe sociale… Ovviamente la Strong, essendo morta nel 1970, non avrebbe mai potuto immaginare che la gigantesca costruzione dello stalinismo, cioè il socialismo statale, sarebbe crollata miseramente, a motivo delle proprie contraddizioni strutturali, senza che l'occidente sparasse neppure un colpo di artiglieria.
In che senso "arretrato"?
Vi sono affermazioni nel libro di Medvedev che bisognerebbe smontare, come certe bamboline russe, ma non è facile farlo.
Prendiamo questa: "Stalin godette dell'appoggio della maggioranza del popolo sovietico non soltanto perché fu abbastanza intelligente per ingannarlo, ma anche perché questo popolo era abbastanza arretrato da poter essere ingannato" (p. 520, o.c.).
Qui la parola da esaminare è una sola: "arretrato". Sta forse dicendo che lo stalinismo è riuscito a imporsi perché la società sovietica era prevalentemente rurale? Cioè lo stalinismo ha potuto eliminare tutta la vecchia guardia leninista, che aveva compiuto la rivoluzione, perché sapeva che la classe contadina non sarebbe stata in grado d'impedirglielo? Quindi lo stalinismo non sarebbe stato altro che la gestione del potere politico da parte di una manica di farabutti senza scrupoli contro una popolazione terribilmente ingenua perché arretrata? Se fosse così, sarebbe troppo semplice per essere vero.
I soldati nazisti non erano affatto degli analfabeti: avevano alle spalle secoli di filosofia e teologia, e leggevano Nietzsche, che non era certamente il filosofo più facile da capire. Se non avessero avuto armi ideologiche con cui combattere la potente socialdemocrazia, non avrebbero mai potuto vincere. Lo stesso si può dire dei fascisti italiani: dovevano combattere contro i partiti socialista, popolare e liberale, che non erano certamente composti da militanti e dirigenti sprovveduti.
Lo sviluppo culturale di un popolo non è garanzia di democraticità. Così come la sua scarsa alfabetizzazione non implica di per sé un'arretratezza politica, cioè una predisposizione a essere ingannati.
Ovviamente più parole si hanno nel proprio lessico, e più è facile ingannare chi ascolta. Ma nel mondo rurale chi ascolta non vive isolato: ha alle spalle una comunità che conosce tradizioni ancestrali, di cui si fida ciecamente. Non può essere ingannato tanto facilmente. Può essere intimorito, minacciato, offeso, vessato in tante maniere. Ma più lo si fa, e più le masse rurali si convincono d'aver ragione.
Per ingannare un contadino privo di cultura ci vuol ben altro, se la sua cultura è data da un'esperienza consolidatasi nel tempo. Ci vuole astuzia, raggiro, false promesse, come solo gli intellettuali sanno fare.
Le rivoluzioni vengono fatte sulla base di idee largamente condivisibili, gestite però da intellettuali che spesso hanno intenzione di realizzarle tutte insieme in poco tempo. La fretta è determinata dal fatto che questi intellettuali sono residenti nelle città, e quindi sono socialmente sradicati, privi di quei riferimenti indispensabili al mondo della natura, che permettono di vivere in maniera equilibrata. Sono intellettuali "illuministici", nel senso che hanno sostituito la cultura sapienziale data da usi e costumi del passato con una cultura enciclopedica e, all'occorrenza, specialistica, tipica della formazione scolastica e universitaria dell'ambiente urbanizzato.
I contadini volevano emanciparsi dalla servaggio e dal capitalismo agrario, ma non volevano farlo trasformandosi in operai, minatori, impiegati esecutivi, militari, ecc. Volevano restare se stessi, senza essere amministrati da un nuovo governo dittatoriale. Gli agricoltori che non accettavano i mirabolanti successi tecnico-scientifici di cui gli intellettuali andavano vantandosi nelle città, non andavano considerati "nemici del popolo" o "sabotatori del progresso".
Lo stalinismo non è stato sconfitto da un'ideologia superiore, poiché questa esisteva già: si chiamava "leninismo". Ma è stato sconfitto da una resistenza popolare, prevalentemente rurale. La destalinizzazione avviata da Krusciov e proseguita da Gorbaciov, mediante cui si voleva una democratizzazione del socialismo, proveniva proprio dagli ambienti rurali. è stata la strenua opposizione a questi ambienti che ha portato la Russia ad abbracciare il capitalismo, prima in forma privata (sotto El'cin), poi in forma statale (sotto Putin).
I peggiori nemici del socialismo democratico la Russia li ha sempre avuti al proprio interno. Anzi, sarebbe ora che si convincesse di questa evidenza, e che la smettesse di assumere quegli atteggiamenti vittimistici di chi si sente circondato da nemici esterni. La Russia non può essere un Paese "conquistabile": per farlo ci vorrebbe il mondo intero. E il mondo dovrebbe smembrarla in tanti piccoli territori, come Penteo dalle Baccanti.
La Russia deve convincersi che i suoi peggiori nemici sono quelli influenzati dallo stile di vita borghese, di provenienza europea. Per questa ragione dovrebbe agire secondo quella massima evangelica, che dice: "Se il tuo occhio è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te" (Mt 18,9).
I classici del marxismo e la Russia
Alla luce del fallimento del cosiddetto "socialismo reale" oggi ci si chiede se non avessero ragione quanti sostenevano che in Russia doveva svilupparsi il sistema capitalistico prima che si potesse pensare a una rivoluzione socialista. Aver voluto fare una rivoluzione socialista in un Paese fondamentalmente agrario sembra essere stato un grave errore.
Marx ed Engels avevano sempre detto che se in Russia si fosse passati dal feudalesimo al socialismo agrario, evitando una transizione capitalistica, il tentativo avrebbe potuto avere successo solo a condizione che in Europa occidentale si fosse, nel contempo, compiuta la rivoluzione socialista, in modo che le due rivoluzioni avrebbero potuto sostenersi a vicenda. Non era importante che partisse prima l'una o l'altra; era importante, per i russi, l'appoggio decisivo del proletariato occidentale, altrimenti i governi borghesi avrebbero affossato il loro tentativo.
Come noto, le cose, almeno sotto il leninismo, andarono diversamente; nel senso che Lenin, quando vide il tradimento della II Internazionale durante la guerra mondiale e l'interventismo straniero in Russia dopo la rivoluzione, non particolarmente ostacolato dal proletariato occidentale, si convinse che la Russia avrebbe dovuto farcela da sola e che semmai sarebbe stata l'Europa occidentale a trovare, in virtù dell'esempio russo, la forza per muoversi autonomamente.
Morto Lenin, Trockij pensò che se la rivoluzione non fosse stata esportata in Europa, essa col tempo avrebbe avuto il fiato corto, proprio perché la Russia era troppo "contadina" per competere coi Paesi europei. Stalin invece era del parere che, utilizzando la tecnologia occidentale e imponendo la statalizzazione forzata di qualunque strumento produttivo, si poteva costruire il socialismo anche in un solo Paese. Vinse la sua linea e il prezzo che la Russia pagò fu enorme, sotto qualunque punto di vista. Questo naturalmente non per dire che se avesse vinto il trockismo il prezzo sarebbe stato minore.
Quanto alle idee di Marx ed Engels, esse furono totalmente smentite dallo sviluppo del capitalismo occidentale, proprio in quanto la sinistra non comprese che un eccessivo sviluppo di questo sistema economico non avvicina ma allontana il momento della rivoluzione politica, tanto che oggi una transizione al socialismo non è all'ordine del giorno di alcun partito parlamentare occidentale. Il massimo che i partiti di sinistra arrivano a prospettare è un "miglioramento" del sistema attuale, un'attenuazione delle sue contraddizioni attraverso lo strumento dello Stato sociale.
Il fatto che nell'Europa dell'est si fosse formata e sviluppata un'esperienza di "socialismo reale", per quanto dittatoriale sia stata sotto lo stalinismo e sotto la stagnazione post-staliniana, non ha mai costituito un incentivo, in Europa occidentale, a ripetere il medesimo esperimento. Semplicemente l'Europa si è lasciata condizionare dal fatto che lo sfruttamento del Terzo Mondo (oggi chiamato Sud Globale) le permetteva un tenore di vita relativamente elevato, tale per cui si era in grado di attutire parecchio l'acutezza degli antagonismi sociali e quindi la percezione che se ne poteva avere.
Ora, qual è stato l'errore di fondo dei classici del marxismo che ha indotto a fare previsioni del tutto sbagliate? L'errore di fondo sta nel fatto che Marx, Engels e Lenin (ma anche Trockij e Stalin) non ritenevano i contadini sufficientemente maturi per fare una rivoluzione socialista. I comunisti non avevano alcun rapporto coi contadini, non solo perché questi erano credenti, ma anche perché non erano urbanizzati. Anzi, il fatto stesso che i contadini fossero convinti di vivere una sorta di "socialismo agrario", attraverso l'obscina, il mir e l'artel, non li avvicinava affatto - secondo i marxisti - al socialismo scientifico, ma, al contrario, li allontanava.
La polemica di Marx contro Bakunin, di Engels contro Tkacev e di Lenin contro i populisti lo dimostra eloquentemente. Marx cominciò a nutrire qualche ripensamento solo alla fine della sua vita, quando intrattenne una corrispondenza con Vera Zasulich, e Lenin adottò, per realizzare la rivoluzione, il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, che loro stessi non riuscivano a realizzare essendosi compromessi con le forze borghesi.
Tutti i classici del marxismo han sempre ritenuto indispensabile uno sviluppo della borghesia, non foss'altro che per una ragione: con esso le differenze di classe sarebbero state ridotte al minimo (borghesia e proletariato), sicché l'esigenza di una trasformazione radicale del sistema sarebbe stata inevitabilmente più forte. Volevano l'acuirsi delle contraddizioni perché consideravano questo una premessa indispensabile alla transizione.2
Anche Lenin ne era convinto, con la differenza, rispetto agli altri marxisti (per es. Plechanov), che lo sviluppo economico in Russia andava per lui considerato sufficiente per compiere la rivoluzione, nel senso che bastava avere a che fare con un proletariato industriale presente nelle grandi città, in grado di guidare la rivoluzione in tutto il Paese. Naturalmente all'interno della categoria di "proletariato" si mettevano gli stessi intellettuali, che avrebbero dato alla classe operaia la vera coscienza rivoluzionaria, altrimenti questa sarebbe rimasta ferma a una coscienza sindacale. E non disdegnava d'includere in quella categoria i braccianti agricoli, ch'erano totalmente privi di proprietà.
I fatti, in un certo senso, diedero ragione a Lenin, ma solo perché egli riuscì a capire che se non avesse cercato il consenso dei contadini, promettendo la proprietà della terra senza alcuna forma di riscatto o di indennizzo, la rivoluzione sarebbe fallita subito. Lenin era una persona intelligente, flessibile. Non apprezzava i coltivatori diretti perché li equiparava alla piccola-borghesia, ma con la NEP venne incontro alle loro esigenze, anche perché erano stati i contadini che, durante il periodo del comunismo di guerra, avevano permesso al governo sovietico di resistere alla controrivoluzione bianca e straniera.
Ma come si sarebbe comportato Lenin se non fosse morto nel 1924? Certamente non avrebbe avuto nei confronti dei contadini l'odio che ebbe Stalin, e che avrebbe avuto anche Trockij, se avesse vinto la partita contro il suo principale rivale. Il terrore staliniano fu così duro che se in Russia non ci fosse stata l'invasione nazista, la rivoluzione sarebbe caduta prima.
Praticamente è stato proprio lo stalinismo a determinare la fine dell'idea di socialismo democratico. Anzi, indirettamente ha favorito la ripresa di quel capitalismo che era stato interrotto dai bolscevichi. E questo proprio perché dalla morte di Stalin all'ascesa di Gorbaciov la Russia ha vissuto complessivamente 30 anni di stagnazione, che sono parsi ai comunisti di tutto il mondo non così gravi, in quanto si riteneva che, in ogni caso, l'URSS rappresentasse il baluardo più forte contro i tre poli dell'imperialismo mondiale (Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone), contro la guerra fredda e la minaccia nucleare e contro il neocolonialismo occidentale nel Terzo Mondo.
Dall'esterno non si riusciva a percepire l'effettiva gravità di quella stagnazione. L'implosione del 1991 apparve del tutto inaspettata. Eppure, strumentalizzando le riforme di Gorbaciov per eliminare qualunque forma di socialismo, il crollo, ad un certo punto, fu del tutto inevitabile. L'occidente non solo non comprese la natura democratica di quelle riforme, ma iniziò a illudersi che la propria democrazia avrebbe definitivamente smesso di credere che, per realizzarsi in maniera adeguata, avesse bisogno delle idee del socialismo.
Le idee di Marx
Bisogna ammettere che nel Capitale Marx parlò soltanto di proprietà sociale dei mezzi produttivi. Non arrivò mai a dire che tale proprietà doveva essere gestita dallo Stato. Lo Stato aristocratico-borghese l'aveva ampiamente criticato quand'era filosofo, e quello proletario l'aveva scoperto al tempo della Comune di Parigi, ma senza introdurlo in nessuna edizione del Capitale.
Nel complesso bisogna dire che Marx ha dato sempre un giudizio piuttosto negativo dello Stato. Semmai era Engels a sostenere una funzione positiva, seppur provvisoria, di questo ente.
Nell'analisi di Marx lo Stato poteva servire, al massimo, per difendere la rivoluzione proletaria contro l'eventuale reazione borghese; ma, una volta ottenuta una sicura e definitiva vittoria, lo Stato poteva anche essere progressivamente smantellato. Bakunin, contro cui Marx litigò parecchio nella I Internazionale, sosteneva invece che l'eliminazione dello Stato era una precondizione della riuscita della rivoluzione proletaria. Il che però favoriva l'idea che anzitutto si dovesse compiere un colpo di stato, che è cosa ben diversa dalla rivoluzione popolare.
Marx era molto insofferente alla burocrazia e al militarismo. Non si è quasi mai interessato neppure alle dinamiche parlamentari. Temeva inoltre che, accettando l'idea di "Stato sociale", il proletariato finisse col pagare i servizi pubblici alla borghesia. Ha sempre rifiutato nettamente la concezione hegeliana di "Stato etico" o di "Stato assoluto". Per lui la piramide andava rovesciata: la società civile doveva essere nettamente superiore allo Stato politico.
I limiti della sua analisi non andavano tanto cercati nella politologia (in questo Lenin gli sarà infinitamente superiore), quanto semmai nel fatto che non metteva in discussione l'idea di dover industrializzare l'intera società, né vedeva in questa idea un pericolo molto serio per la tutela dell'ambiente naturale. Ci vorrà un secolo prima che socialismo e ambientalismo comincino a marciare sullo stesso binario.3
In tal senso è assurdo sostenere che il socialismo statale sia stato una diretta conseguenza dell'analisi marxiana del capitalismo. Sarebbe un errore molto grave far coincidere "sociale" con "statale", anche perché gli Stati capitalisti vivono una democrazia del tutto fittizia, e con questa ipocrisia influenzano pesantemente la società civile.
Quando la società si ribella al proprio Stato, vuol dire che le contraddizioni sociali sono diventate esplosive, e lo Stato non è più in grado di svolgere nemmeno una parvenza di equidistanza dagli interessi delle classi, cioè non è in grado di mediare gli antagonismi neppure in maniera minima. Quando la società si oppone al proprio Stato, vuol dire che si è in presenza di rischi destabilizzanti: colpi di stato, guerre civili, rivoluzioni popolari, insurrezioni nazionali, secessioni di determinate etnie, regioni, nazionalità…
Se la società civile, pur in presenza di macroscopiche contraddizioni, non si ribella, vuol dire che la corruzione, proveniente prima dal potere economico-finanziario, poi da quello politico-statuale, è arrivata in profondità ed estensione. Cioè la popolazione si è progressivamente abituata a un trend negativo e tende a riprodurlo al proprio interno: lo si vede dal fatto che il livello di moralità si abbassa vistosamente, la criminalità aumenta di continuo e gli Stati cercano di attenuare la tensione dovuta ai loro problemi interni dichiarando guerra ad altri Stati, in forma commerciale o militare, oppure prendendo di mira fasce particolari della propria popolazione (per es. nel passato gli ebrei, oggi gli immigrati, che sono per lo più islamici).
Queste son tutte cose che si ripetono costantemente, sin da quando si sono formate le prime società schiavistiche. Di diverso c'è il fatto che oggi le questioni finanziarie possono avere un peso maggiore di quelle economico-produttive.
Il ruolo di Lenin
Se i contadini fossero stati una massa ignorante, incapace di prendere qualunque decisione autonoma, soggetta a tutti i possibili condizionamenti del clero, non avrebbero appoggiato Lenin nel fare la rivoluzione. Evidentemente si erano stancati delle promesse a vuoto dei socialisti-rivoluzionari (ex populisti), che con Kerenskij erano andati al governo.
Lenin non aveva bisogno dei contadini per rovesciare a San Pietroburgo il governo di Kerenskij, né per occupare i gangli vitali dell'intera città. Ma ne aveva assolutamente bisogno per fronteggiare l'eventuale guerra civile o l'intervento armato straniero, per non parlare della gestione dell'immenso Paese verso un'inedita transizione socialista. I contadini si fidavano di lui, e lui ricambiò la fiducia, ponendo fine alla guerra e distribuendo a loro la terra dei grandi latifondisti. Poi inaugurò la Nuova Politica Economica dopo gli anni terribili del comunismo di guerra.
Tuttavia se Lenin fosse vissuto un altro decennio (cosa possibilissima se i tanti dibattiti politici non l'avessero sfiancato e se non avesse rischiato di morire sotto i colpi della terrorista Kaplan), il problema di che tipo di socialismo realizzare si sarebbe imposto con non meno urgenza di quella che si ebbe sotto lo stalinismo.
Lenin aveva già individuato i limiti del socialismo statale: burocratismo elefantiaco, decisioni imposte dall'alto, formazione di un partito-stato, ruolo marginale dei soviet, rivalità tra etnie e nazionalità e tra centro e periferia dello Stato, netta prevalenza dell'elemento operaio su quello contadino (generalmente considerato, quest'ultimo, come "piccolo-borghese", salvo gli elementi più poveri e privi di qualunque proprietà).
Se Stalin non fosse stato rimosso dalla sua carica, lo scontro con Lenin sarebbe stato durissimo. Stalin infatti fruiva dell'appoggio degli elementi meno "bolscevichi" all'interno del partito (per es. Kamenev, Zinov'ev ecc.). La Krupskaja una volta ebbe a dire che Lenin rischiava d'essere ammazzato dai suoi stessi compagni di partito.
Di fronte al dilagare dello stalinismo, probabilmente Lenin si sarebbe dimesso dal partito. Cioè si sarebbe facilmente reso conto d'aver creato, come il dottor Frankenstein, un mostro sfuggitogli di mano. In pratica si sarebbe comportato, più o meno, come fecero Krusciov e Gorbaciov, i quali, ad un certo punto, avevano capito ch'era impossibile democratizzare il partito senza uscire dai binari del socialismo.
Soprattutto un'idea stalinista Lenin non avrebbe mai potuto condividere, quella secondo cui quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più si acuisce la lotta di classe e quindi la necessità di rafforzare lo Stato. Il libro Stato e rivoluzione non aveva potuto concluderlo in quanto riteneva, ovviamente, più utile organizzare la rivolta armata contro il governo. Tuttavia su una cosa in quel libro era stato molto chiaro: lo Stato doveva progressivamente estinguersi, così come avevano sempre detto Marx ed Engels.
è difficile quindi dire se Lenin avrebbe accettato d'essere messo in minoranza, o se avrebbe scelto di andarsene di nuovo in esilio. Di sicuro non era il tipo che si faceva mettere i piedi sulla testa, e di sicuro sapeva guardare le cose con maggior senso realistico di tutti gli altri compagni di lotta.
*
Nel suo Lo stalinismo scrive Roj Medvedev, prendendo la frase da un testo di Trockij: "Lo spontaneo entusiasmo di Lenin per la gente spesso poteva indurlo in errore" (p. 400). Lo dice in riferimento al modo in cui Stalin e Malinovskij si erano comportati negli anni 1912-14.4
Questa frase non ha senso. Infatti Lenin poteva anche essersi sbagliato ad aver fiducia in Malinovskij, ma questo non significa che, in un quel momento, Malinovskij non meritasse d'aver fiducia, e neppure che non fosse oggettivamente utile alla causa rivoluzionaria, nonostante la sua collusione con lo zarismo.
In quello stesso periodo Lenin manifestava fiducia anche nei confronti di Stalin, di cui apprezzava il saggio La questione nazionale e la socialdemocrazia (pubblicato nei numeri 3-5 della rivista "L'istruzione", nel 1913).5 Uno non può impedire a un altro, col sospetto che possa essere un traditore o, peggio, che possa diventarlo, di manifestare idee o comportamenti a favore della rivoluzione.
è solo nei vangeli che, ogniqualvolta Giuda fa qualcosa, si anticipa che avrebbe tradito Gesù, e che quindi tutto ciò che diceva o faceva andava guardato con sospetto, mentre si legge il vangelo. Un modo di ragionare, questo, assolutamente infantile, che fa apparire Gesù un irrimediabile ingenuo, oppure un folle che considerava la propria morte, causata appunto da un traditore, alla stregua di uno strumento salvifico per l'umanità.
Il Testamento politico di Lenin
Dall'ottobre 1923 al gennaio 1924 si svolse in URSS una dura lotta politica in seno al partito comunista sovietico, che vedrà nel 1927 l'espulsione di Trockij dagli organi dirigenti e dalle stesse fila del partito. A questa lotta non poté direttamente partecipare Lenin, che per motivi di salute si era ritirato dalla vita politica sin dal giugno 1922.
Lenin tuttavia aveva individuato nei rapporti tra Stalin e Trockij il problema fondamentale della stabilità politica del Comitato Centrale del partito e, a tale scopo, aveva dato alcune indicazioni di massima nel suo Testamento politico del 4 gennaio 1923:
- esonerare Stalin dall'incarico di segretario politico, in quanto ritenuto troppo intollerante, e la cui direzione dell'attività dell'Ispezione Operaia e Contadina era già stata severamente criticata da Lenin nell'articolo Meglio meno ma meglio;
- evitare di assegnare a Trockij compiti di rilevanza politica, essendo noto il suo "non bolscevismo" (egli era presidente del Consiglio Militare Rivoluzionario e Commissario del Popolo alla Guerra, a motivo del grande contributo dato nell'organizzazione dell'Armata Rossa. Si cercò di ridimensionare di molto la sua autorità in tali organismi militari affiancandogli altri membri del partito, tra cui lo stesso Stalin, ma alla nomina di quest'ultimo Trockij si oppose sempre tenacemente, al punto che Stalin aveva dovuto rinunciarvi; anzi egli pretendeva maggiori poteri anche alla direzione del Gosplan [organo per la politica economica del Paese], che però non gli vennero concessi, sicché le maggiori questioni economiche venivano di fatto gestite dal Politburo);
- ampliare notevolmente il numero dei componenti del C.C..
Nessuno però ebbe il coraggio di estromettere Stalin dall'incarico di segretario generale, anche perché la sua efficienza organizzativa era evidente a tutti. Non a caso nel corso del XII Congresso (il primo senza Lenin) dell'aprile 1923, tutte le risoluzioni furono votate all'unanimità.
Senonché, proprio in occasione di quel Congresso si manifestarono per la prima volta alcuni attacchi di gruppi di opposizione contro i poteri dell'apparato di partito.
Stalin non agiva per conto proprio, ma con l'aiuto di Zinov'ev (presidente del Comintern e del Comitato Esecutivo di Pietrogrado) e di Kamenev (vice-presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo e presidente del Comitato Esecutivo di Mosca), intenzionati a impedire a Trockij la scalata agli organi dirigenziali del partito; e anche con l'appoggio di Džeržinsky, presidente dell'Amministrazione Politica di Stato (GPU) e della Commissione Centrale di Controllo.
Stalin aveva un potere enorme perché faceva parte non solo (come gli altri già citati) del Politburo, ma anche dell'Orgburo e della Segreteria politica, con cui poteva controllare le nomine e trasferire, nella rete nazionale, il personale dirigente in funzione delle decisioni politiche del Politburo, e organizzare le conferenze e i congressi del partito. Con l'accordo di Kamenev e Zinov'ev, egli riuscì persino a convincere il Politburo a non rendere pubblico il Testamento di Lenin (come noto, parte degli scritti dell'ultimo Lenin furono pubblicati solo dopo il XX Congresso del 1956).
Al XII Congresso, invece di diminuire il potere di Stalin, si preferì aumentarlo considerevolmente. Il che preoccupò lo stesso Zinov'ev, che cercò di far sottomettere, ma invano, la Segreteria al Politburo.
Ora, se uno legge bene il suddetto Testamento, si rende facilmente conto che, secondo Lenin, nessuno sarebbe stato in grado di sostituirlo, in quanto tutti i suoi compagni più o meno stretti venivano descritti con difetti piuttosto vistosi, per non dire gravi: chi sul piano ideologico, chi su quello politico, chi a livello caratteriale. A questo punto vien da chiedersi cosa ci facessero questi militanti nel partito che Lenin aveva fondato: lui che era così lungimirante su tutto, non aveva saputo scegliere i suoi compagni di viaggio?
Ma vien da pensare anche un'altra cosa, e cioè che, per realizzare la rivoluzione, Lenin, più che le singole persone, tenesse in massima considerazione le masse popolari. Il partito, nella sua visione politica della realtà, doveva porsi soltanto come strumento nelle mani di un popolo oppresso che avrebbe dovuto abbattere il governo in carica e cambiare sistema di vita, modo di produzione.
Tuttavia, a rivoluzione avvenuta, qualcosa non funzionò: il popolo non riuscì ad autogovernarsi. Soprattutto dopo la morte di Lenin il ruolo del partito crebbe in maniera abnorme, al punto che diventò un partito-stato. Inevitabilmente il popolo che aveva fatto la rivoluzione si sentì tradito.
Lo stalinismo, per tenersi in piedi in maniera autoritaria, si creò una nuova base di consenso, estranea alla generazione che aveva compiuto la rivoluzione. Era il consenso di persone giovani, ingenue, emarginate, che si fidavano ciecamente dei leader politici.
Il rapporto partito/masse si rovesciò. Ora erano le masse uno strumento del partito. Stalin vinse perché, tra tutti i leader al seguito di Lenin, era il più astuto, il più spregiudicato di tutti, il più capace a camuffare il proprio cinismo, la propria sete di potere.
Insomma, la conclusione di questa tragedia fa porre una domanda inquietante: è forse stato Lenin che, non avendo saputo dare al popolo gli strumenti idonei per autogestirsi, ha involontariamente o indirettamente permesso di credere che lo stalinismo s'imponesse come la soluzione più inevitabile alla sua successione politica? Oppure dobbiamo dire che la grandezza di Lenin è così superlativa che neppure la peggiore dittatura della storia, quella stalinista, è stata in grado di scalfirla minimamente?
Leninismo e stalinismo
Ilya Ehrenburg arrivò a sostenere che lo stalinismo colpì le persone non l'idea di socialismo.
Roj Medvedev contesta una tesi del genere, soprattutto perché lo stalinismo venne sfruttato in occidente per dimostrare che il capitalismo è migliore di qualunque forma di socialismo. Giusta osservazione. Dopodiché però circoscrive il colpo stalinista inferto al socialismo nel perimetro del culto della personalità, e precisa che l'effetto più vistoso e disastroso di tale culto fu "la paura di dire la verità" (p. 9, o.c.).
In pratica alla ingenuità di Ehrenburg, per il quale, tra l'altro, tutti erano convinti che Stalin non sapesse nulla delle orribili purghe degli anni '30, Medvedev risponde con un'altra ingenuità, cioè con l'illusione di credere che un torto subìto ingiustamente da un sistema politico (ma sarebbe meglio dire "poliziesco") in cui si è creduto profondamente, non comporti una revisione totale della propria filosofia di vita. Infatti lui, mentre scriveva il suo Stalinismo, continuava a credere nel socialismo statale.
Per recuperare il valore delle idee socialiste, la storia ha dimostrato che non è stata sufficiente la critica del culto della personalità. In Russia ci vorranno non poche generazioni prima che si ritorni a parlare di socialismo.
Ma c'è di peggio. Se guardiamo chi oggi sostiene in Russia le idee del socialismo, notiamo facilmente che, purtroppo, le vorrebbe veder applicate in una maniera conforme al passato socialismo statale (o "reale", come con supponenza si diceva).
Questo per dire che se anche oggi si ripresentassero sulla scena le esigenze delle classi povere, emarginate, favorevoli al ripristino di un qualche modello socialista, non è detto che queste classi avrebbero una tale perspicacia da scongiurare un ritorno al passato. A tale scopo infatti occorre una particolare intelligenza delle cose, che è di natura soggettiva, e che non si trova facilmente dietro l'angolo.
Lo stalinismo non ha salvato nulla del leninismo, anzi l'ha reso completamente impraticabile, al punto che ha posto un'ipoteca pesantissima sul futuro del socialismo democratico. Ha potuto farlo proprio perché il leninismo, come metodo di lavoro politico, non aveva ancora posto solide basi in Russia. Lo ha distrutto così tanto che se anche si considerano estranei al leninismo i difetti tipici dello stalinismo, in soldoni, sul piano della visione politica del socialismo (quella dominante), si resta sempre prigionieri della variante statalistica. E sulla base di questa variante, anche se nessuno si sognerebbe di dire che sul piano sovrastrutturale (quello del diritto, della psicologia, del comportamento…) lo stalinismo fu un prodotto inevitabile del leninismo, sul piano invece più oggettivo, quello strutturale o sistemico, la coincidenza resta, tant'è che oggi qualunque critica allo stalinismo coinvolge anche il leninismo.
In sostanza non si è stati capaci di approfondire in maniera leninista le idee del socialismo in direzione di un modello economico non statalizzato.
Questo ci porta a pensare che una qualunque proposta di recuperare le idee del socialismo potrà venir fuori solo da quei Paesi che: 1) non hanno vissuto praticamente lo stalinismo; 2) hanno conosciuto il leninismo solo sul piano teorico; 3) potranno attingere a tradizioni socialiste anteriori allo stesso leninismo. Saranno queste tradizioni che faranno capire alle popolazioni di quei Paesi come realizzare un socialismo davvero democratico.
Militare in un partito
Un partito politico è sempre un mezzo per ottenere qualcosa, come lo è un sindacato o un'associazione culturale o altro. Tuttavia una cosa è fare il militante per realizzare una giustizia sociale, una rivolta o una rivoluzione popolare. Un'altra è cercare di realizzare un obiettivo per se stessi, per la propria emancipazione o carriera.
Un vero idealista non esce dal partito quando le prospettive di una rivoluzione sono ridotte al minimo. Semmai se ne va quando la maggioranza dei dirigenti smette di lottare per una rivoluzione e si accontenta di semplici riforme.
Una delle cose più singolari che spiega la diversità tra Lenin e Stalin era relativa ai momenti di crisi del partito. Lenin ne approfittava per migliorare tattica e strategia, poiché si rendeva conto che la coerenza in sé non è sempre una virtù, e che bisogna essere aderenti a una realtà in continuo movimento.
Viceversa Stalin, invece di migliorarsi, peggiorava la situazione, scaricando su altri le responsabilità dei suoi fallimenti nella gestione economica del Paese. Soggetti del genere, così psicologicamente insicuri, possono combinare guai seri se dispongono di potere politico. Per loro è una forzatura insopportabile dover subire le critiche altrui, per cui, quanto l'occasione sarà propizia, inevitabilmente si vendicheranno. Le epurazioni non possono non aver avuto anche un lato psicologico.
Dal capitalismo statale al socialismo
Poco prima che Lenin venisse colpito da un ictus, Arthur Ransome (1884-1967), giornalista del "Manchester Guardian", volle intervistarlo. Ransome aveva sposato la segretaria personale di Trockij e forse per questo i servizi segreti britannici non smisero mai di sospettare che fosse una spia sovietica.
Nell'intervista tutte le sue domande erano incentrate su un unico argomento un po' subdolo: "voi comunisti avete dato possibilità di arricchirsi con la NEP, ma così facendo come farete a tenere in piedi i vostri ideali?".
Si riferiva alla figura del cosiddetto "nepman", cioè colui che, approfittando della Nuova Politica Economica, inaugurata da Lenin, si sentiva libero di commerciare come e quando gli pareva, seppur entro determinati limiti. Una situazione molto simile a quella che si sta verificando oggi nel socialismo mercantile della Cina.
Lenin, naturalmente, era troppo furbo per cadere nel tranello del giornalista, e così gli rispose:
1- la piccola borghesia (in particolare gli agricoltori, che a quel tempo erano l'80% dei lavoratori) non costituisce una minaccia per lo Stato, perché, pur potendo acquistare o vendere beni di consumo, tutta la terra appartiene allo Stato, che la dà in usufrutto alle aziende cooperative che la vogliono lavorare e che non sfruttano il lavoro altrui [da notare che tali aziende venivano aiutate anche con macchinari, sementi ecc.];
2- la NEP ha sostituito le requisizioni forzate del periodo della guerra civile (comunismo di guerra) con un'imposta in natura (generalmente grano); versata l'imposta, è possibile vendere sul mercato libero le proprie eccedenze;
3- il grosso della produzione, quella industriale, è suddivisa tra appaltatori privati [proprietà statale ma gestione da parte di un affittuario privato] e funzionari statali veri e propri;
4- la Russia può arrivare al socialismo anche attraverso il capitalismo statale, visto che lo Stato è in mano alla classe operaia [naturalmente in quel periodo esistevano anche i ricchi agrari, i piccoli industriali e i commercianti privati che impiegavano lavoro salariato];
5- tutto il commercio estero è in mano allo Stato (così come le finanze e i trasporti), per cui il nepman non può interferire sui prezzi, i quali vengono basati prevalentemente sul grano, una parte del quale si trova nelle mani dello Stato in forma d'imposta.
In sostanza Lenin era favorevole a un'economia mista, in cui il calcolo economico avesse la sua importanza. Non si nascondeva il rischio che, a forza di arricchirsi, i produttori potessero un giorno dire basta al socialismo. Tuttavia, per scongiurare tale evenienza, doveva essere - secondo lui - il socialismo a dimostrare ch'era più efficiente o conveniente del capitalismo privato.
Stalin invece non amava i rischi e non volle sapere di questa economia mista, preferendo nettamente un socialismo completamente statalizzato. Naturalmente nella Russia attuale, ove domina il capitalismo statale, non si parla per nulla di socialismo, in quanto lo Stato non appartiene alla classe operaia.
Leninismo e trockismo
Se uno si mette a leggere le opere fondamentali di Lenin, cosa trova di assolutamente originale in quelle di Trockij? Nulla. è come mettersi a leggere le opere di Giuseppe Flavio dopo aver letto quelle dei quattro vangeli canonici. Sicuramente i testi flaviani sono stati manomessi dai cristiani, ma, comunque sia, essi aiutano assai poco a capire le falsificazioni dei vangeli, e tanto meno a ricostruire in maniera realistica l'esperienza rivoluzionaria del movimento nazareno.
Dunque bisogna ammettere che Lenin era un genio, più unico che raro, forse il più grande politico di tutti i tempi. Trockij era soltanto un piccolo borghese di idee socialiste col dono della scrittura (come spesso capita agli intellettuali di origine ebraica).
Il suo contributo alla formazione dell'Armata Rossa nella guerra civile e contro l'interventismo straniero fu certamente fondamentale, ma noi non sappiamo se qualcuno al suo posto (scelto da Lenin) non avrebbe potuto fare la stessa cosa o anche meglio. A tutti infatti era noto che Trockij usava le maniere forti e che non piaceva per nulla ai contadini. Peraltro non riuscì a impedire che venisse sterminata l'intera famiglia dei Romanov.
Ancora oggi esistono molti gruppi di intellettuali che si rifanno al trockismo, ma sono "partiti di giornale": non hanno un seguito popolare. Il loro rivoluzionarismo è molto astratto, schematico, ideologico, strettamente legato alla teoria spontaneistica e velleitaria della "rivoluzione permanente", una teoria che non tiene mai conto delle reali forze in campo.
Quando gli analisti occidentali sostengono che fu Trockij il vero organizzatore della rivoluzione d'Ottobre, lo fanno solo perché il trockismo fu un nemico irriducibile dello stalinismo (peraltro fino a un certo punto), e poi perché amano far credere che lo stalinismo fu una diretta conseguenza del leninismo. Queste in realtà son tutte falsificazioni, come quella che insiste nel non vedere tra Lenin e Trockij delle divergenze di fondo.
Dovrebbero far pace col loro cervello, poiché se tra i due le differenze fossero state minime, allora lo stalinismo sarebbe una conseguenza anche del trockismo. Il bello è che in buona parte lo fu per davvero, almeno nell'uso dei metodi autoritari o amministrativi, e soprattutto nell'idea di far pagare ai contadini lo sviluppo industriale della Russia (ciò che Lenin non avrebbe mai ammesso).
Detto questo, vediamo le cose con più calma.
Lenin era più anziano di Trockij di circa 9 anni e lo conobbe a Londra nel 1902, quando Trockij aveva poco più di 20 anni, ed era appena fuggito dall'esilio siberiano, impostogli dallo zarismo. Il loro rapporto fu sempre incredibilmente complesso, caratterizzato da continue rotture e riconciliazioni.
Quando gli permise di entrare nel comitato redazionale dell'"Iskra", il giornale passò dal bolscevismo al menscevismo. Al II Congresso del Posdr (così si chiamò il Pcus dal 1898 al 1917) Trockij sembrava inizialmente favorevole a Lenin contro le pretese separatiste del Bund (unione ebraico-operaia, di tendenza menscevica, operante in Polonia, Lituania e Russia). Ma al momento dell'esame del programma e degli statuti del partito, passò dalla parte dei menscevichi, il cui leader era Martov. Ciò su cui non concordava erano le idee di Lenin relative all'organizzazione interna del partito (soprattutto la necessità di rispettare la disciplina e di partecipare attivamente a una delle sue organizzazioni).
Fino al 1917 Trockij rimase svincolato da veri e propri legami partitici. Questa tendenza a mutare bruscamente princìpi e convinzioni, soprattutto ad abbandonare la lotta rivoluzionaria per ottenere vantaggi politici immediati, costituiva uno dei suoi tratti principali, che Lenin meno sopportava. Infatti, dopo il II Congresso i due si separarono per alcuni anni.
Durante la rivoluzione democratico-borghese del 1905-7 Trockij era già conosciuto in tutta la Russia. Gestiva il soviet dei deputati operai di Pietroburgo, appena fondato. Per 52 giorni il soviet organizzò le masse popolari contro il governo, ma alla fine dovette cedere. Trockij venne di nuovo condannato all'esilio siberiano, ma riuscì ancora a fuggire, riparando a Londra, dove nel 1907 poté assistere al V Congresso del Posdr in qualità di socialdemocratico indipendente.
Fu proprio nel corso della prima rivoluzione russa che Trockij formulò la sua teoria della "rivoluzione permanente", riprendendo i concetti fondamentali elaborati da A. Parvus, un socialdemocratico tedesco originario della Russia. "Parvus ed io - scrisse Trockij - abbiamo difeso in "Nachalo" [giornale da loro edito nel 1905] l'idea che la rivoluzione russa sia il prologo di un'epoca socialrivoluzionaria nello sviluppo dell'Europa; che la rivoluzione russa non possa essere condotta a buon fine né attraverso l'alleanza del proletariato con la borghesia liberale, né attraverso l'alleanza del proletariato con i contadini rivoluzionari; che la rivoluzione non può trionfare se non come parte della rivoluzione del proletariato europeo" (sottinteso: industriale). In pratica il fallimento dell'esperienza del 1905 lo aveva portato a dubitare delle capacità sovversive del proletariato russo.
Lenin criticò la teoria della "rivoluzione permanente", dicendo ch'essa desumeva dai bolscevichi l'appello al proletariato per una risoluta lotta rivoluzionaria e la conquista del potere politico, mentre desumeva dai menscevichi la "negazione" del ruolo eversivo della classe contadina. Una teoria dunque rivoluzionaria solo in apparenza. Lo dimostra anche il fatto che nel 1912, alla Conferenza di Praga del Posdr, appoggiò i cosiddetti "liquidatori", cioè coloro che chiedevano la trasformazione del partito da rivoluzionario a riformista.
Quando scoppiò la prima guerra mondiale, Trockij fondò a Parigi, con il menscevico Martov (leader dell'ala sinistra del menscevismo), il giornale "Nashe Slovo", in cui attaccava i bolscevichi definendoli "scissionisti" e lanciava appelli per la realizzazione dell'unità coi "difensivisti", favorevoli a una guerra difensiva della Russia zarista contro la Germania. I bolscevichi invece erano contro la guerra e comunque speravano in una sconfitta dello zarismo, ovvero che la guerra imperialista si trasformasse in guerra civile.
Nel 1916 Trockij si recò negli USA per partecipare alla redazione della rivista socialdemocratica "Novy Mir", atteggiandosi a uomo di sinistra e aiutando di fatto la destra.
Dopo la rivoluzione del febbraio 1917, che rovesciò lo zarismo, Trockij ritornò a Pietroburgo nel maggio successivo, giocando un ruolo centrista fra bolscevichi e menscevichi, ma quanto più le masse si spostavano a sinistra, tanto più si mostrava disposto a seguirle. Probabilmente aveva capito che in Russia non vi era una forza politica più combattiva di quella bolscevica. Sicché il Posdr, nell'agosto dello stesso anno, decise di cooptarlo nel C.C. in vista dell'insurrezione armata.
Lenin non l'aveva mai particolarmente stimato. Scriveva a Inessa Armand: "è sempre uguale a se stesso: cavilla, truffa, posa come un sinistrorso, ma, fintanto che è possibile, aiuta i destrorsi". Tant'è che proprio in quel periodo, a Pietrogrado, Trockij aveva dichiarato che non poteva definirsi "bolscevico".
Lenin sospettava che dietro questa sua adesione al Posdr vi fossero dei calcoli puramente congiunturali, dettati dal fatto che Trockij - sono parole di Lenin - "si associa perennemente a qualsiasi maggioranza di qualsiasi momento". Per tale motivo lo accolse con molta cautela
Trockij sicuramente partecipò all'insurrezione, ma non in maniera decisiva. Semplicemente, in quanto presidente del soviet di Pietroburgo (una carica che dovette a Kamenev), impedì ai menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari di boicottare il II Congresso dei soviet, aiutò ad armare gli operai e a fare altre cose di carattere organizzativo e militare.
Il 10 ottobre, durante la riunione del C.C. del Posdr, votò - come altri 10 membri - a favore della proposta insurrezionale di Lenin. Tuttavia nella sessione allargata del C.C. del partito bolscevico, tenutasi il 16 ottobre, per discutere veramente la questione dell'insurrezione, Trockij non fu presente. Prima dell'assalto al Palazzo d'Inverno, aveva pubblicamente dichiarato che il comitato rivoluzionario militare era stato creato non come organo dell'insurrezione ma soltanto come comitato di "difesa" della rivoluzione. La sua idea era quella di realizzare un'insurrezione "pacifica", "legale".
In tal senso non la pensava molto diversamente da Kamenev e Zinov'ev, per i quali i tempi non erano ancora maturi e la classe operaia era ancora numericamente esigua (tant'è che dissero pubblicamente in una rivista menscevica che l'insurrezione era imminente, facendo un favore al governo di Kerensky). Lo stesso Trockij arrivò a dire che l'insurrezione avrebbe dovuto essere decisa dal II Congresso dei soviet di tutta la Russia.
Lenin era assolutamente contrario a questa idea, poiché non voleva permettere al governo di Kerensky, anticipandogli la data, di prendere le sue contromisure. Era convinto che Trockij stesse "giocando" a fare il rivoluzionario. Al C.C. diceva che l'insurrezione non poteva essere decisa da un Congresso ufficialmente convocato, ma dalla forza organizzata del proletariato, in virtù della quale il nemico andava colto di sorpresa.
In sostanza Trockij si comportava come un filisteo codardo. A quel Congresso disse esplicitamente che "l'arresto del governo provvisorio [di Kerensky] non si pone all'ordine del giorno come una politica autosufficiente". Cioè lui non voleva affatto un conflitto armato, ma solo far vedere che il Congresso era forte, costringendo il governo a patteggiare. Praticamente della tragedia che stava affrontando la Russia non aveva capito niente.
Trockij non osava pronunciarsi contro l'insurrezione armata, ma in pratica ne comprometteva la riuscita, non foss'altro perché rivelava i piani al governo borghese e disorganizzava i ranghi rivoluzionari, demoralizzando le masse pronte a intervenire. Egli in sostanza era convinto che il rifiuto bolscevico di opporsi alla richiesta del Governo provvisorio di ritirare le truppe da Pietroburgo, avrebbe assicurato almeno i 3/4 del successo della rivoluzione: il che però venne contraddetto dal disperato tentativo del governo di scongiurare la sua fine, dando fondo a tutte le risorse di cui disponeva.
Da notare che quando il governo provvisorio di Kerensky decise di deferire Lenin al tribunale, Trockij, Kamenev e altri non si opposero alla richiesta. Lenin però, senza aspettare d'essere arrestato, era già passato alla clandestinità.
Dopo l'Ottobre
Nel primo governo sovietico Trockij era commissario del popolo (ministro) agli Affari esteri. Egli pubblicò - cosa allora senza precedenti - i documenti segreti della diplomazia zarista e del governo provvisorio. Fu così che venne alla luce il vergognoso trattato di Sykes-Picot sulla spartizione dell'ex impero ottomano, uscito sconfitto dalla prima guerra mondiale.
Diresse anche la delegazione sovietica ai negoziati di Brest-Litovsk, sulla conclusione del trattato di pace con la Germania, compiendo un errore madornale. Infatti volle assumere una posizione personale, non autorizzata dal partito, mirando a tradurre in pratica un proprio slogan: "né guerra né pace", ossia: non concludere un accordo di pace con la Germania (per non accreditare le accuse secondo cui i bolscevichi altro non erano che agenti dei tedeschi), né opporsi all'invasione tedesca (cioè la Russia avrebbe smobilitato l'esercito, dichiarando da sola la fine della guerra). Nel febbraio 1918, contrariamente alle direttive di Lenin ("la pace a qualsiasi condizione"), rifiutò di firmare il trattato, fornendo così alla Germania il pretesto di passare all'offensiva sull'intero fronte contro la repubblica dei soviet, che in quel momento ancora non disponeva di forze sufficienti per organizzare la resistenza. Di fronte alla massiccia offensiva tedesca, che penetrò per lunghi tratti nel territorio sovietico, Trockij decise di passare dalla parte di Lenin. Il trattato venne firmato il 3 marzo 1918, ovviamente a condizioni più onerose: Lettonia, Estonia e Polonia passarono alla Germania, la quale si riservava anche una protezione militare sull'Ucraina.
Il 14 marzo Trockij venne nominato ministro della Difesa (prima dell'esercito, poi anche della marina). Divenne presidente del Consiglio militare rivoluzionario, per far fronte alla guerra civile e all'intervento straniero (1918-20). Una carica voluta dallo stesso Lenin. Ciò ha dell'incredibile. Vien quasi da pensare o che i bolscevichi non avessero abbastanza leader autorevoli per condurre la rivoluzione in tutto il Paese; oppure che per Lenin i tempi erano così maturi che, in un certo senso, sarebbe stato irrilevante puntare su questo o su quel leader socialista. Cioè sarebbe stata la rivoluzione stessa a far emergere i propri leader. Se la seconda opzione è quella vera, bisogna ammettere, considerando che la rivoluzione riuscì perfettamente nei suoi intenti, che Lenin aveva il polso esatto della situazione.
In ogni caso quelli furono gli anni migliori di Trockij. Bisogna ammettere che in campo militare si dimostrava un dirigente risoluto, capace di mobilitare migliaia di uomini, di realizzare obiettivi anche molto difficili. In particolare partecipò alla repressione della rivolta dei socialisti-rivoluzionari di sinistra, scatenata il 6 luglio 1918 a Mosca, allo scopo di rovesciare il governo sovietico e di sabotare la pace di Brest (a tale scopo gli avventuristi arrivarono persino a uccidere l'ambasciatore tedesco Mirbach).
Trockij giocò un ruolo centrale anche nell'organizzazione dell'esercito regolare dell'Armata rossa, un compito fondamentale dopo che le zone più ricche del Paese erano finite nelle mani degli interventisti stranieri e delle guardie bianche.
Lenin lo apprezzava, anche se vi era un rovescio della medaglia. Trockij tendeva ad abusare dei metodi amministrativi, a sopravvalutare le istanze del potere, a reprimere eccessivamente i soldati e gli ufficiali. Esigeva la pena di morte per ogni crimine. "La fucilazione - diceva - è un mezzo di dissuasione, crudele certo, ma il più efficace". Di qui il tentativo di promuovere, con l'aiuto dei suoi seguaci, all'interno dell'Armata rossa, il culto della sua personalità. Nel 1922 arrivò persino a inserire nei regolamenti militari la sua biografia politica, nella quale egli si rappresentava come un eroe, come l'incarnazione dell'onore rivoluzionario e militare.
Dal 1917 al 1922 egli non fece altro che ribadire, sotto forme diverse, i suoi concetti di fondo:
- il proletariato europeo è più maturo per il socialismo di quello russo;
- l'obiettivo principale del potere dei soviet consiste non tanto nel favorire le condizioni necessarie per edificare il socialismo in Russia, quanto piuttosto nel cercare di resistere in attesa della rivoluzione mondiale;
- la rivoluzione va esportata negli altri Paesi attraverso la potenza dell'Armata rossa. "La guerra rivoluzionaria - scriveva - è la condizione indiscutibile della nostra politica". Queste tesi ovviamente non erano solo di Trockij, ma di molti altri leaders politici (Zinov'ev e Kamenev, M. M. Lasevich e E. Preobraženskij...).
Trockij sapeva rafforzare la disciplina del lavoro, stimolare l'entusiasmo della classe operaia, organizzare la produzione, capiva l'importanza del commercio estero e s'interessava al problema delle nazionalità. Lenin gli riconosceva queste e altre qualità. Tuttavia i suoi difetti erano piuttosto gravi: pericolosa soprattutto era la sua tendenza a costruire un "socialismo militarista", basato sull'idea della militarizzazione dell'economia, ovvero della sua trasformazione in una sorta di gigantesca macchina militare in cui tutto si fa su ordini ricevuti dall'alto, in cui le masse sono le docili esecutrici della volontà dei capi. Non a caso pensava di far coincidere le circoscrizioni militari con le unità produttive.
Il disaccordo con Lenin si riaccese durante il dibattito sui sindacati, al X Congresso del partito (marzo 1921). Trockij venne messo sull'avviso: doveva attenersi alle direttive del partito, evitando di crearsi propri quadri, coi quali comandare all'interno del partito stesso. Oltre a ciò vi era la questione, ben più complessa, dell'indipendenza e neutralità dei sindacati, che i menscevichi e Trockij sostenevano contro le tesi bolsceviche, secondo cui i sindacati dovevano essere "una scuola di comunismo", strettamente legata al partito. Allora vinsero le posizioni centralistiche di Lenin, a scapito ovviamente del pluralismo. La svolta della NEP, se proseguita con coerenza, dopo la morte di Lenin, avrebbe potuto risolvere anche questo problema, che non si poteva affrontare con la necessaria lucidità al tempo del comunismo di guerra.
Nel suo Testamento politico Lenin indicò con lungimiranza il dualismo della personalità di Trockij. Lo riteneva l'uomo più capace del C.C., ma anche quello meno affidabile, perché troppo sicuro di sé e troppo incline a esagerare il lato amministrativo delle cose. Lenin trovò necessario ricordare al partito il "non-bolscevismo" di Trockij, facendo osservare però che questo limite non poteva essere imputato a lui personalmente, più di quanto non potesse essere imputato ai soli Zinov'ev e Kamenev il tradimento nell'imminenza della rivoluzione. Va tuttavia qui ricordato che, a proposito di questo Testamento, Trockij sarà il solo ad essere favorevole alla sua pubblicazione, almeno in un primo momento, poiché, in seguito, per ordine del C.C. del partito egli dichiarerà che non esisteva alcun "Testamento di Lenin".
Ovviamente Lenin vedeva nell'ideologia di Trockij non l'espressione di una posizione individuale, bensì la manifestazione di uno stato d'animo assai determinato all'interno del partito, di cui Trockij s'era fatto interprete e realizzatore. Anche Kamenev aveva manifestato una chiara posizione non-bolscevica, eppure Lenin non gli impedì di lavorare nel C.C. del partito. "Quando nel C.C. si formano gruppi più o meno uguali - diceva Lenin - è il partito che giudica", cioè l'insieme dei militanti. Lenin non offriva solo la possibilità di correggere gli errori, ma cercava anche di stimolare un'aperta fiducia nelle capacità di tutti gli attivisti, propagandisti, intellettuali, operai, contadini..., che lottavano all'interno del partito.
Ma c'è di più. Lenin non stimava necessarie le divisioni, ma neppure se le nascondeva. In questo senso teneva a precisare due cose: 1) le divisioni vanno risolte nella legalità, cioè sulla base degli statuti e del programma del partito; 2) la discussione è una cosa, la linea e la lotta politica del partito un'altra: "Noi non siamo un club di dibattiti", diceva. Ciò significava che gli irriducibili andavano, dopo ampie discussioni, espulsi.
Ora, tutte le fondamentali discussioni degli anni '20 s'erano concentrate sulla possibilità o meno di costruire il socialismo in un solo Paese, e addirittura in un Paese economicamente arretrato. Trockij e il blocco dei suoi sostenitori affermavano che il partito, invece di accelerare lo sviluppo dell'industria statale, la stava frenando. Essi in pratica non credevano nella possibilità di un'industrializzazione pianificata con le sole forze del Paese e proponevano di avviare l'industrializzazione dapprima a ritmi forzati, per saturare il mercato di merci, dopodiché, sulla base di questa produzione, reggere sino alla vittoria del socialismo nei Paesi capitalisti più avanzati. Per tale "superindustrializzazione" proponevano di reperire i mezzi nelle campagne, aumentando le tasse ai contadini.
I trockisti rifiutavano di considerare che un metodo del genere avrebbe comportato anche l'aumento dei prezzi di tutti i prodotti agricoli e un minore potere d'acquisto del rublo, nonché un netto divario fra industria e agricoltura e l'inevitabile rottura dell'alleanza, indispensabile alla NEP, tra operai e contadini. I principali beneficiari, di conseguenza, sarebbero stati i kulaki (contadini ricchi) e la nuova borghesia uscita dalla NEP.
A questo punto il partito reagì: nel 1925 lo sostituì con M. Frunze alla carica di presidente dal Consiglio militare rivoluzionario; nel 1926 lo escluse dall'Ufficio politico; nel 1927 dal C.C. (insieme a Zinov'ev). Poi fu anche radiato dalla lista dei membri del partito. Espulsi furono anche Kamenev, Pjatakov, Radek, ecc.
L'idea trockista sull'acutizzazione della lotta di classe via via che si consolidano le basi del socialismo, stava cominciando a dare i suoi effetti, ma a beneficio dello stalinismo, il quale seppe approfittare della situazione per iniziare una durissima repressione nei confronti di tutti i trockisti. In quell'occasione Stalin si avvalse degli organi giudiziari, pur senza imbastire un processo col quale incriminare Trockij ufficialmente (il che sarebbe apparso ridicolo, poiché Trockij di fronte alla legge non era colpevole di nulla), ma in seguito le cose andranno ben diversamente.
All'inizio del 1928 Trockij viene inviato in esilio ad Alma-Ata nel Kazakhstan, ma egli continua la lotta contro il partito e il bolscevismo. Alla fine di quell'anno, da Mosca un inviato speciale della polizia politica ad Alma-Ata comunica a Trockij l'ultimatum del governo: o smette di guidare l'opposizione o verrà espulso dal Paese. Trockij sceglie la seconda alternativa. Insieme ad altri tre membri della sua famiglia, lascia l'URSS per sempre. Era la sua terza emigrazione politica. All'esilio si erano opposti, nel C.C., Bucharin, Rykov e Tomskij.
Il governo sovietico si rivolse a molti Paesi perché accogliessero Trockij, ma solo la Turchia, dopo molte trattative, accettò. Arrivato a Istanbul il 12 febbraio 1929, visse fino al 1933 nei pressi della capitale. Poi si trasferì in Norvegia e infine in Messico, dove il 21 agosto 1940 fu assassinato con un colpo di piccone da Ramon Mercader, su incarico di Stalin. Due anni prima aveva fondato la IV Internazionale.
La rivoluzione permanente
Per elaborare la tesi sulla rivoluzione permanente, Trockij si era riferito a quella formulata da Marx ed Engels nel 1850, nell'Indirizzo alla Lega dei comunisti. In esso Marx ed Engels, intervenendo contro la subordinazione degli interessi della classe operaia (nella rivoluzione democratico-borghese) a quelli della borghesia, scrivevano che il proletariato doveva andare molto più lontano della borghesia, "rendendo la rivoluzione permanente, finché ogni classe più o meno possidente sia stata tolta dal potere...". L'opinione di Lenin, sotto questo aspetto, era analoga a quella dei classici del marxismo: "Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta", cioè per la trasformazione della rivoluzione borghese in socialista. Egli dunque riconosceva la necessità di tappe successive della lotta rivoluzionaria, ognuna delle quali preparava le condizioni indispensabili alla transizione verso la tappa seguente.
Viceversa, Trockij presentava l'idea di "permanenza" come il conseguimento simultaneo di tutti gli obiettivi politici del proletariato, il quale doveva rovesciare immediatamente, senza tappe successive, il dominio della borghesia. Ad es. la sua interpretazione delle Tesi di aprile di Lenin è radicalmente differente da quella che diedero, allora, i bolscevichi. Per Trockij quelle Tesi erano una proposta immediata della rivoluzione socialista e non la proposta di un approfondimento della rivoluzione democratico-borghese. Egli, in sostanza, non comprendeva che per realizzare la rivoluzione socialista occorreva l'alleanza con i contadini poveri contro i kulaki. Per lui la rivoluzione non era che uno scontro militare, dove i due eserciti contrapposti debbono solo concludere militarmente un conflitto, i cui termini politici sono chiari fin da principio ad entrambi gli schieramenti. Trockij insomma era un esteta della rivoluzione. I suoi appelli avventuristici a bruciare le tappe non facevano che riflettere una profonda ignoranza delle leggi oggettive dello sviluppo sociale.
Peraltro un trockista autentico non potrà mai ammettere che un determinato Paese s'è incamminato realmente sulla strada del socialismo. La negazione di una qualunque forma di socialismo si basa proprio sull'idea della rivoluzione proletaria mondiale. Anche oggi i trockisti, esaminando il fallimento del "socialismo reale", non traggono la conclusione che il socialismo deve democratizzarsi, ma quella che senza rivoluzione permanente fra la borghesia "mondiale" e il proletariato "mondiale", non vi potrà mai essere alcuna vera forma di socialismo: col che, in pratica, non fanno che avvalorare le tesi borghesi secondo cui l'unica alternativa al socialismo è il capitalismo.
Per i neo-trockisti la rivoluzione proletaria mondiale non è né la somma delle rivoluzioni nazionali, né l'abbandono progressivo del capitalismo da parte di diversi Paesi, e neppure - guarda caso - un'azione che abbia luogo in tutti i Paesi contemporaneamente. è piuttosto un conflitto tra borghesia e proletariato mondiale, portato avanti per un lungo, indefinito periodo storico. Ciò che dà senso alla storia, per i neo-trockisti, è appunto l'eccitazione di una rivoluzione continua, il prolungamento all'infinito del momento esaltante della lotta eversiva, contestatrice: non è certo il duro, prosaico lavoro pre- e post-insurrezionale, che rischierebbe di far emergere il vuoto spirituale di questi "professionisti della rivoluzione", il cui scopo principale è sempre stato quello di seminare dubbi nella coscienza dei lavoratori circa la riuscita di una qualunque transizione.
Il fatto che i neo-trockisti abbiano bisogno di vivere in una situazione conflittuale in cui i conflitti non vengano mai risolti, è dimostrato anche dalla tesi sull'utilità della guerra per la rivoluzione mondiale, che Trockij elaborò nel 1940. Più la guerra è devastante - affermano i trockisti - e maggiore sarà il ruolo rivoluzionario ch'essa giocherà nello sviluppo del mondo. Non a caso essi non fanno distinzione tra "guerra difensiva" e "guerra offensiva". Non avendo alcuna fiducia nella forza delle classi che si oppongono al capitale, propugnano il fatalismo di una "guerra rivoluzionaria", riflettendo, in ciò, le concezioni degli strati estremisti piccolo-borghesi, sempre più rovinati dalla logica del profitto. Di fronte alle difficoltà quotidiane della lotta per la pace, essi si demoralizzano, non credono al principio dialettico per cui i cambiamenti quantitativi, che si accumulano nei rapporti di forza, possono condurre a dei profondi mutamenti qualitativi. Questi militanti dell'antiprosaicità, questi eroi ultrasinistri che si esaltano solo nei momenti "forti", spettacolari, sono vittime allucinate della tragica formula: "Meglio una fine orribile che un orrore senza fine".
Una piccola diversità, tuttavia, esiste fra vecchi e nuovi trockisti. A suo tempo Trockij, come noto, aveva predicato la concezione eurocentrica della rivoluzione sociale mondiale, affermando che questa non sarebbe stata possibile che nei Paesi più sviluppati. Egli inoltre negava la potenzialità rivoluzionaria delle masse agricole, che considerava come una forza conservatrice, se non addirittura reazionaria, contro cui avrebbe dovuto lottare lo stesso potere rivoluzionario.
Viceversa, i neo-trockisti (l'economista più significativo è stato Ernest Mandel), dopo aver costatato che l'occidente capitalistico non ha alcuna intenzione, per il momento, di fare delle rivoluzioni proletarie, hanno preferito concentrare la loro attenzione, cercando di non autoemarginarsi dalla storia, sulle "rivoluzioni coloniali" dei Paesi del Terzo Mondo, considerate come fattore prevalente della rivoluzione mondiale. Ora essi sono addirittura disposti ad ammettere che la classe agricola è la forza rivoluzionaria per eccellenza dell'epoca contemporanea. Ma questa ammissione, ancora una volta, cela il trucco di sempre. Il loro scopo, in realtà, è quello di servirsi dei contadini del Terzo Mondo per criticare il proletariato occidentale, non è quello di promuovere un'alleanza tra queste due forze sociali a livello mondiale. Né gli interessa creare legami tra mondo operaio e strati non proletari dei lavoratori o alleanze di tipo antimonopolistico o vaste intese nell'ambito della sinistra. Essi sanno soltanto difendere l'idea dell'assoluta, totale, autonomia delle correnti più diverse del movimento democratico. Preferiscono parlare di "esportazione della rivoluzione" piuttosto che costruirla in casa propria.
Constatando che il Terzo Mondo è passato da una dipendenza "diretta" a una "indiretta" (finanziaria) nei confronti dell'imperialismo, essi danno per scontato che quest'area geografica, da sola, non potrà mai veramente liberarsi dalle catene del neocolonialismo. Il risultato quindi, di tale ragionamento, è l'immobilismo e la solita fraseologia rivoluzionaria.
Lenin, Stalin e Trockij
Non è possibile che lo stalinismo sia nato solo perché i compagni di Lenin non hanno rispettato il suo Testamento politico, soprattutto là dove chiedeva di rimuovere Stalin dalla carica di segretario del partito. Molto probabilmente il socialismo statale sarebbe nato lo stesso. Tuttavia è lecito chiedersi, come pura ipotesi scolastica, quanto sarebbe stato inevitabile uno sviluppo democratico del socialismo statale in presenza dell'ideologia leninista.
Questi dubbi sono legittimi in quanto non esiste una via predeterminata che impedisce o vanifica l'uso della libertà di scelta. Semmai è possibile affermare che la posizione di altri dirigenti politici (incluso Trockij) era non meno autoritaria di quella di Stalin.
Va detto inoltre che i principali responsabili della conferma di Stalin al ruolo di segretario generale del partito furono Zinov'ev e Kamenev, gli stessi che Lenin avrebbe voluto espellere dal partito perché, all'ultimo minuto, avevano rivelato al governo Kerensky le intenzioni eversive dei bolscevichi. Loro tradirono Lenin due volte, e a loro volta furono traditi da Stalin, che li fece giustiziare.
Ma forse la cosa meno spiegabile è come sia stato possibile che lo stalinismo abbia gestito il socialismo statale per ben 30 anni, e come mai abbia potuto sopravvivere dopo la parentesi democratica di Krusciov. Appare cioè evidente che non fu lo stalinismo ad aver creato il socialismo statale, ma, in un certo senso, il contrario, benché lo stalinismo abbia posto le fondamenta ideologiche e organizzative per la sopravvivenza del socialismo statale.
Ora, se si riesce a dimostrare che lo stalinismo non ha nulla a che fare col leninismo, si potrà più facilmente sostenere che nel leninismo non vi erano le premesse necessarie per la nascita del socialismo statale. Naturalmente tali premesse non vi erano sul piano soggettivo, in quanto Lenin era sicuramente una persona democratica. Si tratta però di verificare se non vi erano neppure sul piano oggettivo.
Parimenti, non è neppure molto rilevante sapere se lo stalinismo nasce come deviazione da una corretta adesione alle idee del leninismo, o se invece Stalin avesse accettato di aderire al leninismo solo nella speranza di ottenere un ruolo politico dominante, che per lui voleva dire autoritario.
Di sicuro sappiamo tre cose:
1) sin dall'inizio, su questioni di fondamentale importanza, lo stalinismo non andò mai d'accordo col leninismo (quella sulle nazionalità è una delle più emblematiche6);
2) quando sussiste una certa intesa tra le due linee, avviene perché lo stalinismo assume posizioni defilate, cioè interlocutorie, in attesa che gli eventi si sviluppino (Stalin sapeva bene di non avere le capacità di Lenin);
3) quando Stalin pretende di porsi come erede politico di Lenin, le tesi di quest'ultimo vengono sempre da lui interpretate in maniera arbitraria.
Nessuno si nasconde le grandi capacità organizzative di Stalin, ma bisogna anche specificare ch'erano tutte a favore dell'edificazione di uno Stato autoritario, quindi sommamente negative ai fini dello sviluppo della democrazia.
Stalin sembrava conoscere perfettamente l'arte della dissimulazione, come dimostrò nel suo rapporto con Trockij, le cui capacità intellettuali erano sicuramente superiori alle sue. Quest'ultimo fu accusato di volere un'industrializzazione accelerata contro gli interessi dei contadini, quando poi lo stesso Stalin, una volta sconfitto Trockij, si comportò nell'identica maniera.
Fu inoltre contestata l'idea della "rivoluzione permanente", quando in realtà Trockij non ebbe mai in mente di non costruire il socialismo in attesa della rivoluzione mondiale o europea. Semmai fu Stalin che usò l'idea di "socialismo in un solo Paese" per isolare completamente l'URSS dal resto del mondo. In questa maniera poteva costruire uno Stato autoritario molto più facilmente.
Nel suo rapporto polemico con Trockij, Stalin riuscì a eludere completamente l'idea marx-leninista relativa alla progressiva estinzione dello Stato; anzi, lo stalinismo prevedeva un suo rafforzamento in chiave centralistica.
Stalin fu sostanzialmente un criminale politico, che, grazie a uno staff cinico come lui, eliminò tutti quelli che potevano intralciarlo nel suo cammino verso il potere assoluto, e soprattutto verso la sua conservazione, anche quando l'evidenza dei fatti richiedeva un mutamento di rotta, un'inversione di tendenza.
Che Stalin fosse un criminale senza scrupoli (peraltro già un decennio prima delle tragiche e colossali decimazioni dello Stato Maggiore delle forze armate), lo spiega bene Roj Medvedev parlando della morte del generale M. V. Frunze, avvenuta nel 1924, quand'era capo dello Stato Maggiore dell'Armata Rossa.
Soffriva di un'ulcera allo stomaco, ma non voleva operarsi. Siccome però il generale stalinista Vorošilov voleva prendere il suo posto, Stalin decise che Frunze si dovesse operare. Ebbene, quando fu sotto i ferri, l'anestesia col cloroformio, somministratagli in una dose massiccia, gli fu fatale. I referti medici furono "confusi, inconsistenti ed evasivi" (p. 72, op.cit.). Lo scrittore Boris Pilnyak, sul n. 5/1926 della rivista "Novyj Mir", attribuì una responsabilità indiretta a Stalin, ma il fascicolo fu immediatamente sequestrato e Pilnyak fu eliminato un decennio dopo.7
Nessuno, quanto a cinismo e crudeltà, può essere paragonato a Stalin, benché Mao Zedong non gli fu da meno. Le origini di questa catastrofe apocalittica vanno ricercate nello sfruttamento (o manipolazione) delle tradizioni asiatiche relative all'obbedienza collettiva di enormi popolazioni scarsamente alfabetizzate, scarsamente abituate a manifestare il loro pensiero, a far valere le loro ragioni. Tali popolazioni furono indotte a credere che quanto stavano realizzando aveva un'importanza superiore a qualunque cosa fosse stata compiuta nel capitalismo occidentale.
Perché si preferì Stalin a Trockij?
Alla morte di Lenin si pose ovviamente il problema della sua successione alla guida del partito e del governo.
Lui era perfettamente consapevole di tre problemi, come dimostra il suo Testamento politico: 1) nessuno era in grado di sostituirlo individualmente; 2) se qualcuno avesse cercato di farlo, il partito avrebbe rischiato di frantumarsi, soprattutto a causa dell'odio reciproco tra Stalin e Trockij; 3) l'unica soluzione possibile, accettabile da tutti, sarebbe quindi stata una gestione assai allargata del potere politico.
Oltre a ciò aggiunse che Stalin andava rimosso dal ruolo di segretario del partito a causa del suo atteggiamento rozzo.8 Tuttavia non propose alcun nome come sostituto; si limitò a dire che per quella funzione di carattere generale occorreva una persona dai modi più democratici o diplomatici. Per non offendere la suscettibilità di Stalin si limitò a precisare che il carattere rude di quest'ultimo poteva essere tollerato tra compagni, ma non in un ruolo dirigenziale.
Insomma Lenin aveva creato qualcosa che, secondo lui, avrebbe dovuto reggersi in piedi a prescindere dai leader del partito. Tuttavia le cose andarono molto diversamente.
Sembrava pacifico che se Trockij non avrebbe potuto sostituire Lenin alla guida del governo o del partito, Stalin avrebbe potuto farlo ancora meno. Cos'è che allora convinse i leader del partito a confermare Stalin e a emarginare progressivamente Trockij? Esistono varie ipotesi:
1) Trockij - come disse anche Lenin nel Testamento - non ebbe mai solide tradizioni bolsceviche: sostanzialmente era stato un menscevico, avendo aderito al bolscevismo solo poco prima che si compisse la rivoluzione d'Ottobre;
2) i leader del partito temevano una mente troppo intellettuale unita a un atteggiamento molto supponente. A dir il vero anche Stalin appariva autoritario, ma, essendo meno dotato intellettualmente, si pensava che sarebbe stato più facilmente controllabile;
3) Trockij voleva un'industrializzazione accelerata, che venisse interamente pagata dalla classe rurale. Ciò appariva non solo moralmente inaccettabile, ma anche politicamente pericoloso, in quanto i contadini costituivano la stragrande maggioranza dei lavoratori. Non a caso lo stesso Trockij sosteneva che in una società del genere, se non ci fossero state altre rivoluzioni operaie in altri Paesi europei, la dittatura del proletariato (industriale) non sarebbe durata a lungo. Le sue idee economiche erano espresse, in maniera più dettagliata, da Preobraženskij, che non si faceva scrupolo nel dire che l'accumulazione socialista del capitale di base doveva fondarsi sullo sfruttamento delle forme pre-socialiste dell'economia. La cosa singolare è che questo atteggiamento sprezzante nei confronti dei contadini fu adottato proprio dallo stalinismo a partire dalla collettivizzazione forzata.9
Quando Lenin era a capo del partito, chiunque dietro di lui, se eseguiva alla lettera le disposizioni collegiali e ufficiali del C.C., poteva apparire un bolscevico fidato. Il problema si presentò subito dopo la sua morte, quando venne meno il freno costituito dalla sua acuta intelligenza e dal suo atteggiamento democratico.
Appariva, in effetti, quanto meno bizzarro che Lenin, dopo aver apostrofato Trockij con epiteti non certo lusinghieri per la sua attività di intellettuale e di politico, affidasse proprio a lui la direzione degli Affari per l'esercito e la marina, nonché la presidenza del Consiglio militare-rivoluzionario, con cui si sarebbe dovuta vincere la controrivoluzione interna e l'interventismo straniero. Chiunque avrebbe potuto pensare che, in virtù di un incarico così prestigioso, eseguito peraltro con successo, Lenin indicasse lui come suo successore. Invece si guardò bene dal farlo, anche perché Trockij si rifiutò di sostenere contro Stalin le posizioni di Lenin in merito alla questione nazionale. Evidentemente perché riteneva che l'atteggiamento di Stalin (e di altri suoi collaboratori) non fosse, in ultima istanza, sbagliato.
Quando poi Stalin fu confermato alla direzione del partito, per Trockij divenne molto facile accusare di autoritarismo burocratico la sua gestione. Tuttavia non ebbe mai l'umiltà di dire che, al posto di Stalin, probabilmente si sarebbe comportato nella stessa maniera, visto che Stalin mise in atto molte delle idee di Trockij, che, quanto a spietatezza, non era da meno.
In ogni caso, a parte queste considerazioni, la domanda cruciale cui bisognerebbe cercare di rispondere è un'altra: la soluzione prospettata da Lenin, di allargare il C.C. del partito a un numero significativo di operai e contadini, era idonea alla situazione? O non era piuttosto una soluzione limitata, a sfondo paternalistico o moralistico?
Si ha cioè qui l'impressione che anche con questa proposta si venisse comunque meno alla cosiddetta "democrazia diretta", quella tipica dei soviet locali. La rivoluzione sembrava essere destinata a un controllo verticistico. Il partito non si configurava come coordinatore (o collettore, catalizzatore) di una molteplicità di esperienze collettive, gestite dal basso, ma piuttosto come una struttura che dava ordini dall'alto e che si aspettava venissero eseguiti il più scrupolosamente possibile. Lo stalinismo non fece che approfittare di questa grave debolezza democratica del socialismo bolscevico.
Il passaggio dalla democrazia diretta dei soviet al centralismo democratico del partito bolscevico comportò la fine della democrazia tout-court, o comunque l'inevitabile tendenza verso quel centralismo burocratico e autoritario che caratterizzerà non solo l'esperienza dello stalinismo, ma anche quella di tutto il socialismo statale. Nel momento in cui avvenne il passaggio verso il primato politico e amministrativo del partito-stato, nessun leader politico ebbe le idee chiare per impedirlo.
Di fatto i soviet furono utilizzati solo per compiere la rivoluzione, non anche per gestirla. La differenza tra leninismo, trockismo e stalinismo e altri "ismi" rivoluzionari stava soltanto nella soggettività dei protagonisti, che in Lenin si esprimeva sicuramente in forme o più umane o più democratiche che in tutti gli altri. Tuttavia la democrazia diretta non si costruisce su questi aspetti meramente soggettivi.
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D'altra parte le rivoluzioni non si compiono quando i leader sono i migliori soggetti possibili offerti dalla società, ma quando i tempi sono maturi, e i tempi lo sono quando le masse popolari non vogliono più sopportare una sofferenza che può essere tolta. In condizioni del genere è inevitabile compiere degli errori (anche Lenin li faceva, nonostante la sua intelligenza), ed è ancora più necessario essere disposti a correggerli. Tuttavia il partito, nel suo insieme, non riuscì a farlo.
Negli anni 1921-22 Lenin, a causa della sua malattia, si trovava in condizioni difficili per esercitare delle pressioni a favore di un candidato diverso da Stalin. Anzi, fu lui stesso a scegliere Kamenev come presidente del Consiglio dei commissari (ministri) e dell'Ufficio politico. La grande fiducia riposta in Kamenev fu mal ripagata. La nomina di Stalin fu infatti proposta proprio da Kamenev. Forse Lenin aveva pensato che il suo rifiuto di espellere Kamenev dal partito, dopo il tradimento di quest'ultimo alla vigilia della rivoluzione, poteva essere interpretato come un favore meritevole di un minimo di riconoscenza. Ma così non fu. Kamenev stette sempre dalla parte di Stalin, finché lo stesso Stalin non lo fece fuori.
C'era quindi qualcosa nelle regole stesse del partito che non funzionava.
L'antileninismo di Stalin
Roj Medvedev, nel suo corposo libro sullo stalinismo, lo spiega chiaro e tondo: Stalin non è mai stato leninista, non tanto (o non solo) come atteggiamento personale, quanto piuttosto per convinzioni politiche. Il fatto che fosse capace di organizzare scioperi, manifestazioni di protesta, espropriazioni armate e cose del genere, non lo rendeva di per sé un leninista e, se vogliamo, neppure un comunista.
L'elenco degli errori da lui compiuti è molto lungo, praticamente dura tutta la sua vita, anche durante la guerra contro i nazisti. Si oppose, in un primo momento, al programma leniniano di nazionalizzazione della terra; sosteneva, da giovane, che la vittoria del socialismo era impossibile in un Paese dove il proletariato industriale non costituiva la maggioranza dei lavoratori; rifiutò di partecipare, dopo la rivoluzione del 1905, alla battaglia contro gli otzovisti (antiparlamentari) e i liquidatori (marxisti moderati avversi alle organizzazioni clandestine). Quando nel 1917 diresse la "Pravda", insieme a M. K. Muranov e L. B. Kamenev, si rifiutò di pubblicare tre delle quattro Lettere da lontano inviate da Lenin al partito (l'unica pubblicata fu in forma abbreviata e distorta).
Di fatto Stalin era un opportunista e un carrierista, vicino alle posizioni mensceviche. Non aveva alcuna intenzione di rovesciare il governo borghese di Kerensky: al massimo quella di parteciparvi come ministro.
Stalin e Kamenev si opposero alle Tesi di aprile di Lenin e detestavano lo slogan "tutto il potere ai soviet". Non parteciparono agli eventi decisivi della presa del potere. Anzi, quando Kamenev e Zinov'ev rivelarono su un giornale filo-menscevico che i bolscevichi stavano preparando l'insurrezione, Stalin sulla "Pravda" prese le loro difese. Per Lenin era letteralmente assurdo rispettare i princìpi della democrazia borghese nel mentre si preparava un'azione eversiva al massimo grado.
Stalin non aveva nulla del rivoluzionario, né sul piano teorico né su quello pratico, poiché una posizione del genere prevede, sul piano soggettivo, un atteggiamento umano (etico) e, sul piano politico, una buona dose di idealismo, che deve portare anche al sacrificio di sé, nel caso in cui le circostanze lo richiedano.
Stalin ebbe buon gioco nel farsi valere, semplicemente perché sfruttò a proprio vantaggio la drammatica situazione che stava vivendo la Russia a causa della prima guerra mondiale. D'altra parte quando un governo si esprime in maniera autoritaria (come accadeva con quello di Kerensky), è facile apparire "rivoluzionari" o sovversivi, stando all'opposizione. Ma questo non vuol dire che il proprio atteggiamento sia conforme alle aspettative delle masse proletarie.
In realtà Stalin avvertiva Lenin come un nemico, e se fosse succeduto a Kerensky nella gestione di un governo borghese, l'avrebbe di sicuro eliminato. Lenin andava considerato, secondo lui, come un pericoloso avventuriero. Tant'è che lo stesso Lenin si accorse di questa ambiguità e preferì rifugiarsi in Finlandia, dopo che Stalin aveva boicottato il VI Congresso del partito. Stalin infatti aveva proposto che Lenin venisse processato pubblicamente da un tribunale controrivoluzionario, a condizione che venissero date garanzie di salvezza alla sua persona. Una proposta che, se fosse stata accettata dal partito, avrebbe segnato la fine prematura di Lenin e probabilmente il fallimento della rivoluzione.
Ma la cosa più singolare avvenne quando Stalin scatenò il terrore per conservare il proprio potere vacillante. In quel momento eliminò Kamenev e Zinov'ev facendo leva, per accusarli, proprio sul loro atteggiamento pusillanime e scopertamente sleale assunto nell'Ottobre 1917.
Insomma Stalin andava rimosso da tutti i suoi incarichi, ben prima che lo chiedesse Lenin nel suo Testamento politico. Che a nessuno venisse in mente di farlo, dovrebbe indurci a riflettere seriamente sui criteri con cui si gestiscono le rivoluzioni politiche.
Non si può essere troppo indulgenti nei confronti di certe persone solo perché esiste la possibilità di compiere un evento storico, all'interno del quale gli atteggiamenti individuali contano fino a un certo punto. è sbagliato pensare che un soggetto cinico o immorale sia inevitabilmente destinato a migliorare se stesso dopo che si è realizzata con successo una rivoluzione. Non ha senso pensare a un automatismo logico o funzionale di causa/effetto in una situazione del genere. Occorre sempre compiere un lavoro rieducativo su di sé. E Stalin non l'ha mai fatto.
L'entourage di Stalin
Leggendo il capitolo "All'ombra di Stalin" del libro di Volkogonov (pp. 256-69) due osservazioni vengono spontanee.
- La prima è in relazione al concetto di "stalinismo". Questa ideologia non può essere riferita a una sola persona, né in via esclusiva né in misura prevalente. Lo stalinismo fu un'ideologia che coinvolse, come protagoniste attive, decine di migliaia di persone, ovviamente con gradi diversi di responsabilità (forse si potrebbe addirittura parlare di milioni di persone, poiché anche le guardie di un gulag potevano decidere col loro comportamento se far vivere o morire un qualche detenuto, o di farlo morire più o meno velocemente se condannato a una pena severa, e nessuno le avrebbe incolpate di alcunché). Infinitamente di più - questo è ovvio - furono i cittadini che subirono quella ideologia in maniera passiva.
Bisogna dire - senza aver dubbi a riguardo - che il rapporto tra stalinismo e marxismo-leninismo fu puramente casuale. Lo stalinismo in realtà non ebbe mai nulla a che fare coi classici del socialismo scientifico, che non si sognarono mai di apparire antidemocratici. Il collegamento tra le due ideologie è in un certo senso estemporaneo. Lo stalinismo incontrò il marxismo-leninismo semplicemente perché l'ideologia liberista della borghesia del XIX e soprattutto del XX secolo aveva mostrato tutti i suoi evidenti limiti: prima con l'imperialismo, poi con la guerra mondiale.
Il vero rapporto organico è un altro, quello tra stalinismo e socialismo statale (o, come veniva definito da Marx ed Engels, da "caserma"). Uno senza l'altro è impensabile, al punto che, anche se ci si riferisse alla Cina di Mao o alla Cambogia di Pol-Pot o all'Albania di Hoxha, si dovrebbe comunque parlare di "stalinismo", in quanto questa forma di dittatura va presa come simbolo di un comportamento criminale all'interno di un socialismo statalizzato. Lo stalinismo è una metafora che va decontestualizzata (come fece la Scuola di Francoforte con l'eroe greco Ulisse, archetipo del moderno "borghese"), anche se la sua nascita non può prescindere dall'ambiente sovietico post-rivoluzionario, che è di tipo euro-asiatico.
- La seconda osservazione è strettamente correlata alla prima. Appurato che l'entourage fu composto da autentici criminali, per quale motivo nessuno, se si esclude Berija, fu arrestato, processato, condannato a una pena detentiva molto severa? I leader stalinisti furono responsabili di milioni di morti, un numero così grande che ancora oggi risulta indefinito. Possibile che lo stalinismo abbia avuto un'influenza così forte sulla popolazione da indurla a transigere sugli orrendi crimini perpetrati? Che razza di popolazione è quella sovietica? Ha voluto perdonare una massa sterminata di carnefici, mostrando con orgoglio la propria capacità di resistenza?
Neppure Volkogonov si scandalizza di questa stranezza. Eppure scrive, perentorio, che "I più stretti collaboratori di Stalin erano la copia del loro ‘capo' e sono responsabili di tutte le nefandezze e i crimini da lui commessi" (p. 269). Non solo, ma queste responsabilità ricadono anche su altri vertici del partito e dello Stato che non mossero "un dito per arginare lo strapotere del dittatore" (ib.). E qui cita Krusciov, Ždanov, Mikojan, Malenkov, Kalinin, ecc.
Rebus sic stantibus, non ha davvero alcun senso affermare - come fa questo storico - che non ci fu una reazione alla dittatura stalinista perché Stalin era un "genio del male". Era piuttosto l'ideologia che accecava, non la paura nei confronti del dittatore, se non in misura superficiale. Peraltro sia Volkogonov che Medvedev sostengono che nessuno dello staff di Stalin possedeva una mente brillante: erano tutti esecutori più o meno spietati. Stalin non amava circondarsi di persone che potessero metterlo in difficoltà sul piano intellettuale. Al massimo chiedeva di avere al suo servizio gente disposta a lavorare senza risparmiarsi, esecutori inflessibili di direttive unilaterali.
Mandanti ed esecutori
Chi compie crimini orribili, obbedendo a ordini superiori, non può sperare di farla franca. Non tanto (o non solo) perché, prima o poi, la giustizia lo raggiungerà, quanto perché potrebbe essere eliminato dalla stessa persona o apparato che gli ha impartito l'ordine e che, per questa ragione, non vuole risultare come "mandante".
Non solo, ma chi pensa che, compiendo crimini più grandi di quelli che effettivamente gli sono stati ordinati, possa beneficiare di un maggiore compiacimento da parte dei propri superiori, s'illude fortemente. Infatti, se il potere acquisito diventa, per qualche ragione, traballante, il mandante non farà che scaricare tutte le responsabilità sugli esecutori delle proprie direttive. Gli stessi esecutori penseranno di liberarsi di tutte le loro responsabilità, dicendo che si limitavano a eseguire degli ordini. Tra loro ci sarà una solidarietà solo al negativo.
Quando il male che si è compiuto viene sconfitto, non c'è solidarietà tra i criminali o ammissione di reciproca responsabilità. Non c'è pariteticità neppure prima che venga sconfitto. C'è solo l'interesse personale, la tutela della propria vita.
Al di là di questo, domina la subordinazione gerarchica, cioè il dovere di obbedire, senza discutere, a chi comanda. Chi obbedisce a un criminale, deve dimostrare d'essere disposto a compiere almeno un crimine per poter continuare a obbedire. E può far carriera solo aumentando i propri crimini, almeno finché qualcuno non deciderà il suo destino.
Non bisogna dare per scontata neppure la solidarietà tra chi subisce gli ordini criminali e abusi d'ogni sorta. Non è inconsueto che proprio tra queste persone emerga il desiderio di riscattarsi, cercando di accattivarsi il favore dei poteri criminali. Quando il male è dominante, è più facile essere malvagi.
Ecco perché bisognava insospettirsi subito quando lo stalinismo eliminava i cosiddetti "nemici del popolo", senza neppure un regolare processo giudiziario. L'abitudine a obbedire rende incredibilmente complici delle mostruosità del potere, anche quando si finisce per subirle, per esserne travolti in maniera irreparabile.
Sotto lo stalinismo casi del genere erano frequentissimi. Medvedev fa un elenco impressionante, che è inutile riportare. Qui è sufficiente sostenere che tutto lo staff di Stalin era perfettamente consapevole che la violazione della legalità non era un'eccezione ma la prassi. Non aver voluto fare i conti sino in fondo con tale spietatezza, subito dopo la morte di Stalin, ha posto una pesantissima ipoteca sulla credibilità dell'intero sistema. Negare ancora oggi tale evidenza, pretendere di riproporre lo stalinismo o il socialismo statale in maniera riveduta e corretta, significa non aver capito niente di cosa il socialismo democratico possa essere.
Al massimo uno potrebbe chiedersi come sia stato possibile che una criminalità così profonda e diffusa si sia manifestata di più sotto il socialismo statale che non sotto il capitalismo privato. In fondo il socialismo, sul piano ideologico, è chiaramente superiore a qualunque forma di liberalismo borghese. Non per nulla il fascismo e il nazismo si richiamavano a idee del socialismo.
Tuttavia non ha senso mettere a confronto i due sistemi, che pretendono d'essere opposti tra loro. Infatti, se è vero che in Europa il capitalismo, per imporsi, ha dovuto compiere sanguinose rivoluzioni contro i poteri reazionari di stampo feudale; e se è vero che le nazioni capitalistiche più industrializzate hanno mosso molte guerre a quelle meno industrializzate, che non si lasciavano sottomettere; è anche vero che i più grandi genocidi della storia il capitalismo li ha compiuti non all'interno dei confini europei, ma nelle proprie colonie africane, asiatiche e americane.
In Russia invece lo stalinismo ha potuto essere così spietato coi propri cittadini proprio perché non aveva colonie da sfruttare: al massimo le aveva al proprio interno, nell'area asiatica.
"Stalin - scrive Medvedev - avrebbe potuto venir bloccato sul finire degli anni Venti, e ancora agli inizi dei Trenta c'era qualche possibilità di rimuoverlo con una regolare procedura di partito. Ma dopo il 1934 Stalin avrebbe potuto venir rimosso solo con la forza, e nessuno era pronto a intraprendere un tale tentativo nel timore delle possibili conseguenze" (p. 500, o.c.). Ecco perché, quando si vedono degli abusi, grandi o piccoli che siano, bisogna intervenire subito.
Medvedev non ha dubbi nel sostenere che "nessuno capì che Stalin si era lanciato in una premeditata usurpazione del potere" (ib.). Bisogna ammettere ch'era abbastanza incredibile che un partito come quello comunista, abituato ad agire in maniera molto astuta coi propri nemici borghesi, si rivelasse così impreparato a garantire la democrazia al proprio interno. Evidentemente non è sufficiente possedere un'ideologia politica più avanzata per garantire maggiore democraticità all'interno del proprio partito. Di per sé un'idea non rende migliori.
L'inizio della stalinizzazione
Considerando che Lenin morì nel 1924, è stupefacente vedere come, alla fine del 1927, lo stalinismo si fosse già affermato in piena regola. Addirittura già alla fine del 1926 l'opposizione interna allo stalinismo (che dipendeva da Trockij, Zinov'ev, Kamenev, Pjatakov, Radek, Smirnov, Rakovskij, Safarov, Evdokimov, Sokol'nikov ecc.) aveva fatto bancarotta, cioè aveva confessato colpe che non aveva commesso e chiesto di rinunciare a qualunque forma di frazionismo. E pensare che Lenin aveva detto che, per potersi definire bene, bisogna prima dividersi e poi stabilire dei compromessi.
Alla fine Stalin poteva addirittura servirsi dei servizi segreti o della polizia politica per arrestare i capi dell'opposizione interna al partito. Questo perché non si accontentava di espellere i maggiori leader dagli organi centrali del partito, ma li voleva silenziare definitivamente (all'inizio col carcere, poi con l'esilio nei gulag siberiani, infine coi processi-farsa e le fucilazioni immediate). Non voleva discussioni nel suo partito, anche perché, essendo intellettualmente mediocre, non sarebbe stato in grado di sostenerle. Voleva soltanto esecutori ai suoi ordini. In questo bisogna riconoscergli delle capacità.
Al tempo di Lenin nessuno si era mai sognato di comportarsi così o di essere trattato dogmaticamente come un "nemico del popolo". Evidentemente all'interno del partito non erano state poste a sufficienza le basi della democrazia. Si era troppo abituati ai rapporti di forza, che peraltro trovarono largo seguito quando Lenin non era più nelle condizioni fisiche di gestire il partito.
In fondo fu una fortuna per Lenin morire al momento giusto. La storia non può accusarlo di aver posto le basi dello stalinismo, anche se non seppe porre quelle oggettive che impedissero il suo formarsi (che sono sostanzialmente quelle della democrazia diretta, l'unica democrazia che permette a ogni cittadino di assumere delle responsabilità personali).
Il pretesto di Kirov
Il governo sovietico si rese facilmente conto che i successi ottenuti dal primo piano quinquennale (1929-33) avevano pagato un prezzo spaventoso, sacrificando enormemente la campagna, irreggimentando l'intera società, accentuando di molto gli aspetti autoritari del sistema, impedendo un qualunque dibattito pubblico.
Quando poi gli organi di partito a livello di potere locale autonomo, cercarono di affermare la priorità degli interessi periferici su quelli centrali, l'entourage di Stalin colse l'occasione per creare artificialmente una situazione esasperata, destinata a uno sbocco autoritario.
Per poter scatenare una repressione di massa con cui contenere il dissenso interno, Stalin creò un pretesto rimasto ancora oggi poco chiarito: l'assassinio di Kirov, primo segretario del comitato del partito nella regione di Leningrado, membro del Politburo e, nel 1934, segretario del C.C. del partito.
Egli aveva espresso giudizi negativi sull'operato di Stalin. Nei primi anni '60 una certa Lidia Lebedinskaja scoprì negli archivi dell'Istituto di marxismo-leninismo una lettera di Kirov indirizzata a Valerian Kujbyshev, del 30 agosto 1934, in cui criticava abbastanza duramente la posizione politica di Stalin.10
Il 1° dicembre 1934, in un corridoio del palazzo Smolnyj di Leningrado, venne assassinato, con alcuni colpi di pistola, Serghej Mironovic Kirov, primo segretario del partito comunista della città. Colto sul fatto, l'esecutore del delitto era un giovane membro del partito, Leonid Nikolaev, che però da mesi non lavorava più al comitato del partito di Leningrado, anche se, nonostante questo, poteva continuare a disporre di un permesso speciale per accedere al palazzo Smolnyj; peraltro egli conosceva perfettamente sia quando Kirov sarebbe entrato al palazzo, sia che percorso avrebbe fatto. La guardia del corpo di Kirov, Borisov, funzionario del Nkvd, il giorno dell'assassinio aveva, inspiegabilmente, lasciato Kirov da solo.
La mattina del 2 dicembre giungeva a Leningrado lo stesso Stalin, per gestire personalmente l'inchiesta. Il delitto fu subito collegato ai nomi di alcuni ex membri del Komsomol (organizzazione giovanile del partito), tra i quali Rumjantsev, Tolmazov, Kotolynov, Shatskij, Mjasnikov, Mendelshtam..., che - stando all'accusa - in precedenza avevano parteggiato per l'opposizione trockista di Grigorij Zinov'ev. Stranamente però Nikolaev non ne faceva parte.
Il processo si svolse a porte chiuse il 28-29 dicembre. I giovani, 14 persone in tutto (incluso l'esecutore del delitto), furono condannati a morte e fucilati un'ora dopo la lettura della sentenza. Fu lo stesso Stalin a sostenere che il delitto proveniva dagli ambienti di Zinov'ev (e Lev Kamenev). Solo dopo la sua morte si arrivò a dimostrare che nessuna delle persone fucilate aveva svolto attività controrivoluzionaria o clandestina. Anche Borisov morì, ma in uno strano incidente stradale.
Questo delitto è stato paragonato all'incendio nazista del Reichstag, perché, come quello, scatenò subito dopo una spaventosa repressione di massa contro i dissidenti politici: ex socialisti, ex menscevichi, ex kulaki, ex nobili, stranieri, preti11, dirigenti politici, quadri intermedi, funzionari, ufficiali dell'esercito, semplici cittadini... L'articolo 58 del codice penale (1926) permetteva di considerare come reati contro lo Stato dei comportamenti che in un qualunque regime democratico al massimo avrebbero ottenuto una sanzione amministrativa. Alla fine del '34 fu ristabilito il sistema delle misure eccezionali, con l'aggiunta però degli arresti di massa, delle esecuzioni capitali dei "nemici del popolo", e così via.
Nel gennaio del 1935 il Collegio militare della Corte suprema condannò gli ex dirigenti del Nkvd (servizi segreti) di Leningrado, Medved, Zaporozhets, Fomin, Petrov, Lobov..., a vari anni di carcere per non aver adottato le misure necessarie a porre fine all'attività terroristica del gruppo zinov'evista e di negligenza nei confronti della protezione della vita di Kirov. Due anni dopo quasi tutti i capi del dipartimento del Nkvd di Leningrado furono fucilati.
All'inizio del 1937 i poteri degli organi straordinari erano talmente aumentati che sfuggivano del tutto al controllo del partito. Al plenum di febbraio-marzo del C.C. (1937) vi furono gli ultimissimi tentativi di resistere allo stalinismo già imperante. Dopo questo plenum iniziò lo sterminio di massa dei quadri del partito, anche di quelli che, pur avendo appoggiato Stalin, non potevano accettare incondizionatamente il suo sistema repressivo.
Nel solo biennio 1937-38 si eliminarono fisicamente oltre 681.000 persone (circa 40.000 al mese) e se ne internarono nei campi di concentramento (gulag) oltre 634.000. Gli stessi membri del Politburo avevano paura di essere convocati da Stalin: in effetti delle 31 persone tra coloro che entrarono nei Politburo di Lenin e Stalin (1919-38) solo sei sopravvissero a Stalin (Andreev, Kaganovich, Krusciov, Mikojan, Molotov e Vorošilov); degli altri 25, 19 furono fucilati, 2 si suicidarono e solo 4 morirono di morte naturale. Con la fucilazione di Bucharin nel 1938 e l'assassinio in Messico di Trockij nel 1940 l'intero gruppo bolscevico che aveva fatto la rivoluzione era scomparso.
Durante il processo del 1938 contro Bucharin, Rykov e altri, fu indicato, fra gli organizzatori dell'assassinio di Kirov, Genrih Jagoda, allora Commissario del popolo degli Affari Interni dell'URSS, che avrebbe appunto agito con la complicità dei servizi segreti di Leningrado. Jagoda aveva però un unico superiore: Stalin.
Lo stesso Jagoda fu tra i principali organizzatori della liquidazione dei kulaki, si dedicò alla pianificazione della rete dei gulag e supervisionò gli interrogatori nel primo dei processi di Mosca, nell'agosto 1936, che si concluse con la condanna e la fucilazione, tra gli altri, di Lev Kamenev e Grigorij Zinov'ev. Subito dopo, su ordine di Stalin, fu a sua volta arrestato il 3 aprile 1937 e condannato nel quarto e ultimo dei processi moscoviti, nel marzo 1938, e subito fucilato e sostituito da Nikolaj Ežov, sotto il quale le eliminazioni degli oppositori politici allo stalinismo raggiunsero il culmine.12
E con Stalin ci voleva poco per essere eliminati. Già alle votazioni del XVII Congresso del partito del 1934, Kirov aveva potuto sperimentare quanto Stalin lo odiasse: questi infatti aveva ottenuto 292 voti contrari per l'elezione al Comitato Centrale, mentre quello solo quattro, risultando così il dirigente più popolare. Ebbene, Stalin fece distruggere 289 schede a lui contrarie, poi chiamò Kirov a Mosca, ma lui rifiutò, poiché intendeva terminare il suo lavoro a Leningrado: ufficialmente fu questa la motivazione.
Va detto che Kirov sostenne Stalin sin dalla morte di Lenin e gli offrì il suo supporto nel 1927, quando, al XV Congresso del partito, furono espulsi i sostenitori di Trockij e Zinov'ev.
Quindi, per riassumere, in che maniera Stalin utilizzò l'omicidio di Kirov? Secondo tre finalità: 1) restare nella direzione del partito, altrimenti sarebbe stato sostituito, molto probabilmente, dallo stesso Kirov; 2) scatenare all'interno del partito una strage di tutti gli avversari politici; 3) mascherare, attraverso questa strage, il fallimento della gestione centralizzata dell'economia.13
Stalin non vedeva l'ora di eliminare tutti coloro che avevano compiuto la rivoluzione bolscevica (troppo idealisti per lui) e che erano in grado di testimoniare che il suo ruolo in quella rivoluzione era stato del tutto secondario. Non solo voleva un partito di funzionari alle sue strette dipendenze, ma anche un totale ricambio generazionale, tale per cui i nuovi candidati all'ingresso nel partito non fossero stati testimoni diretti di quella rivoluzione. In questa maniera sarebbero stati più facilmente indotti ad accettare la versione ufficiale dell'ideologia dominante riguardante la storia del partito bolscevico, la storia della rivoluzione e il giudizio di condanna nei confronti di tutte le ideologie concorrenti. La memoria storica andava azzerata e ricostruita.
Quando non era possibile compiere una strage completa dei dirigenti politici, Stalin faceva in modo di corromperli fino all'osso, cioè li obbligava a essere violenti come lui e soprattutto a mentire come lui. Gli era facile comportarsi così, poiché controllava completamente i servizi segreti ed era in grado di ricattare o di minacciare chiunque grazie ai suoi archivi. Chi riuscì a sopravvivere alle sue purghe è stato perché in almeno una situazione contingente si era comportato come lui. Era in trappola e poteva uscirne solo col suicidio.
Nell'ambito di un socialismo statalizzato il massimo potere autoritario di cui si può disporre non è quello economico ma quello politico, nel senso che la vita privata del dittatore può anche essere condotta in maniera frugale, senza lussi, senza esibire una particolare agiatezza. In una società povera come quella sovietica Stalin sapeva bene d'essere più convincente se si manifestava come uno del popolo.
Noi in occidente, abituati come siamo all'individualismo, non riusciamo bene a capire che, in una società forzosamente collettivizzata, per avere un potere economico bisogna prima avere quello politico. Non riusciamo neppure a capire che il potere politico non viene acquisito per un qualche merito personale, ma perché si condivide con molti altri compagni una determinata ideologia.
Per noi occidentali il potere politico è del tutto subordinato a quello economico, e quest'ultimo viene acquisito in maniera individuale o familiare o societaria. Chi detiene il potere politico viene scelto dal potere economico sulla base di un particolare carisma (per es. è simpatico e sa parlare bene o è di bell'aspetto o presenta una certa discontinuità rispetto al passato). Dopodiché viene sostituito, in quanto si sa che la popolazione si stanca di vedere al potere sempre la stessa persona, oppure perché rimane delusa per qualcosa di politicamente scorretto o di scandaloso.
La politica è solo un teatrino di marionette, i cui fili sono manovrati da mani invisibili. Per es. parlando con Reagan, Gorbaciov si accorse subito di avere a che fare con un presidente che non poteva prendere in autonomia alcuna decisione.
Nell'ambito del socialismo statalizzato chi vuole il massimo potere possibile (e in quel sistema può anche tenerlo sino alla morte), deve essere disposto a compiere i crimini più efferati, che devono anzitutto servire per se stesso, per conservare il proprio potere, aumentandolo a dismisura.
Viceversa nelle società occidentali chi comanda politicamente sa di poter essere rimosso in qualunque momento dal potere economico, per cui, quando compie dei crimini efferati (per es. un colpo di stato, una guerra di sterminio, un omicidio politico), lo fa solo perché gli viene richiesto, a prescindere che lo desideri o meno.
Industria e agricoltura: quale primato?
Quando gli stalinisti abolirono la NEP e passarono alla collettivizzazione forzata per accelerare l'industrializzazione, qualunque agricoltore agiato veniva visto come un nemico, e qualunque contadino povero o medio come un soggetto da sfruttare al pari dell'operaio industrializzato, in nome di uno Stato sempre più onnipotente.
Avendo eliminato i socialisti-rivoluzionari (ex-populisti), che rappresentavano gli interessi del mondo rurale, gli stalinisti potevano dire addio a un rapporto dialettico tra città e campagna, tra industria e agricoltura.
A dir il vero furono gli stessi bolscevichi (presi in sé e per sé) a non capire che doveva essere l'industria a porsi al servizio dell'agricoltura, non il contrario. D'altra parte avevano accettato il socialismo scientifico quasi come un dogma economico; e quella era un'ideologia che, seppure giustamente ambiva a porsi contro il capitalismo privato, individualistico, non metteva però in discussione il primato dell'industrializzazione.
Sicché i bolscevichi, una volta divenuti stalinisti e imposta la collettivizzazione, cominciarono a sostenere l'idea che l'industrializzazione avrebbe reso più efficiente l'agricoltura. In realtà avevano di mira la completa subordinazione di tutto il mondo rurale alle esigenze del socialismo statale.
Gli stalinisti non fecero altro che trasferire l'ideologia della forzata statalizzazione dell'industria all'agricoltura. Solo che mentre nell'industria la popolazione che vi lavorava era un'infima minoranza, proprietaria di nulla, quindi facilmente ricattabile, viceversa, nei confronti dell'agricoltura si fu costretti a usare il terrorismo statale (servizi segreti, polizia politica, gulag, fucilazioni, torture, trasferimenti coatti di intere popolazioni da un luogo all'altro, ecc.). I contadini erano troppi, l'80% dei lavoratori. Lo stalinismo finì con l'essere composto da una banda di criminali, che tali erano anche solo per il fatto di dover obbedire a direttive indiscutibili.
In fondo la principale idea che avevano gli stalinisti era molto semplice, come tutte le loro idee schematiche: non puoi essere socialista se non lavori per lo Stato. Era la stessa idea che avevano i cattolici-romani, salvo il fatto ch'essi la riferivano alla loro Chiesa, dove il ruolo centrale era ed è quello del pontefice, giudicato infallibile, alla cui dipendenza vi era e vi è una gerarchia che, per il bene di se stessa, non poteva e non può mettere in discussione la sua autorità e soprattutto il suo autoritarismo.
Lo stalinismo non è che una laicizzazione del cattolicesimo-romano, resa necessaria dal fatto che il primato economico doveva passare dal mondo rurale a quello industriale, cioè da un mondo ancora legato ai processi della natura a un mondo in cui tali processi dovevano essere dominati dal macchinismo.
Mors tua, vita mea
Per fare il politico di professione bisogna essere capaci di una certa spregiudicatezza. In questo Stalin era un maestro. Nel giro di pochissimi anni era capace di assumere le tesi di un leader politico solo per contrastare duramente quelle di un altro. Quando aveva raggiunto il suo scopo, prendeva alcune tesi del leader sconfitto per volgerle contro un altro ancora. è andato avanti così fino a quando non ha più avuto rivali. Lasciava tutti sconcertati. Sembrava un cinico machiavellico all'ennesima potenza.
Anche Lenin riteneva che la coerenza ideologica fosse un difetto non un pregio. Eppure c'era una certa differenza. Anzitutto Lenin non toglieva di mezzo i propri avversari politici che militavano nello stesso partito. In secondo luogo non cambiava idea per aumentare un potere personale, ma per affrontare le nuove contraddizioni che di volta in volta emergevano. Il mutamento di idee era motivato da argomenti razionali, non era il capriccio di un momento o il frutto di un calcolo utilitaristico. Lenin voleva una direzione collegiale del partito, e se non poteva ottenere l'unanimità, si accontentava di una semplice maggioranza.
Stalin invece se la prendeva con chi non condivideva le sue decisioni. Al massimo faceva in modo che certe idee venissero formulate non da lui stesso, ma dai suoi alleati più fidati. E a lui piaceva far la parte di chi interveniva per ultimo, di chi approvava o disapprovava talune opinioni o valutazioni, dopo averle ascoltate tutte.
Naturalmente a forza di far scomparire, in un modo o nell'altro, determinati leader dagli organi centrali del partito o dello Stato, i rimanenti si guardavano bene dall'esprimersi in maniera categorica, anzi, pesavano parecchio le loro parole e, nonostante questa cautela, conservavano sempre, finito un determinato incontro, una certa apprensione, un certo "timore e tremore". Sapevano infatti ch'era sempre possibile, anche a notte fonda, che i servizi segreti venissero a prelevarli nella loro abitazione, senza che i parenti ne sapessero più niente (a volte gli stessi familiari scomparivano, in quanto Stalin era fissato con l'idea di "colpa collettiva": un'idea che nella gestione dei colcos fece danni colossali).
Quando Lenin parlava di "dittatura del proletariato", intendeva qualcosa contro chi voleva restaurare il capitalismo. Stalin invece la pensava contro tutti, inclusi gli stessi dirigenti politici, sindacali e i funzionari statali, civili o militari che fossero. Nessuno poteva pretendere di sentirsi in una botte di ferro. Quando ci si sente quotidianamente circondati da spie, delatori, carrieristi senza scrupoli, persone ciniche che vivono secondo il motto latino "mors tua, vita mea", ecco, quello è il momento in cui si vive in un regime di terrore.
La battaglia contro le idee
Perché un attacco mortale contro la persona non serve a niente? è quanto meno illusorio, se non ridicolo, pensare di superare i limiti di un'idea eliminando fisicamente chi la sostiene. La guerra contro le persone è una forma di ignoranza primitiva, come quando un bambino si chiude gli occhi sperando di non esser visto.
Bisogna però stare attenti a non fare i filosofi, a non cadere nelle fumoserie. Anche Paolo di Tarso diceva che la battaglia dei cristiani non era contro "la carne e il sangue", ma poi aggiungeva, in maniera del tutto mistica: è contro "le potenze dell'aria".
Detto altrimenti: la battaglia è sì contro le idee, ma è anche contro le persone che le incarnano, nel senso che bisogna lottare per indurre le persone a cambiare le proprie idee, quando queste idee impediscono di realizzare obiettivi di libertà e giustizia sociale per le grandi masse popolari.
è sciocco sperare che chi detiene posizioni di potere, vi rinunci solo perché vengono combattute le sue idee politiche, sociali, economiche, ecc. La lotta culturale sulle idee deve ad un certo punto portare a una lotta politica vera e propria, altrimenti sarà un mero gioco scolastico, un'astrazione nuda e cruda. Se ciò non avviene, la lotta culturale finirà col perdere mordente, col tradire se stessa. Infatti la lotta politica deve portare a una sovversione, a una conquista del potere per un cambio di regime, per un rivolgimento delle basi fondamentali che reggono in piedi un determinato sistema di vita.
Insomma lottare contro le idee serve per cambiare mentalità, valori, ma questa lotta deve rimuovere dal potere chi difende idee sbagliate, impopolari, anti-democratiche, disumane. Esautorare, rimuovere dal potere non significa eliminare fisicamente. Al limite non significa neppure sostituire una persona con un'altra, poiché chiunque può cambiare idea, se pensa che gli eventi attorno a sé abbiano un peso fondamentale, inedito. Di sicuro non si può salvaguardare un "sistema" che produce idee sbagliate, e che, a sua volta, viene giustificato da quelle stesse idee.
Lottare contro le idee diventa efficace se si lotta contro un sistema più generale. Ciò indubbiamente comporta una lotta contro le persone che lo rappresentano, ma non è detto che tale lotta debba comportare un'eliminazione fisica dell'avversario (o una reclusione carceraria o una espulsione dallo Stato). Una decisione del genere può essere dettata solo da un'esigenza di legittima difesa. La necessità di sopravvivere, ovviando al rischio di una morte certa o di una qualche menomazione fisica, è l'unico motivo legittimo che può portare a soluzioni drastiche, unilaterali, contro i propri nemici.
Ecco perché bisogna fare attenzione a non usare parole o espressioni molto pesanti, che potrebbero indurre a comportamenti estremi, come per es. "nemico del popolo", "traditore", "rinnegato", "colluso col nemico"...: gente rozza, priva di princìpi, fondamentalmente cinica, sia essa acculturata o meno, potrebbe anche farsi giustizia da sé.
Non dobbiamo permettere che le idee "uccidano" le persone. Certamente alcune idee possono uccidere dentro, e chi è morto nell'animo, può non accorgersi di assumere atteggiamenti che possono portare gli altri a morire. Quanta gente vicina a Stalin si suicidò? Dalla moglie all'amico Ordžonikidze e tanti altri.
Questo è il motivo per cui la costruzione di un socialismo davvero democratico sarà inevitabilmente un'opera lunghissima, da farsi collettivamente, in cui nessuno può ritenersi insostituibile.
Il caso Bucharin
Nikolai Bucharin, 50 anni dopo esser caduto vittima delle purghe staliniane, è stato riabilitato dalla perestrojka Gorbacioviana nel febbraio 1988, allorché il plenum della Corte Suprema respinse la sentenza che lo accusava di aver partecipato al cosiddetto "blocco antisovietico dei trockisti di destra". Non si è trattato semplicemente del riconoscimento di un gravissimo errore giudiziario, ma anche, in positivo, di due tentativi: 1) far comprendere all'umanità la necessità di distinguere la lotta ideologica da quella politica, le idee dagli uomini che le professano; 2) far comprendere che nella storia esistono sempre diverse alternative nei cui confronti si gioca la libertà degli uomini, e quella risultata vincente non per questo va considerata la migliore.
Bucharin, nel momento in cui fu chiamato a svolgere un ruolo più significativo nella lotta che andava svolgendosi in seno al partito negli anni '20 e '30, aveva già una considerevole esperienza politica. Infatti, durante la rivoluzione russa del 1905-7, aveva aderito alle manifestazioni antigovernative e al Posdr (così il Pcus di allora). Lavorava come agitatore e organizzatore a Mosca. Dopo essere stato più volte arrestato, fu inviato in esilio, da dove riuscì a evadere, emigrando in Polonia. Nell'autunno 1912 conobbe a Cracovia Lenin, che lo convinse a lavorare per i circoli socialisti russi di Vienna. Fu proprio in quell'epoca che cominciò a maturare un forte interesse per l'economia.
Durante la prima guerra mondiale si trovava su posizioni diverse da quelle di Lenin relativamente alla questione dello Stato e del diritto delle nazioni all'autodeterminazione, in quanto l'uno privilegiava la lotta per la democrazia, l'altro quella per il socialismo. Lenin tuttavia non dava molta importanza a tali divergenze, ritenendole non fondamentali.
Nell'ottobre 1916 lasciò l'Europa per gli Stati Uniti. A New York iniziò a collaborare attivamente per il giornale "The New World". Lenin era pienamente soddisfatto della lotta che allora Bucharin conduceva contro Trockij. Fu solo dopo la rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 ch'egli rientrò in Russia. Nell'agosto successivo venne eletto membro del C.C. al VI Congresso del partito bolscevico. In quel momento egli s'opponeva a coloro che esitavano sulla necessità d'una insurrezione armata contro il governo provvisorio di Kerensky. Infatti, dopo la rivoluzione d'Ottobre a Leningrado, fu tra i capi dell'insurrezione di Mosca.
Nel 1918, invece di accettare le posizioni di Lenin favorevoli a una trattativa pacifica con la Germania, assunse una posizione estremistica, senza rendersi conto che la prosecuzione della guerra o un'esportazione della rivoluzione comunista, avrebbero potuto compromettere le sorti di quest'ultima nella stessa Russia. Più tardi però ammise d'essersi sbagliato. Nel contempo svolgeva un lavoro assai proficuo in qualità di capo-redattore della "Pravda", organo centrale del partito. Si può dire, nel complesso, che negli anni 1919-20 le concezioni di Bucharin si caratterizzavano per un "romanticismo rivoluzionario" assai marcato e per una concezione politica gauchiste. In un certo senso egli personificava lo spirito del "comunismo di guerra", che allora albergava in tutti i membri del partito.
Il "comunismo di guerra" - come noto - forzatamente adottato in seguito alla guerra civile e alla crisi economica, consisteva in una mobilitazione di tutte le forze e risorse per la difesa. Suoi elementi essenziali furono: la nazionalizzazione dell'intera grande e media industria, nonché di una buona parte delle piccole imprese, la massima centralizzazione nella direzione della produzione industriale e della distribuzione, la cessione obbligatoria allo Stato, da parte dei contadini, a prezzi fissi, di tutte le eccedenze di grano e di altri prodotti che superassero le norme stabilite per il consumo personale e per i bisogni economici, l'interdizione del commercio privato, l'approvvigionamento alimentare pianificato della popolazione e il livellamento dei salari.
Proprio nel 1920 apparve L'economia del periodo di transizione, l'opera di Bucharin che meglio generalizzava la prassi politica ed economica del suddetto comunismo, basata sostanzialmente sulla "coercizione extraeconomica" a carico dei contadini, presentata come fase transitoria. Non era quello il libro che avrebbe potuto introdurre la Nuova Politica Economica (NEP) che lo Stato sovietico applicò dal 1921 al 1929, e che, in definitiva, trovò Bucharin favorevole.
Come noto, la NEP voleva essere l'antitesi del "comunismo di guerra": essa infatti autorizzava il commercio privato, le piccole imprese capitalistiche sotto un certo controllo statale, sollecitava l'industria statale all'autonomia finanziaria, trasformava le cessioni del surplus agricolo in imposte in natura. L'essenza di quest'ultima innovazione consisteva nel fatto che il contadino, dopo la consegna della prestabilita imposta in natura, poteva amministrare liberamente il prodotto della sua azienda. Naturalmente tale imposta era inferiore alle consegne obbligatorie. Fu questa politica economica che consolidò le basi socioeconomiche dell'alleanza tra operai e contadini, e che sviluppò i legami dell'industria socialista con la piccola produzione agricola, usando i rapporti mercantili-monetari.
Forse il conflitto maggiore tra Lenin e Bucharin fu quello degli anni 1920-21, allorché Lenin impedì che i sindacati si staccassero dal partito, temendo l'indebolirsi di quest'ultimo, appena uscito dalla durissima lotta contro gli interventisti stranieri e le guardie bianche.
Bucharin, invece, era dell'avviso che la democrazia politica e lo sviluppo produttivo avrebbero tratto beneficio dall'autonomia dei sindacati. Aveva ragione lui, ma il X Congresso del partito (marzo 1921) pose fine al dibattito emanando due importanti risoluzioni: una, politica, sull'unità del partito, con cui si vietava qualsiasi attività frazionistica; l'altra, economica, sull'imposta in natura, che costituì il fondamento della NEP. Tuttavia, nonostante questo conflitto teorico, non ci fu mai alcuna rottura fra Lenin e Bucharin.
Negli anni 1921-27 Bucharin ebbe ruoli politici e giornalistici molto importanti, anche all'estero. Dopo la morte di Lenin s'impegnò nel partito, a fianco di Stalin, contro le idee di Trockij, Zinov'ev e Kamenev. A volte si lanciava in polemiche così accanite che restava completamente sordo agli argomenti sensati dei suoi avversari. D'altronde Lenin l'aveva criticato d'essere troppo scolastico e antidialettico.
Stalin, che Trockij accusava, non senza ragione, di "centralismo senza princìpi", seppe approfittare della situazione per imporre le sue concezioni politiche, estromettendo prima Trockij, poi Zinov'ev e Kamenev dalla direzione del partito. In seguito la storia si preoccuperà di dimostrare che molte delle concezioni teoriche di Stalin erano più vicine a quelle di Trockij che non a quelle di Bucharin.
Nel libro La via al socialismo e l'unità operaio-contadina (1925), tentò di fondare teoricamente la costruzione del socialismo sulla base della NEP, riprendendo le idee di Lenin sulla necessità di misure transitorie per condurre al socialismo un Paese in cui dominava la piccola proprietà contadina. In tal senso condivideva pienamente l'idea di Lenin secondo cui il socialismo doveva essere "un sistema di cooperatori civilizzati" più che non una gestione centralizzata della produzione. Ciononostante lo schema di Bucharin prevedeva che la NEP avrebbe perso progressivamente ogni ragion d'essere, mentre il socialismo si sarebbe radicato nel Paese senza salti qualitativi né transizioni rivoluzionarie. Il che è difficile da sostenere.
Quando uscì il libro di Bucharin, si stava scatenando un'aspra lotta politica in seno al partito. Da un lato infatti si prospettava l'ulteriore sviluppo della NEP "classica" attraverso l'estensione dei rapporti mercantili-monetari, il libero scambio, il permesso di assumere manodopera, di prendere o cedere in affitto la proprietà, la soppressione dell'imposta in natura e l'organizzazione delle forniture alimentari cittadine su basi mercantili: misure, queste, destinate a favorire le iniziative individuali e quindi l'industrializzazione privata nel Paese. Dall'altro lato, però, il partito si cominciava a chiedere come conciliare questa libertà della piccola produzione con gli obiettivi statali dell'industrializzazione. Nel 1925 il problema veniva praticamente regolamentato dallo scambio non equivalente fra città e campagna. Ma un'economia equilibrata non poteva tollerare questo pompaggio di risorse, anche perché il partito era costretto a ricercare compromessi sempre più complicati.
Di fatto le linee programmatiche degli anni 1925-27 soffrivano di questa interna contraddizione: come si potevano non obbligare i contadini ad accettare un'industrializzazione forzata, quando risultava evidente che con la tradizionale produzione agricola non si sarebbe risolto il problema cerealicolo in un Paese in cui l'urbanizzazione andava crescendo? Significativamente Bucharin cominciò ad abbandonare l'idea di uno sviluppo lento e graduale, prospettando invece cadenze più rapide, che includessero anche, in via eccezionale, la possibilità di fare ricorso a "misure straordinarie".
Al XV Congresso del partito (dicembre 1927) la direzione presentò un programma unanime per una graduale "ricostruzione" della NEP, volto a una maggiore applicazione della cooperazione produttiva e pianificata, e volto anche a un'offensiva più vigorosa contro gli elementi capitalistici urbani e rurali. Dopo alcuni mesi dal Congresso la crisi delle forniture di grano indussero l'Ufficio politico a esercitare pressioni amministrative e giudiziarie a carico dei kulaki (contadini ricchi) e dei contadini medi, affinché provvedessero a rifornire di grano le città. La decisione venne presa da tutti i membri della direzione, fra cui Rykov (ministro degli Interni), Tomskij (leader dei sindacati), Bucharin e Stalin.
In particolare Stalin era sempre più convinto che non si poteva pensare di risolvere il problema dei cereali con l'aiuto dei meccanismi tradizionali della NEP. Egli cioè dava per scontato che il ricorso esclusivo a misure eccezionali, nei confronti della proprietà contadina individuale, avrebbe comportato inevitabilmente un calo del volume della semina e dei cereali destinati alla vendita. Ecco perché escogitò l'idea di costruire coattivamente, come nuovo canale di pompaggio, i colcos (azienda collettiva), sviluppando parallelamente aziende cerealicole di tipo sovcosiano (statale). Cioè i contadini non andavano lasciati liberi di decidere quale atteggiamento assumere nei confronti del mercato. Anzi il mercato stesso andava di molto ridimensionato.
All'inizio nessuno dell'Ufficio politico protestò contro questa nuova forma di pompaggio. Si discuteva soltanto delle sue modalità e dei limiti. Sarà all'inizio del giugno 1928 che Bucharin scriverà una lettera a Stalin in cui sosteneva che la costruzione dei colcos non avrebbe potuto far uscire il Paese dalla crisi in un lasso di tempo molto breve, anche perché lo Stato non era in grado di fornire immediatamente ai colcos i capitali e le attrezzature necessarie. Egli in pratica rimproverava a Stalin una politica improvvisata, troppo empirica e forzosa per essere davvero efficace.
Per Bucharin, in sostanza, la questione si poneva nei termini seguenti: non essendo i colcos in grado di fornire sufficiente grano, occorreva, nell'immediato, rilanciare le aziende individuali, favorendo, in un certo senso, lo sviluppo del capitalismo. Stalin era invece di tutt'altro avviso: fino a quando i colcos non sarebbero stati in grado di risolvere il problema cerealicolo, egli riteneva indispensabile ricorrere alle misure straordinarie. A quel tempo il principale disaccordo fra i due riguardava meno la questione dei ritmi di sviluppo o quella di sapere se bisognava o no creare dei colcos, e molto di più la questione di sapere come gestirli, poiché essi non erano ancora in numero sufficiente e tendevano non a produrre grano, ma derrate più remunerative sul mercato.
Nel luglio 1928, al plenum del C.C., Stalin avanzò la sua teoria del "tributo", cioè di una soprattassa a carico dei contadini, cui si era momentaneamente costretti - a suo giudizio - "per mantenere e accelerare gli attuali ritmi dello sviluppo industriale". Bucharin non si oppose al pompaggio né alla sottrazione di una parte della produzione agricola a beneficio dell'industria pesante, anche se auspicava l'uso di una grande moderazione.
In sintesi: Stalin riteneva che lo scambio non equivalente (tra industria e agricoltura) e il mercato fossero due cose incompatibili, in quanto lo sviluppo delle aziende agricole individuali ostacolava quello dell'industrializzazione statale, che andava centralizzato. Bucharin invece sosteneva che il pompaggio delle risorse agricole dovesse effettuarsi attraverso i meccanismi di mercato, sulla base dei redditi delle aziende individuali, per un periodo di tempo piuttosto lungo. In altre parole Bucharin non negava che i colcos e i sovcos fossero lo strumento più adatto a questo pompaggio: il problema, per lui, era ch'essi, da soli, non potevano fornire immediatamente allo Stato i cereali destinati alla vendita.
Chi dei due aveva ragione? Il fatto è che nessuno dei due metteva in discussione che l'industrializzazione dovesse essere gestita dallo Stato e che dovessero pagarla i contadini. La differenza stava soltanto nelle forme con cui imporre tale onere. E quelle di Stalin erano necessariamente brutali, in quanto solo così pensava, in maniera piuttosto paradossale, di poter scongiurare la rottura dell'alleanza operaio-contadina e quindi il rischio di una guerra civile.
In realtà ci sarebbe voluto lo sforzo di una riflessione collettiva, che avrebbe permesso di elaborare un programma costruttivo per il periodo in cui i colcos non erano ancora in grado di fornire la quantità necessaria di cereali. Ma il plenum del C.C. nel luglio 1928 si limitò a decidere a maggioranza di sottoscrivere l'appello alla prudenza lanciato da Bucharin, Rykov e Tomskij.
Nella pratica, tuttavia, le cose andarono ben diversamente, in quanto era il discorso di Stalin sul "tributo" che la politica del partito, in ultima istanza, portava avanti a spron battuto. Di fronte a questa contraddizione Bucharin cercò di reagire nell'autunno 1928, segnalando che la situazione economica stava alquanto peggiorando. Al plenum del C.C. di novembre egli riuscì a far adottare una risoluzione comune avente come punto fondamentale il riconoscimento che i contadini poveri e medi andavano incoraggiati, non demotivati con minacce e intimidazioni. Ma la risoluzione, benché votata all'unanimità, venne ben presto dimenticata, col risultato che alla fine del '28 il Paese era piombato in una terribile crisi cerealicola. I debiti con l'estero non potevano più essere pagati. S'imposero immediatamente il razionamento del pane e i tagli alle importazioni. Tutti i programmi produttivi rischiavano di fallire. Lo stalinismo era in procinto di approfittarne per farsi valere.
Il 30 gennaio 1929, ai membri dell'Ufficio politico, e il 9 febbraio, al Presidium della Commissione centrale di controllo del partito, Bucharin, Rykov e Tomskij dichiararono che il dualismo fra la prassi e le decisioni prese dal partito dipendevano dalla posizione personale di Stalin, il quale, avendo accumulato dei poteri straordinari, ne usava in modo arbitrario. Stalin veniva accusato di "etichettare le persone" e di nascondere la verità delle cose; neppure i suoi collaboratori erano risparmiati. In particolare l'ala buchariniana sosteneva di non aver mai contestato le decisioni ufficiali del partito e ch'essa si batteva soltanto contro le deformazioni imposte a queste decisioni da Stalin e dal suo staff, ovvero contro le misure eccezionali e contro il fatto di mettere Stalin e il partito sullo stesso piano. Infine si chiedeva di non considerare questo attacco a Stalin come un attacco a tutto il partito. "Noi pensiamo - scriveva il gruppo di Bucharin - che il compagno Stalin dovrebbe seguire il consiglio (assai saggio) dato da Lenin, rispettando il principio della collegialità. Noi riteniamo che chiunque debba poter criticare il compagno Stalin, come ogni altro membro dell'Ufficio politico, senza paura di passare per un ‘nemico del popolo'".
Nel suo discorso al plenum del C.C. dell'aprile 1929, Bucharin accusava Stalin d'aver preso delle misure contro tre membri dell'Ufficio politico, al fine di discreditarli pubblicamente, senza che vi fosse alcun giudizio emesso dall'organo politico competente. Oltre a ciò Bucharin criticava la concezione staliniana secondo cui la lotta di classe s'inasprisce in rapporto ai progressi della società socialista. Con questa teoria infatti (che Stalin prese da Trockij e che formulò nel luglio 1928) si poteva giustificare un ricorso perpetuo alle "misure straordinarie". Essa in pratica confondeva, a giudizio di Bucharin, due cose differenti: "un periodo momentaneo di acuta lotta di classe e il corso generale dello sviluppo".
Il pensiero di Bucharin intanto evolveva verso la convinzione che le difficoltà non stavano affatto nei ritmi accelerati dell'industrializzazione, poiché tali ritmi avrebbero potuto essere ancora più sostenuti se si fosse pensato di più a sviluppare l'agricoltura. Tuttavia non era chiaro come farlo: valorizzando le aziende individuali contadine o la cooperazione produttiva collettivizzata? I colcos, creati per risolvere il problema cerealicolo, non dovevano forse offrire la possibilità di una rapida industrializzazione? E allora perché non funzionavano? Il motivo era semplice, ma non si sapeva come affrontarlo. Il piccolo produttore non "vendeva" più il suo grano, ma lo "consegnava" allo Stato. Il mercato fra città e campagna non esisteva più e i contadini venivano accusati d'essere degli egoisti piccolo-borghesi, poiché non producevano quanto richiesto.
L'introduzione di misure straordinarie, l'assenza di incentivi, l'aumento delle pressioni amministrative e la forzata concessione di grano allo Stato avevano avuto un effetto assai demoralizzante sulla produzione individuale. La NEP veniva sempre più vista dal potere centrale come un ostacolo allo sviluppo. Tuttavia i colcos non funzionavano proprio perché non erano organi "socialmente" produttivi, ma organi produttivi in senso "amministrativo". La differenza non era di poco conto.
Ad un certo punto Bucharin elaborò un programma alternativo: suggerì d'importare il grano, di rinunciare definitivamente alle misure straordinarie, di ristabilire la legalità rivoluzionaria, di servirsi dei prezzi come mezzo di regolazione e d'incentivare la produzione agricola. Oltre a ciò sosteneva che i prezzi d'acquisto del grano, nel mercato interno, dovevano essere flessibili, rapportati all'andamento della stagione e alle diverse zone regionali.
Tale progetto non venne approvato dalla maggioranza dei membri del C.C. Essenzialmente a causa del primo punto: la sua proposta d'importare il grano venne percepita come un passo indietro, privo di sbocchi per il futuro. Per la direzione del partito dovevano essere i contadini ad abituarsi alle esigenze dell'industrializzazione accelerata, allo sviluppo dell'urbanizzazione, alla collettivizzazione forzata, che includeva l'uso comune dei macchinari agricoli e la produzione secondo le quote fissate dal piano quinquennale, vendendo le derrate fondamentali sulla base di prezzi non decise dalla compravendita. Posto questo, il contadino poteva ricavare il surplus dal suo orto privato. L'atteggiamento intransigente di Bucharin indusse la direzione a rifiutare tutte le sue proposte, compresa quella, così importante, del rispetto della legalità rivoluzionaria. Nonostante ciò si decise lo stesso di confermare la sua presenza nell'Ufficio politico.
Tuttavia alla fine del '29 Bucharin, Rykov e Tomskij continuarono a proclamare l'inammissibilità delle misure straordinarie, adottate come regola sistemica. Purtroppo, appoggiando Stalin su tale questione, il C.C. commise un errore fatale, di cui si renderà conto solo molto tempo dopo. Si era convinti che il gruppo buchariniano avesse il suo valore solo come contrappeso politico allo stalinismo emergente, non anche come alternativa o almeno come correttivo alla politica economica dominante.
Purtroppo però con la sconfitta di questo gruppo e la sua esclusione dall'Ufficio politico, cominciarono a moltiplicarsi gli abusi nelle campagne e le violazioni dei princìpi leninisti riguardanti i rapporti coi contadini. Iniziò così il terrore degli anni '30.
A partire da quel momento la biografia politica di Bucharin diventa incerta. Quando si produsse il "grande balzo industriale in avanti", accompagnato da enormi perdite e sacrifici, e il partito cominciò a porsi la domanda se mantenere le misure eccezionali, contro cui aveva protestato Bucharin, oppure se normalizzare la vita socio-economica, scoppiarono ben presto nuove furenti polemiche. Bucharin si fece portavoce della normalizzazione ed elaborò un orientamento generale al Plenum del gennaio 1933. Gli "umori" dei dirigenti sembravano essergli favorevoli. Bucharin riconobbe che il primo piano quinquennale, nonostante alcuni forti limiti, aveva conseguito molti importanti obiettivi: l'URSS era diventata "un nuovo Paese". La concezione economica che Bucharin aveva del socialismo consisteva nel favorire un'economia di mercato pianificata, in cui il commercio, posto su basi nuove, giocasse un ruolo fondamentale (ad es. gli incentivi nell'agricoltura andavano salvaguardati, anche se regolamentati). Nel contempo, più ancora di Rykov e di Tomskij, egli sostenne che Stalin, con la sua ferma volontà, si era conquistato il diritto di dirigere anche in futuro il processo storico-politico del Paese. Parole, queste, che potevano anche lasciar pensare che Bucharin volesse restare nell'Ufficio politico, per continuare a influire sugli avvenimenti. Solo molto più tardi però ci si accorgerà che con esse egli aveva incoraggiato, senza volerlo, la nascita del culto della personalità.
Viceversa, Stalin non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle misure straordinarie e, temendo il successo che le idee di Bucharin stavano avendo negli ambienti di partito, escogitò con il suo entourage il modo per "incastrarlo". Fu così che la polemica resuscitò su questioni puramente terminologiche, che non è necessario qui esaminare. è sufficiente dire che per Stalin la collettivizzazione forzata aveva prodotto risultati superiori a quelli della NEP, e che lo sviluppo dell'industria pesante andava considerato prioritario su tutto.
Dopo l'omicidio di Kirov la spada di Damocle pendeva sulla testa di Bucharin e di altri membri dell'opposizione. All'interno del C.C. si era incerti sul da farsi: la figura di Bucharin non la si vedeva in alternativa alla direzione politica, ma neppure la si voleva escludere da essa, poiché le sue idee antiautoritarie erano condivise. Questo tuttavia non impedì che il Plenum che C.C. del febbraio-marzo 1937, convocato per denunciare i cosiddetti sabotatori e i trockisti infiltrati nella leadership del partito, si aprisse con l'esame del "caso" Bucharin e Rykov (Tomskij nel frattempo si era suicidato, prevedendo il peggio).
L'accusa sosteneva che questi ultimi appoggiavano un blocco trockista-zinov'evista clandestino e un centro trockista parallelo antisovietico, il cui obiettivo era quello di restaurare il capitalismo con l'aiuto di interventisti fascisti stranieri. Tutto ciò era completamente inventato, e del tutto assurde erano anche le accuse mosse contro Bucharin di aver voluto organizzare nel 1930-31 un'insurrezione contadina al fine di creare uno Stato siberiano autonomo che facesse pressione sul regime staliniano, o l'accusa di aver cospirato per eliminare Stalin.
Bucharin si difese egregiamente e la commissione giudicatrice, presieduta da Mikoyan, sembrava dargli ragione. Stalin pertanto si vide costretto a ricorrere all'intrigo (come risulta dalla discussione su quale testo definitivo dare alla risoluzione di condanna). Due proposte erano state fatte: la prima prevedeva l'espulsione di Bucharin e Rykov dal C.C. e dal partito, nonché il processo davanti al tribunale militare con esecuzione della pena capitale (la fucilazione); la seconda prevedeva il deferimento alla giustizia senza esecuzione. Astutamente Stalin suggerì di non tradurli di fronte alla giustizia ma di delegare la gestione del caso al Commissariato del popolo per gli affari interni, col pretesto di un supplemento d'indagine. Decisione, questa, accettata all'unanimità, salvo le due astensioni di Bucharin e Rykov.
L'ultimo atto del dramma di Bucharin fu il processo del 2 marzo 1938, intentato contro il cosiddetto "blocco trockista di destra". I 21 imputati furono accusati dal procuratore A. Vyšinskij dei crimini più assurdi e più gravi: dall'aver manipolato la rotazione delle colture all'intenzione di consegnare l'Ucraina alla Germania nazista. Il processo fu una vera farsa: tutto era già stato predeterminato.14 Bucharin, che pure si era confessato colpevole al pari degli altri (sperando di evitare conseguenze sui familiari), respinse sino all'ultimo l'accusa per lui più mostruosa, quella secondo cui nel 1918, all'epoca di Brest-Litovsk, egli avrebbe progettato con i socialisti-rivoluzionari di uccidere Lenin, così come negò la partecipazione all'assassinio di Kirov. Dei 21 imputati, il Collegio militare della Corte suprema decise di condannarne 18 alla fucilazione e tre a pesanti pene detentive. Con la morte di Bucharin il terrore staliniano era riuscito ad abbattere l'ultimo grande ostacolo.
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Se non si leggono le opere di Nikolaj Bucharin, è difficile capire perché è fallito il socialismo di stato. Egli infatti esprime la posizione di chi voleva aiutare i contadini, conservando però l'idea di statalizzazione dell'economia (banche, industrie, trasporti, miniere, commercio con l'estero ecc.). Voleva sviluppare l'industria permettendo ai contadini di diventare borghesi. Voleva il capitalismo nelle campagne per ottenere il socialismo di stato nelle città. Iniziò a sostenere queste idee nel 1925 e, nonostante le sue successive rettifiche (in senso peggiorativo per le sorti dei contadini), tredici anni dopo venne fucilato dagli stalinisti.
I comunisti avevano fatto la rivoluzione coi contadini, ricchi e poveri, ma consideravano gli operai la loro punta di diamante: sia perché, non essendo proprietari di nulla, essi non avrebbero potuto imborghesirsi come gli agrari (kulaki); sia perché, militando nel partito bolscevico, non avevano rapporti con la Chiesa, per cui erano ideologicamente più affidabili.
Una volta fatta la rivoluzione e superata la guerra civile e l'interventismo straniero, i comunisti non permisero ai contadini di svilupparsi autonomamente, ma solo in funzione degli operai e degli intellettuali, cioè dell'industria di stato e dell'apparato politico-amministrativo.
Ad un certo punto la differenza tra il gruppo di Bucharin e quello di Stalin stava soltanto nel modo di "usare" i contadini. Nessuno dei due gruppi metteva in discussione il "primato dell'industria": semplicemente un gruppo pensava più a metodi di tipo economico (per es. permettere ai contadini di arricchirsi, tassarli in rapporto al reddito e concedere credito con banche statali), l'altro invece preferiva metodi di tipo amministrativo (il lavoro rurale va organizzato come quello operaio, essendo la terra un bene statale come le fabbriche).
A nessun bolscevico venne mai in mente di assegnare il primato dell'economia alla campagna (in un Paese peraltro dove oltre l'80% dei lavoratori erano rurali), né di far ritornare gli operai alla terra, né, tanto meno, di favorire l'autoconsumo e il valore d'uso, o di potenziare le antiche comunità di villaggio (obscine) o di produrre soltanto quei beni industriali durevoli che venissero considerati assolutamente indispensabili alla riproduzione dei lavoratori e che non fossero lesivi per la tutela ambientale. A nessuno venne in mente di decentrare progressivamente, sul piano locale e regionale, i poteri politici ed economici.
Tutti avevano il terrore che in assenza di una statalizzazione e industrializzazione accelerata dell'economia, di una centralizzazione dei poteri decisionali, non solo sarebbero rinati il capitalismo e l'oscurantismo religioso, ma l'intera Russia sarebbe stata anche sconfitta dalle potenze straniere.
Così facendo però davano l'impressione che la rivoluzione socialista fosse stata un puro e semplice colpo di mano di pochi avventurieri, i quali naturalmente sapevano di non avere forze sufficienti per potersi difendere, alla lunga, dai nemici interni ed esterni.
I comunisti non hanno mai creduto in un consenso spontaneo da parte dei contadini, neppur dopo aver assegnato loro gran parte delle terre requisite ai latifondisti laici ed ecclesiastici.
Stalin subentrò a Bucharin (pur avendolo inizialmente appoggiato) quando il partito si accorse che il capitalismo nelle campagne aveva reso i contadini troppo forti, in grado di ricattare non solo gli operai di città, ma tutti gli abitanti urbanizzati e persino il potere politico, la cui sopravvivenza dipendeva appunto dagli approvvigionamenti rurali.
I bolscevichi seppero solo fare la rivoluzione, ma, una volta al potere, fecero un errore dietro l'altro, tanto che, paradossalmente, se non fossero stati attaccati dai nazisti, è da presumere che il loro comunismo sarebbe imploso prima. La vittoria, in quella terribile guerra patriottica, permise infatti a tutto il Paese di non guardarsi allo specchio, di chiudere gli occhi sulle proprie contraddizioni e di andare avanti sino alla morte naturale di Stalin.
Poi improvvisamente si aprì un occhio in occasione della destalinizzazione politica voluta da Krusciov, e finalmente si aprì anche l'altro con la perestrojka di Gorbaciov, che fece capire il fallimento dell'economia sovietica, basato sull'illusione di far coincidere "pubblico" o "sociale" con "statale".
In un'economia statalizzata, se non esistono motivazioni particolari - come appunto in caso di conflitti bellici -, si produce al minimo, senza interesse per la qualità e soprattutto si mente sui risultati raggiunti, per non ricevere dall'alto ordini sempre più onerosi.
Purtroppo il destino ha voluto che dopo la perestrojka l'autocritica non sia approdata alla costruzione di un socialismo realmente democratico, bensì alla reintroduzione del capitalismo.
In tal senso il destino dei russi appare davvero incredibile: non solo hanno sofferto più degli altri Stati europei quando nel loro vigeva il feudalesimo; non solo hanno sofferto, prima di ogni altro Paese europeo, i guasti del socialismo da caserma, ma ora, dopo aver capito, guardando noi occidentali, quanto si può soffrire sotto il capitalismo, hanno deciso consapevolmente di farci compagnia.
Stalinismo e bucharinismo
Bucharin aveva aiutato Stalin a sconfiggere Trockij, quando questi voleva concedere un primato assoluto all'industria contro il mondo rurale, sia quando parlava di rivoluzione permanente, contro l'idea di poter costruire il socialismo in un solo Paese. Ma quando Stalin decise di accettare le posizioni di Trockij in merito all'industrializzazione accelerata a spese dei contadini, Bucharin arrivò a dire che la NEP doveva continuare e che i contadini avevano il diritto di "arricchirsi". Non gli servì a niente avere dalla sua parte Rykov, Tomskij, Uglanov…
Nelle città fu abbastanza facile sostenere che la carenza di cereali era causata dall'egoismo degli agricoltori agiati, dal loro scarso senso del collettivismo e quindi dalla indisponibilità ad accettare le superiori esigenze dello Stato. Lo stalinismo tornò a usare i metodi del "comunismo di guerra", che pur Bucharin aveva teorizzato quando Lenin era vivo; solo che invece di una guerra contro un nemico esterno, oggettivo, era stato inventato un nemico interno, il contadino agiato, assimilato a uno speculatore senza scrupoli, a un approfittatore seriale.
Se non si creano dei nemici, è impossibile giustificare il dispotismo. Non a caso lo stalinismo aumentò in forma morbosa la diffidenza nei confronti degli specialisti di mentalità o di estrazione borghese (tecnici, ingegneri, scienziati…). Questi specialisti - secondo l'ideologia schematica e massimalistica dello stalinismo - tendevano a sabotare le aziende statali, il piano quinquennale e a complottare col nemico per un nuovo intervento straniero. Di qui, col tempo, l'esigenza di imbastire dei processi giudiziari dimostrativi, di comminare sentenze di una gravità eccezionale, di ripristinare in grande stile la lotta di classe, di obbligare tutti a fare autocritica e di mettere le nuove generazioni in opposizione a quelle comuniste (rivoluzionarie) del passato.
Stalin si rendeva conto che Bucharin non poteva essere facilmente eliminato, poiché era molto popolare nel partito e, in un certo senso, rappresentava il "volto umano", l'anima "etica" del socialismo statalizzato. Inoltre le sue idee sull'alleanza operaio-contadina erano condivise. Per questo si limitò a fargli terra bruciata attorno: per es. Uglanov dovette cedere il posto a Molotov, e Tomskij a Kaganovich, due leader che rimasero fedeli a Stalin sino alla sua morte, anzi, anche dopo. A fare il mestatore, a creare intrighi dietro le quinte, a screditare le persone, Stalin, non avendo mezzi intellettuali adeguati, era un maestro insuperato.
Fatto questo, l'idea di un'industrializzazione accelerata e di una collettivizzazione forzata, con cui risolvere i gravosi problemi alimentari del momento, s'impose da sé. Peccato che invece di risolverli, li accentuò. Ma questo è un altro discorso, strettamente legato alla repressioni di massa. Qui è sufficiente dire che lo stalinismo prevedeva una medesima politica per le città e le campagne. I metodi della sua applicazione sarebbero stati gli stessi: pressioni amministrative, pianificazione dall'alto, subordinazione incondizionata al potere centrale, ricorso a misure eccezionali in caso di necessità, cioè quasi sempre.
Per salvare la NEP Bucharin disse delle cose dettate dal buon senso e da un minimo di competenza economica. Per es. affermava ch'era ingenuo pensare che un massiccio drenaggio annuale di risorse dalla campagna all'industria, avrebbe potuto assicurare i più alti ritmi di sviluppo industriale. Senza progressi reali nell'agricoltura - diceva - non ci sarebbe stato un durevole progresso industriale, il quale, peraltro, nell'ambito del socialismo, non si può certo porre come un processo parassitario nei confronti della campagna, ma piuttosto come uno stimolo allo sviluppo di quest'ultima.
Contro coloro che lo accusavano di frenare l'industrializzazione, Bucharin spiegava che per far decollare le nuove grandi imprese occorreva tener conto della quantità di materiali da costruzione realmente disponibili, oltre al fatto che il denaro non era di per sé sufficiente a far marciare l'industria, in quanto occorrevano quadri specializzati, macchinari adeguati, tempo sufficiente, altrimenti gli eccessivi investimenti avrebbero comportato uno squilibrio tra i diversi settori produttivi. Bucharin, in sostanza, chiedeva di affidarsi più alla scienza e meno al volontarismo.
In ciò veniva contestato non solo da Stalin ma anche da tutti i dirigenti stalinisti. L'opinione dominante era convinta che lo squilibrio tra domanda e offerta avrebbe favorito uno sviluppo intensivo dell'industria. Cioè la carenza di merci sul mercato poteva essere un vantaggio per l'economia socialista, in quanto una certa eccedenza della domanda solvibile avrebbe spinto l'industria ad aumentare la sua produzione. Ecco perché si chiedeva esplicitamente di rinunciare alla NEP e di ricorrere alle pressioni amministrative per accelerare lo sviluppo economico. Chi si opponeva a questa strategia confermava la tesi secondo cui i progressi del socialismo fanno aumentare la lotta di classe.
Bucharin fu tagliato fuori perché, in sostanza, era più un intellettuale che un leader politico vero e proprio. In questo somigliava molto a Trockij. Per fare il leader occorre avere anche una certa predisposizione per la gestione amministrativa quotidiana del potere. Il controllo di ciò che succede nella società deve essere diffuso, capillare, permanente, basato sulla fedeltà di decine di migliaia di persone abituate a eseguire ordini senza tante discussioni.
Più che a un imperatore coi suoi feudatari, dove il rapporto di fedeltà personale era basato su una specie di contrattazione di vantaggi reciproci, Stalin assomigliava a un pontefice romano, dotato di poteri assoluti, con tanto di "cardinali" scelti direttamente da lui, da poter convocare in qualunque momento, cui fare affidamento in tempo reale, mentre, sul piano periferico, aveva una sfilza di "vescovi e arcivescovi" che dovevano sempre rendere conto a lui (o a chi per lui) del loro operato. Tutti costoro rischiavano di pagare di persona se avessero compiuto gravi infrazioni. A questa piramide dittatoriale nessun dirigente poteva sfuggire. Era impensabile che qualcuno potesse rivendicare una certa autonomia gestionale, come invece erano soliti fare i nobili feudali, che si vantavano d'essere dei sovrani territoriali.
La rigidità e, in fondo, la spietatezza dello stalinismo si dimostrò anche quando i trockisti in Russia (Pjatakov, Radek, Preobraženskij, Antonov-Ovseenko) vollero appoggiare lo stalinismo contro il bucharinismo. Avendo visto che Stalin aveva ripreso le idee di Trockij sullo sviluppo accelerato dell'industrializzazione, pensarono che Stalin si sarebbe potuto più facilmente accordare con loro. Non capirono che una dittatura politica non ritorna quasi mai sui suoi passi, difficilmente smentisce decisioni importanti già prese ufficialmente. Sicché Stalin non solo rifiutò qualunque compromesso coi trockisti, ma addirittura nel 1929 esiliò Trockij in Turchia.
Stalin non aveva alcuna intenzione di far vedere che le sue idee "sviluppiste" provenivano da Trockij. Paradossalmente con l'esilio di Trockij (che non accettò mai di riconciliarsi con Stalin, se non vi fosse stata una riforma nella gestione del partito) finì anche la carriera politica di Bucharin, Rykov e Tomskij.
Stalin e Bucharin
Nella diatriba tra Stalin e Bucharin i presupposti teorici, relativamente alla costruzione di un socialismo democratico, erano terribilmente limitati. Stalin voleva una collettivizzazione agraria forzata per accelerare il più possibile l'industrializzazione (pesante), e pensava che per realizzare tale obiettivo non dovessero esserci scrupoli di coscienza. Viceversa, Bucharin, sentendosi più "tollerante", non voleva che l'industrializzazione venisse pagata in maniera scriteriata dai contadini.
Entrambi non mettevano assolutamente in discussione la necessità di costruire un socialismo statalizzato. Bucharin chiedeva soltanto che questa finalità strategica venisse perseguita puntando sulla libera cooperazione col mondo rurale, non sulla collettivizzazione imposta dall'alto.
Qui non è neppure il caso di sostenere che Stalin aveva ragione oggettivamente, mentre Bucharin soggettivamente. L'oggettività dell'uno era una forma di dittatura vera e propria, sostenuta da molti altri leader bolscevichi. La soggettività dell'altro era, all'interno della strategia più generale del socialismo statale, una forma di moralismo.
Cooperazione, per Bucharin, voleva dire proseguire sulla strada della NEP leniniana, permettendo ai contadini di arricchirsi. Viceversa, per Stalin collettivizzazione voleva dire eliminare i contadini agiati e mettere alle strette quelli medi, inducendoli a entrare nei colcos, che dovevano produrre alle condizioni inderogabili dello Stato, che poi in sostanza coincideva col Pcus. Era evidente che i contadini più poveri, privi di qualunque proprietà, non avrebbero avuto problemi con la soluzione stalinista: per loro si trattava soltanto di passare da una condizione servile (privata) a un'altra (statale), sperando di ottenere qualche beneficio in più (almeno così gli veniva fatto credere).
Peraltro va detto che il primo Bucharin, entrato nel partito comunista nel 1906, quello del periodo più strettamente rivoluzionario, era un estremista di sinistra, amico di Trockij e Preobraženskij, avversario di Lenin quando questi propose la pace di Brest nel 1918. Fu lui il teorico del "comunismo di guerra", che Lenin, finita la guerra civile, dovette sostituire subito con la NEP, per evitare la ribellione dei contadini.
Solo nel periodo 1922-23, a contatto con Lenin, Bucharin cominciò a capire che il rivoluzionarismo di sinistra era una forma di infantile estremismo. Entrò a far parte dell'ala moderata, e cominciò a distaccarsi sia da Trockij che da Stalin, i quali erano intenzionati a eliminare la NEP, in quanto la vedevano come un rischio borghese per la tenuta della rivoluzione. Il fatto che Bucharin appoggiasse Stalin contro Trockij non aveva alcun riferimento alle questioni economiche, anche perché Stalin non capiva nulla di economia politica: per lui il socialismo era solo una battaglia politico-ideologica di una corrente contro un'altra.
In effetti il rischio, in una prospettiva di lungo periodo, c'era, poiché è evidente che se si lascia alle persone il diritto di arricchirsi a proprio piacimento (salvo alcuni evidenti limiti imposti dal governo centrale), quelle stesse persone possono poi rivendicare dei diritti politici significativi, e persino una fetta del potere politico statale.
Tuttavia, nella Russia di quel momento, uscita vittoriosa dalla guerra civile e dall'interventismo straniero, quel rischio era del tutto irrilevante. Lo Stato era padrone di tutti i mezzi industriali, del commercio estero e della banca centrale, e aveva nazionalizzato la terra. Doveva solo aver la pazienza di aspettare che il rapporto di collaborazione coi contadini imborghesiti portasse l'intero Paese a un livello di benessere superiore.
Purtroppo i bolscevichi, che non provenivano da ambienti rurali e che in campo di economia politica avevano conoscenze molto limitate, di pazienza ne avevano poca. Tra loro la principale differenza era soltanto nella scelta degli strumenti con cui realizzare uno scambio non equivalente tra industria e agricoltura: Stalin, Trockij e tanti altri (Molotov, Kaganovich, Voroshilov…) optavano per quelli amministrativi (in sostanza esplicitamente violenti); Bucharin, Preobraženskij, Rykov, Tomskij e altri li volevano di tipo economico-finanziario (in sostanza indirettamente violenti).
Nessuno metteva in discussione un'industrializzazione accelerata (e neppure che fosse "pesante"), poiché tutti erano convinti che senza di questa il Paese non avrebbe retto il confronto con altri Stati capitalisti; cioè si pensava che tali Stati, prima o poi, avrebbero di nuovo dichiarato guerra alla Russia per spartirsi le sue risorse, i suoi territori.
Su questo aspetto di cruciale importante per i destini della Russia, Volkogonov - incredibile a dirsi - si schiera dalla parte degli stalinisti. Infatti afferma che "Bucharin trascurava due fattori: in primo luogo, i tempi lunghi della cooperazione - che avrebbe richiesto alcuni decenni - mettevano in dubbio la sopravvivenza stessa del socialismo in Russia, e in secondo luogo l'industrializzazione del paese esigeva risorse immense che solo i contadini erano in grado di assicurare. La soluzione ottimale, probabilmente, sarebbe stata un compromesso" (p. 196, o.c.).
Cioè in pratica i contadini avrebbero dovuto capire che un fenomeno artificiale, antinaturalistico e quindi alienante sul piano sociale come quello dell'industrializzazione avrebbe dovuto avere un peso economico superiore alle condizioni lavorative che si vivevano in campagna. E quale sarebbe stato il "compromesso" da cercare, visto che quello proposto da Bucharin non avrebbe favorito uno sviluppo accelerato dell'industrializzazione?
Peraltro, in questo capitolo dedicato a Bucharin, lo storico non mette mai in discussione che l'industrializzazione dovesse anzitutto essere "pesante", cioè produrre mezzi di produzione. Quanto meno poteva dire - visto che completò il suo libro nel 1983, durante la glasnost di Gorbaciov - che il partito e lo Stato avrebbero dovuto puntare anzitutto su una industrializzazione "leggera", sicuramente più appetibile per le esigenze del mondo contadino, e passare a quella "pesante" (costruendo per es. trattori, mietitrebbiatrici ecc.) solo sulla base delle richieste specifiche provenienti dal mondo rurale.
Viceversa, Volkogonov fa capire che "la collettivizzazione, un'autentica rivoluzione nell'agricoltura, ma una rivoluzione imposta dall'alto, complessivamente era stata avviata con successo, meglio di quanto si aspettasse Bucharin" (p. 197).
Invece quella collettivizzazione forzata fu un disastro assoluto, che comportò milioni di morti per fame, un impoverimento generale del Paese e la necessità di compiere persecuzioni di massa nei confronti di chi metteva in discussione l'efficacia dei famigerati piani quinquennali, alla cui stesura il mondo rurale non era minimamente tenuto a partecipare.
Volkogonov sembra non capire una cosa molto semplice: quando si decide una linea teorica estremista, è facile che le conseguenze pratiche siano altrettanto estremiste. Cioè è abbastanza illusorio pensare che, sul piano pratico, si possa porre un argine, un freno all'estremismo teorico, facendo leva sul fatto che gli uomini hanno una coscienza morale, con cui, in definitiva, sono in grado d'impedire gli eccessi.
Quando si parte da posizioni estremistiche e si constata che sul piano pratico tali posizioni non conseguono i risultati previsti, la reazione non è detto che sia favorevole a un aggiustamento delle aspettative. Dipende dalla capacità che si ha nel fare un'autocritica, ma in questo campo gli stalinisti sembravano fatti con lo stampino: erano tutti molto carenti. Le autocritiche le pretendevano dagli altri, da chi veniva accusato di qualcosa, e non è che, facendole, gli accusati potevano essere sicuri di risparmiarsi la fucilazione. Generalmente l'atteggiamento degli stalinisti era quello di trovare dei nemici da accusare come sabotatori dei piani quinquennali. Quindi, di fronte agli obiettivi mancati, aumentava sempre più la repressione di massa, tanto che questa finì solo con la morte di Stalin, e anche dopo la sua morte la destalinizzazione, inaugurata da Krusciov e proseguita da Gorbaciov, incontrò sempre ostacoli insormontabili, e, se vogliamo, si limitò sempre a questioni che, in riferimento all'idea di "socialismo statale", non erano di primaria importanza. Di fatto lo stalinismo morì solo con la morte del socialismo statale, anche se ancora oggi non si è riusciti a trovare in Russia una strada coerente che porti al socialismo democratico.
è comunque assolutamente sbagliato - come fa Volkogonov - contare sulle qualità soggettive di chi, sul piano teorico, ha posizioni estremistiche. Una scelta del genere non offre alcuna garanzia.
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Il vero problema dei contadini, al tempo dello stalinismo, non stava nel fatto che lo Stato voleva diventare l'unico proprietario della terra, ma nel fatto che si comportava come un feudatario, che li obbligava a sentirsi meri esecutori di un apparato politico-amministrativo centralizzato.
Una proprietà statale può impedire che la terra divenga oggetto di compravendita, ma non può determinare il tipo di gestione agricola.
Lo Stato può concedere la terra in usufrutto gratuito o in affitto simbolico, sulla base di contratti a lunga scadenza, facilmente rinnovabili, se permangono le condizioni per un suo continuo utilizzo. Ma non può sostituirsi alla comunità locale, che decide quando, cosa e come coltivare determinate derrate alimentari.
Lo Stato può mettere a disposizione i macchinari per la lavorazione della terra, ma non può obbligare a usarli.
Lo Stato può obbligare a pagare delle tasse in rapporto a quanto l'agricoltore vende sul mercato, ma non può obbligare a pagarle a quella famiglia o azienda che si limita a praticare l'autoconsumo.
Lo Stato non può mai mettere l'agricoltore nella condizione di dover rinunciare alla propria attività per trasferirsi in città o in un'azienda a fare l'operaio. Semmai deve favorire il processo inverso: dalla città alla campagna, dall'industria all'agricoltura.
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In un certo senso bisognerebbe smettere di considerare Bucharin come una sorta di "volto umano" del socialismo statale. Un socialismo del genere non può avere volti "umani". Tant'è che quando le contraddizioni divennero troppo acute per essere affrontate in maniera democratica, lo stalinismo non ebbe molti problemi a farlo fuori. Bucharin era diventato inutile, anzi, fastidioso con le sue osservazioni divergenti.
è certamente sbagliato sostenere che con la politica moderata di Bucharin la classe rurale avrebbe potuto arricchirsi al punto da costituire una minaccia per il potere sovietico, e che quindi lo stalinismo doveva necessariamente eliminarlo. Ma è anche sbagliato pensare che l'errore di fondo di Bucharin fosse quello di credere che piano e mercato potessero coesistere nel socialismo statalizzato. Il suo vero errore era un altro, quello di tutti gli altri bolscevichi, e cioè di credere che il socialismo più democratico potesse essere solo quello industrializzato e statalizzato. Essendo questa la convinzione comune, era evidente che piano e mercato non potevano essere che alternativi tra loro. Quindi era solo questione di tempo: presto o tardi le purghe staliniane avrebbero dovuto esserci.
Allo stalinismo bastò aspettare che con un approccio moralistico e paternalistico nei confronti della classe rurale non si era in grado di risolvere alcun problema relativo all'industrializzazione e urbanizzazione del Paese. Il piano doveva necessariamente essere imposto con la forza, fino al punto da eliminare completamente il mercato, facendo credere che con la forza del piano si erano poste le basi per una transizione dal socialismo al comunismo.
Insomma non era Bucharin ad avere una posizione contraddittoria. Era il socialismo statale che non poteva essere difeso se non con le armi del terrore. Lo stalinismo era più coerente, ma in negativo.
Tagliare il ramo verde
Interessante la lettera che Bucharin, poco prima d'essere arrestato, scrisse alla moglie, dal titolo Alla futura generazione dei dirigenti di partito. è riportata con alcuni commenti alle pagine 229-32 del libro di Medvedev sullo Stalinismo.
Chiedendo alla moglie d'impararla a memoria, subodorava almeno tre cose: 1) che non sarebbe uscito vivo dal carcere; 2) che i processi a suo carico erano una farsa; 3) che se l'avessero trovata come documento scritto, anche sua moglie sarebbe stata arrestata. A dir il vero gli inquirenti minacciarono comunque moglie e figlia, se lui non avesse confessato quanto gli veniva richiesto.
Nella lettera esordisce dicendo che in Russia era stata creata una "macchina infernale", che si serve dei processi per eliminare gli oppositori dello stalinismo. Ammette di non avere più le forze per combatterlo. Non ammette però d'aver contribuito lui stesso ad alimentarlo.
Qui però bisogna essere onesti sino in fondo. Nel momento in cui l'URSS si strutturò a favore del socialismo statale, lo stalinismo era un'ideologia trasversale a tutti i leader di partito. Per opporsi efficacemente a tale ideologia, bisognava prima mettere in discussione l'idea che tutto dovesse essere statalizzato e collettivizzato, ma questo non venne fatto da nessuno. L'opposizione, se e quando c'era, si limitava a contestare gli aspetti soggettivi dello stalinismo, mai quelli oggettivi del socialismo statale.
Che anche Bucharin avesse il culto dello Stato, è scritto nella stessa lettera: la Ceka di Dzerzhinskij "tutelava lo Stato contro ogni genere di controrivoluzione". In verità anche la polizia politica di Stalin poteva dire di fare la stessa cosa. Lenin però aveva in mente ben altro: si doveva tutelare la popolazione contro il burocratismo imperante dello Stato.
Anche l'altra espressione di Bucharin, riferita sempre alla funzione della Ceka, ha un amaro sapore staliniano: "giustificava la crudeltà verso i nemici". Che brutto modo di esprimersi! Quanto ricorda i metodi inquisitoriali dello stalinismo!
è davvero singolare che Bucharin arrivi a dire che "ogni membro del partito può venir travolto, accusato di tradimento, terrorismo, sovversione, spionaggio…"; e che non si chieda come sia stato possibile giungere a una situazione del genere senza che nessuno fosse in grado di opporvisi con successo. Quanto meno avrebbe dovuto chiedersi cosa non stesse funzionando sul piano strutturale, visto che poi aggiunge che persino Stalin, "se avesse gettato un dubbio su di sé", sarebbe stato inquisito.
Bisogna ammettere che questa è una lettera davvero strana. Sembra scritta da uno che prima di tutto incolpa della propria carcerazione il lato peggiore della soggettività staliniana; poi invece si rassegna a credere che in realtà il meccanismo infernale era strutturale all'intero partito e all'intero Stato, tanto che avrebbe potuto colpire gli stessi suoi ideatori, gli stessi suoi materiali esecutori.
Si difende dicendo che se hanno colpito lui, che non ha "nemmeno l'ombra di un disaccordo col partito", cadranno "centinaia di teste innocenti". Che senso hanno queste parole? Se non ha mai avuto un disaccordo col partito, perché meravigliarsi del clima di terrore scatenato dallo stesso partito? Voleva forse dire che lui veniva giustiziato nonostante la sua piena estraneità all'accusa d'essere un criminale politico? Si sentiva forse come un importante ramo verde, al cui taglio sarebbe seguito quello dei rami secchi?
Si era reso conto che la sua istanza a favore del socialismo veniva soffocata proprio in nome del socialismo? Si era reso conto che questa incongruenza aveva caratterizzato tutti i processi avvenuti prima del suo? Possibile che tutti i vertici del sistema di potere non si fossero accorti che le accuse a suo carico (e quelle a carico dei leader giustiziati prima di lui) erano totalmente prive di fondamento? Si potevano accettare queste patenti violazioni della legalità nella convinzione che comunque esisteva qualcosa di valido nel socialismo statale? Bucharin pensava forse la stessa cosa in riferimento al proprio processo, cioè che in ogni caso il socialismo che lui aveva contribuito a costruire, meritava d'essere salvato? E anche oggi è normale che certa sinistra radicale continui a pensarla così? Fino a che punto si possono tollerare certi errori, ammesso e non concesso che simili mostruosità possano essere definite soltanto degli "errori"?
Vi è un punto in cui Bucharin afferma, per mostrare la propria innocenza, di non aver mai "macchinato" contro Stalin. Lo dice come se fosse un suo personale merito! Invece di rammaricarsi di non aver avuto abbastanza coraggio per farlo!
A volte ci si chiede: la condivisione di un ideale (in questo caso il socialismo) si può spingere fino al punto da relativizzare, minimizzandola, la responsabilità di chi avrebbe dovuto metterlo in pratica in maniera umana e democratica? Come si può pensare che una critica, anche molto dura, nei confronti dei dirigenti del partito in cui si milita, possa compromettere la solidità dell'ideale in cui tutto il partito crede?
Bucharin ammette d'aver compiuto degli errori nella costruzione del socialismo, e giustamente non li considera così gravi da meritare una condanna a morte, per di più comminata sulla base di accuse assolutamente infamanti. In realtà alcuni suoi "errori" erano dei pregi, in quanto chiedeva che la NEP non venisse abolita e che la collettivizzazione non fosse una forzatura. Purtroppo ad un certo punto si sentì in dovere di ammettere che lo stalinismo, coi suoi metodi autoritari in relazione allo sviluppo industriale, aveva avuto ragione. Quello fu il suo vero errore!
Comunque anche Medvedev s'accorge dei limiti autogiustificativi di questa lettera. "Bucharin difende solo se stesso; non scrive nulla di Zinov'ev, Kamenev o Pjatakov, o sugli altri leader di partito ch'erano già stati arrestati e uccisi" (p. 231).
In parte o in tutto responsabili?
La sconfitta della destra del Pcus (Bucharin, Kamenev, Zinov'ev, Rykov, Tomskij, ecc.), quella che voleva la prosecuzione della NEP, segnò la fine dell'opposizione allo stalinismo.
Roj Medvedev fa bene a dire che "l'opposizione divide una buona parte di responsabilità" per il trionfo dello stalinismo, e quindi - si potrebbe aggiungere - per la tragedia in cui l'intera Russia sprofondò.15
Tuttavia la responsabilità non va interpretata come una deficienza soggettiva, caratteriale, e neppure come una mancanza di vera alternativa teorica, o come una mancanza di tattica o di strategia per mettere lo stalinismo in minoranza ed estromettere Stalin dalle sue funzioni di comando.
Per capire quanto Stalin fosse un autentico criminale, non c'era bisogno di aspettare le terribili epurazioni della fine degli anni '30. Lo si poteva facilmente intuire già alla fine degli anni '20. Stalin infatti non ammorbidiva i lati peggiori del suo carattere dopo aver sconfitto i suoi nemici politici, ma, al contrario, li accentuava, come se volesse far credere che la prossima volta sarebbe stato ancora più spietato, ancora meno paziente. Metteva le mani avanti nei confronti di altri possibili oppositori. Ecco perché la sua arroganza crebbe col tempo, anche quando il suo potere personale era indiscusso. Le forme di piaggeria o di servilismo nei suoi confronti non lo rendevano più tollerante.
Ma perché tutti i suoi avversari furono sonoramente sconfitti? Per quale motivo lo lasciarono morire di vecchiaia? Perché nessuno tentò un colpo di stato, una rivolta popolare, una qualche resistenza armata o persino un omicidio come nel caso di Kirov? Come fu possibile che milioni di persone finissero nei gulag o morte ammazzate dopo un processo farsa, o semplicemente perché elencate in una lista? E che dire di quei prigionieri di guerra, catturati dai nazisti, che al ritorno in patria furono trattati come codardi? In quale altro Paese al mondo un governo avrebbe potuto comportarsi così?
L'unica risposta possibile a tutte queste domande è la seguente: tutti i dirigenti politici del partito volevano industrializzare velocemente il Paese perché avevano in mente, come modello da imitare, i grandi Paesi capitalisti dell'Europa occidentale e del Nord America. Tutti volevano ottenere gli stessi risultati di questi Paesi, relativi alla ricchezza, al benessere materiale, sfruttando le condizioni specifiche del loro Paese, senza mettere in discussione il ruolo guida del partito e il ruolo centralizzato dello Stato.
L'opposizione a Stalin all'interno del Pcus non fu "in buona parte" responsabile della nascita dello stalinismo, ma ne fu responsabile "integralmente", poiché, al posto di Stalin come persona, chiunque avrebbe fatto, in un modo o nell'altro, le stesse cose.
Trionfo e tragedia di Stalin
Nel 1988 le edizioni sovietiche dell'APN pubblicarono il libro su Stalin del filosofo e direttore dell'Istituto di storia militare, D. Volkogonov, Trionfo e tragedia (Ritratto politico di Stalin). L'opera suscitò subito un grande interesse in occidente, prima ancora che apparisse in URSS. Grandi case editrici decisero di pubblicarla: Mondadori in Italia, Weidenfeld e Nicolson in Inghilterra, Flammarion in Francia, Econ in Germania ecc.
Presentando la sua opera in un'intervista concessa a un settimanale del suo Paese, Volkogonov affermò che gli storici devono imparare a ragionare con i "se" e non soltanto su ciò che è veramente accaduto. Ovverosia devono chiedersi sempre quali alternative ci possono essere nei confronti di determinati fenomeni (in questo caso lo stalinismo). Per evitare d'identificare la storia con la fatalità, lo storico ha non solo il diritto ma anche il dovere di avanzare delle "ipotesi" su come i fatti avrebbero potuto svolgersi se si fosse scelta un'altra strada. Nella vita infatti vi sono sempre delle scelte fra due o più alternative. La logica del fatalismo serve soltanto a giustificare che la decisione presa era la migliore: il che però impedisce di analizzare la storia in maniera scientifica.
Volkogonov crede di ravvisare in tre cause fondamentali l'emergere dello stalinismo (la figura di Stalin gli interessa relativamente):
- i tre secoli delle tradizioni monarchiche della dinastia dei Romanov, che hanno indotto nel popolo una grande passività;
- la povertà delle tradizioni democratiche (di cui s'è dovuta far carico la stessa rivoluzione socialista);
- la sottovalutazione, da parte dell'entourage di Lenin, del pericolo di una dittatura personale nell'ambito del partito.
L'autore si sente d'affermare che i maggiori leader del Pcus tradirono praticamente subito gli ideali di Lenin, poiché si lasciarono dominare dalle logiche degli schieramenti e dalle lotte accanite per il potere politico dopo la sua morte. Particolarmente duro, in tal senso, è il giudizio di Volkogonov su Trockij, "preoccupato più di se stesso che della rivoluzione. Trockij era imbevuto della propria personalità, si credeva un genio e considerava tutti i suoi oppositori (soprattutto Stalin) come dei ‘mediocri'. Era un partigiano convinto del socialismo da caserma. Proponeva di dividere il Paese in circoscrizioni militari. Parlava d'instaurare la disciplina militare nell'ambito del lavoro e amava le forme di gestione dirigista. Dopo la guerra civile trasformò diverse unità militari in ‘brigate del lavoro'. Tutta la popolazione - secondo lui - andava organizzata militarmente". Viste tali premesse, Trockij - secondo Volkogonov -, nonostante le capacità che tutti gli riconoscevano, non aveva alcuna possibilità di sostituire Lenin.
Né d'altro canto l'avevano gli altri leaders citati dallo stesso Lenin nella sua Lettera al Congresso (il "testamento politico"). Stalin, Trockij, Zinov'ev, Kamenev, Bucharin e Pjatakov vennero ricordati da Lenin - secondo Volkogonov - in un modo tale che ognuno di loro, singolarmente preso, non sarebbe stato in grado di sostituirlo. L'unico che avrebbe potuto farlo, non poteva che essere un "leader collettivo", cioè una gestione collegiale dell'intero partito.
Disgraziatamente questa idea di Lenin non venne capita: sia perché spesso il suo pensiero superava a tal punto quello dei suoi contemporanei da risultare addirittura incomprensibile (il Testamento cominciò ad essere apprezzato solo al XX Congresso!); sia perché il suo entourage non sapeva valorizzare adeguatamente le sue capacità: Lenin infatti era costretto a occupare il 40% del suo tempo nel cercare di risolvere gli affari correnti, prosaici, fin nei minimi dettagli, dall'organizzazione del rifornimento alimentare all'elettrificazione di un villaggio, ecc.
Relativamente al fenomeno dello stalinismo, Volkogonov afferma ch'esso è "l'alternativa negativa al socialismo scientifico", basata prevalentemente sull'uso della forza e sul culto della personalità. In tal senso lo stalinismo è esistito, per es., anche in Cina durante "il grande balzo" degli anni 1958-60 e durante la "rivoluzione culturale" del decennio 1966-76, oppure in Cambogia sotto il regime di Pol Pot (1975-79). Di questo fenomeno non può essere colpevolizzato solo Stalin e il suo staff, altrimenti si ricade nel "culto della personalità" che pur a parole si biasima. La responsabilità invece è sempre di tutta la società che, almeno in URSS, non fece abbastanza per contrastare un fenomeno così negativo. "Gli interventi isolati - sostiene giustamente Volkogonov - fanno onore a chi li mette in pratica, ma essi sono votati al fallimento, anzi, a quel tempo furono utilizzati da Stalin per rafforzare le proprie posizioni. Egli infatti negli anni '20, '30 e '40 entrò nella storia come il trionfatore principale nella lotta per gli ideali di Lenin. Tutti coloro che si opponevano a Stalin erano accusati d'essere antileninisti". Non si può dunque vincere un fenomeno come questo partendo da posizioni isolate.
Un'altra acuta osservazione di Volkogonov riguarda il fatto che non si devono considerare le purghe staliniane degli anni 1937-39 come più gravi di quelle degli anni 1929-33, solo perché erano in gioco i migliori intellettuali comunisti del Paese. Volkogonov ci tiene a sottolineare che la tragedia più grande è stata quella dei primi anni '30, non solo perché senza di essa non vi sarebbe stata l'altra (gli intellettuali senza "base sociale" sono debolissimi), ma anche perché in essa morirono milioni di contadini anonimi, sacrificati sull'altare della collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione pesante e accelerata.
L'ultimo aspetto di cui parla Volkogonov, nell'intervista, è non meno tragico: la logica di Stalin, secondo cui è bene sbarazzarsi fisicamente non solo dei nemici reali ma anche di quelli potenziali, si radicò così bene nell'URSS che molti delitti vennero compiuti senza che nemmeno Stalin lo sapesse o l'avesse voluto. L'inerzia della violenza era tale che le sue onde si propagavano automaticamente per tutto il Paese. I "figli legittimi" dello stalinismo sono stati coloro che presero i posti lasciati vacanti dalla "vecchia guardia" leninista, sterminata da Stalin: i vari Suslov, Brežnev, ecc.
Un dittatore sa tutto
Quando dicono che Stalin non poteva essere a conoscenza di tutte le repressioni, individuali e massive, compiute nel suo regime, basta leggersi le pagine 162-73 del libro di Volkogonov, dedicate alla vita privata di Stalin, per convincersi facilmente del contrario (e qui non stiamo parlando di uno storico filo-occidentale, o almeno non lo era quando scrisse il testo).
Anzi, possiamo dire che, rispetto a Medvedev, l'autore fa anche troppe concessioni allo stalinismo. Per esempio quando dice che sino alla fine degli anni '20 Stalin appariva come una persona "assolutamente normale", tende a esagerare. In realtà Stalin era una persona scostante anche durante le sue prigionie al tempo dello zarismo. Non basta non aver compiuto delle persecuzioni di massa per poter beneficiare dell'appellativo di "normale".
Probabilmente lo storico ha fatto questa affermazione perché tende ad attribuire soprattutto alla personalità di Stalin, e non al socialismo statalizzato, la tragedia che ha vissuto l'URSS. Forse il titolo stesso del libro, Trionfo e tragedia, può apparire fuorviante. Senza ombra di dubbio il trionfo dello stalinismo è stato una tragedia assoluta per il popolo sovietico. Ma sarebbe assurdo sostenere che, pur nella grande tragicità degli eventi, il popolo ha vissuto qualcosa di "trionfale" sotto lo stalinismo o sotto il socialismo statale.
Già Lenin s'era accorto (e non perché Stalin avesse litigato con la Krupskaja) che un partito non poteva avere come segretario generale una persona rozza e insensibile ai valori umani, e questo a prescindere dal fatto che quella carica, al tempo di Lenin, avesse solo una funzione amministrativa, non politica (rispetto al Politburo). Anzi, anche solo sul piano burocratico quel ruolo non aveva un'importanza così marcata rispetto ad altri organi collegiali. Stalin non veniva visto da nessuno come un dirigente politico, non avendo alcuna qualità particolare: era uno scrittore piuttosto schematico, un teorico di basso livello e un oratore molto modesto. Quando lo si appoggiò contro Trockij, tutti erano convinti che sarebbe stato più facile tenere sotto controllo una persona scarsamente dotata. Sotto questo aspetto qualunque altro leader dell'Ufficio politico gli era superiore e avrebbe potuto facilmente sostituirlo. Lenin nel suo Testamento non cita i suoi difetti, a parte quello del carattere, in quanto dava per scontato che tutti gli altri leader avrebbero potuto facilmente metterlo in minoranza. Stalin non era adatto a sostenere un dibattito politico di un certo livello.16
Tuttavia, a parte questo, le suddette pagine citate sono importanti per un'altra ragione. Ad un certo punto lo storico afferma che "tutto passava per le sue mani" (p. 164). Perché questa asfissiante centralizzazione nella gestione del potere? Semplicemente perché "il potere assoluto, per essere tale, non deve essere condiviso con nessuno" (p. 165).
Stalin non eliminò solo gli avversari politici, ma anche molti dei suoi parenti, qualificati come "nemici del popolo". Dei figli e della seconda moglie non gli importò mai nulla, e neppure di molti dei suoi nipoti. Di uno così non si può dire che fu una "persona normale" negli anni '20. "Arrestando gli amici e i parenti di coloro che lo circondavano, Stalin voleva mettere alla prova la loro lealtà, la loro fedeltà nei suoi confronti" (p. 173). Questo scrive Volkogonov e questo viene confermato da Medvedev.
La persona più importante di uno dei più importanti Stati del mondo, voleva sapere tutto di tutti, ed eliminava chi gli pareva. Chi non reagiva di fronte a un mostro del genere, non poteva non avere un carattere simile al suo: semplicemente si limitava a manifestarlo in un contesto diverso da quello del rapporto personale che aveva con lui; e in ogni caso nessuno avrebbe potuto fare qualcosa usando mezzi e metodi o finalità che avrebbero potuto non dipendere in qualche modo dalla volontà di lui.
Volkogonov è come Medvedev
La tesi fondamentale di D. Volkogonov è la stessa di R. Medvedev: non si può "condannare Stalin per i suoi delitti negando le reali conquiste del socialismo in quel periodo e le sue potenzialità. Tutto quello che si riuscì a materializzare fu fatto nonostante Stalin… In un contesto democratico le conquiste avrebbero potuto essere più consistenti" (sono parole sue, p. 3, o.c.).
Questo è un approccio metodologico sbagliato, semplicemente perché non mette in discussione che il socialismo dovesse per forza esprimersi nella forma statalizzata.
Forse non ci rendiamo bene conto che se questa tesi storiografica fosse corretta, qualunque stalinista di quel tempo avrebbe potuto dire che l'autoritarismo poteva al massimo essere diminuito ma non eliminato. Cioè bisognerebbe ammettere che lo stalinismo, in presenza del socialismo statale, si trovava, almeno in parte, giustificato. Ovviamente poteva sempre essere criticato sul piano soggettivo, ma resta il fatto che sul piano oggettivo bisogna riconoscergli una certa legittimità. Gli storici russi odierni, anche se ovviamente sono molto più liberi di criticare lo stalinismo, si comportano come i comuni cittadini e gli intellettuali sovietici di allora, e questo è grave.
Invece non bisognerebbe limitarsi a dire che le conquiste del socialismo statale avrebbero potuto essere ottenute con qualunque altro leader bolscevico, naturalmente in tempi diversi, meno frettolosi, e con metodi meno traumatici per il mondo rurale e per il dissenso in generale. Bisognerebbe aggiungere che se anche il risultato finale avrebbe potuto essere lo stesso, non è detto che quell'obiettivo andasse considerato legittimo o desiderabile. Non c'era nessun obbligo a riconoscere all'industria un primato sull'agricoltura, e alla città un primato sulla campagna.
Purtroppo a nessun intellettuale bolscevico venne in mente che sarebbe stato un grave errore negare il diritto di esistenza al comunismo primitivo e all'autogestione delle comunità locali. Chi mai mise in dubbio che l'area asiatica dell'URSS andava sottomessa a quella europea? Forse qualcuno considerò innaturale che la rivoluzione tecnico-scientifica s'imponesse ovunque con tutta la sua forza? Chi mai si scandalizzò che l'autoconsumo e il baratto venissero subissati dai piani quinquennali? Chi mai si oppose con fermezza al fatto che tutte le dinamiche mercantili venissero strettamente controllate dallo Stato?
Insomma il peggio fu realizzato non malgrado lo stalinismo, ma, al contrario, in forza di quel socialismo statale di cui lo stalinismo pretendeva d'essere l'ideologia ufficiale, l'unica politica dominante, anche se, a causa di questo suo atteggiamento totalitario, i meccanismi di realizzazione di una industrializzazione accelerata e di una collettivizzazione forzata subirono distorsioni e sciagure d'incalcolabile portata.
Che cos'è lo stalinismo?
Mi si rimprovera di non sapere cos'è lo stalinismo. Mi si dice che Stalin non ha mai elaborato una propria ideologia politica. In sostanza mi si obbliga a ribadire che cosa non si dovrebbe fare per costruire un socialismo democratico. Ebbene, lo voglio riprecisare qui con tutta la chiarezza possibile.
1) Statalizzare tutto è un errore madornale. Lo Stato deve fare in modo che la società civile sia in grado di autogestirsi, altrimenti l'autoritarismo del partito unico identificato con lo Stato dirigista, il burocratismo delle pianificazioni quinquennali calate dall'alto, l'inevitabile inefficienza produttiva causata dall'assenza di un mercato, l'artificioso volontarismo per superare la deresponsabilizzazione di chi è abituato a obbedire per rispettare la gerarchia, il paternalismo come arma di distrazione di massa, la corruzione endemica delle classi superiori (selezionate col metodo della cooptazione e non del merito), l'ideologizzazione di tutte le decisioni politiche, la subordinazione del diritto alla politica, l'imposizione del pensiero unico e quindi l'assenza della libertà di coscienza, i metodi inquisitoriali basati sul sospetto e sulla presunzione di colpevolezza, il culto della personalità (conseguente al fatto che si preferiva la fedeltà alla capacità), l'eliminazione fisica dell'avversario politico o ideologico, la concezione del sindacato come "cinghia di trasmissione" del sistema dominante, la deportazione di intere popolazioni da un luogo a un altro dello Stato, l'imposizione del nazionalismo "grande russo" a tutte le altre etnie, nazionalità o regioni, l'inaccessibilità degli archivi e altre "perle" tipiche dello stalinismo non finiranno mai.
2) è un errore sostenere che quanto più si sviluppa il capitalismo, tanto più il socialismo deve diventare autoritario, per cui l'idea dei classici relativa all'estinzione progressiva dello Stato è possibile realizzarla solo in assenza del capitalismo. Senza questo progressivo depauperamento delle funzioni statali, la transizione al socialismo non diventerà mai democratica.
3) L'industrializzazione forzata, la scelta di optare per l'industria pesante, a detrimento di quella leggera, ma anche la collettivizzazione forzata delle campagne, eliminando la classe dei contadini agiati, furono errori che causarono disastri epocali in termini di perdite umane e devastazioni ambientali.
4) Non fu lo stalinismo a vincere il nazismo. Stalin non fu affatto un grande stratega militare; anzi, per colpa sua l'URSS ebbe un numero spropositato di vittime, da cui non si è più ripresa. Fu il popolo sovietico a vincere la guerra. Furono i generali dello Stato Maggiore, sopravvissuti alle terribili purghe degli anni '30, che riuscirono a emarginare gli stalinisti durante la guerra.
Stalin e lo stalinismo
Oggi più nessuno crede nel mito di Stalin, se non qualche irriducibile vetero-comunista. Ma la critica dello stalinismo non è mai stata facile, come invece in Occidente si è sempre voluto far credere. Da noi lo stalinismo è stato liquidato senza un'analisi politica e ideologica seria: da un lato perché gli intellettuali di sinistra, fino a ieri, non volevano rinnegare l'esperienza del "socialismo reale", dall'altra perché gli intellettuali borghesi non volevano confrontarsi seriamente col marxismo. E così ci si è limitati a evidenziare dello stalinismo gli aspetti che più suscitano riprovazione e sdegno, come ad es. i gulag17, la collettivizzazione forzata dei contadini, la burocratizzazione del sistema, ecc.
In realtà, nelle opere e negli slogan di Stalin è difficile, di primo acchito, trovare una discordanza con i concetti abituali del marxismo. Lo è soprattutto se ci si limita a considerare in maniera isolata certe sue affermazioni, evitando di collocarle in un quadro d'insieme ove risultino interdipendenti. La verità non è mai la somma di affermazioni giuste e separate. Ancora oggi, purtroppo, molti sono dell'avviso che le deviazioni staliniane dal marxismo riguarderebbero tre soli elementi, considerati peraltro di secondaria importanza:
- la riduzione dell'uomo comune a mero ingranaggio del sistema,
- l'idea del partito come casta di privilegiati,
- la concezione secondo cui l'edificazione del socialismo comporta l'acuirsi della lotta di classe (di qui l'uso della violenza come metodo di regolazione dei problemi socio-politici).
L'economia del nostro discorso però ha un'unica finalità: quella d'indicare alcuni fondamentali aspetti dello stalinismo che la coscienza politica del periodo in cui esso s'è formato, non è stata capace di cogliere nella loro pericolosità. Vediamo anzitutto la pretesa concordanza che si vuole vedere in Marx, Lenin e Stalin circa il rifiuto del valore mercantile e del mercato nel contesto del socialismo, che è l'affermazione dell'idea di uno scambio diretto dei prodotti in virtù di una pianificazione autoritaria dall'alto.
Ora, nessuno è in grado di dimostrare in quali opere Marx raccomanda di misconoscere i meccanismi del mercato e della formazione dei prezzi, nonché d'introdurre lo scambio diretto dei prodotti e la pianificazione statale in condizioni analoghe a quelle che si verificarono in Russia dopo il 1917. Non è forse vero che Marx, Engels e Lenin riferivano la possibilità di superare i rapporti merce-valore a un regime sociale in grado di sorgere sulla base del capitalismo altamente evoluto? Il socialismo non doveva forse costituire un'alternativa a quel capitalismo capace soltanto di socializzare il processo produttivo, ma non la proprietà dei mezzi produttivi, di creare un lavoratore altamente qualificato e contemporaneamente non alienato? I classici non dicevano forse che soltanto in questa tappa lo scambio diretto dei prodotti e la realizzazione di piani orientati verso i bisogni degli uomini diventano possibili e cominciano a giocare un ruolo progressista?
Nella situazione successiva all'Ottobre 1917 il problema principale in Russia era quello di trovare un'alternativa a un'economia caratterizzata da una pluralità enorme di strutture economiche, soprattutto quelle di tipo piccolo-borghese (senza dimenticare la presenza dei rapporti semi-feudali). Lenin non aveva dubbi nell'affermare che in quelle condizioni il socialismo non poteva essere costruito in modo "immediato". Al massimo si poteva parlare di "transizione" verso il socialismo. Lenin anzi si rendeva conto che il capitalismo privato della piccola borghesia era ostile non solo al socialismo ma anche al capitalismo di stato. Ecco perché pensava che i socialisti russi dovessero prendere lezioni dai tedeschi su come costruire il capitalismo statale.
Viceversa, per Stalin e il suo entourage il primato spettava alla volontà politica, o meglio, alla violenza politica (di qui l'uso di metodi terroristici), con cui essi cercavano di regolare tutti i problemi dello sviluppo economico e culturale, senza pensare se le condizioni per la realizzazione di questi o quegli obiettivi fossero effettivamente mature.
Ovviamente ciò non va imputato a una presunta "perfidia politica" o a una "malattia mentale" di Stalin. La questione è molto più complessa e riguarda, se vogliamo, le tendenze storiche oggettive, le quali non possono essere interpretate ricorrendo alle concezioni filosofiche tradizionali. La storia della filosofia non ci è di nessun aiuto per comprendere a fondo l'ideologia stalinista. Che senso avrebbe, infatti, applicare -come alcuni hanno fatto - il concetto di "idealismo soggettivo estremo" a una figura come Stalin, quando lo stesso concetto lo si applica a filosofi come Fichte, Berkeley, Bogdanov...?
Lo stalinismo, in realtà, non ha precedenti storici. Esso è l'ideologia totalitaria del partito e la dittatura dell'élite burocratica, capeggiata da un despota ritenuto onnipotente: un'ideologia volontarista e antiumanista, che usa la violenza in tutte le sue forme. Ancora oggi gli stalinisti - ovunque si trovino - si considerano come veri demiurghi della storia: "I quadri decidono tutto", diceva Stalin. Ai loro occhi la realtà sociale non è un sistema organico di rapporti interumani, che si sviluppa in virtù di leggi proprie, attraverso gradi successivi di maturità, ma è una materia prima come l'argilla, che si può manipolare a proprio piacimento, usando la volontà politica, una buona organizzazione, una disciplina di ferro e potenti mezzi di violenza. In questo senso lo stalinismo è un sistema fondato sulla menzogna più sfacciata, sul cinismo ideologico e sulla doppia morale.
Quali radici poteva avere un fenomeno così mostruoso? La formazione delle premesse dello stalinismo vanno ricercate negli anni 1924-29. Le sue fonti ideologiche risiedono in un marxismo semplificato, mentre quelle socio-politiche in una strumentalizzazione della rivoluzione d'Ottobre. A dir il vero la volgarizzazione del marxismo era peculiare a tutta la direzione bolscevica: Zinov'ev, Trockij, Kamenev, Bucharin, Pjatakov..., salvo Lenin. L'atmosfera di lotta, prima, durante e dopo l'Ottobre, li aveva portati ad attribuire un grande ruolo all'iniziativa storica, all'attività umana, all'esigenza di "trasformare" il mondo più che di "interpretarlo". I fatti sembravano dar loro ragione, ma perché si eliminavano i cosiddetti i "nemici del popolo", non perché si risolvevano i problemi.
Le radici dello stalinismo stanno proprio in questo orientamento gauchiste, soggettivistico sul piano ideologico e volontaristico su quello politico: atteggiamento che trovò subito appoggi molti vasti nella mentalità primitiva di una parte assai considerevole di masse rivoluzionarie.
Naturalmente esiste una certa differenza fra gli errori in buona fede di Bucharin, che tendeva a esagerare le possibilità del popolo rivoluzionario (e dei suoi capi) nella storia, e la politica deliberatamente impopolare degli stalinisti, almeno così come essa appare alla fine degli anni '20. A dir il vero la differenza principale, all'interno del bolscevismo, tra stalinisti e antistalinisti, non stava tanto negli obiettivi da perseguire: nessuno era favorevole allo zarismo, né alla dittatura militare di Kornilov, né alla guerra, al parassitismo e all'arbitrio del capitale. I problemi tuttavia sorgevano quando si doveva stabilire il modo di liquidare la vecchia società e di edificare quella nuova.
L'orientamento autoritario dello stalinismo è stato appoggiato dagli strati sociali meno evoluti, più marginali, il cui odio per il regime sociale oppressivo, antecedente alla rivoluzione, aveva assunto un carattere totalmente distruttivo. Questi strati sociali potevano combattere l'oppressore con grande eroismo, erano capaci di enormi sacrifici, ma potevano anche lasciarsi influenzare da idee sbagliate. I successi straordinari dell'Ottobre potevano facilmente abbagliare, provocare un'euforia generale di onnipotenza.
Lenin fu uno dei pochi ad andare contro corrente. Sono noti i suoi appelli ad apprendere le tecniche del commercio presso gli specialisti, a servirsi di tutta la cultura del passato, a sviluppare l'industria in modo scientifico, a promuovere i princìpi cooperativistici nelle campagne, sulla base del libero consenso, della persuasione, usando esempi concreti di successo: in una parola, a unire in modo dialettico la direzione centralizzata con la democrazia operaia. L'entusiasmo andava combinato - a suo avviso - con l'interesse materiale dei lavoratori, altrimenti si sarebbe caduti nella retorica e nella demagogia.
Stalin la pensava diversamente. A suo parere era necessario creare in pochissimi anni e con una terapia d'urto i necessari rapporti socialisti nelle campagne, trasformando i contadini in colcosiani (ed eliminando i recalcitranti). Nell'arco di due-tre piani quinquennali l'URSS avrebbe dovuto superare i Paesi più progrediti del mondo, altrimenti sarebbe stata la fine della rivoluzione. La religione doveva essere estirpata con la forza. Questi e altri princìpi furono appoggiati da quella parte di popolo meno evoluta, meno istruita, e, almeno in un primo momento, la loro applicazione conseguì notevoli risultati, anche se a prezzo di enormi sacrifici e soprattutto di spaventosi soprusi.
Il meccanismo generale che permette ai regimi "bonapartisti" (ivi incluso naturalmente quello stalinista) di formarsi una propria base sociale, è descritto perfettamente da Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Il bonapartismo - come noto - trova la sua linfa vitale negli strati sociali più oppressi, che negli anni '40 del XIX sec. erano soprattutto i contadini. Una volta poi realizzati i princìpi della burocrazia, del militarismo e dell'apparato repressivo statale, il bonapartismo non ebbe bisogno neppure dell'appoggio dei contadini, i quali anzi furono soggetti a feroci persecuzioni. Questo perché la base sociale più adeguata dei regimi bonapartisti maturi (incluso quindi lo stalinismo) è la burocrazia, non la classe contadina.
Lo stalinismo s'è trasformato da sistema volontarista, legato a una certa base popolare, il cui entusiasmo post-rivoluzionario era ancora molto vivo, a sistema burocratico e impopolare verso la metà degli anni '30, cioè nel momento in cui lo sviluppo dell'economia nazionale, alzando il livello culturale del Paese, aveva portato i lavoratori a un'opposizione sempre più consapevole ai metodi dittatoriali del regime, che però non impedì affatto il rafforzamento della burocrazia.
Le ragioni sono più di una. Anzitutto bisogna ricordare che all'inizio degli anni '20 il sistema economico era caratterizzato da "isole produttive" poco legate tra loro. I funzionari statali realizzavano sul piano politico-amministrativo quei collegamenti che mancavano sul piano economico.
In secondo luogo va considerato che l'ignoranza dei lavoratori ostacolava fortemente una partecipazione reale alla gestione economica, ovvero un controllo effettivo nei confronti degli organi statali e amministrativi. In genere anzi erano questi che controllavano tutto il resto.
In terzo luogo va detto che il sistema burocratico non ha mai smesso di servirsi, coscientemente, del volontarismo e del soggettivismo per autolegittimarsi (lo attesta per es. l'ideologia del culto della personalità).
Queste ragioni però, se fanno pensare che la burocrazia fosse inevitabile, non devono far pensare che il rafforzamento della burocrazia dovesse necessariamente portare allo stalinismo, cioè al dominio totale e incondizionato della burocrazia (partitica e statale). Le alternative allo stalinismo sono state ben visibili sin dall'inizio degli anni '20, alla vigilia della NEP, nonché nel 1927, durante il XV Congresso del partito, ed anche nel 1956, col XX Congresso. Lo stesso Lenin aveva chiaramente detto che la burocrazia era il pericolo maggiore della rivoluzione, la fonte di una possibile "reazione termidoriana". Se le sue indicazioni fossero state seguite con coerenza e decisione, probabilmente i destini dell'URSS sarebbero stati diversi.
Il programma di Lenin per indebolire la burocrazia era basato sulla Nuova Politica Economica, sull'estensione delle cooperative, sulle forme di produzione capitalistico-statali, sulle concessioni al capitale estero d'investire in URSS, sugli incentivi economici per i lavoratori (onde eliminare la costrizione extra-economica), sulla partecipazione degli operai e dei contadini all'attività degli organi superiori del potere statale, sul controllo dell'attività dei quadri dirigenti del partito, sullo sviluppo della cultura generale del popolo.
Morto Lenin, i tentativi di Trockij e Preobraženskij di creare un sistema burocratico sulla base dell'accumulazione socialista primitiva fallirono grazie soprattutto al ruolo teorico giocato da Bucharin nel corso del XV Congresso del partito bolscevico (1927). Giustamente venne rifiutata l'idea di sviluppare l'economia nazionale contro gli interessi dei contadini, drenando risorse e mezzi dalla campagna alla città, trasformando officine e fabbriche in caserme di operai, stimolando l'intensificazione del lavoro con la violenza gius-politica. Tuttavia, già verso la fine degli anni '20 le forze della "guardia leninista" avevano perso la loro influenza. Le Note di un economista (1928) di Bucharin e la piattaforma di Ryutin (1932) furono forse gli ultimi importanti tentativi di proseguire sulla via leninista.
Il leninismo uscì sconfitto dallo scontro con lo stalinismo semplicemente perché esso cercò di frenare l'evoluzione verso il comunismo da caserma con dei metodi non meno burocratici e autoritari. Si pensava cioè di poter conseguire un obiettivo diverso usando gli stessi mezzi.
In seguito il XX e XXII Congresso del Pcus, nonché gli sviluppi seguenti all'aprile 1985, hanno dimostrato che un'alternativa allo stalinismo è sempre possibile. Il corso della storia non presenta mai degli avvenimenti inevitabili o irreversibili, ma sempre delle alternative soggette a determinate scelte e destinate a ricomparire ogniqualvolta le decisioni prese si rivelano fallimentari. Ovviamente resta falsa la tesi secondo cui nella storia "tutto è possibile" o che "tutto dipende dall'uomo". Qui si vuole soltanto affermare che non esiste mai un'unica via da seguire, né si può sapere in anticipo quale soluzione avrà la meglio. I risultati, generalmente, dipendono da numerosi fatti concreti.
Nell'epoca di Brežnev la tendenza antiburocratica si esprimeva nelle forme dello stalinismo "popolare", quello della fine degli anni '20. Il sogno era di veder improvvisamente apparire all'orizzonte un uomo forte come Stalin, capace di difendere il popolo dal potere totalizzante della burocrazia. Questa forma di stalinismo non è così pericolosa come quella burocratica, in quanto può essere superata da un'opera di paziente istruzione, dall'estensione della glasnost e dei princìpi democratici, in virtù dei quali gli uomini si rendono conto di quanto la loro forza sia sufficiente per liquidare non solo la burocrazia, ma anche l'esigenza di contare sulla potenza mitica di una personalità carismatica.
Dal 1953 al 1964 anche Krusciov cercò di finirla con lo stalinismo e la burocrazia usando metodi burocratici. Ben lungi dal promuovere lo sviluppo dei meccanismi sociali della democrazia, egli considerò la sua personalità come garanzia ultima contro il ritorno dello stalinismo. In tal modo non comprese che né il XX Congresso né la crescita della democrazia tra il 1956 e il 1961 potevano essere il risultato della sua azione personale (anche se bisogna riconoscergli un certo coraggio politico). Sopravvalutando se stesso, Krusciov non fece che ostacolare, in definitiva, il processo di smantellamento dello stalinismo. Basta qui ricordare il modo con cui egli trattava gli intellettuali (scrittori, artisti, giornalisti) o con cui distribuiva i posti di presidente, di segretario del C.C. ecc. Non a caso, sotto il suo potere, Lysenko e soci tornarono in auge, mentre i neo-stalinisti Suslov e Brežnev iniziarono la loro carriera politica.
Senza saperlo, fu proprio il Krusciovismo a porre le basi del sistema amministrativo di comando neo-stalinista. In sostanza si può parlare di "socialismo democratico sovietico" solo per alcuni momenti storici veramente significativi: gli anni 1917-29, il periodo bellico 1941-45 (qui, in effetti, lo slancio patriottico e il sentimento di responsabilità personale per i destini della nazione diedero luogo ad alcuni processi di destalinizzazione), relativamente agli anni 1953-65 e infine dal 1985 a 1991.
Krusciov e Stalin
Certo è che quando uno statista (come ad es. Stalin) si crea attorno a sé un'aura di infallibilità, diventa poi difficile che la popolazione comune gli attribuisca l'ordine di compiere orrendi crimini.
Bene fa Medvedev ad affermare che molti ritenevano che le purghe del 1937-38 avvenissero all'insaputa di Stalin, senza che Ežov (il capo dei servizi segreti) aspettasse il suo esplicito assenso.
Stalin infatti era un maestro nell'agire di nascosto. Aveva maturato questa abilità proprio perché sapeva bene che, come intellettuale e soprattutto come oratore, era piuttosto scarso. "Amante del segreto e solitario per natura, Stalin sfuggiva il contatto col pubblico" (p. 354, o.c.).
L'improvvisa sparizione di Ežov, che lui stesso fece fucilare, sembrava confermare l'idea fasulla dell'estraneità di Stalin alle stragi dei migliori quadri del suo partito.
Ancora oggi ci sono partiti comunisti che, invece di ritenere Krusciov molto limitato nel denunciare le aberrazioni dello stalinismo, negano qualunque veridicità al suo Rapporto segreto sul culto della personalità.
In realtà Krusciov non mise assolutamente in discussione i meriti di Stalin nella preparazione della rivoluzione socialista, nella guerra civile e nella lotta per l'edificazione del socialismo. Si concentrò soltanto su un aspetto psicologico che, a causa del ruolo che aveva Stalin, assumeva inevitabilmente delle conseguenze politiche.
Il bello è che per "conseguenze politiche" lo stesso Krusciov intendeva aspetti gravissimi, quali "perversioni dei princìpi del partito, della democrazia di partito e della legalità rivoluzionaria". Cioè in pratica non si era accorto dell'assurdità di salvaguardare i "meriti" di Stalin in presenza di difetti così grandi da sconvolgere l'esistenza stessa di qualsiasi socialismo democratico.
Come minimo avrebbe dovuto chiedersi se davvero Stalin ebbe dei meriti o se davvero il socialismo statalizzato poteva aspirare a realizzare la democrazia in assenza di Stalin.
Oggi la risposta è negativa a entrambe le domande. I presunti "meriti" di Stalin non prescindono mai da una certa propensione a usare metodi autoritari nel risolvere i problemi, tant'è che già Lenin voleva rimuoverlo dalla direzione del partito. E che il socialismo statale non avesse nulla di democratico è dimostrato dal fatto che nessun Paese comunista al mondo ha mai considerato la democrazia un obiettivo politico. L'attuale Corea del Nord, che forse può essere considerata l'ultimo Paese del sistema socialista statalizzato mondiale, vive, in sostanza, di assistenzialismo da parte dei due colossi con cui confina: Cina e Russia, i quali se ne servono in funzione anti-americana e anti-nipponica.
Supponendo che il maggior problema di Stalin si ponesse solo a livello psicologico, resta davvero curioso che il Pcus abbia dovuto aspettare il Rapporto di Krusciov prima di accettare l'idea secondo cui Stalin non solo non tollerava la collegialità nel lavoro politico e amministrativo, e non solo adottava una brutale violenza contro tutto quello che non gli piaceva, ma, quel che è peggio, tendeva a eliminare "fisicamente" i suoi oppositori.
Di fronte a uno statista come Krusciov, che affermava simili verità, gli altri dirigenti del partito, se avessero avuto un minimo senso etico della politica, avrebbero dovuto chiedersi se non fosse il caso di ricostruire dalle fondamenta il Pcus, o addirittura di ripensare l'idea stessa di "socialismo reale". Invece non fecero né l'una né l'altra cosa, e tutto andò in malora, inclusa la possibilità di costruire una democrazia autentica.
D'altra parte, non avendo mai messo in discussione il socialismo statale, Krusciov non poteva denunciare sino in fondo tutti i limiti dello stalinismo. In quello stesso Rapporto esaltò Stalin per aver costruito l'industria pesante, i colcos e per aver eliminato i seguaci di Trockij, Zinov'ev e Bucharin. Non mette mai in discussione la tesi dell'accerchiamento capitalistico, in nome della quale lo stesso stalinismo costruì un assurdo socialismo da caserma.
Se c'è un punto in cui Krusciov mente è là dove dice che contro i trockisti e gli opportunisti di destra la lotta venne combattuta solo "sul terreno ideologico" fino al 1934, anno dell'assassinio di Kirov, dopodiché Stalin procedette all'eliminazione fisica degli avversari, a causa dei disturbi della sua personalità. In realtà si era già compiuta una decimazione di massa tra la popolazione rurale, poiché i piani quinquennali del partito erano infattibili. La nozione di "nemico del popolo" non era il frutto di una mente malata, ma l'esigenza d'impedire qualunque discussione sui fallimenti della politica economica del governo.
Stalin e Machiavelli
Un dittatore è facilmente riconoscibile dal fatto che ai propri subordinati pone obiettivi che solo teoricamente sono raggiungibili, mentre tutti sanno che non possono esserlo praticamente. O meglio, forse lo sarebbero se determinate condizioni (sociali, materiali o ambientali) fossero presenti.
Un dittatore non vuol sentir parlare di limiti oggettivi, di condizionamenti concreti. Per lui è solo una questione di volontà. E chi non è capace di realizzare gli obiettivi ch'egli pone, è perché non ha abbastanza forza di carattere, che poi questa forza non è altro che una forma di spietatezza.
Un dittatore non può sbagliare in ciò che chiede, nelle sue previsioni. è l'esecutore che sbaglia, proprio perché non è sufficientemente determinato, intelligente.
è quindi evidente che in presenza di una dittatura politica che impone obiettivi irrealizzabili o raggiungibili solo in base a particolari condizioni, mentire diventa una regola generalizzata. Cioè l'esecutore potrà essere esigente o astuto quanto vuole, ma se non riesce a soddisfare le esigenze del dittatore, deve comunque trovare il modo di farla franca, altrimenti ci rimetterà di persona. Ecco perché nella piramide gerarchica dello stalinismo l'odio doveva essere feroce da parte del funzionario statale o partitico nei confronti delle masse popolari.
Falsificare i dati diventava una prassi abituale, ma se la falsificazione veniva scoperta, chi stava più in alto la faceva pagare a chi stava più in basso. In un certo senso la falsificazione veniva richiesta dallo stesso dittatore, che nell'immediato si metteva la coscienza a posto di fronte al proprio entourage. Poi se qualcosa veniva alla luce, procedeva con le epurazioni. L'importante per lui era poter far vedere che aveva ragione nel porre obiettivi che apparentemente non potevano essere realizzati. Poi se col tempo il fallimento dei risultati diventava sempre più evidente, poteva sempre dire ch'era stato ingannato, che qualcuno (un oppositore politico, un "nemico del popolo") aveva provato a sabotare qualcosa. La politica è una scienza eccezionale nel dividere le persone e le idee.
In una situazione del genere diventa facilissimo scatenare una repressione di massa. Qualcuno deve per forza pagare al posto del dittatore, che non può fare alcuna autocritica, essendo per definizione infallibile come una divinità.
è curioso che Stalin avesse imparato delle metodiche tipiche dell'Europa occidentale, note sin dal tempo dei Romani, senza mai essere uscito dai confini della Russia. Dove le aveva acquisite? Aveva forse letto Il Principe di Machiavelli? In effetti dicono che lo tenesse sul comodino. In fondo anche Mussolini e Hitler si consideravano discepoli di Machiavelli.
Da notare che una copia del Principe, sottolineata e annotata, fu trovata nella biblioteca personale di Stalin. Persino Kamenev aveva curato il primo volume delle Opere di Machiavelli. L'aveva fatto pochi anni prima di finire giustiziato secondo i metodi cinici e spietati di quei "princìpi borghesi" che nell'Italia rinascimentale non avevano pietà per nessuno e che in genere s'ammazzavano a vicenda.
Togliatti e lo stalinismo
Ci si può chiedere il motivo per cui lo stalinismo fece fuori anche molti esponenti dei partiti comunisti stranieri che in Russia avevano trovato rifugio. Forse non si voleva che all'estero si sapesse che razza si sfacelo economico stava vivendo la Russia socialista.
Quasi tutti i partiti comunisti subirono perdite rilevanti in Russia. Morirono molti più dirigenti comunisti che avevano richiesto ai russi asilo politico di quanti si trovassero nelle prigioni dei loro rispettivi Paesi: Jugoslavia, Bulgaria, Paesi Bassi, Germania, Cina, Corea…
Entro il 1938 furono praticamente liquidati anche i tre partiti comunisti di Ucraina, Bielorussia e Polonia, proprio alla vigilia dello scoppio della guerra mondiale, e prima ancora che venisse firmato lo sciagurato Patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939). Sciagurato perché fece un favore incredibile a Hitler, che poté entrare in Polonia senza incontrare resistenza. In un mese la fece sua, salvo ovviamente la parte orientale. Ci volle il XX Congresso prima di riabilitare i dirigenti di tutti questi partiti.
Dopo il suddetto Patto, Stalin consegnò a Hitler "un largo gruppo di antifascisti tedeschi e di ebrei fuggiti dalle mani della Gestapo per rifugiarsi in URSS". Lo scrive Medvedev a p. 274 (o.c.). Stalin era così legato a quel Patto che non fece assolutamente nulla per chiedere la liberazione di Ernst Thälmann, leader del proletariato tedesco, dalle prigioni naziste.18 Furono anche chiuse le frontiere sovietiche ai rifugiati politici che provenivano dall'Europa occidentale. Lo stalinismo sembrava agire al servizio del nazismo. Era comunque evidente che non voleva avere alcun rapporto col comunismo di nessun altro Paese al mondo.
Togliatti si trasferì a Mosca nel 1926 e rientrò in Italia solo 17 anni dopo. Non fu mai toccato dagli stalinisti perché sostanzialmente non si oppose mai a loro. Difficile pensare che anche Gramsci, se fosse vissuto in Russia, avrebbe beneficiato del medesimo privilegio.
Togliatti iniziò a opporsi allo stalinismo solo dopo il XX Congresso del Pcus, cioè dopo la destalinizzazione avviata da Krusciov. Di qui le critiche che gli mossero di opportunismo. In effetti era un leader che si sapeva destreggiare bene tra una corrente e l'altra dell'ideologia comunista.
Dopo quel Congresso Togliatti si limitò a parlare di "profonde contraddizioni nel temperamento" di Stalin. E quindi denunciò l'uso illegale del termine "nemici del popolo", per non parlare dell'errore di definire la socialdemocrazia con l'epiteto di "socialfascista".
Togliatti giudicava lo stalinismo una forma di settarismo, in quanto privo di mediazioni. Rifiutava nettamente la tesi del continuo inasprimento della lotta di classe durante il processo di transizione verso il socialismo. Però rifiutò anche l'interpretazione che ne diede Krusciov, secondo cui con quella tesi Stalin poté legittimare tutte le repressioni che voleva. Al dire di Togliatti quella tesi era solo "esagerata", quindi "falsa", poiché indubbiamente favoriva la violazione della legalità socialista, il culto della personalità e la burocratizzazione degli apparati. Tuttavia Togliatti non se la sente di mettere in discussione il ruolo "oggettivo" di Stalin, avendo l'URSS vinto il nazifascismo e contribuito a salvaguardare la rivoluzione bolscevica. Oggi non avrebbe potuto dire le stesse cose.
Secondo lui i limiti dello stalinismo non furono mai così gravi da compromettere la natura democratica del socialismo. Cioè lui, al posto di Stalin, non avrebbe mai spiegato col sabotaggio o il tradimento ogni lacuna o ritardo nello sviluppo del sistema sociale. In altre parole lo stalinismo fu un'esagerazione che si sarebbe potuta evitare facilmente con uno statista più equilibrato.
Togliatti criticò anche Krusciov, poiché non aveva alcun senso attribuire al solo culto della personalità i principali limiti del sistema sovietico. Secondo lui esisteva un altro grave errore nel regime staliniano, e questa volta nella politica estera: quello di non aver capito che il socialismo, nel mondo, segue strade diverse e che non ci può essere una "guida unica". Questo fu un errore di tutta la dirigenza sovietica. Il Pci voleva appunto differenziarsi dal Pcus solo in questo, l'autonomia nella costruzione del socialismo.
Togliatti ha sempre temuto che qualunque critica rivolta allo Stato sovietico potesse essere utilizzata dall'ideologia borghese. Stava qui il suo opportunismo. Salvò l'URSS anche perché confermò ch'era circondata da Paesi ostili, che favorirono la nascita degli errori stalinisti.
Inoltre negò (quanto mentendo è difficile dirlo) che i comunisti italiani fossero a conoscenza delle illegalità staliniste, tant'è che si sentì in dovere di ammettere che dopo il Rapporto segreto di Krusciov la persona di Stalin uscì molto diversa da quella della narrativa dominante. Ha in sostanza dovuto ammettere che anche il suo partito aveva coltivato il culto di Stalin. E in ogni caso, dovendo scegliere tra Pci e Pcus, preferiva quest'ultimo, poiché in Russia si lottava per migliorare uno Stato socialista, mentre in Italia si discuteva soltanto su come uscire dal capitalismo. Ecco perché, al cospetto di un obiettivo realizzato, tendeva a soprassedere sui metodi poco ortodossi utilizzati.19
Cos'è l'ideologia?
Cosa vuol dire avere un atteggiamento ideologico? Prendiamo il caso dell'industrializzazione accelerata e del collettivismo forzato, i due fondamentali obiettivi del primo piano quinquennale sovietico, approvato nel 1928 per il periodo 1929-33, e che si pretese d'aver completato, onde dimostrarne la fondatezza e l'efficacia, con un anno d'anticipo.
In realtà quel piano fu per molti aspetti un fallimento clamoroso, tanto da giustificare le successive repressioni. Alcuni esempi:
- Il Pcus e lo Stato permisero un travaso netto di ricchezze dall'agricoltura all'industria, ivi incluso il trasferimento dei lavoratori rurali verso le città e le industrie (oltre 20 milioni). Gli abitanti delle città, in pochi anni, salirono dal 18 al 33% della popolazione.
- Si puntò decisamente - come già Trockij aveva chiesto - sulla produzione dei mezzi di produzione (industria pesante), anche per dotare il Paese di un apparato bellico con cui poter fronteggiare qualunque attacco militare, che però in quel momento non si vedeva all'orizzonte. Non solo ma gli imponenti complessi industriali ebbero conseguenze letali per l'ambiente.
- Il lavoro operaio veniva pagato con bassi salari, che fino al 1940 resteranno inferiori a quelli del 1928. Lo sfruttamento della forza lavoro era intenso (benché il plusvalore estorto fosse tutto statale) e veniva condotto secondo regole severissime, che comportavano sanzioni disciplinari per qualunque infrazione. Il cosiddetto "comunismo di guerra", usato da Lenin al tempo della guerra civile, in realtà non finì mai.
- Per raggiungere i risultati del piano si dovette introdurre anche il salario a cottimo (quello relativo al surplus che si riesce a ottenere rispetto a un livello standard di produttività). Si avviò anche una sorta di emulazione socialista, mediante la quale si premiavano con riconoscimenti pubblici i cosiddetti "eroi del lavoro", cioè coloro che sapevano conseguire obiettivi superiori a quelli già duramente previsti. Il minatore Stakhanov, che poteva ottenere coi suoi metodi una resa di carbone pari a 14 volte quella media di un turno di lavoro, era diventato famosissimo.20
- Si dovettero sacrificare i consumi interni, domestici, quelli tipici dell'industria leggera, che non riuscirono a raddoppiare, come previsto.
- Il prodotto interno lordo non aumentò assolutamente grazie ai progressi dell'agricoltura, dove anzi si disattesero parecchio gli obiettivi prefissati.
Ormai tra partito e Stato non c'era quasi nessuna differenza: l'intero Paese era governato da una estesissima nomenklatura di politici, funzionari e amministratori, pari all'incirca al numero degli operai.
Ebbene, pur di non fare alcuna autocritica, con chi se la prese lo stalinismo? Si dovettero inventare di sana pianta dei nemici interni (che si reputavano molto pericolosi perché appoggiati dall'esterno), quei nemici che ogni comunista "ortodosso" avrebbe dovuto guardare con occhi torvi o sospettosi: i contadini ricchi (kulaki), i contadini medi (sub-kulaki), gli specialisti o i professionisti provenienti dai ceti borghesi o con mentalità non proletaria. Tutti dovevano essere colpevolizzati di qualcosa, e lo saranno soprattutto dopo il fallimento (anticipato) del secondo piano quinquennale (1933-37). Il terzo, per fortuna, fu interrotto dalla guerra.
I kulaki scomparvero come classe sociale. I contadini medi furono indotti a entrare nei colcos. Quanto all'intellighenzia borghese, si provvide a imbastire dei processi giudiziari aventi la funzione di monito per chiunque si opponesse alle direttive del governo e del partito-stato.
Il primo di questi processi-farsa, gestito da una sorta di inquisitore medievale, chiamato Andrej Vyšinskij, si svolse a Mosca nel 1928. Fu denominato "l'affare Šachty", dal nome del principale accusato.21
Sul banco degli imputati vi era un gruppo di ingegneri che lavoravano nell'industria del carbone. L'accusa principale, totalmente falsa, era quella di sabotaggio. Naturalmente si disse ch'erano collegati coi nemici controrivoluzionari residenti all'estero. Furono quasi tutti condannati a forti pene detentive; 11 persino alla fucilazione. Il verdetto fu facile da emettere, poiché gli imputati erano stati indotti a confessare, o con minacce o con torture.
Stalin ne approfittò subito per dire che potevano esserci dei sabotatori anche nel partito e negli organi statali. Quel processo fu come l'inizio di una valanga di neve che praticamente non ebbe mai fine sino alla sua morte. Tutti i processi furono fasulli, basati sulle accuse più assurde, ridicole o infamanti. Anche quando le accuse erano vere (in tutto o in parte), non si cercavano mai delle attenuanti, delle giustificazioni, dei testimoni a discarico. Gli imputati dovevano semplicemente confessare e, possibilmente, denunciare qualche complice, la cui colpevolezza, naturalmente, era non meno inventata.
Giudici, giurie, pubblici ministeri, avvocati difensori… erano tutte marionette gestite dal potere politico. Spesso neppure l'imputato veniva chiamato in tribunale, poiché tutto veniva fatto in fretta. Le sentenze venivano eseguite quasi immediatamente dopo il verdetto e in genere di notte. Il procuratore era tenuto ad assistere alla fucilazione. Esistevano anche le fucilazioni di gruppo, senza processo o istruttoria.
Il diritto non aveva alcuna autonomia, meno che mai poteva controllare le illegalità del potere politico. Non esisteva uno Stato di diritto, una separazione dei poteri, e tanto meno un controllo dal basso verso l'alto. Ideologia voleva appunto dire questo: tutto doveva essere ricondotto a un'unica volontà superiore, infallibile e incorruttibile.
Quale leader politico del Pcus si oppose al processo contro gli ingegneri borghesi? Nessuno. Chi si oppose al processo del 1929 contro l'Unione per la liberazione dell'Ucraina? Nessuno. Chi contro il processo, a porte chiuse, del 1930, a carico di un fantomatico "partito industriale", guidato da vari economisti? Nessuno.22
E si potrebbe andare avanti con molti altri esempi. Sembravano processi dettati da rancori personali o da quell'invidia che colpisce le persone che han patito soprusi e che finalmente vedono di fronte a sé la possibilità di vendicarsi. Si arrivò persino a sostenere che al cospetto delle confessioni non c'era bisogno di cercare prove documentali, riscontri oggettivi. Si formularono accuse del tutto fuori contesto, come per es. quella di essere stati nel passato menscevichi o socialisti rivoluzionari, quando in realtà questi partiti erano scomparsi da un pezzo. S'inventarono partiti inesistenti, come per es. quello del "burò unificato".
Ricercatori, scienziati, studiosi di alto rango finirono per essere colpiti senza valide giustificazioni, nella maniera più arbitraria possibile: inutile fare dei nomi che possono essere trovati in tutti i libri un minimo seri sulla storia dell'URSS. Le violazioni della legalità socialista erano incredibilmente numerose ed evidenti; eppure nessun grande leader politico proferì parola. Lo stesso Trockij iniziò a farlo solo verso la metà degli anni '30.
In nome di cosa questi silenzi? In nome dell'ideologia. Fu con quella ideologia assurda che Stalin pose fine alla NEP (1929-30), dando inizio alla sua follia. E furono soprattutto i processi politici della seconda metà degli anni '30 a screditare così tanto il socialismo sovietico e quello internazionale, che praticamente diedero al nazifascismo, su un piatto d'argento, l'occasione buona per scatenare la guerra mondiale.
Infatti qualunque idea di "fronte popolare" tra comunisti, socialisti, socialdemocratici naufragò inevitabilmente e in maniera piuttosto repentina. Prese piede l'isteria anticomunista con cui si realizzò l'intesa di Monaco. Austria e Cecoslovacchia cessarono di esistere come Stati autonomi, e nel 1939 fu la volta della Polonia, occupata dopo il famigerato patto Molotov-Ribbentrop.
Le cause della seconda guerra mondiale non possono essere attribuite solo al nazifascismo e al militarismo nipponico, ma anche nello stalinismo, che, proprio attraverso quei processi politici, non voleva far vedere il fallimento della propria politica economica.
Quando si cominciano a fare gravi errori, e si rinuncia all'autocritica, gli errori diventano sempre più grandi, in una spirale che non ha mai fine.
La concezione dello Stato
Penso che Engels avesse ragione quando scriveva, ne L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato23, che:
1) si può parlare di "Stato" solo a partire dall'epoca schiavistica;
2) lo Stato rappresenta gli interessi della classe sociale dominante, proprietaria dei mezzi produttivi;
3) lo Stato ha la funzione illusoria di mediare degli interessi inconciliabili, tipici delle classi sociali contrapposte;
4) la mistificazione principale di questa istituzione è quella di far credere d'essere "interclassista".
Engels aveva sicuramente capito che lo Stato, a rivoluzione socialista compiuta, era destinato a scomparire, ma non aveva capito come il proletariato si deve organizzare per conquistarlo. E poi tendeva a concedere troppo alle teorie evoluzionistiche e positivistiche del suo tempo.
Ci vorrà infatti Lenin per capire che senza un'organizzazione di tipo rivoluzionario, non basta aspettare che le contraddizioni del capitale scoppino da sole. Lo stesso parlamentarismo e il suffragio universale non sono assolutamente sufficienti per realizzare la transizione al socialismo e togliere di mezzo lo Stato.
Purtroppo Lenin non ebbe il tempo necessario per porre le condizioni di una progressiva estinzione dell'entità statuale, tant'è che il suo successore, Stalin, ne approfittò per fare esattamente il contrario: potenziare enormemente le leve di uno Stato centralista, rinunciando a sviluppare la democrazia.
Di sicuro prima delle civiltà schiavistiche (nate circa 6000 anni fa) non esisteva alcuno Stato, nell'accezione di "organo istituzionale preposto a controllare la società". E, dopo di allora, lo Stato ha cambiato solo le sue forme, in rapporto alle diverse culture, tradizioni, valori… delle tante società. Lo Stato è sempre servito per impedire alla società di autocontrollarsi, di autogestirsi in tutti i suoi aspetti vitali.
Il che non vuol dire che nell'epoca pre-schiavistica non esistesse la democrazia, il diritto, il socialismo, l'uguaglianza sociale e di genere, ecc. Vuol semplicemente dire che non esisteva qualcosa di "estraneo" alla società. La nascita dello Stato è la nascita di un'anomalia, di cui ancora non ci siamo liberati.
In un certo senso potremmo dire che tutto ciò che il soggetto, nella sua particolarità, nel circoscritto ambito territoriale in cui vive, non può controllare, va considerato estraneo. L'idea di un potere centrale in cui pochi individui controllano dall'alto le masse popolari, va considerata altamente anti-democratica.
Cercare una conciliazione tra potere centrale e potere periferico, quando il secondo non ha gli strumenti per controllare da vicino il primo, è uno sforzo inutile ai fini dello sviluppo della democrazia. Infatti delle due l'una: o i due poteri coincidono, oppure quello centrale domina quello periferico.
Un "centralismo democratico" può esistere solo nella misura in cui la base controlla costantemente il vertice. Chi pensa che la base non abbia gli strumenti idonei per farlo, non capisce nulla di democrazia e si impegna per realizzare una dittatura.
La stessa nozione di "dittatura del proletariato" ha un senso solo fintantoché esiste una borghesia che vuole sfruttare a tutti i costi il lavoro altrui. Nella misura in cui questo antagonismo sparisce o viene decisamente ridimensionato, deve subentrare la democrazia e il socialismo del proletariato (industriale e rurale), altrimenti si formerà una dittatura degli intellettuali "sul proletariato". Anzi, la parola stessa "proletariato", presupponendo un rapporto di sfruttamento della forza-lavoro, è destinata a scomparire dal vocabolario socialista.
Alla fine deve contare soltanto una democrazia socialista o un socialismo democratico, in cui vige l'uguaglianza sociale e di genere, ivi incluso il rispetto delle esigenze riproduttive della natura. All'interno di queste forme egualitarie matura la libertà personale.
Tutto ciò per dire che la sovranità non può appartenere allo Stato ma solo al popolo. Un popolo che si autogoverna non ha bisogno di alcuno Stato, né ha bisogno di alcun partito politico, poiché la politica è il luogo in cui avviene l'affronto teorico e pratico dei conflitti di classe o di ceto, cioè quei conflitti determinati dalla proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi.
Un popolo può delegare temporaneamente, per un motivo particolare, secondo una precisa finalità, la propria sovranità a un'istituzione centralizzata, formale, astratta, ma una volta conseguito l'obiettivo, tutto deve tornare come prima. L'eccezione non può trasformarsi in una regola.
Nobiltà, borghesia e proletariato
Mi è piaciuto Medvedev quando ha scritto: "è sbagliato idealizzare il proletariato [sottinteso: industriale], dipingendolo soltanto come la fonte di tutte le virtù" (o.c., p. 501).
Infatti la virtù non è cosa che si possiede in quanto appartenente a una "classe sociale", a prescindere dagli atteggiamenti soggettivi. Non dimentichiamo che in Che fare? Lenin arrivò a dire che nel proletariato industriale è più facile incontrare una coscienza sindacale che una rivoluzionaria.
è ridicolo pensare che un operaio, solo perché si trova a lavorare in una catena di montaggio, abbia più "morale" di un soggetto che lavora la terra o fa l'artigiano, o l'impiegato, o l'intellettuale, o il militare, ecc. Un operaio collettivizzato in fabbrica può anche diventare molto alienato, privo di scrupoli, non necessariamente disposto ad accettare la solidarietà di classe. Quanta gente si ribella a una propria situazione di disagio socio-esistenziale compiendo atti criminosi?
Ovviamente quando il personale operaio (o manuale) e impiegatizio (o intellettuale) è proprietario dei mezzi di lavoro che usa, può più facilmente aspirare a una maggiore soddisfazione personale, a una maggiore libertà. Tuttavia questo non toglie che operazioni ripetitive compiute in una catena di montaggio possano rendere piuttosto noiosa e frustrante (perché poco creativa) la giornata di lavoro.
La vita dell'operaio può diventare interessante quando la gran parte delle operazioni ripetitive o quelle più faticose o più pericolose o nocive alla salute vengono svolte in maniera più o meno automatica da dei robot. In tal modo l'operaio può disporre di maggior tempo libero, in quanto nell'ambito del socialismo la produzione non è finalizzata al mero profitto, ma anzitutto a soddisfare dei bisogni. Inoltre quanto più l'impresa è automatizzata tanto più l'operaio può far prevalere nel suo lavoro l'aspetto intellettuale (dietro a un computer) rispetto a quello manuale (dietro per es. a un tornio).
L'operaio non è che un artigiano collegato a una macchina che automatizza certi processi. La differenza è che gli operai e le macchine sono molti di più e, ovviamente, che il prodotto può essere fatto in serie, a prezzi di molto inferiori. Se si guarda solo il mero aspetto quantitativo, è evidente che l'industria è migliore dell'artigianato. Ma nella vita non esiste solo la quantità. Anzi, quando si fa riferimento alla quantità, bisognerebbe metterla subito in rapporto alle proporzioni: una piccola comunità ha davvero bisogno di prodotti in serie?
In ogni caso non ha alcun senso sostenere che, siccome esiste questo nesso forzoso tra uomo e macchina, e siccome si lavora in maniera tale per cui le funzioni sono strettamente connesse tra loro, nel senso che si vive in un gruppo operativo per l'intera giornata (come se in un animale sociale come l'essere umano questi collegamenti non fossero presenti in tutti i suoi lavori!), allora si deve per forza nutrire una più alta moralità, una migliore concezione della vita. Se l'operaio possiede queste qualità, non è perché fa l'operaio, ma perché ha deciso di lottare a favore del socialismo; e se il socialismo l'ha già ottenuto, le possiede esattamente come ogni altro lavoratore.
Sarebbe assurdo sostenere che, nell'ambito del socialismo, l'operaio è eticamente migliore di un qualunque altro lavoratore, proprio in quanto opera in un collettivo meccanizzato. Anzi, considerando che al giorno d'oggi si è molto più consapevoli dei danni provocati dall'industria alla natura, dovremmo dire il contrario, e cioè che un lavoratore è tanto più etico quando meno nuoce, col proprio lavoro, alle esigenze riproduttive della natura. Quindi l'operaio industrializzato sarebbe il meno autorizzato a parlare di "eticità".24
Naturalmente Medvedev non arriva a queste conclusioni, anche perché quando scrisse lo Stalinismo la sensibilità ambientale era ancora in fasce. Lui si limita a sostenere che il proletariato non andava idealizzato in quanto la mentalità piccolo-borghese lo influenzava enormemente.
Bisogna in effetti ammettere che i cambiamenti di mentalità, quando si riferiscono non a individui singoli, ma a intere popolazioni, possono aver bisogno di tempi lunghissimi.
Prima della rivoluzione comunale, cristiano-borghese, del Mille, la mentalità dominante era quella aristocratica, in forma laica ed ecclesiastica. I nobili avevano valori come onore, sangue, razza, ecc. Ed erano molto esperti nell'uso delle armi. Il clero doveva essere competente in teologia e diritto canonico.
Viceversa, la borghesia s'interessa solo di affari, di commerci, di transazioni finanziarie, di imprese produttive, ecc., e per sentirsi sicura paga un servizio d'ordine o persino un esercito che la difenda. Quando gli Stati diventano nazionali gli eserciti tendono a trasformarsi da mercenari a permanenti, essendo pagati con le tasse di tutti i cittadini.
è da un millennio che viviamo sulla base di una mentalità borghese, che ha potuto sconfiggere quella aristocratica in quanto appariva più democratica, più impostata sul diritto contrattuale che non sul privilegio di nascita e quindi ereditario. L'operaio infatti è giuridicamente libero, anche se, essendo totalmente privo di mezzi produttivi in proprietà, è solo libero di morire di fame o di accettare le condizioni capestro del capitalista.
Inutili definizioni sociologiche
Le definizioni sociologiche, relative alle classi sociali di appartenenza, vogliono dire assai poco, soprattutto quando si pretende di abbinarle a comportamenti morali o a caratteristiche psicologiche.
Piccola, media, alta borghesia, o proletariato, classe operaia, aristocrazia operaia, ceto medio, oligarchia..., per non parlare di quella miriade di differenziazioni aristocratiche di un tempo (conte, visconte, barone, marchese, duca, arciduca, ecc.): queste sono tutte categorie che, in definitiva, risultano piuttosto astratte, paragonabili a quelle di tipo militare. è assurdo pensare che chi appartiene a una di esse sia, solo per questo, migliore o peggiore, sul piano etico-morale, rispetto a chi appartiene a un'altra categoria.
Oggi i titoli nobiliari si trovano ancora in quegli Stati caratterizzati da strutture feudali, come le monarchie islamiche del Golfo, il Vaticano, il Regno Unito con la sua Camera dei Lord, l'India divisa in caste intoccabili, e così via. Puri retaggi del passato, destinati a scomparire. Certo è che se gli ultimi nobili rimasti sono ancora proprietari di ingenti beni immobili, possono anche esercitare un certo potere sul piano politico; in caso contrario i loro titoli son solo gusci vuoti.
La rivoluzione francese e soprattutto quella russa furono disastrose per le sorti dei ceti nobiliari, proprio perché questi non volevano concedere nulla alla fonte principale dei loro redditi: la classe rurale. Un nobile può possedere tutte le terre che vuole, ma se non ha una manodopera da sfruttare, è costretto o a venderle o ad affittarle. A tutti può piacere di vivere di rendita, ma a nessuno piace, potendo virtualmente diventare libero, fare la parte dello schiavo o del servo.
Chi sono stati i teorici del socialismo scientifico? Marx apparteneva alla media borghesia; Engels forse a quella alta, visto che dirigeva un'azienda capitalistica. Auspicavano una rivoluzione proletaria, cioè sostanzialmente operaia, ma non organizzarono mai un partito "operaio". Al massimo, negli anni caldi del 1848-49, lottarono per l'affermazione della piccola-media borghesia in Prussia, contro il potere nobiliare-monarchico.
Lo stesso Lenin disse, in Che fare?, che la coscienza rivoluzionaria al proletariato andava trasmessa "dall'esterno", cioè dagli intellettuali, in quanto gli operai avevano al massimo una coscienza "sindacale" (tradunionistica). Poi rettificò questa affermazione così categorica, dicendo che un operaio poteva avere una coscienza rivoluzionaria, ma in tal caso il partito l'avrebbe pagato per fare il militante.
Tutto ciò per dire che lo "spirito rivoluzionario" soffia dove gli pare, nel senso che è trasversale a tutte le classi e i ceti, anche se, evidentemente, chi possiede di più deve fare uno sforzo maggiore per liberarsi del fardello che gli impedisce di diventare "eversivo". Francesco d'Assisi volle denudarsi in piazza per rinunciare all'eredità paterna. Il che, comunque, non fu sufficiente per farlo diventare un "rivoluzionario" come Arnaldo da Brescia o fra' Dolcino.
Quand'è invece che si diventa "ipocriti"? Quando, al cospetto dell'acuirsi delle contraddizioni sociali, uno finge di non accorgersene, preferendo restare legato ai propri privilegi di nascita o alle proprie ricchezze acquisite col tempo. Dopodiché, man mano che queste contraddizioni peggiorano, si arriva al paradosso che chi potrebbe risolverle, le trasforma in una miccia per imporre un regime ancora più autoritario. Se ne serve per incolpare determinate categorie di persone (ieri gli ebrei, oggi gli islamici o gli immigrati in generale), o per dichiarare guerra a qualche Stato più o meno confinante.
Si forma come una spirale, un vortice da cui non si riesce a uscire. Ci si dimena come un animale che vede sempre più restringersi la gabbia in cui è rinchiuso. Si fanno cose senza senso, dettate solo dalla paura di perdere la propria sicurezza, e non si capisce minimamente che una vera sicurezza può essere tale solo se reciproca. Succede come in certi film americani di fantascienza, dove gli ultimi sopravvissuti, dopo aver perso tutto in una guerra planetaria, continuano a odiarsi mortalmente, come facevano quando le cose le possedevano. Anzi, si odiano ancora di più, poiché le risorse per sopravvivere sono infinitamente meno.
Idealismo hegeliano e stalinismo
Forse per capire meglio lo stalinismo nella sua concezione di socialismo statalizzato, sarebbe bene dare un'occhiata alla sez. III (dedicata allo Stato) relativa alla parte III intitolata "L'eticità", dei Lineamenti di filosofia del diritto, il libro più politico dell'ultimo Hegel.
Per Hegel l'individuo è nulla e lo Stato è tutto. Quindi è escluso a priori che la società civile, nel suo complesso, possa mai diventare più importante dello Stato. La società civile è il regno dei bisogni e dei conflitti, che possono essere soddisfatti e mediati solo dallo Stato, inteso come un deus ex-machina.
Nell'ambito dello Stato diritto e dovere coincidono. Non ha senso per il cittadino rivendicare dei diritti nei confronti dello Stato, come se questo fosse un corpo estraneo, altro da sé.
Nella filosofia hegeliana lo Stato non è neppure l'esito di un contratto tra individui, cioè tra interessi contrapposti o tra volontà particolari. Infatti lo Stato è ethos, qualcosa che precede qualunque aspetto di individuale e a cui ogni individuo deve tendere, se vuole sentirsi libero.25
Lo Stato hegeliano (o meglio, prussiano) è un sostituto della Chiesa medievale, è il rappresentante assoluto, in Terra, della realtà divina. La sua ideologia è il cristianesimo (nella variante luterana, che Hegel considerava più libera di quella cattolica), in quanto lo Stato è confessionale. Ed è confessionale in forma razionale, come può esserlo una filosofia, non una religione, il cui ambito prevalente è quello rappresentativo della fede, quello emotivo, simbolico, che può anche trasformarsi in qualcosa di fanatico, se non interviene la ragione. Hegel era convinto che lo Stato fosse razionale di per sé.
Tutte queste cose si ritrovano anche nello stalinismo, ovviamente in forma laicizzata. Invece della religione cristiana lo Stato professa l'ateismo scientifico; invece della filosofia idealistica il materialismo storico-dialettico; invece della filosofia hegeliana l'ideologia marxista-leninista, e così via.
C'è un altro aspetto da considerare. Lo Stato hegeliano tutelava la proprietà privata, quello stalinista no. Nel socialismo statalizzato tutta la proprietà è collettiva; quella "personale" si riduce a ben poca cosa. Ciò è dipeso dal fatto che la Russia ha conosciuto una rivoluzione borghese solo a fine Ottocento e non ha avuto tempo di svilupparla, in quanto superata dalla rivoluzione comunista.
Entrambi gli Stati prevedono la Costituzione, ma questa è un "prodotto" dello Stato, nel senso che i poteri dello Stato non vengono esercitati nei limiti della Costituzione. Piuttosto è questa che viene applicata in rapporto alla volontà dello Stato, che è etico e politico per definizione e che, come tale, non può avere un "diritto" che lo determina o che lo vincola.
La Costituzione serve soltanto per indurre il cittadino ad aver fiducia nello Stato. Lo induce a credere che lo Stato sia davvero razionale e al di sopra delle parti.
Hegel prediligeva la monarchia costituzionale, ma è evidente che non permetteva al potere sovrano d'essere vincolato ad alcuna Costituzione.
Lo stalinismo non poteva professarsi "monarchico", in quanto la monarchia zarista era già stata definitivamente estromessa da qualunque potere. Tuttavia lo stalinismo si è sempre comportato in maniera monarchica, avvalendosi di un'aristocrazia intellettuale di funzionari politici e amministrativi.
Dalla Prussia alla Russia
Il sindacato non può essere una "cinghia di trasmissione" del partito, poiché son due strutture diverse, con finalità diverse: il sindacato non dovrebbe avere una componente ideologica.
Al tempo in cui D. B. Rjazanov litigava col C.C. del partito guidato da Stalin, mi sarei messo dalla sua parte. Infatti, finché esiste un sindacato, esiste una lotta di classe, e quindi esisteranno sempre delle sfumature diverse con cui opporsi allo sfruttamento della forza-lavoro.
Certo, uno può dire che, dopo aver compiuto una rivoluzione comunista, non ci possono essere "sfruttatori". Tuttavia nella Russia sovietica uno c'era di sicuro: lo Stato, che estorceva plusvalore esattamente come un imprenditore privato, anzi con molti più mezzi coercitivi e con un'estensione geografica molto più ampia. Poi naturalmente gli stalinisti dicevano che lo Stato distribuiva il plusvalore in maniera equa a tutta la società, ma sappiamo anche che mentire per loro era un'abitudine quotidiana. Senza poi considerare che il plusvalore ai contadini veniva estorto senza alcuna pietà.
Può sembrare paradossale che ai tanti sfruttatori privati del mondo capitalistico si sostituisse allora un unico sfruttatore collettivo, centralizzato, dove il potere era concentrato nelle mani di pochi intellettuali. Però è stato così. E nella Cina avvenne la stessa cosa.
La storia s'è incaricata di dimostrare che la nazionalizzazione dei principali mezzi produttivi, affidati alla gestione dello Stato (e quindi ai suoi funzionari pubblici, dotati di pieni poteri), fa nascere uno sfruttatore collettivo ancora più pericoloso, ancora più difficile da abbattere.
Si badi: in sé la nazionalizzazione non è sbagliata; va soltanto evitata la gestione statale dei mezzi produttivi, e non perché sia meno efficiente di quella privata (potrebbe anche esserlo di più, e comunque questa presunta inefficienza non può esser data per scontata), ma semplicemente perché lo Stato è un ente astratto, che non dovrebbe neppure esistere. Chi pensa che senza la presenza di uno Stato, la società civile finirebbe col diventare incontrollabile, dimentica di precisare che qualunque conflitto sociale dipende dalla proprietà dei principali mezzi produttivi. Gli esseri umani non sono buoni o cattivi per natura, ma sanno essere democratici se i beni che li fanno vivere vengono equamente condivisi. E questa condivisione dev'essere libera, gestita spontaneamente, non può essere imposta paternalisticamente dall'alto.
Chi pensa che la natura dello Stato sia "super partes", o che la sua funzione, il suo ruolo debba essere superiore a quello della società civile, assume una posizione tipica dell'idealismo hegeliano, così ben delineata nei Lineamenti di filosofia del diritto, dove lo Stato viene posto come "etico" per antonomasia, cioè come sommamente giusto, in quanto sommamente razionale.
è pazzesco che un filosofo dialettico come Hegel dicesse una cosa del genere quando era sotto gli occhi di tutti che lo Stato prussiano era soltanto un organismo che faceva gli interessi delle classi aristocratiche e militari. I suoi funzionari pubblici, fossero essi burocrati, politici, educatori, militari, magistrati ecc., venivano considerati da Hegel come del tutto privi di interessi di parte, quindi inevitabilmente onesti, sinceri, imparziali… Secondo lui non avevano quei conflitti d'interesse tipici di chi connette la propria esistenza al guadagno economico, alla speculazione privata.
Lo Stato hegeliano considerava "egoista" la borghesia, ma evitava di mettere in discussione la proprietà privata. In tal senso si differenziava dallo Stato bolscevico, il quale però fece dei funzionari statali gli aguzzini di tutti gli altri. Sotto lo stalinismo, pur avendo il partito soppresso la proprietà privata, lo Stato continuava a porsi come un ente assoluto, che non può sbagliare, e a cui si deve obbedienza incondizionata. La classe aristocratica era diventata quella degli intellettuali, degli ideologi, degli amministratori di direttive politiche.
In fondo lo stesso filosofo Hegel, stipendiato dallo Stato, si poneva come un aristocratico intellettuale, e pretendeva che la sua filosofia venisse considerata come un'ideologia ufficiale, la quintessenza teorica dello Stato prussiano, monarchico e militarista, oltre che mirante a imporsi su qualunque altro Stato regionale tedesco. Sarà proprio lo Stato prussiano a far diventare la Germania una nazione e, in quanto nazione, uno Stato colonialista con ambizioni imperialistiche, in antagonismo ai due Stati più importanti dell'Europa occidentale, già da tempo promotori dello sviluppo capitalistico delle loro rispettive società civili: il Regno Unito e la Francia.
Con lo stalinismo la Russia eredita la concezione di Stato che aveva la Germania, ma con due differenze fondamentali: l'aristocrazia è soltanto intellettuale, non è agraria; la proprietà privata viene abolita, rendendo impossibile lo sviluppo del capitalismo privato. Il collettivismo forzato è stato possibile in Russia perché la mentalità borghese non aveva avuto tempo sufficiente per radicarsi sul piano sociale.
Lo stalinismo non fece altro che sfruttare il forte elemento asiatico presente oltre gli Urali contro l'elemento europeo imborghesito presente nell'area occidentale del Paese. Solo che alla stessa area asiatica impose, in maniera statalizzata, quel modello di rivoluzione industriale che la propria area europea aveva cominciato ad acquisire, in forma privata, nell'ultimo periodo dello zarismo. Tale comportamento fu un classico dell'ideologia stalinista: far vedere, in una fase iniziale, che si sta dalla parte dei lavoratori, per poi, in un secondo momento, una volta ottenuto il loro consenso, sfruttarli senza tanti problemi, eliminando fisicamente chiunque vi si opponga.
Caratteristiche della Russia
La Russia è sempre stato un Paese autoritario, sin dai tempi dello zarismo. La propria area asiatica fu conquistata dalla propria area europea e trattata come una colonia. Il Paese partecipò alla prima guerra mondiale con intenti imperialistici al di fuori dei propri confini.
L'acquisizione del cristianesimo ortodosso-bizantino non addolcì affatto i propri costumi, se non in casi particolari. Diciamo che diede a questo enorme territorio gli strumenti culturali per non farsi assorbire dai conquistatori dei Paesi di religione cattolica o protestante o islamica.
Quando Costantinopoli cadde sotto la pressione ottomana, Mosca effettivamente aveva il diritto di sentirsi una specie di "Terza Roma", a difesa della religione ortodossa. Tuttavia i teologi ortodossi russi non hanno mai avuto la profondità di quelli greci o dell'impero bizantino. Si parla di "patristica greca" non di "patristica russa". Probabilmente il meglio di sé i russi ortodossi l'han dato sul piano artistico (iconografico e architettonico), le cui fondamenta però erano, ancora una volta, nel mondo bizantino.
La Russia non appariva in politica estera come un Paese "violento", a differenza invece del Regno Unito o della Francia o della Spagna e di altri Paesi europei dediti al colonialismo. Probabilmente la scarsa propensione alla violenza in politica estera era dovuta al fatto che la sua estensione geografica era enorme, satura di risorse naturali, di materie prime, di terre vergini. La Russia non ha mai avuto bisogno di conquistare un territorio perché priva di un determinato bene. Quando lo faceva o tentava di farlo, era per difendersi dall'espansionismo degli europei o per trovare dei canali commerciali per i propri prodotti.
Diciamo che per gestire la sua enorme vastità geografica, la Russia ha sempre ritenuto opportuno dotarsi di governi autoritari, nella convinzione che con essi avrebbe evitato d'essere colonizzata da un Paese capitalistico (che poi l'unico popolo che riuscì a sottometterla, quello tataro-mongolo, era del tutto feudale).
Lenin cercò di stemperare tale necessità autoritaria, venendo incontro alle esigenze dei contadini e delle molteplici etnie e nazionalità. Stalin invece non lo fece mai, preferendo restare fedele alla tradizionale politica zarista.
Ancora oggi la Russia è destinata a scontrarsi con altri imperi, che ambiscono a dominare il mondo intero: dopo l'impresa folle di Napoleone e quella disumana dei nazisti tedeschi, ha dovuto fronteggiare, a partire dagli anni '50 del XX sec., l'egemonia globalista dell'area euroamericana, un'area che si è trasformata in "occidente collettivo" nel corso del conflitto russo-ucraino.
Grandi nemici della Russia, benché di dimensioni molto più ridotte, furono l'impero polacco-lituano (cattolico) e quello svedese (protestante), e intensi furono gli scontri con l'impero ottomano per liberare i Paesi balcanici. Può darsi che in futuro avverrà uno scontro con lo Stato cinese, che sembra ambire a un'egemonia mondiale, così come nel passato dovette fronteggiare le mire espansionistiche del militarismo nipponico.
Tutti ambiscono a derubare la Russia delle proprie risorse, ma nessuno ha il coraggio di dichiararle guerra, poiché tutti sanno che se è facile entrare armati nel suo territorio, è molto difficile uscirne o anche solo difendere le posizioni acquisite. La Russia è lenta a muoversi, ma quando lo fa, non c'è scampo. E siccome tutti han sempre preteso di conquistarla, è inevitabilmente forte il culto dello statista autoritario, il valore del patriottismo e la pratica del militarismo.
La Russia sa essere molto tollerante coi propri nemici, persino troppo generosa con chi vuol fare affare con lei, ma è bene non approfittare di questa sua benevolenza con l'intento di sottrarle dei territori o di intromettersi nei suoi affari interni. Quello che perde, prima o poi lo riconquisterà. è inutile mantenere atteggiamenti aggressivi nei suoi confronti. La Russia ha capito di aver concesso troppo all'occidente: si è pentita della propria ingenuità, e ora si sta stancando di sentirsi tradita.
Partito, governo e Stato
Un partito dovrebbe limitarsi a indicare degli indirizzi generali. Cioè dovrebbe svolgere una funzione prettamente ideologica e politica. E dovrebbe lasciare l'amministrazione della società alle comunità locali. Non solo, ma il governo dello Stato non dovrebbe essere gestito da un unico partito, perché all'interno di una nazione le idee possono essere molto diverse.
A rivoluzione compiuta il partito dominante o maggioritario dovrebbe dire: "Siccome vogliamo la progressiva estinzione dello Stato, chiediamo che il governo sia formato da una coalizione che approvi tale obiettivo. Questo vuol dire che il governo farà di tutto perché si sviluppino nella nazione delle autonomie locali e regionali".
In altre parole il partito maggioritario e la stessa coalizione di governo devono immediatamente far capire, dimostrandolo concretamente, che non hanno intenzione di usare le leve dello Stato per governare l'intera società civile. Tale società, suddivisa in tante autonomie locali (i cui confini non possono che essere concordati pacificamente), deve essere messa in grado di diventare "Stato" di se stessa.
A questo punto uno potrebbe chiedersi: "A che servono i partiti? A che serve il governo?". Servono provvisoriamente, per dare delle linee generali d'indirizzo, per coordinare le tante autonomie locali e regionali, coi loro interessi non coincidenti. Offrire degli indirizzi generali di comportamento non vuol dire imporre uno stile di vita, entrare nei dettagli della vita quotidiana.
è infatti evidente che ogni comunità locale cercherà di realizzare i valori di libertà e uguaglianza sulla base delle proprie caratteristiche. L'importante però è che venga messa nelle condizioni di poterlo fare. Non avrebbe alcun senso organizzare una rivoluzione politica, per poi permettere che a livello locale le comunità vivano gli stessi precedenti rapporti di sfruttamento, ingiustizia, oppressione e discriminazione. Se una comunità locale ha bisogno d'aiuto, il governo deve essere pronto a darglielo. E finché ne avrà bisogno, dovrà sempre esserci qualcuno disposto a offrirglielo liberamente e gratuitamente. Per un certo periodo di tempo può essere un partito o un governo, ma poi dovranno essere le altre comunità, poiché la stabilità di una si riflette su quella delle altre; la sicurezza deve diventare una garanzia per tutte le comunità, nel rispetto delle reciproche diversità.
Purtroppo nell'esperienza bolscevica avvenne tutto il contrario. Dopo la morte di Lenin l'Ufficio politico del partito divenne meno importante della Segreteria, organo di lavoro del Comitato Centrale. A forza di accumulare funzioni amministrative, il segretariato (guidato da Stalin) assunse un'effettiva leadership politica nel partito. Quest'ultimo, dopo essersi liberato di tutti gli altri partiti, diventò sempre di più un "partito-stato", in grado di gestire l'intera società civile. Inevitabilmente gli organi provinciali del partito si sovrapposero ai soviet locali, dove si esercitava la democrazia diretta.
La rivoluzione si era trasformata in una dittatura, prima amministrativa, poi politica e infine ideologica. Tutti dovevano eseguire direttive imposte dall'alto e pensarla alla stessa maniera. All'interno delle tante polemiche scoppiate tra i dirigenti del partito bolscevico, dopo la morte di Lenin, nessuno si accorse che l'involuzione non era semplicemente dovuta alla personalità cinica e arrivista di Stalin, ma alla creazione di una struttura di potere e di gestione sociale oggettivamente anti-democratica.
Stato e società civile
La particolarità più evidente della Russia, quella che salta subito agli occhi, è la profonda dicotomia esistente tra etica e politica, tra establishment e popolazione, tra Stato e società civile. Questo valeva al tempo dello zarismo, ma anche al tempo dello stalinismo e probabilmente dura ancora oggi.
Infatti in un caso sembra di avere a che fare con istituzioni profondamente condizionate dalla mentalità occidentale, mentre nell'altro caso tendono a prevalere influenze asiatiche, quelle che in Europa occidentale han cominciato a scomparire a partire dal Mille, con la nascita dei Comuni borghesi. Furono proprio questi Comuni a porre le basi in grado di minare dalle fondamenta la mentalità asiatica che l'Europa aveva ereditato sin dal tempo delle cosiddette "invasioni barbariche", che avevano posto fine all'individualismo schiavista dell'impero romano d'occidente; quelle invasioni che invece non riuscirono a eliminare l'impero bizantino, contrassegnato da un certo spirito collettivistico, meno propenso allo sfruttamento schiavistico del lavoratore.
Certo in occidente, se si escludono le dinastie monarchiche, i Presidenti dei Consigli dei Ministri e i Capi di Stato non restano al potere per molti anni, ma questa limitatezza del mandato è dovuta proprio al fatto che non esiste più una popolazione in cui domina il senso del collettivo. L'individualismo, col tempo, è diventato sempre più marcato, e questo difetto si riflette, inevitabilmente, negli antagonismi sociali e di classe, i cui interessi sono rappresentati da partiti politici sempre in lotta tra di loro.
In occidente tutti vogliono comandare e l'opposizione parlamentare fa di tutto per far cadere il governo. Alla fine è solo un gioco delle parti, poiché la differenza tra governo e opposizione, nelle questioni di fondo, è irrilevante, anche perché è l'economia che detta legge alla politica, come la spontaneità al raziocinio.
In Russia invece il potere politico ha sempre sfruttato la passività delle masse per affermare il monopartitismo al governo. Per questo si parla di "autocrazia". Anche quando vi sono elezioni politiche, è molto difficile che il governo in carica non venga riconfermato. Per non esserlo, deve accadere qualcosa di molto grave.
Per gli occidentali invece la democrazia è l'alternarsi di forze opposte, anche se esse, in ultima istanza, sono equivalenti: il che rende puramente formale la democrazia politica, così formale che in Russia hanno buon gioco nel dire che nella realtà (quella dei diritti socioeconomici) loro son molto più democratici di quel che non si creda. Non si lasciano intimorire dalla nostra propaganda ideologica, anche perché di tanto in tanto siamo noi a voler occupare la Russia, non il contrario.
Tuttavia, quando Stalin diceva che "il popolo russo ama avere un solo uomo alla testa dello Stato" (cit. a p. 398 de Lo stalinismo), mentiva spudoratamente, poiché in realtà era il dittatore che aveva bisogno di una massa acquiescente e poco istruita.
Lo Stato in sé va superato
è piuttosto ingenuo pensare - come fa Medvedev - che la degenerazione burocratica era avvenuta nello Stato gestito dagli stalinisti, mentre "ai tempi di Lenin gli elementi burocratici erano tenuti sotto controllo" (p. 505, o.c.).
Al tempo di Lenin la rivoluzione era appena stata fatta, e i bolscevichi contribuirono in maniera decisiva a superare sia l'interventismo straniero che la guerra civile. L'entusiasmo era ancora molto forte. Si obbediva alle istanze superiori non per puro servilismo, ma perché il popolo più progressista agiva come se fosse un unico esercito contro un nemico comune e mortale.
Tuttavia Lenin non si nascondeva affatto i limiti burocratici dello Stato in sé. Nel libro Stato e rivoluzione auspica - esattamente come Marx ed Engels - una progressiva estinzione dello Stato, nel senso che il popolo deve arrivare ad autogovernarsi in tutti gli aspetti della sua vita, nessuno escluso, altrimenti è impossibile parlare di socialismo.
Viceversa con lo stalinismo si dà un'importanza eccezionale allo Stato centralizzato, proprio perché viene ritenuto lo strumento fondamentale (soprattutto nei suoi apparati repressivi) con cui impedire che esplodano le contraddizioni causate da una politica economica completamente sbagliata (le cui conseguenze umane vengono sempre sottovalutate dalla sinistra radicale di tutto il mondo).
Il difetto principale dello stalinismo era l'incapacità di compiere una revisione critica delle proprie decisioni. Il suddetto libro di Lenin l'han sempre ritenuto valido per la fase del comunismo, non per quella del socialismo.
Lenin l'aveva detto mille volte che compiere degli errori era inevitabile nel corso della transizione dal capitalismo al socialismo, proprio perché non vi erano esempi da imitare, da prendere come modello. I bolscevichi trascurarono del tutto le esperienze del socialismo utopistico. La stessa cooperazione veniva considerata un fenomeno prevalentemente borghese. Solo alla fine della sua vita, guardando lo sfacelo economico del suo Paese, Lenin la considerò un'esperienza da promuovere, sia nella produzione agricola che nella distribuzione delle merci.
L'unica vera esperienza cui Lenin fa costante riferimento è la Comune di Parigi, che però durò troppo poco per risultare davvero significativa. I populisti, che esaltavano l'obscina rurale, erano già stati demoliti da lui in gioventù. E per quanto riguarda i socialisti rivoluzionari, era disposto ad accettare nel governo solo la presenza della loro ala sinistra, che difendeva gli interessi del proletariato agricolo, quello nullatenente.
Diciamo in sostanza che Lenin non ebbe tempo sufficiente per porre delle basi oggettive volte a superare il rischio della burocratizzazione della rivoluzione, cioè della sua statalizzazione. Sperava che i bolscevichi capissero questa esigenza sul piano soggettivo, confidando sul loro buon senso, o comunque sulla capacità d'essere concreti, realisti, e di non interpretare schematicamente i fatti.
Quando lanciò lo slogan "tutto il potere ai soviet", era assolutamente convinto che la rivoluzione poteva essere fatta con questi strumenti della democrazia diretta. Tuttavia già al tempo della guerra civile i soviet erano diventati poco incisivi. Si aveva bisogno di una direzione centralizzata delle operazioni belliche. Lenin temeva che, concedendo troppa autonomia ai soviet, si sarebbero formati, una volta superato con la NEP il comunismo di guerra, nuovi partiti anti-comunisti, soprattutto in ambito rurale, dove l'influenza bolscevica non era certo ai massimi livelli.
è bene però esser chiari su questo argomento, anche a prescindere da come il leninismo si è involuto nella forma dello stalinismo. Il concetto stesso di "istituzione", se implica una democrazia esclusivamente rappresentativa, cioè se favorisce la pratica della delega della responsabilità personale e diretta, è un concetto che va decisamente superato.26 Il socialismo non ha bisogno di "istituzioni" ma di organi gestionali diretti (o, se si preferisce, di organi autogestiti o autodiretti). Le istituzioni hanno senso se sono provvisorie e finalizzate a obiettivi specifici. Se si impadroniscono della quotidianità, la libertà finisce e la giustizia diventa una finzione.
La questione delle nazionalità
Lo stalinismo non fu una deviazione solo successiva al leninismo, ma anche coeva. Infatti nell'agosto 1922 si formò una commissione speciale, presieduta da Stalin, per studiare la possibilità di una unificazione (integrazione) di varie repubbliche sovietiche: Ucraina, Bielorussia, Armenia, Georgia e Azerbaigian, che rivendicavano una certa autonomia nei confronti della Russia.
La suddetta questione esplose quando nel partito comunista georgiano avvenne una scissione a causa di una rivendicata particolarità del popolo georgiano, cui Ordžonikidze, esponente del partito comunista russo, reagì con un atteggiamento intollerante.
La commissione cercò di risolvere il problema proponendo un progetto di unificazione che però, invece di risolverlo, lo acuì. Infatti l'idea di Stalin era quella di fare degli organi del potere supremo della repubblica russa un modello da seguire per tutte le altre repubbliche, nella convinzione che sarebbe stato impossibile non capire che il nuovo Stato socialista da creare era perfettamente democratico, non avendo nulla a che fare con le democrazie borghesi. Al massimo poteva essere concesso un certo margine di autonomia. Non si rendeva conto che allo sciovinismo da grande potenza si sarebbero opposti dei nazionalismi regionali sempre più marcati.
Secondo lui la Russia, essendo stata nel passato una nazione dominante, non aveva avuto a che fare con tendenze nazionalistiche, a parte ovviamente lo sciovinismo di grande potenza. Cioè la Russia andava considerata come uno Stato plurinazionale per definizione (come l'impero austro-ungarico), composto da una nazione forte e da altre deboli.
Vedeva la costituzione di Stati nazionali dopo la fine della prima guerra mondiale molto negativamente. Diceva per es. che la Polonia opprimeva bielorussi, ebrei, lituani e ucraini; la Georgia opprimeva abkhazi, osseti e armeni; la Jugoslavia opprimeva croati, bosniaci e bulgari. Stalin era convinto che nessuna repubblica sovietica minoritaria avrebbe potuto sopravvivere a un attacco dei Paesi occidentali imperialisti senza l'aiuto della Russia. Ciò in quanto l'intera URSS era già circondata dall'occidente.
A suo dire doveva essere la dittatura del proletariato a garantire l'uguaglianza nazionale e i diritti delle minoranze (col termine di "proletariato" intendeva gli operai industrializzati, in quanto contadini e piccola borghesia li considerava pieni di pregiudizi nazionalistici).
Lenin condannò l'azione di Ordžonikidze, Dzerzhinsky e Stalin, troppo influenzata dallo sciovinismo di grande potenza.
Non gli piaceva affatto che si imponesse un'autonomia culturale sulla base della nazionalità: l'aveva già detto nei confronti degli ebrei del Bund. Al X Congresso del partito, nel 1921, era stato chiaro: occorreva istituire una Federazione paritaria di repubbliche sovietiche, in cui nessuna prevalesse sulle altre.
Temeva che, dividendo la popolazione sulla base di tradizioni culturali o religione, si sarebbe rafforzata l'ideologia religiosa, oppure un atteggiamento di tipo sciovinistico, separatistico, ostacolando l'organizzazione della classe operaia, che doveva essere improntata al superamento di ogni forma di divisione. Tuttavia non gli piaceva neppure l'atteggiamento sciovinistico (imperialistico) grande-russo, che voleva imporsi su tutte le etnie e le nazionalità. Gli appariva "vile e violento", in quanto i metodi che usava erano sbrigativi, troppo amministrativi, rancorosi.
Siccome era consapevole che al tempo dello zarismo le nazionalità minori avevano subìto angherie e soprusi da parte della grande nazione russa, era altresì convinto che i russi dovessero fare ampie concessioni per ristabilire la fiducia reciproca. D'altra parte sapeva bene che le ineguaglianze sono un dato di fatto che non si supera con una uguaglianza formale. Scriveva: "è meglio esagerare dal lato della cedevolezza e della comprensione verso le minoranze nazionali" che assumere atteggiamenti intolleranti, prevaricatori.
Ecco perché voleva uguaglianza nella diversità, una unione libera, volontaria di tutte le repubbliche sovietiche (grandi o piccole che fossero), compresa la Russia, in seno a una nuova formazione statale, l'URSS, sulla base di una completa parità di diritti. Tutti uguali in una nuova Federazione, da cui si sarebbe anche potuti uscire in qualunque momento. Ucraina, Bielorussia, Repubbliche Transcaucasiche e Russia avrebbero dovuto essere rappresentate su un piano di parità nel Comitato Esecutivo Centrale dei soviet, organo di potere di tutte le repubbliche.
Il suddetto Comitato si componeva di due Camere aventi uguali diritti: il Soviet dell'Unione, eletto al Congresso da tutti i delegati, e il Soviet delle Nazionalità, eletto dai rappresentanti delle repubbliche e regioni nazionali. In quest'ultimo Soviet la composizione numerica delle delegazioni sarebbe stata in rapporto al numero degli abitanti delle singole repubbliche (su un totale di 2.215, quelli russi 1.727, quelli ucraini 364, quelli bielorussi 33 e quelli transcaucasici 91, più quattro presidenti). L'URSS avrebbe riservato a sé la gestione della politica estera, del commercio estero, delle forze armate e delle vie di comunicazione. Tutto il resto sarebbe stato di competenza delle repubbliche confederate.
Su 140 milioni di abitanti, circa 65 milioni non erano di nazionalità grande-russa. E di questi 65 milioni, circa 25 milioni non avevano vissuto alcuno sviluppo capitalistico o industrializzato, in quanto la vita che conducevano era semi-patriarcale e semi-feudale.
Il progetto di Lenin fu approvato dal I Congresso dei soviet nel dicembre 1922. Fu una delle sue ultime cose importanti. Alla fine del 1925 l'URSS contava 6 repubbliche federate, 15 repubbliche autonome e 16 regioni autonome.
Finché lui rimase in vita, la sua posizione rimase in auge, ma subito dopo venne sconfessata dagli stalinisti. In sostanza lo stalinismo non fece che accentuare al massimo il processo di russificazione dell'area asiatica avviato dall'impero zarista.
Fu profondamente sbagliato interpretare il livello di progresso di una comunità primitiva sulla base delle acquisizioni tecnologiche e industriali di una società moderna. Fu un errore madornale sfruttare le risorse energetiche (gli idrocarburi, il legname, talune materie prime pregiate) di quei territori, senza preoccuparsi minimamente delle ricadute ambientali e delle conseguenze sociali su quelle popolazioni.
Peraltro l'area asiatica della Russia fu utilizzata come luogo di detenzione di ingenti masse di popolazione che non sopportavano il regime stalinista. Milioni di persone furono qui trasferite per essere giustiziate o sfruttate come manodopera gratuita per la costruzione di opere edilizie, lager, strade, ponti, ferrovie… pretese dal potere centrale di Mosca. è assurdo pensare che quanto più un territorio viene velocemente industrializzato, tanto meglio si sa difendere dai nemici esterni.
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Scriveva Lenin nel 1916 in La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione: "Il socialismo… non deve attuare soltanto l'assoluta uguaglianza dei diritti delle nazioni, ma anche riconoscere il diritto di autodecisione delle nazioni oppresse, cioè il diritto alla libera separazione politica… La libera unione non è che una frase menzognera senza la libertà di separazione… La democrazia è una forma di Stato che deve scomparire quando scomparirà lo Stato…". Poi prende come esempio la separazione della Norvegia dalla Svezia nel 1905, anche se, mentre scriveva queste cose, aveva in mente l'imperialismo europeo, sicché gli pareva del tutto naturale che le colonie rivendicassero un'indipendenza politica ed economica dalle rispettive madrepatrie.
Parole potenti, queste. Non solo perché Lenin considerava l'autodeterminazione dei popoli un diritto superiore all'integrità nazionale degli Stati, ma anche perché considerava gli Stati nazionali, con le loro democrazie rappresentative, delle entità destinate a scomparire col tempo.
Quelle erano parole che potevano tranquillamente essere applicate anche ai rapporti tra la nazionalità russa e le altre etnie e nazionalità dell'ex impero zarista. Stalin, che pur scrisse un testo apprezzato da Lenin, Marxismo e questione nazionale (1912-13), non le mise mai in pratica.27 Quando se ne parlò nel 1936, al momento di riscrivere la Costituzione, tutti gli stalinisti avevano in mente solo una semplice autonomia amministrativa delle nazionalità, che il governo centrale di Mosca riconosceva in maniera paternalistica.
Socialismo e regioni non russe
Quando Medvedev, nel libro citato, parla della progressiva degenerazione stalinista del Pcus, e comincia a dire che "le purghe [degli anni '30] naturalmente non proletarizzarono il partito, né avvicinarono i suoi capi al popolo" (p. 504), fa una distinzione tutta da discutere tra "leader proletari" (intendendo la vecchia guardia leninista) e "leader piccolo-borghesi", qualificando quest'ultimi come "carrieristi privi di princìpi" o "filistei sovietici". Sarebbe da discutere in quanto delle semplici aggettivazioni sociologiche non possono essere sufficienti per appurare il livello di eticità delle persone.
Poi però fa un'affermazione ancora più opinabile: "L'influenza di questi elementi piccolo-borghesi fu specialmente rilevante in quelle Repubbliche dell'Unione dove il nucleo proletario non era particolarmente esteso, e la rivoluzione non era così radicata nel profondo come nel cuore delle regioni russe" (p. 505).
A leggere affermazioni del genere, che potrebbero tranquillamente avere un sottofondo stalinista, si resta stupiti pensando che l'autore fu espulso dal partito e la sua opera vietata nell'URSS. Ovviamente lui l'ha formulata in chiave anti-stalinista, ma l'intenzione è una cosa, la realtà un'altra.
Infatti gli "elementi piccolo-borghesi" non sono di per sé una specificità o una prerogativa degli "ambienti non russi". Le rivoluzioni scoppiano là dove gli antagonismi sociali sono più forti, di più lunga durata o dove è più sentita l'esigenza di un'alternativa, ma se non avvengono non vuol dire che la consapevolezza della loro necessità sia poco sviluppata. Bisogna verificare caso per caso, evitando scrupolosamente astratte generalizzazioni.
Dov'è scoppiata la rivoluzione bolscevica? A San Pietroburgo, cioè nella città più occidentalizzata di tutto l'impero russo. Non solo è avvenuta in un'area fortemente urbanizzata, ma anche in un contesto influenzato dal capitalismo sin dalla seconda metà del XIX sec.
Dov'è stato il merito del leninismo? Nell'aver capito che il governo borghese di Kerensky (socialista rivoluzionario), con cui si era superata la vecchia autocrazia zarista, non sarebbe stato sufficiente per realizzare un socialismo vero e proprio. Kerensky non avrebbe mai firmato i due decreti fondamentali di Lenin, quello sulla pace e quello sulla terra; né avrebbe mai accettato la Costituzione elaborata dallo stesso Lenin, e tanto meno la pubblicizzazione dei trattati segreti della diplomazia zarista, che mettevano in cattiva luce il Paese e i suoi alleati. Lenin e gli altri bolscevichi fecero bene ad abbattere il suo governo.
Tuttavia questo non significa affatto che i lavoratori delle repubbliche non russe fossero meno "rivoluzionari". Forse sarebbe meglio dire che, avendo contraddizioni meno acute da affrontare, quei lavoratori avevano meno bisogno d'essere "rivoluzionari". Di questo gli si poteva forse fare una colpa?
Lenin considerava più rivoluzionari i proletari industrializzati, poiché non possedevano alcuna proprietà, e quindi dava per scontato che non avessero una mentalità piccolo-borghese, quella tipica di chi possiede qualcosa in proprietà e ne commercia i frutti.
Senonché questo è un ragionamento molto relativo, che Lenin stesso si sarebbe guardato bene dall'estremizzare. Infatti è assurdo pensare che un contadino proprietario di un appezzamento agricolo, su cui lavora da solo, possa essere considerato, solo per questo, meno "rivoluzionario" di un operaio industrializzato (il quale operaio, peraltro, proveniva dagli stessi ambienti rurali più poveri).
Per quale motivo l'operaio comunista si ribella al capitalista? Per essere proprietario dei suoi mezzi produttivi. Dunque perché chi ne è già proprietario e non sfrutta nessuno, non potrebbe nutrire idee "comuniste"? Comunismo vuol dire valori condivisi e gestione comune dei mezzi produttivi. Il tipo di tecnologia è assolutamente irrilevante, altrimenti sarebbe impossibile qualunque interazione tra passato e presente. Se un primitivo potesse vedere i successi tecnologici odierni, rimarrebbe molto stupito, ma poi inevitabilmente ci chiederebbe: "Vi rispettate o vi odiate?".
C'è un difetto fondamentale nell'ideologia bolscevica, che poi si ritrova in tutto il socialismo formatosi in occidente: quello secondo cui il socialismo, per realizzarsi adeguatamente, deve per forza avere una connotazione industriale. è "rivoluzionario" soltanto chi toglie all'imprenditore di un'azienda privata la proprietà dei mezzi produttivi. Sulla base di questa convinzione sarebbe stato impossibile in Russia, dove l'80% lavorava la terra, compiere la rivoluzione.
All'interno di questa limitata convinzione politica lo stalinismo aggiunse un macroscopico errore: è "socialista" soltanto l'azienda che viene statalizzata. Cioè per essere "rivoluzionari" gli operai non dovevano solo impadronirsi dei mezzi produttivi privatizzati, ma dovevano anche trasferirli allo Stato.
Un'associazione autonoma degli operai, una sorta di cooperativa industriale collettivizzata, sottratta a un controllo gestionale da parte dello Stato, sarebbe stata impensabile per i bolscevichi. Al massimo le cooperative potevano essere formate nel mondo rurale, tra agricoltori proprietari dei mezzi produttivi; e questo, beninteso, solo in via provvisoria, in attesa che anche tali iniziative si trasformassero in aziende agricole statalizzate. La collettivizzazione pretesa dallo stalinismo con la forza parlava chiaro.
Tutto ciò per dire che, ai fini della realizzazione di un socialismo autenticamente democratico, non solo non servono a niente lo stalinismo e il socialismo statale, ma anche nei confronti del bolscevismo bisogna agire con molta oculatezza. Un operaio industriale statalizzato non ha niente di "comunista", a meno che non s'intenda per "comunismo" un regime di caserma, in cui si è "liberi" solo se si obbedisce senza discutere.
Tedeschi e slavi
Più che di differenze tra stalinismo e nazismo (che sul piano sostanziale quasi non esistono), sarebbe meglio parlare di differenze tra le rispettive popolazioni.
Quella tedesca era giunta per ultima, in Europa occidentale, sulla strada del capitalismo, pur avendo fatta per prima quella riforma protestante che, in altri Paesi europei e soprattutto nel continente americano, aveva favorito molto la nascita della mentalità borghese e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Il motivo di questo ritardo stava nel fatto che la Germania aveva compiuto per ultima l'unificazione nazionale contro il frazionamento feudale (all'incirca nello stesso periodo dell'Italia). Di qui il bisogno di affidarsi alle dittature fascista e nazista con cui recuperare il tempo perduto, soprattutto nei confronti di Francia e Regno Unito, che avevano egemonizzato mezzo mondo.
Al tempo in cui in Russia s'impone lo stalinismo, la mentalità borghese non era paragonabile a quella tedesca. Gli stessi intellettuali russi, che potevano frequentare, in un modo o nell'altro, l'Europa occidentale, si scandalizzavano di certi comportamenti opportunistici o persino immorali, ed erano fieri di essere "diversamente europei". Anche i tedeschi si erano stupiti della corruzione degli italiani (soprattutto del clero), ma ciò accadeva al tempo di Lutero, vari secoli prima.
Nell'area europea della Grande Russia il primo sovrano che istituzionalizzò, non senza fatica, l'attrazione per il benessere capitalistico dell'Europa occidentale fu Pietro I, nel Settecento. Ma ci volle un altro secolo prima che l'industrializzazione penetrasse con decisione nelle grandi città russe.
è vero che le teorie razziste di Hitler erano sostanzialmente qualcosa che proveniva dal mondo aristocratico-feudale, ma è anche vero che l'altra sua teoria, quella dello "spazio vitale", era tutta di origine borghese: doveva servire per colonizzare l'URSS. Il razzismo nazista doveva soltanto fornire un ulteriore supporto ideologico all'imperialismo germanico, a imitazione del modello anglo-francese, paradigmatico per tutti i Paesi capitalistici, tant'è che i Paesi europei, nessuno escluso, quando colonizzavano il continente africano, si servivano, in chiave borghese, di teorie razzistiche provenienti dalle passate tradizioni aristocratiche di origine cattolica, ampiamente utilizzate nel corso delle crociate medievali (teorie che vennero naturalmente revisionate dagli ideologi protestanti).
La Russia era un Paese troppo rurale per potersi dire compiutamente borghese. Al massimo la mentalità individualistica e affaristica era presente nell'area europea (dagli Urali alla stessa Germania) e solo nelle grandi città.
Lo stalinismo poté impiantarsi in quest'area proprio perché imitava, nel proprio modo di fare, il nazismo tedesco; e poteva farlo con successo in quanto si avvaleva di usi e costumi non borghesi, tipici di popolazioni culturalmente limitate, economicamente di modeste condizioni, abituate a obbedire in forza di secolari tradizioni patriarcali e autocratiche. Che però Stalin ammirasse Hitler è dimostrato da varie circostante e testimonianze: basta leggersi il libro di Medvedev per convincersene e noi non staremo qui a ripeterle. In sostanza lo stalinismo voleva realizzare una sorta di nazismo con caratteristiche russe (come il maoismo voleva realizzare una sorta di stalinismo con caratteristiche cinesi).
In fondo nazismo voleva dire "socialismo nazionale". Anche la teoria stalinista del "socialismo in un solo Paese" era una forma di nazionalismo. Gli stalinisti potevano sempre dire ch'era meglio un socialismo del genere che l'astratto internazionalismo della socialdemocrazia europea.
Al dittatore Stalin piacevano poco le diatribe teoriche su quale socialismo si poteva realizzare in un Paese arretrato come il suo. Lui si considerava un "pratico". Qualunque discussione nel partito doveva avere come finalità operativa la stabilizzazione di tale dittatura. In questo non c'era alcuna vera differenza tra lui e Hitler. Infatti entrambi si circondavano di persone che, nella sostanza, dovevano soltanto eseguire degli ordini. Chi osava mettere in discussione il primato della prassi che decide la verità, veniva estromesso dal potere, se non addirittura eliminato.
Abbiamo già detto che fascismo, nazismo, stalinismo e maoismo non erano che la pretesa di realizzare con la forza poliziesca gli ideali del socialismo, rinunciando a qualunque forma di libertà. Per questa ragione il tribunale della storia dovrà per forza metterli tutti insieme sullo stesso banco degli imputati. Sono tutti un prodotto del Novecento, un prodotto politico privo di qualunque eticità. Sono il frutto di una convinzione completamente sbagliata, e cioè che la politica, quando pensa di aver ragione, può imporsi con la forza sulla morale.
Fascismo, nazismo, stalinismo e maoismo sono quattro dittature esplicite: le prime connesse al grande capitale agrario e industriale; le altre due alla collettivizzazione e statalizzazione di tipo asiatico, con prevalenza per l'industria (la Russia) o per l'agricoltura (la Cina).
Fascismo e nazismo partirono dal socialismo piccolo-borghese, ma, appena giunti al potere, allacciarono rapporti sistemici col grande capitale, senza il quale sarebbe stato impossibile coltivare mire imperiali.28
Russia e Cina non ebbero bisogno di sostenere una politica imperialistica al loro esterno, poiché, essendo geograficamente enormi, potevano praticarla al loro interno. Ma Italia, Germania e Giappone erano troppo risicate in estensione per accontentarsi di una simile scelta. Dovevano per forza diventare molto aggressive in politica estera e internazionale.
è sbagliato pensare che lo scontro tra la triplice alleanza di Germania, Italia e Giappone contro l'Unione Sovietica fu lo scontro tra capitalismo e socialismo, ovvero tra democrazia e autocrazia. Fu semplicemente lo scontro tra due diverse forme di dittatura. Per la prima volta l'occidente si rese conto che l'Asia non era facilmente conquistabile, nel senso che non presentava debolezze analoghe a quelle del continente africano o sudamericano.
Sarebbe anche sbagliato sostenere che nel Novecento Paesi europei come Francia e Regno Unito, cui bisogna aggiungere anche la loro ex colonia più significativa: gli Stati Uniti, rappresentassero la democrazia contro la dittatura nazifascista, russa e asiatica. Anche gli euroamericani stavano sperimentando una forma di dittatura, con la differenza ch'essa, in maniera palese, era evidente solo nell'ambito delle colonie conquistate, dove si poteva estorcere quel plusvalore che avrebbe reso relativamente benestanti i lavoratori nelle madrepatrie.
Da ultimo si potrebbe ipotizzare una cosa che sicuramente a molti non piacerà. Se Hitler non avesse avuto mire imperialistiche ai danni della Russia, non è escluso che Stalin l'avrebbe considerato come il suo miglior alleato contro gli imperi di Francia e Regno Unito.
Germania e Russia
Per quale motivo l'URSS nella seconda guerra mondiale è stata attaccata dalla Germania e non da qualche altra nazione tra le grandi del capitalismo mondiale? Fino al 1941 lo stalinismo pensava che la guerra sarebbe scoppiata per colpa di Regno Unito, Francia, Giappone e Stati Uniti. Con la Germania vi erano buoni rapporti diplomatici e commerciali.
Hitler e i nazisti dicevano che la Germania aveva bisogno di un proprio spazio vitale, ma lo stalinismo pensava che se ai tedeschi fossero stati restituiti i territori sottratti coi trattati di pace che posero fine alla prima guerra mondiale, molto probabilmente i nazisti si sarebbero accontentati, o comunque avrebbero cercato di ridurre gli imperi degli altri Stati europei, senza fare sforzi enormi per occupare la vastissima Russia.
Gli stalinisti non avrebbero avuto problema a riconoscere a Hitler i Sudeti, la Prussia orientale, tutta l'Alsazia. Col Trattato di Molotov-Ribbentrop avevano persino ribadito che la Polonia non meritava di esistere come nazione (o comunque non meritava d'avere un'estensione così grande), e che, volendo, avrebbero potuto spartirsela con gli stessi tedeschi. In fondo la parte orientale di quella nazione era di religione ortodossa ed era sempre stata oppressa dai cattolici.
Probabilmente avrebbero chiuso un occhio anche con l'annessione dell'Austria e del Sud Tirolo, se questo fosse stato sufficiente a impedire una guerra contro la Germania. Questa avrebbe potuto entrare in conflitto soprattutto con Francia e Inghilterra al fine di rimettere in discussione la spartizione coloniale del mondo.
Gli stalinisti non pensavano che Hitler sarebbe stato così folle, impegnando i 3/4 del proprio esercito contro la Russia e quindi minando le fondamenta della propria stabilità in Europa, cioè rischiando che le potenze europee già sottomesse ne approfittassero per coalizzarsi, eventualmente chiedendo aiuto agli Stati Uniti. La Germania rischiava seriamente di veder ridimensionate le proprie pretese imperialistiche mondiali nel caso in cui l'invasione dell'URSS non fosse finita secondo le aspettative iniziali.
Molto probabilmente gli stessi nazisti si rendevano conto che, col tempo, sarebbe stato impossibile tenere sottomessa, in una maniera o nell'altra, l'intera Europa occidentale. I negoziati sarebbero stati, prima o poi, inevitabili. In tal senso non è da escludere che abbiano deciso di attaccare l'URSS proprio nel momento in cui non vi era ancora bisogno, nell'Europa sottomessa al nazifascismo, di stabilire delle trattative di pace. Le quali avrebbero dovuto prevedere la conferma dei relativi governi-fantoccio già esistenti o, quanto meno, la definita restituzione dei territori contesi nel corso della guerra mondiale precedente, oltre agli inevitabili risarcimenti finanziari per averli perduti.
La Germania avrebbe avuto tutto da guadagnare se non avesse attaccato la Russia. E comunque Hitler non l'avrebbe mai attaccata se non fosse stato sicuro che in quel momento l'Europa occidentale non era in grado d'impedirglielo. Anzi, se ci fossero state delle trattative, i Paesi europei sottomessi avrebbero quasi sicuramente avallato questa decisione colonialistica dei tedeschi, sperando di ottenere in cambio qualcosa di vantaggioso per sé. In fondo la Russia era un Paese troppo grande per qualunque Stato capitalista.
Tuttavia la domanda resta: perché i nazisti han pensato che tutti i progressi industriali ottenuti dallo stalinismo non sarebbero stati sufficienti a impedire alla Russia una veloce sconfitta? La decisione di attaccarla fu presa da Hitler quando lo stalinismo, nelle sue colossali purghe, aveva fatto fuori quasi tutto il proprio Stato Maggiore. Questa fu la motivazione principale. La seconda riguardava il grande malcontento che vari territori sovietici provavano nei confronti della collettivizzazione forzata (Ucraina, Bielorussia, Paesi Baltici, Caucaso…). La terza motivazione era direttamente collegata alla trasformazione del Comintern in un organo particolarmente estremista e quindi del tutto ininfluente all'interno dell'Europa occidentale.
Praticamente né il nazismo né il fascismo avevano alcuna opposizione interna. Col tempo il nazismo non avrebbe neppure avuto bisogno di definirsi "socialista" (e, in fondo, neppure "nazionalsocialista", in quanto, se avesse occupato l'URSS, non avrebbe avuto alcun senso limitarsi a difendere dei confini nazionali).
La Germania sarebbe stata un Paese imperialista non meno vasto e potente di quello inglese, che poi era il solo con cui Hitler avrebbe deciso volentieri delle trattative per la spartizione del pianeta, essendo gli inglesi poco interessati alle sorti del continente europeo sin dai tempi della sconfitta contro i francesi nella guerra dei Cent'anni. E poi la Francia era stata umiliata a sufficienza dai tedeschi: la sua area meridionale sarebbe in gran parte dipesa dal nazifascismo.
Quanto al Giappone, il suo interesse colonialistico era rivolto soprattutto all'Asia orientale (probabilmente gli sarebbe bastato gestire la Cina). Mentre gli USA si sarebbero dovuti accontentare dall'America Latina.
C'è da dire che la Germania non ha mai avuto una potente flotta navale, per cui avrebbe lasciato in pace Paesi come Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. Certo è che se avesse conquistato la Russia, avrebbe potuto svilupparsi per molti e molti secoli.
Stato e anarchia
Essere contro lo Stato vuol dire essere anarchici? In un certo senso sì. Bisogna però intendersi sul concetto di anarchia. Si è mai vista una rivoluzione socialista compiuta dagli anarchici? No. Eppure anche loro si definiscono socialisti, nel senso che optano per la socializzazione dei mezzi produttivi e per la fine della proprietà privata.
Come noto, gli anarchici non vogliono la statalizzazione nella gestione della proprietà collettiva. Ma su questo chi potrebbe dar loro torto? Non ha alcun senso sostituire tanti imprenditori privati con tanti funzionari statali. Lo sfruttamento può essere lo stesso, persino peggiore, poiché un funzionario ha tutte le protezioni che gli occorrono in tempo reale, come si è ben visto sotto lo stalinismo.
Se l'anarchismo si configura come un movimento sociale e non come una mera rivendicazione individuale, dove sta il problema? Un gruppo di persone che ha deciso di vivere in una struttura agraria, dedicandosi all'autoconsumo, alla cooperazione, praticando il baratto delle eccedenze, la democrazia diretta, l'uguaglianza di genere, il rispetto delle esigenze naturali, per quale motivo dovrebbe essere visto con sospetto?
Gli anarchici son forse degli idealisti che pretendono d'avere "tutto e subito"? Forse è questo il loro limite maggiore. Non sanno creare un consenso alle loro idee, poiché rifuggono dai luoghi pubblici. Vivono nascosti, come una setta religiosa. E il sistema dominante, quando per qualche ragione si trova in difficoltà, ha buon gioco nell'accusarli di qualunque crimine (soprattutto se affine ai metodi terroristici, che lo stesso sistema pratica volentieri in caso di necessità o quando gli conviene).
Gli anarchici son come adolescenti che vedono il mondo in bianco e nero, per cui rifuggono da qualunque compromesso, senza aver la capacità di distinguere tra compromessi accettabili, indegni e vergognosi.
Il problema è che gli Stati che ci governano esistono da mezzo millennio. L'Europa occidentale ha iniziato a colonizzare il pianeta dai tempi dei viaggi in Africa dei portoghesi, cui ben presto seguirono quelli oltreoceano degli spagnoli. La rivoluzione industriale ha coinvolto tutti i Paesi occidentali e, di riflesso, il mondo intero.
Cosa può fare l'anarchia contro il capitalismo (privato o statale che sia)? Assolutamente nulla. Non ha capacità organizzative, non sarebbe mai in grado di compiere una rivoluzione popolare o un golpe militare.
Se vogliamo, le ultime esperienze anarchiche della storia, veramente significative, sono quelle delle comunità tribali che ancora non sono state devastate dal capitalismo. Ma quelle sono esperienze a diretto contatto con la natura (boschi, foreste, laghi, fiumi…). Sono esperienze impossibili da vivere nell'ambito delle società imborghesite: non vi sarebbe l'ambiente idoneo, uno spazio sufficiente, una mentalità adeguata. Nel migliore dei casi sarebbero esperienze per una nicchia molto particolare di persone, che, molto probabilmente, dovrebbero fare un investimento iniziale per ristrutturare un rudere o delle casupole abbandonate.
Chiediamoci: ha senso un'esperienza anarchica all'interno di una società capitalistica? No, perché lo Stato centrale potrebbe spazzarla via molto facilmente in qualunque momento. Se le leve dello Stato non vengono occupate con una rivoluzione popolare, l'anarchia resta una pura utopia: la ricerca illusoria di uno spazio libero in un sistema che per definizione non può garantirlo a nessuno. Il sistema tende a controllare la popolazione non a emanciparla.
L'anarchia, in sostanza, può essere solo l'obiettivo finale di una rivoluzione socialista che, dopo aver conquistato lo Stato, se ne libera man mano che la società dimostra di potersi autogovernare. Ma per una cosa del genere ci vuole tempo, anche se non così lungo come quello che c'è voluto per creare l'antagonismo sociale tutelato dalle istituzioni.
Diciamo che non si può pensare di lottare solo nella prima fase del socialismo, quella della rivoluzione politica; bisogna farlo anche nella seconda, molto più faticosa: quella dell'edificazione.
Socializzazione o statalizzazione?
Lo stalinismo ha confuso completamente la parola "socializzazione" con la parola "statalizzazione". L'ha fatto deliberatamente, proprio perché era un fenomeno dittatoriale. Non ha mai avuto nulla di democratico. è illusorio pensare che lo stalinismo abbia vinto il nazifascismo perché era più democratico, o che, nonostante le sue aberrazioni, qualcosa di positivo l'ha fatto. Noi non concediamo questa scappatoia al nazifascismo: perché mai dovremmo fare un'eccezione con lo stalinismo o col maoismo?
Lo stalinismo ha reso la società civile una serva dello Stato, in cui pochissimi comandavano e tutti gli altri obbedivano senza fiatare. In un certo senso ha riprodotto la società feudale, salvo che in questa il rapporto di sfruttamento tra latifondista e contadino era di tipo "personale", e l'autorità del signore feudale era a livello territoriale o locale-regionale, non potendo ovviamente essere nazionale. A livello imperiale invece ogni feudatario maggiore era un vassallo dell'imperatore, almeno sul piano formale. Poi ogni vassallo aveva sotto di sé valvassori e valvassini, in quanto tutta la società feudale era strutturata in maniera gerarchica. Esattamente come la Chiesa romana. Ciò benché la struttura feudale dell'Europa occidentale non fosse affatto simile a quella bizantina o russa. Negli imperi di religione ortodossa i sovrani avevano un potere effettivo. In occidente invece quando gli imperatori si scontravano col papato, i feudatari ne approfittavano per rivendicare poteri sempre più grandi.
Nel socialismo statale la società civile è come una gigantesca comunità di villaggio, che deve sottostare alle regole imposte da un gigantesco feudatario, che è lo Stato (o meglio, il partito-stato, poiché ideologia e burocrazia sono praticamente indistinguibili).
All'interno di un sistema del genere la NEP non poteva sussistere, in quanto qualunque iniziativa privata, soprattutto se finalizzata al commercio, era vista con grande sospetto. Profitto non ci poteva essere, essendo le fabbriche di proprietà statale. Interesse finanziario neppure, essendo statale anche la banca centrale e vietata la borsa di titoli e valori. Solo i contadini, con la NEP leniniana, potevano commerciare i loro prodotti, ma con lo stalinismo neppure loro, a meno che non avessero dei piccoli orti personali.
Stalinismo voleva dire fiscalismo esigente, imposizione di prezzi e salari, pianificazione economica decisa dall'alto con obiettivi del tutto arbitrari, ammassi obbligatori delle derrate, burocratismo all'ennesima potenza, controllo politico dell'intera società e di qualunque forza armata, arruolamenti forzati negli eserciti, dibattiti politici completamente formali, informazione per lo più falsificata (propagandistica), processi giudiziari dipendenti dal potere politico, culto della personalità dei vari dirigenti politici, mano libera ai servizi segreti e alla polizia politica, e così via.
La socializzazione, se ci pensiamo, dovrebbe essere tutto il contrario. Proprietà "sociale" dei mezzi produttivi non vuole affatto dire proprietà "statale", ma semplicemente proprietà "collettiva", da gestire liberamente, anzi, da autogestire, secondo gli obiettivi, le modalità e i mezzi decisi dalla comunità locale. Tante comunità locali decideranno di comune accordo come comportarsi di fronte a obiettivi trasversali ai loro interessi e alle loro risorse.
La socializzazione deve dimostrare con l'esempio d'essere migliore dell'individualismo. Ecco perché Lenin chiedeva al partito di permettere ai contadini di lasciarsi collettivizzare liberamente, senza forzature di sorta. Il periodo del "comunismo di guerra" andava considerato come una drammatica eccezione, mai come una regola, anche perché non avrebbe avuto senso a guerra civile conclusa. Lo stalinismo invece mirò a prolungare quel tipo di comunismo finché non vide che l'obbedienza al partito e allo Stato era totale.
Statalizzazione o nazionalizzazione?
è difficile stabilire un tempo di transizione al socialismo sufficientemente adeguato, in virtù del quale si possa dire: "Ecco ora possiamo dire, con relativa sicurezza, che le basi del capitalismo non esistono più". Lo stalinismo poté fare un'affermazione del genere quando sterminò la classe dei kulaki, salvo poi aggiungere che quanto più si costruisce il socialismo, tanto più i nemici vi si oppongono.
Ma qual è il criterio per fare quella affermazione? Di sicuro non può essere dato né dalla statalizzazione né dalla nazionalizzazione dei principali strumenti produttivi, pena l'inevitabile costruzione di una società burocratizzata e autoritaria.
Non può essere lo Stato che gestisce la terra, le miniere e le fabbriche, le banche, i trasporti, le forze armate, il commercio estero e così via. A meno che non si voglia creare una classe privilegiata di politici e funzionari, che dovranno poi avvalersi di forze dell'ordine per fronteggiare il malcontento popolare.
Lo Stato non può neppure far la parte dell'unico "proprietario" di tutti questi mezzi, che li affitta a chi è in grado di utilizzarli al meglio, salvo poi intervenire col pugno di ferro quando l'uso è troppo favorevole al capitalismo privato. In tal caso si trasformerebbe in una sorta di gigantesco feudatario, che, quando va bene, agisce in maniera paternalistica, mentre, quando va male, come un despota. Questo è un po' il modo di fare dell'attuale Cina.
Proprietaria di quei mezzi è forse la nazione in senso lato? Qui bisogna essere chiari: Stato e Nazione sono due prodotti della borghesia, essendo nati circa mezzo millennio fa. Si può pensare che siano destinati a scomparire, ma non si può pensare che il socialismo dipenda da loro.
Quando lo Stato e la Nazione nacquero volevano opporsi agli imperi medievali o ai poteri dei singoli feudatari. La borghesia voleva creare qualcosa di omogeneo a livello nazionale (pesi, misure, moneta, mercato, tasse, forze dell'ordine…) per facilitare al massimo i propri traffici, non avendo essa la possibilità di vivere di rendita fondiaria. Feudatari e monarchi si difendevano reciprocamente, anche se i feudatari erano ostili a una monarchia assolutistica, troppo centralizzata, che invece era quel tipo di monarchia che all'inizio la borghesia favoriva per togliere potere alla nobiltà. Poi sarà la stessa borghesia, una volta vinta la partita, a esigere una monarchia costituzionale, il cui potere veniva alquanto ridimensionato dal parlamento nazionale (in taluni casi si passò addirittura dalla monarchia alla repubblica).
Una nazione era riconoscibile per l'omogeneità della lingua, della religione, della provenienza geografica, degli usi e dei costumi. Una nazione, al proprio interno, poteva contenere più minoranze, se ognuna di esse accettava la presenza di un unico Stato. La nazione è qualcosa di più sociale dello Stato, che è eminentemente politico. I polacchi, per es., dicevano, al tempo di Solidarność, che la nazione era "cattolica" (mezzo milione in realtà erano ortodossi), mentre lo Stato era "comunista". Si era convinti che in nome della religione si potesse creare una terza via tra socialismo e capitalismo: poi si è visto com'è andata a finire.
In astratto potremmo dire che una democrazia nazionale è tanto più rappresentativa quanto più garantisce a livello parlamentare la partecipazione di ogni minoranza. Cosa che gli ucraini nazionalisti, dopo il golpe del 2014, non volevano assolutamente fare.
Una nazione può essere suddivisa in varie regioni o province o distretti o comunque in enti locali territoriali, ognuno dei quali può esprimere un voto. In teoria le cose sembrano dover funzionare senza tanti problemi. Tuttavia un grande paradosso della democrazia parlamentare nazionale sta proprio in questo, che quanto più essa si trova centralizzata, lontana dalle realtà locali, tanto meno potere hanno queste ultime. Per es. in Italia i senatori eletti sono solo 200 e devono rappresentare 20 regioni, per un totale di circa 60 milioni di abitanti. Negli Stati Uniti, che hanno una popolazione cinque volte superiore alla nostra, sono soltanto 100, cioè due per ogni Stato federale, che ha per così dire una valenza "regionale". A questi livelli non ha alcun senso parlare di "democrazia", se non appunto dicendo che è puramente "formale".
Ma la stranezza è relativa anche alla Camera dei Rappresentanti: loro ne hanno 435, mentre noi 400 (tempo fa ne avevamo 630). Indicativamente potremmo dire che il nostro Paese è molto più democratico del loro. Tuttavia non è dal numero dei rappresentanti eletti che si misura il grado di democraticità di un Paese. Essere corrotti in 400 o in 600 non cambia assolutamente nulla.
Il livello di democrazia di un Paese si misura sulla capacità che ha di riconoscere e rispettare tutte le proprie significative diversità, ognuna delle quali richiede una certa autonomia locale per poter sopravvivere.
Ha forse senso la presenza di uno Stato centrale per dirimere le controversie che scoppiano tra comunità locali? No, non ha senso. è sufficiente che gli uomini e le donne di queste comunità locali si creino una rappresentanza temporanea dei loro migliori delegati per discutere pacificamente i termini della specifica controversia (che in genere è relativa ai confini o a esigenze trasversali). Risolta la questione, non può continuare a esistere un organo super partes, che vive di vita propria. Sono le singole comunità che devono decidere come condurre la loro esistenza, senza togliere ad altre comunità il diritto di poter fare altrettanto.
Sotto questo aspetto anche i confini nazionali devono poter essere flessibili, relativi alle effettive esigenze.
La questione della burocrazia
Scrive Volkogonov: "Nessuno Stato può vivere senza un suo apparato. La burocrazia si sviluppa dove questo apparato non è direttamente legato ai risultati del funzionamento economico del sistema e dove manca un meccanismo democratico che lo formi e lo controlli" (p. 597, o.c.).
Per me questa frase non ha senso. La vera domanda da porsi è: perché creare un apparato statale quando se ne potrebbe fare a meno? Ovvero quali sono le condizioni per non ritenerlo indispensabile? Perché investire tante risorse ed energie per creare un meccanismo democratico di controllo dell'apparato statale, quando si può tranquillamente vivere anche senza questo apparato?
è vero, nessuno Stato può vivere senza un proprio apparato, ma pensare di creare un apparato "democratico" dello Stato o un apparato di uno Stato "democratico", è pura illusione, è fatica sprecata. Infatti prima o poi si formerà una burocrazia che si sottrarrà a un vero controllo democratico, e quando ciò avverrà, la dittatura sarà alle porte.
Quindi, se proprio si ha bisogno di uno Stato nella fase iniziale della transizione socialista, bisogna anche ammettere, da subito, che lo Stato non va considerato come un "bisogno" bensì come un limite, che si cercherà di superare il più presto possibile. Questo discorso è sempre stato volutamente ignorato dagli stalinisti, di ieri e di oggi, proprio perché, in maniera contraria, preferiscono sostenere che nella fase di transizione lo Stato va potenziato per eliminare gli avversari: il che è un pretesto per controllare, anzi reprimere l'intera popolazione.
A volte vien da pensare che le rivoluzioni falliscano perché non si mettono bene in chiaro, prima ancora di farle, gli aspetti imprescindibili, cui non si può derogare per nessuna ragione, anche perché non è detto che i costruttori del socialismo siano gli stessi che compiono l'insurrezione nazionale. Spesso le rivoluzioni o le guerre civili che le accompagnano sono molto dolorose, e tante possono essere le vittime.
Non si deve scrivere una bibbia per specificare le cose essenziali della democrazia, ma una sorta di decalogo può essere necessario. E un suo comandamento fondamentale dovrebbe essere il seguente: la vera democrazia è solo quella diretta. Quella rappresentativa può essere tollerata solo in via provvisoria e per un obiettivo specifico. Il delegato ha un preciso vincolo di mandato, che può essere revocato in qualunque momento. E il potere concesso al delegato è inversamente proporzionale alla distanza che lo separa (geograficamente) dalla comunità che lo elegge, cioè quanto più lontano deve esercitare il suo mandato, tanto meno potere deve avere. Non si può rischiare che, in assenza di un controllo diretto e quindi efficace, possa approfittarne per assumere atteggiamenti arbitrari.
Se si tergiversa su questa formulazione della democrazia diretta, qualunque altro discorso sullo Stato, sui suoi apparati, sulla burocrazia, sulle sue istituzioni rappresentative, non serve a niente.
Sotto questo aspetto bisogna ammettere che Lenin, pur intravedendo chiaramente i pericoli della burocrazia, non seppe porre le basi per favorire il suo smantellamento o per impedire che si sviluppasse ulteriormente (rispetto a quella ereditata dallo zarismo e dal governo di Kerensky).
Va detto, a onor del vero - e questo anche Volkogonov lo ammette - che "la lotta per il consolidamento del potere sovietico, soprattutto nel periodo del comunismo di guerra, portò alla crescita dell'apparato. Il comunismo di guerra presupponeva il controllo totale sulla produzione, la distribuzione e la realizzazione. E per questo occorrevano molti uomini, moltissimi…" (ib.).
Bisognerebbe dedicare un libro a parte su questo "comunismo di guerra", cercando di capire quanto fosse indispensabile per vincere la guerra civile. Forse una maggiore fiducia nelle capacità resistentive del proletariato rurale non sarebbe guastata.
In fondo democrazia cosa vuol dire? Che la giustizia sociale non può essere imposta da un potere centrale, ma deve essere un'acquisizione che si matura a livello di comunità locale. Un margine di rischio, quando è in gioco la libertà di coscienza, bisogna saperlo correre.
Statalismo e collettivismo
Se ciò che dice Medvedev è vero (e noi pensiamo che in questo caso lo sia), per il socialismo statale non c'è speranza, anche se lui, confidando nell'importanza delle persone di governo, non l'avrebbe mai ammesso.
Così scrive alle pp. 529-30: "Convinto della propria infallibilità, Stalin organizzò un sistema di governo da cui era praticamente esclusa ogni possibilità di decisione collettiva". Non solo, ma chi metteva in discussione le sue opinioni, rischiava d'essere classificato come un "nemico del popolo". Lui ascoltava solo le informazioni che aveva voglia d'ascoltare. "Il sistema creato da Stalin rese non soltanto inevitabile che si commettessero numerosi e gravi errori, ma anche estremamente difficile correggerli".
Qui vengono in mente le sagge parole di Lenin, secondo cui è impossibile non commettere errori quando si costruisce qualcosa di nuovo; l'importante è sapervi porre rimedio. Sicuramente lui sapeva farlo: si pensi solo al passaggio dal comunismo di guerra alla NEP.
Chissà se fosse vissuto un'altra decina d'anni (anzi, considerando la giovane età in cui morì, avrebbe potuto camparne altri venti), come avrebbe affrontato il problema, sempre più evidente, della incompatibilità della statalizzazione col collettivismo. Infatti pensare a una direzione collegiale che costruisce un socialismo statale, è un ossimoro, una contraddizione in termini: o fai l'uno o fai l'altro.
Un socialismo statale è una forma di monarchia, in cui l'entourage del duce rappresenta un'aristocrazia esclusiva, che nessun cittadino comune può criticare o mettere in discussione.
Quindi inevitabilmente Lenin avrebbe dovuto ridurre di continuo le funzioni dello Stato, e non rafforzarle, come invece fece lo stalinismo. E presto si sarebbe accorto che, per affermare la democrazia, non basta sburocratizzare le istituzioni statali, ma occorre superare il concetto stesso di "Stato". I poteri centrali non vanno decentrati a livello periferico ma aboliti. Questo perché il socialismo statale è in sé un'aberrazione politica, che di democratico non ha nulla. I poteri possono essere solo costantemente locali, diretti, non delegati, e possono essere centralizzati solo in via provvisoria per qualche motivo inderogabile o imprevedibile, ma bisogna sempre fare attenzione che non vi sia qualcuno che ne approfitti.
Come avrebbe potuto Lenin giustificarsi davanti al popolo, sostenendo due tesi opposte, a seconda del momento o della convenienza: "tutto il potere ai Soviet" e "tutto il potere allo Stato"? Il comunismo di guerra era stato sì una forma di dittatura, resasi necessaria a causa della guerra civile; ma, finita questa, si dovette concedere maggiore democrazia, maggiore autonomia gestionale delle proprie risorse economiche.
Con lo stalinismo invece si fece il contrario: da una democrazia economica si passò a una dittatura politica. Invece di avere più libertà grazie alla rivoluzione, i cittadini ne avrebbero avuta molto meno, forse ancora meno che al tempo dello zarismo. Gli zar non eliminavano milioni di cittadini appartenenti alla propria nazione; semmai li mandavano a morire in guerra, dopo averli trasformati da contadini a soldati. E certamente di guerre la Russia ha dovuto sostenerne parecchie. Di queste, alcune furono clamorosamente perdute: quella di Crimea, quella contro il Giappone (che portò alla rivoluzione fallita del 1905) e quella della prima guerra mondiale. Ma nessuno zar avrebbe mai sterminato milioni di persone (cioè sostanzialmente contadini) per esigenze puramente politiche. Nei campi di prigionia zaristi, in cui venivano rinchiusi per un certo tempo i dissidenti, non si moriva di stenti, di freddo o di fame. Erano più che altro punizioni simboliche o pedagogiche, tant'è che gli intellettuali potevano anche scrivere i loro libri, come fece lo stesso Lenin, che a Šušenskoe, in Siberia, visse tre anni in esilio, si sposò e scrisse le prime opere di economia. Non pochi bolscevichi riuscivano a evadere da quelle carceri, tra cui Trockij, Bucharin e lo stesso Stalin. Si veniva fucilati, in genere, solo se si commettevano atti di terrorismo, come per es. il fratello di Lenin.
Sotto questi aspetti non è assolutamente paragonabile la dittatura zarista con quella stalinista. E poi, poco prima della rivoluzione bolscevica, lo zarismo era già stato liquidato dal governo provvisorio del socialista-rivoluzionario Kerensky, che se avesse posto fine alla guerra e concesso la terra ai contadini, sarebbe rimasto al potere in maniera sicura per chissà quanto tempo.
Tutto ciò per dire che solo nell'ambito della democrazia si può sviluppare il collettivismo. Nell'ambito del socialismo statale il collettivismo non è che uno strumento poliziesco e militaresco, ideologico e burocratico per affermare una dittatura monocratica, sostenuta da funzionari scelti per il loro servilismo. Stalin non fu mai rimosso dal suo incarico proprio perché era circondato da funzionari come lui, convinti che, senza di lui, non avrebbero avuto il carisma per sostituirlo.
Esperienza di apparati statali
Un esperto di apparati statali - com'era indubbiamente Stalin - è anche sicuramente un buon leader politico? Direi proprio di no. Non solo perché la presenza di uno Stato che si autoalimenta nella propria burocrazia è non meno pericoloso del capitale che si autovalorizza, ma anche perché il bisogno di avere un leader politico non è cosa che si debba dare per scontata. Anzi, in genere la presenza di un leader è segno d'immaturità politica.
Nella gestione condivisa del bene comune non c'è bisogno di nessun leader, se non in via provvisoria e in rapporto a una finalità specifica. Di regola, in un contesto democratico-locale, ognuno è leader e gregario contemporaneamente. Il ruolo di chi comanda e di chi obbedisce è continuamente scambievole, a seconda delle circostanze. Anzi, a un leader davvero democratico non può fare che piacere di poter essere sostituito in qualunque momento.
Probabilmente i leader bolscevichi permisero a Stalin di acquisire progressivamente un potere immenso proprio perché consideravano la politica molto più importante dell'amministrazione, la teoria più importante della pratica, le decisioni collegiali prese in momenti cruciali più importanti della prosaica gestione quotidiana delle esigenze del partito.
Sostanzialmente non si erano resi conto che uno Stato lasciato a se stesso, alla propria burocrazia, finisce col trasformare il partito e il governo in propri ingranaggi di sistema. E Stalin era anzitutto un uomo dello Stato, in grado di controllare ogni cosa, anche la vita privata dei leader bolscevichi: il che gli permetteva di esercitare pressioni, ricatti, intimidazioni… Quando faceva il leader del partito o del governo, si poneva in realtà come "funzionario amministrativo" a tutti superiore, facendo coincidere la propria volontà soggettiva con le esigenze dello Stato. Avrebbe potuto tranquillamente far suo il motto di Luigi XIV: "L'état, c'est moi".
Un dibattito interno al partito, in cui le sue opinioni personali venissero messe in discussione, sarebbe stato impensabile. Solo in un'occasione Stalin accettò d'essere contraddetto, quando i generali gli dissero che se la politica continuava a interferire con la tattica e la strategia militare, la guerra contro i nazisti sarebbe andata di sicura persa. Infatti le sue idee di resistere sul campo di battaglia sino all'ultimo uomo o di sferrare continue controffensive, per far vedere al nemico che non si aveva paura di niente, erano completamente sbagliate.
Quando i nazisti arrivarono alle porte di Mosca e di Stalingrado, si convinse finalmente che sarebbe stato meglio lasciar fare agli esperti. Intanto però erano morte milioni di persone, o fatte prigioniere. Naturalmente, appena finita la guerra, Stalin riprese la sua consueta arroganza. Doveva far vedere che la guerra era stata vinta per merito suo, non tanto grazie ai suoi generali, che, nella narrativa dominante, dovevano risultare come semplici esecutori della sua volontà.
Quale modello seguire?
A pag. 510 Medvedev inizia ad affrontare l'ostico problema dello Stato nell'ambito della rivoluzione bolscevica. La domanda che pone è pertinente: "il nuovo Stato proletario doveva forse venir creato sulle rovine del vecchio, o il proletariato doveva addirittura abolire lo Stato?" (o.c.).
Ora, è evidente che una domanda del genere, che gli stessi bolscevichi si posero, era strettamente correlata all'altra questione da loro ampiamente dibattuta: rivoluzione permanente o socialismo in un solo Paese? Infatti, se fosse passato il primo obiettivo, lo Stato avrebbe dovuto sussistere come supporto a una rivoluzione da esportare, almeno fino a quando non fossero diventati socialisti i principali Stati capitalisti. A quel punto tutti gli Stati avrebbero potuto scomparire in quanto divenuti inutili. Se invece fosse stato approvato il secondo obiettivo (e fu così che andò), il rischio diventava quello che lo Stato, sentendosi minacciato da altri Stati capitalisti, ritenuti molto potenti, si rafforzasse al punto da trasformarsi in un ente burocratico e, insieme, dittatoriale, persino terroristico, come poi avvenne sotto lo stalinismo.
Quindi quale poteva essere la soluzione? Come scongiurare il pericolo di un'involuzione autoritaria? Bisogna dire che Medvedev considera del tutto utopistica la posizione anarchica di Bakunin, che non voleva sentir parlare di "Stato" dopo aver compiuto una rivoluzione proletaria. Secondo tutti gli anarchici il rischio che si formi un ristretto numero di persone privilegiate, preposte a governare il popolo, è troppo elevato dopo una qualunque rivoluzione socialista.
Che cosa differenzia gli anarchici dai comunisti? L'ingenuità. Anche i bolscevichi erano idealisti, ma si sforzavano di non rinunciare al realismo. Sulla base dei classici del marxismo sostenevano che lo Stato avrebbe avuto una funzione puramente transitoria; dopodiché si poteva pensare a come eliminarlo.
Qui però casca l'asino, tant'è che lo stesso Medvedev è costretto ad affermare che "il problema non venne mai risolto in modo soddisfacente negli scritti marxisti del XIX secolo" (p. 512). Che esperienza aveva lo Stato sovietico per riuscire a porre le basi del proprio progressivo e irreversibile superamento? L'unica esperienza cui Marx, Engels e Lenin facevano riferimento era la Comune di Parigi, durata poco più di due mesi.
Da quel tragico tentativo avevano tratto due conseguenze significative (tra le molte altre, che però Medvedev non sottolinea): 1) nessuno doveva considerarsi insostituibile, in quanto qualunque dirigente statale avrebbe potuto essere rimosso in qualunque momento; 2) lo stipendio di un dirigente non poteva essere superiore al salario medio di un operaio. Senonché questi erano due obiettivi che, in presenza di un apparato amministrativo a conduzione gerarchica e ben ramificato in tutta la Federazione russa, sarebbe stato impossibile realizzare.
D'altra parte i classici del marxismo non si sentivano in dovere di aggiungere molto altro, in quanto davano per scontato che se in qualche Stato si fosse realizzata una rivoluzione comunista, facilmente in altri Stati, vista l'acutezza delle contraddizioni, sarebbe avvenuta la stessa cosa. L'ultimo Engels l'aveva detto in maniera convincente: uno Stato proletario non ha bisogno d'essere "abolito", si estingue da solo, in virtù di una gestione diretta dei processi produttivi da parte della popolazione. Lenin aveva pienamente condiviso questa idea; di suo aggiunse che a chiunque andava data facoltà di controllare l'operato di chi gestisce il potere.
Per quale ragione tutte queste idee democratiche non funzionarono, cioè non vennero applicate? Medvedev suggerisce alcune risposte:
1) durante la guerra civile, che fu durissima, era impossibile parlare di democrazia;
2) a motivo della poca cultura della popolazione russa, nell'ambito della gestione statale s'infiltrarono elementi non proletari;
3) gli organi dirigenti dello Stato dipendevano completamente da quelli del partito;
4) i soviet persero la funzione legislativa, limitandosi a un'approvazione formale delle direttive del partito;
5) dopo la morte di Lenin il partito subì una trasformazione radicale: a) i suoi iscritti triplicarono in pochi anni, per cui si venne meno a una selezione qualitativa, basata sul merito; b) scomparvero i meccanismi di controllo sugli abusi di potere e sulla progressiva burocratizzazione.
Medvedev è perfettamente consapevole che non era possibile "affidarsi semplicemente alle qualità personali dei leader" (p. 517) per impedire la svolta autoritaria.
Il vero problema però è un altro: perché gli organismi di controllo escogitati da Lenin, per impedire la burocratizzazione, non funzionarono? Lenin sapeva benissimo - e Medvedev lo conferma - che il burocratismo sarebbe stato vinto soltanto quando l'intera popolazione avrebbe potuto partecipare al governo.
Ma perché il socialismo sovietico non prese neppure in considerazione questa verità sacrosanta? Medvedev qui non sa cosa rispondere. Si sente costretto a dare tutta la responsabilità alla cattiva volontà dello stalinismo, rinunciando a porre sotto accusa la statalizzazione del socialismo.
In realtà il grande errore del socialismo sovietico è stato quello di voler imitare il modello capitalistico semplicemente limitandosi ad usare altre forme e modi. Il capitalismo - dicevano tutti i bolscevichi - andava raggiunto a tutti i costi nelle sue performances economiche, servendosi di un'industria che domina l'agricoltura e di una città che domina la campagna. Era un modello d'importazione che si pensava potesse fare molti meno danni in virtù del tradizionale collettivismo russo, che però doveva adattarsi alla nuova statalizzazione dei comunisti. Fu una tragedia colossale, forse paragonabile, prima di allora, all'invasione tataro-mongolica.
Il governo riteneva non fosse necessario dare alla popolazione alcuna fiducia, cioè rispettare i suoi usi e costumi. Il nuovo stile di vita andava semplicemente imposto. La differenza tra un'ala e l'altra del partito comunista stava soltanto nel livello di pressione da esercitare nei confronti dei contadini, la classe sociale più lontana dal modello occidentale. Il livello doveva essere debole, medio o forte? Gli stalinisti decisero che doveva essere molto forte.
Teoria e prassi
Il marxismo sostiene che la prassi è il criterio della verità. Ma la prassi deve essere un qualcosa di collettivo, e la verità un qualcosa di oggettivo, altrimenti non si esce né dall'individualismo né dal relativismo.
Tuttavia è assurdo pensare che possa esistere una verità così oggettiva da offrire indicazioni altrettanto evidenti, valide in sé, su come realizzare la prassi, al punto da escludere il libero arbitrio.
Una verità del genere sarebbe ideologica, cioè schematica, quindi inutile, una forma di sterile dittatura, priva di creatività.
Una verità può essere oggettiva nelle sue indicazioni generali, ma deve lasciare al soggetto la sua declinazione concreta, particolare.
Ora, nell'ambito del socialismo quale può essere un criterio generale, sufficientemente oggettivo, che permetta di realizzare una prassi sufficientemente democratica?
I criteri sono fondamentalmente tre:
1) una gestione comune dei principali mezzi produttivi (quelli che permettono a una comunità di esistere in autonomia);
2) la democrazia diretta che la comunità locale deve sperimentare, a prescindere da qualunque diversità (di genere, di lingua, di convinzioni personali, di cultura, etnia, nazionalità…);
3) il rispetto delle esigenze riproduttive della natura.
Senza questi tre fondamentali criteri non ha alcun senso parlare di socialismo. E quando all'interno del socialismo lo si fa, deve essere solo per precisarne i confini, per correggere gli errori nell'applicazione concreta…
Lo stalinismo ha approfittato di un collettivismo pregresso, tipico del mondo rurale e nell'area asiatica della Russia, e di un'ideologia particolarmente avanzata come quella del leninismo, che praticamente non aveva eguali in tutto il socialismo mondiale. E ha fatto del leninismo qualcosa di orribilmente schematico, privandolo di tutta la sua forza dialettica, di tutta la sua profonda democraticità. Ha tradito il principio secondo cui il marxismo è solo "una guida per l'azione".29
Teoria e prassi rivoluzionarie oggi
Lenin diceva che senza teoria rivoluzionaria non c'è prassi rivoluzionaria. Quanto sia vero questo semplice assunto, lo dimostra il fatto che chi si oppone alla destra che governa l'attuale Unione Europea è l'estrema destra. Cioè i cittadini, pur di uscire dalla guerra russo-ucraina, dalla guerra israelo-palestinese, dalla dipendenza totale nei confronti degli USA e dalla NATO e per scongiurare la minaccia americana di una guerra contro la Cina, preferiscono o astenersi completamente dal voto, oppure appoggiare la destra estrema.
In questa maniera fanno capire di non credere più nella democrazia formale. Si sentono traditi anche dalla socialdemocrazia. Temono che i conservatori, i liberali, i popolari e tutti i partiti favorevoli alla democrazia rappresentativa vogliano portarci alla catastrofe nucleare (ed eventualmente anche a una nuova catastrofe pandemica).
Questa estrema destra è razzista per sua natura, in quanto detesta gli immigrati, essendo convinta che i flussi migratori siano responsabili della crescente povertà e disoccupazione. è una destra ideologicamente primitiva, spontaneistica, che però si oppone a dei poteri dominanti chiaramente ipocriti, guerrafondai, privi di sensibilità nei confronti delle esigenze sociali, perché troppo succubi ai diktat della finanza mondiale.
Tuttavia non sarà questa destra a scongiurare il peggio. Se va al potere, sarà facilmente circuibile, raggirabile, proprio perché è istintiva, non dispone di una vera teoria rivoluzionaria. Non sa nulla di socialismo o di comunismo. è convinta che questa ideologia politica sia morta e sepolta con la fine dell'URSS. Non capisce che il fallimento del socialismo statalizzato non pregiudica affatto la necessità di realizzare un socialismo democratico, che si ponga come vera alternativa sia al capitalismo privato occidentale che a quello statale che si va imponendo non solo in Asia ma nel mondo intero.
Fare la rivoluzione
La rivoluzione russa insegnò una cosa di fondamentale importanza: nelle società basate sugli antagonismi di classe è abissale la differenza tra "Paese legale" e "Paese reale".
Aspettare di avere una sicura maggioranza parlamentare è ridicolo quando si tratta di compiere una rivoluzione popolare. Quel che più importa è avere il polso della situazione e capire in maniera intelligente quando esistono sufficienti condizioni per compiere un ribaltamento del sistema. Le condizioni devono essere almeno sufficienti, poiché quelle ottimali non esistono mai, nel senso che un certo margine di rischio è impossibile evitarlo.
A prima vista appare incredibile che la rivoluzione sia stata compiuta dai bolscevichi, poiché fino al settembre 1917 i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari erano appoggiati dai contadini, dalla maggioranza dei soldati e da una parte notevole degli operai. Eppure proprio in quel mese molti soviet cominciarono ad adottare le risoluzioni bolsceviche sul potere. Il Paese si stava sfasciando sotto tutti i punti di vista, e le masse cominciavano a stancarsi di chi le rappresentava senza ottenere nulla di sostanziale (pace e terra anzitutto).
La democrazia diretta dei soviet doveva compiere la rivoluzione, l'attacco generale al sistema, senza compromessi di sorta col governo in carica, quello di Kerensky, e senza lasciarsi condizionare dai tentennamenti di chi si limitava a un'opposizione legale o parlamentare.
Si creò una situazione inedita, in cui convogliavano esigenze diverse tra loro: soldati e marinai volevano la fine della guerra; i contadini volevano espropriare i latifondisti; gli operai volevano impadronirsi delle fabbriche; etnie e nazionalità volevano ribellarsi al centralismo statale. Le occasioni propizie si devono prendere al volo. Lenin diceva: "La storia non perdonerà gli indugi ai rivoluzionari che potrebbero vincere oggi, rischiando di perdere tutto domani".
Certo, uno può pensare che situazioni del genere favoriscono i colpi di stato militari. Invece si trattò proprio di un'insurrezione popolare. Bisognava approfittare del fatto che il governo in carica era completamente screditato e quindi virtualmente molto debole; e anche del fatto che la popolazione non era contenta dei partiti che in parlamento si opponevano all'esecutivo.
In quel momento qualunque persona eversiva avrebbe potuto essere arrestata, imprigionata o uccisa. Ecco perché è meglio non fare alcuna rivoluzione se non si è disposti a perdere la propria vita. Chi pensava che i bolscevichi non avrebbero preso il potere senza allearsi coi menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, cioè chi pensava che gli operai non avrebbero potuto far nulla senza l'aiuto della piccola borghesia, si dovette ricredere. E non solo perché queste alleanze si formarono, ma anche perché lo furono alle condizioni dei bolscevichi.
Gli iscritti al partito comunista erano solo 240.000 e potevano beneficiare di circa un milione di voti. Sembrava impossibile che potessero compiere un'insurrezione nazionale. Eppure il vero problema non stava tanto nel farla, quanto piuttosto nel gestirla. Per questo motivo Lenin, il giorno dopo aver rovesciato il governo, aveva già pronti i due fondamentali decreti, quello sulla pace e quello, quasi copiato dal programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, sulla terra.
Poté far questo perché in otto mesi di presenza nella coalizione di governo i socialisti-rivoluzionari non fecero nulla per soddisfare i bisogni vitali dei contadini, tant'è che al loro interno si formò un nuovo partito: i socialisti-rivoluzionari di sinistra.30 Non a caso Lenin chiese a questi ultimi di formare un governo operaio-contadino.
La prova del fuoco venne dopo, quando i morti non furono poche decine ma svariati milioni a causa della controrivoluzione interna e dell'interventismo straniero. Tuttavia verso il 1920-22 tutti i partiti politici che si erano screditati agli occhi del popolo, uscirono di scena.
Chi deve fare la rivoluzione?
Il marxismo occidentale considerava l'operaio come il soggetto più adeguato a compiere la rivoluzione socialista, proprio perché non possedeva nulla, e quindi non aveva nulla da perdere; poi perché lavorava già in maniera "collettiva" all'interno di imprese che garantivano il benessere all'intera popolazione. All'operaio mancava soltanto la proprietà di questi mezzi produttivi, dopodiché nulla avrebbe potuto frenare lo sviluppo del socialismo. Non si mettevano in discussione i mezzi in sé: al massimo si diceva che quanto più la produzione fosse stata automatizzata, tanto più il lavoratore sarebbe stato libero di dedicarsi ai suoi interessi personali. Il rapporto con la natura veniva considerato molto relativo, anche se i guasti sull'ambiente erano già molto visibili sin dagli esordi della rivoluzione industriale.
Il marxismo occidentale nutriva dei pregiudizi nei confronti dei contadini, poiché li vedeva troppo isolati nelle loro fattorie e troppo subordinati all'ideologia religiosa. In effetti nel basso Medioevo, quando i contadini lottavano per emanciparsi dalle catene del feudalesimo, non chiedevano una transizione al socialismo, ma la possibilità di diventare, autonomamente, degli agrari capitalisti, intenzionati a produrre per il mercato.
Fu Lenin a ritenere che nel concetto di "proletariato" andava incluso anche il salariato agricolo, disposto ad allearsi con la classe operaia in funzione anti-feudale e anti-capitalistica. Naturalmente anche Lenin sapeva che i contadini, nella loro ignoranza, erano molto influenzati dalla religione; tuttavia non chiedeva loro di diventare operai per liberarsi di tale condizionamento. I contadini poveri dovevano lottare insieme agli operai per espropriare i latifondisti, gli agrari industriali, e per costituire delle aziende cooperativistiche favorevoli al socialismo. Gli operai industrializzati avrebbero aiutato i contadini a modernizzare i loro strumenti lavorativi. Lenin voleva inserire l'industria nelle campagne senza forzature di sorta.
Oggi la situazione in Europa occidentale, ma anche negli USA è molto cambiata. Le grandi aziende han trasferito le loro sedi all'estero, dove il costo del lavoro e la tassazione statale sono molto contenuti. Nelle madrepatrie non si può più parlare di "sviluppo industriale" ma di finanziarizzazione dell'economia. Le società civili sono più che altro popolate di ceti medi (impiegati o burocrati, intellettuali, forze dell'ordine, militari, gestori dei servizi e dei patrimoni monetari della popolazione, artisti ecc.). Naturalmente non mancano artigiani, operai edili, ecc., che però sono mestieri ricercati sempre più dagli stranieri. Ovviamente i veri padroni restano i gruppi finanziari, le imprese più tecnologiche, le banche e istituti di credito, le multinazionali, ecc.
Quando avvengono crolli borsistici o fallimenti bancari è il ceto medio che s'impoverisce, che si proletarizza. Non è più centrale la figura dell'operaio (tanto meno quello rivoluzionario), proprio perché la società è diventata post-industriale, si è, per così dire, "terziarizzata". Forse oggi gli operai più quotati in occidente sono quelli dell'apparato militare-industriale, cioè quelli che meglio garantiscono con le guerre la riproduzione del capitale e la sopravvivenza del globalismo unipolare.
Chi non riesce a resistere ai colpi di una crisi sempre più grave, che rende tutto sempre più costoso, si trasferisce all'estero, oppure si dà alla delinquenza organizzata, alla micro-criminalità, al terrorismo, al mercenariato per qualche Paese in conflitto, oppure vive di sussidi statali. Nel migliore dei casi cerca di riciclarsi nei nuovi lavori che offre il web, se ha un minimo di competenza informatica o telematica.
Ma perché in occidente il proletariato industriale non è stato capace di realizzare una rivoluzione socialista vincente? Il motivo sta nello sfruttamento dei Paesi colonizzati, che ha reso possibile offrire salari e stipendi relativamente alti, e assicurare un reddito minimo a chi perdeva il lavoro o non riusciva a trovarlo.
Ora però le cose stanno di nuovo cambiando. Le colonie si stanno emancipando non solo politicamente ma anche economicamente. Vogliono produrre per il loro benessere, non per quello occidentale. E non vogliono più sottostare ai ricatti dei creditori internazionali. Sta finendo l'egemonia mondiale del dollaro. L'euro si va ridimensionando di molto. Si va affermando il concetto geopolitico di multipolarità, con cui a ogni Paese si vuole garantire piena sovranità politica, economica e finanziaria.
Nelle ex-colonie si vanno compiendo rivoluzioni popolari o colpi di stato militari con cui si estromettono i Paesi stranieri e si rovesciano i governi interni, completamente corrotti. Le materie prime del Sud Globale, che prima noi occidentali acquistavamo a prezzi irrisori, ora sono molto più care. Né possiamo sfruttare la manodopera come un tempo.
Il capitalismo occidentale sta tornando ai suoi esordi: duro, spietato, perché era ancora privo di colonie da sfruttare. La festa sembra volgere alla fine molto velocemente. L'esigenza di imporre in occidente dei regimi autoritari va facendosi strada con sempre maggiore insistenza.
è come se la storia ci mettesse di fronte alle nostre responsabilità. è come se ci dicesse: "Non siete stati capaci di realizzare il socialismo quando sarebbe stato più facile, poiché non avevate uno stile di vita così pesantemente imborghesito. Vediamo cosa sapete fare oggi, privi come siete di qualunque esperienza comunitaria pre-borghese cui potervi riferire".
Temere per sé o per la rivoluzione?
è impossibile pensare che Stalin avesse scelto di procedere alle epurazioni di massa, nella seconda metà degli anni '30, perché temeva che la rivoluzione bolscevica fosse in procinto di fallire. Se davvero avesse avuto questa preoccupazione, non avrebbe sterminato i dirigenti bolscevichi in tutti i settori istituzionali. Avrebbe eliminato chi non accettava di obbedire alle sue direttive: tutte persone che avrebbero dovuto essere cercate a livello di società civile, non a livello politico-istituzionale, dove ormai non vi era nessuno da combattere.
Ecco perché bisogna per forza dedurre che Stalin, in realtà, temeva soltanto per una propria fine cruenta, cioè subodorava che soltanto su di lui sarebbero state attribuite tutte le responsabilità per il fallimento delle riforme economiche.
D'altra parte quando ci si comporta come dittatori spietati e si fallisce clamorosamente nel dare un certo benessere alla popolazione che si vuole dominare, è inevitabile pensare che tutti vogliano reagire contro il massimo dirigente con la sua stessa spietatezza. Infatti, per quale motivo chi è abitualmente e brutalmente sottomesso, dovrebbe provare sentimenti di pietà verso il proprio padrone?
Altra domanda, la cui risposta è ancora più difficile: come avrebbe potuto un despota che elimina il fior fiore del proprio Stato Maggiore e i propri massimi dirigenti politici e istituzionali, non accettare un compromesso vergognoso con la Germania nazista?
Stalin agiva secondo il motto latino "mors tua, vita mea", ed era convinto che anche gli altri, abituati a subire questa regola di vita, l'avessero incamerata come una seconda natura. Ecco perché era sospettoso nei confronti di tutti, e voleva essere circondato da leader mediocri, di scarse capacità intellettuali, di poca intelligenza, rivali tra loro, e disposti soprattutto a obbedire, anche nei confronti degli ordini più cinici e spietati, sperando di ottenere in cambio qualche favore personale.
Semmai si può pensare che, dopo la sua morte, chi favorì la destalinizzazione temesse più per se stesso che non per il destino della rivoluzione. Va però detto che anche questi leader erano comunque stati nell'entourage di Stalin, per cui avevano sicuramente molti fastidiosi scheletri nei propri armadi.
Probabilmente Krusciov s'era reso conto che se lo stalinismo fosse continuato dopo la morte di Stalin, la rivoluzione bolscevica rischiava davvero di fallire. Tuttavia non ebbe il coraggio di andare sino in fondo agli orrori dello stalinismo, proprio perché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto contraddire se stesso e il suo staff dirigenziale, cioè avrebbe dovuto fare una profonda e sincera autocritica in veste pubblica, aspettandosi degli effetti disastrosi sia per sé che per il socialismo statale.
Una vera democratizzazione della società avrebbe dovuto compierla qualcuno assai lontano dallo stalinismo. E dove si sarebbe trovato, allora, un soggetto del genere? Questo spiega il motivo per cui il socialismo statale era destinato, prima o poi, a essere smantellato. Troppo tempo si era lasciato passare contro la democrazia. Persino quando le idee di Krusciov furono riprese da Gorbaciov, lo stalinismo continuava a bruciare sotto la cenere, tant'è che furono proprio gli stalinisti a far fallire la democratizzazione del socialismo.
Se lo stalinismo non si fosse imposto per così tanto tempo, non sarebbe sorto un neoliberismo selvaggio al tempo di quello sciagurato di El'cin. I russi passano da un estremo all'altro con una disinvoltura sconcertante. Solo con Putin sembrano aver trovato un certo equilibrio, ma devono smetterla di affidarsi a un capo carismatico, poiché un atteggiamento del genere sfocia poi in comportamenti anomali, che vanno dalla rassegnazione al bullismo.
La democrazia deve essere una conquista da parte della società, non una concessione offerta dall'alto. Qualunque forma di paternalismo è una forma di autoritarismo e qualunque forma di autoritarismo è l'altra faccia dell'individualismo, e qualunque forma di individualismo può essere superata solo dal libero collettivismo.
Che cos'è una rivoluzione?
Una rivoluzione politica è sempre qualcosa di drammatico; anzi, il più delle volte è qualcosa di tragico, che può comportare la morte di tante persone, soprattutto se al pragmatismo e al buon senso si vuole anteporre una determinata ideologia. Quando si hanno idee fisse nella testa, si è non meno pericolosi di chi, cinicamente, si comporta come una banderuola.
Una certa drammaticità avviene anche quando si è alle prese con un mutamento radicale e veloce nel proprio modo di pensare: cosa che inevitabilmente ha un riflesso nel proprio modo di agire. Sono traumi psicologici che bisogna saper gestire con oculatezza.
Una cosa infatti è sostituire con la forza un governo al potere; un'altra è ridimensionare di molto il potere di quelle classi che in precedenza avevano avuto un ruolo egemonico, in quanto proprietarie di beni mobili e immobili. Non bisogna mai dare per scontato che chi appartiene a queste classi non sia "recuperabile". Anzi, se si ottiene il consenso di qualcuno di questi soggetti, ciò potrebbe avere conseguenze molto positive su tante altre persone.
In ogni caso il momento più difficile è la partenza. Anche Lenin lo diceva: "da noi [in Russia] è stato facile iniziare e sarà difficile proseguire. Da voi invece è il contrario". Era, questa, una frase che doveva servire per invogliare gli europei a diventare rivoluzionari come i russi. Tuttavia il riferimento implicito alla necessità di avere una società tecnologicamente evoluta per realizzare il socialismo, oggi non avrebbe senso. Anche perché altrove aveva detto che in Europa occidentale la corruzione è al 99%. A questi livelli - si sarebbe potuto aggiungere - non c'è tecnologia che tenga: la rivoluzione in occidente rischia d'essere impossibile.
Le classi proprietarie possono essere private di una rappresentanza politica, ma, prima di farlo, bisogna dimostrare che sono eversive, controrivoluzionarie, cioè particolarmente minacciose o pericolose. Non si può, di punto in bianco, eliminare un'intera classe sociale, come fece lo stalinismo coi kulaki (i contadini ricchi). Né si può obbligare un'intera classe, quella rurale, a passare velocemente da una determinata gestione della terra a un'altra completamente diversa. La popolazione si spaventa. Teme che, dopo aver dato il proprio assenso alla causa rivoluzionaria, sulla base di determinate condizioni o promesse, venga tradita una volta raggiunto l'obiettivo. Tradire la fiducia delle masse non è come farlo con una persona singola: si può scatenare una reazione a catena.
Da questo punto di vista lo stalinismo fu particolarmente distruttivo. Eliminò fisicamente non solo gli oppositori politici, ma anche quelli sociali. Pose le basi che minavano la costruzione stessa del socialismo, che, infatti, per imporsi, dovette sempre più statalizzarsi, offrendo ampi margini di manovra ai metodi amministrativi, polizieschi e inquisitoriali.
Lo stalinismo distrusse non solo tradizioni consolidate, ma anche intelligenze, competenze, professionalità… Usava il timore di un accerchiamento capitalistico come pretesto per scatenare le repressioni di massa, senza sapere che in tal modo avrebbe finito con l'offrire al nazismo l'occasione propizia per tentare di distruggere alla radice il socialismo statale. Il nazismo infatti, che come il fascismo italiano aveva promosso qualcosa di paragonabile al Welfare State del secondo dopoguerra, avrebbe imposto all'URSS, se avesse vinto, un capitalismo del tutto privato, in quanto avrebbe considerato quell'immenso territorio una semplice colonia da sfruttare. Quando occupò la Tanzania in Africa nel 1885, non impiantò nulla di statale, preferendo di gran lunga favorire le imprese private.
Insomma non si può "giocare" a fare i rivoluzionari; non si può scatenare un'insurrezione nazionale senza pensare alle conseguenze, senza avere uno sguardo lungimirante sulla costruzione del dopo, le cui inevitabili contraddizioni non potranno certamente essere pagate da specifiche categorie sociali di lavoratori o da comunità umane sociologicamente caratterizzate (come per es. quelle etnico-linguistiche, religiose, ecc.).
Che cos'è l'estremismo?
La Russia contemporanea, del XIX e del XX secolo, era piena di partiti estremisti. Alcuni, per es. i socialrivoluzionari di sinistra, riuscirono persino a governare per un breve periodo coi bolscevichi. Dovettero rinunciarvi quando non accettarono il Trattato di Brest-Litovsk e quando uccisero l'ambasciatore tedesco Wilhelm von Mirbach, affinché si proseguisse la guerra tra Germania e Russia, nella errata convinzione che quest'ultima, pur stremata dalla rivoluzione, avrebbe sicuramente vinto.
Sulla "malattia infantile dell'estremismo" lo stesso Lenin scrisse un libro molto importante. Ma cosa vuol dire "estremismo politico"? Vuol dire, in parole povere, anteporre una propria ideologia (o visione di vita o concezione filosofica) alle situazioni oggettive della realtà, che hanno proprie contraddizioni ed esigenze, per le quali è preferibile un approccio più flessibile, più pragmatico. L'estremista pensa che il venir meno a un aspetto della propria ideologia comporti lo snaturamento di tutta la propria ideologia. Si tratta quindi di una forma di insicurezza o di falsa sicurezza. L'estremismo è sempre una forzatura con cui si vuole piegare la realtà ai propri desideri, senza tener conto dell'effettiva entità di quelle forze in campo che gestiscono il potere economico e politico.
Di tutte le correnti estremistiche lo stalinismo fu senza dubbio la più scaltra, poiché si formò e si sviluppò all'interno del bolscevismo al potere, svuotandolo di tutti i suoi contenuti autenticamente rivoluzionari. Tutti gli altri estremismi non bolscevichi scomparvero di scena dopo aver voluto caparbiamente far valere un'interpretazione estrema su un caso particolare o comunque marginale rispetto al grande successo della rivoluzione proletaria, storicamente inedita.
Quando i bolscevichi misero in minoranza il trockismo (l'ultima forma di estremismo politico finché il leninismo aveva ancora un senso), lo stalinismo stava muovendo i primi passi. Nessuno avrebbe potuto sospettare che sarebbe diventato mille volte peggio del trockismo.
è difficile spiegare il motivo per cui da un lato si costruiscono opere politiche di straordinario rilievo, e dall'altro si finisce col distruggerle compiendo azioni del tutto scriteriate. Evidentemente la Russia soffriva di contraddizioni molto gravi, di fronte alle quali una sorta di alienazione sociale la faceva da padrona. Di fronte a sé i russi avevano i miti del benessere occidentale, ma dietro di sé avevano le correnti asiatiche e slavofile che si consideravano alternative al modello capitalistico. I comunisti e i socialisti volevano costruire qualcosa di inedito, sfruttando naturalmente le acquisizioni tecno-scientifiche degli europei più avanzati. L'occidentalizzazione della Russia era iniziata con lo zar Pietro il Grande, che aveva voluto costruire Pietroburgo come simbolo dello svecchiamento del suo Paese ancora feudale.
Perché il trockismo era una forma di estremismo? Perché voleva imporre, con la forza dello Stato, l'occidentalizzazione come forma di tecnologia produttiva a una miriade di contadini che non l'avrebbero potuta sopportare. Il bello è che lo stalinismo fece esattamente la stessa cosa, ma nel momento in cui esso nacque, questa sua radicalizzazione ancora non appariva. Lo stalinismo vinse perché si dimostrava semplicemente più astuto: era capace, come un ragno, di tessere una tela di rapporti che non permetteva agli avversari di accorgersene in tempo. Di qui l'uso spregiudicato dei servizi segreti.
Trockij era un estremista anche con la sua idea di "rivoluzione permanente". Ritenere che una rivoluzione proletaria possa sperare di sopravvivere in un Paese arretrato solo a condizione che all'estero i Paesi più avanzati diventino essi stessi socialisti, è una grande stupidaggine; eppure Trockij vi credette sino alla fine dei suoi giorni.31 Arrivò al punto da desiderare la vittoria della Germania nazista, pur di veder sconfitto lo stalinismo e confermata la propria teoria. Anche questa era una posizione estrema, paradossale. Come si può sperare di guidare una nazione in nome di posizioni estremistiche? Il trockismo infatti non andò al potere da nessuna parte, e anche lo stalinismo ebbe un crollo rovinoso.
Questo perché il popolo non ama le ideologie radicali, ma la stabilità, la sicurezza, altrimenti non si sviluppa, non si riproduce. Quando aderisce a un movimento rivoluzionario, lo fa solo perché non vede alternative praticabili, convincenti, al fine di ottenere una situazione normale, accettabile. I popoli non s'impegnano così tanto spesso nelle rivoluzioni. Se decidono di farlo, pagandone tutte le conseguenze, è perché vogliono farla finita, una volta per tutte, con determinate condizioni di vita disumane, troppo estreme, troppo radicali.
I popoli non sono contrari alle contraddizioni, poiché sanno benissimo che lo sviluppo avviene proprio grazie alle esigenze insoddisfatte. Sono contrari agli antagonismi sociali, alle forme esagerate di individualismo. L'essere umano è un animale sociale che deve trovare nella socialità la propria umanità.
Il volto del bolscevismo
Nel suo libro più famoso, del 1926-28, Spirito e volto del bolscevismo, René Fülöp-Miller sostiene molte cose interessanti sulla Russia e su Lenin, ma di sicura una è completamente sbagliata. Se avesse potuto leggerla, Lenin stesso gliel'avrebbe detto, poiché aveva già risposto, più volte, a un'obiezione del genere.
In sostanza l'autore ritiene "che si sarebbe dovuto tener conto del fatto innegabile che la meccanizzazione e tecnicizzazione è stata determinata da necessità storiche solo in Occidente, ma non in Russia, che, arretrata di secoli, dovrebbe attraversare, nel senso preciso della teoria marxista, prima una fase di sviluppo industriale e capitalistico per far maturare, attraverso l'accumulazione del capitale e del capitalismo di Stato, il potere operaio".32
Ora, se una qualunque teoria sedicente "marxista" fosse convinta che senza industrializzazione è impossibile costruire un socialismo autenticamente democratico, allora quella teoria non servirebbe assolutamente a nulla.
Il fatto che in Europa occidentale vi siano state delle "necessità storiche" che hanno fatto nascere il capitalismo, e che queste necessità non si siano formate in Russia, non significa che questo Paese fosse "inferiore" all'Europa occidentale. Non è la tecnologia il metro giusto per misurare il grado di "civiltà" di un Paese, di una popolazione. Questo poi senza considerare che già al tempo dello zar Pietro il Grande la Russia stava cercando di "occidentalizzarsi" e che, nella seconda metà del secolo XIX, poteva tranquillamente essere considerata un Paese capitalistico (almeno nella sua area europea). Su tale evidenza Lenin è sempre stato chiarissimo e ben documentato, seppure ritenesse la Russia un "anello debole".
Non solo, ma, di fronte a obiezioni del genere, Lenin replicava sempre dicendo, a ragione, di non riuscire a capire il motivo per cui in Russia un'industrializzazione, analoga a quella europea, non si sarebbe potuta avviare dopo aver compiuto una rivoluzione comunista. Anzi, per lui proprio la fine della proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi e il correlato, inevitabile, antagonismo sociale, avrebbero potuto permettere più facilmente il conseguimento di tale obiettivo.
Semmai l'obiezione al bolscevismo avrebbe dovuto essere un'altra, ma in tal caso non avrebbe potuto essere rivolta a Lenin, in quanto morì prematuramente. E sarebbe stata questa: ha senso, in un Paese dove la cultura borghese non aveva ancora messo radici così profonde come in Europa occidentale, procedere con una industrializzazione accelerata, facendola per di più pagare con una collettivizzazione forzata dei contadini? Evidentemente no. Ma l'evidenza è una cosa, mentre gli schemi mentali sono tutt'un'altra. Forse fu proprio per questo motivo che lo stalinismo non incontrò, all'interno del partito, un'opposizione convincente.
A proposito di collettivizzazione, scrive l'autore suddetto: "anche in agricoltura si sarebbe dovuto procedere per gradi, nel corso di un lungo sviluppo, dai metodi di lavoro più semplici a forme più alte, per arrivare infine attraverso la completa meccanizzazione del lavoro alla definitiva liberazione di ogni gravosa fatica fisica" (ib.).
Il riferimento alla "gradualità" è legittimo, ovviamente. Ma dove sta scritto che in un socialismo democratico il lavoro debba essere completamente meccanizzato o automatizzato? Oggi un obiettivo del genere, a fronte di una progressiva devastazione dell'ambiente naturale, dovuta proprio alla rivoluzione industriale, dovrebbe essere giudicato completamente fuori luogo.
è appunto questa la tesi sbagliata dell'autore: il torto del bolscevismo è stato non tanto quello di essere "utopistico" nel volere una "civilizzazione occidentale" in un Paese "medievale" (anche il Giappone passò dal feudalesimo al capitalismo industriale in breve tempo); semmai il bolscevismo non è stato abbastanza "democratico" da capire con chiarezza che, in prima e ultima istanza, sono le masse popolari che devono decidere ciò che è bene e ciò che è male: non può essere né un partito né lo Stato.
Un margine di rischio
Quando si fa una rivoluzione politica o un'insurrezione nazionale o una guerra civile, contro nemici interni o esterni alla nazione, che non lasciano altra possibilità di scelta, non si può star lì a pensare che finirà male.
Un margine di rischio c'è in qualunque cosa si faccia. Gli esseri umani non sono automi obbligati a eseguire determinati ordini. Sanno essere incredibilmente imprevedibili, proprio perché dotati di libero arbitrio. Possono fare il contrario di ciò che pensano o che dicono o che stabiliscono in maniera preventiva o concertata coi loro alleati. Un "Giuda" c'è sempre in ognuno di noi, e in nessuna maniera gli si può impedire di manifestarsi.
Si può esortare quanto si vuole alla prudenza, si può paventare un esito catastrofico se non si rispettano le direttive, gli ordini, ma, in definitiva, ognuno si sentirà libero di agire come meglio crede, assumendosi inevitabilmente le responsabilità di tutto ciò che fa, che lo voglia o no. Poi starà ai compagni decidere come comportarsi.
Lenin perdonò il tradimento di Kamenev e Zinov'ev, ma se avesse potuto prevedere che proprio loro due si opposero alla rimozione di Stalin dalla carica di segretario generale del partito (come Lenin aveva chiesto nel Testamento), li avrebbe perdonati lo stesso? Qui tuttavia non si vuol parlare di etica ma di politica.
I motivi per fare le rivoluzioni devono essere interni, non esterni alla nazione. Al di fuori di essa si possono cercare alleanze di varia natura, dirette o indirette (a volte ci si accontenta della non-belligeranza o della non-ingerenza; altre volte si ha bisogno di un'alleanza effettiva, di un patto reciprocamente impegnativo, di una dichiarazione di intenti, e così via).
Ecco, da questo punto di vista la diatriba ideologica e politica tra "rivoluzione permanente" e "socialismo in un solo Paese" appariva piuttosto insensata. Infatti le rivoluzioni non si fanno col pensiero di cosa potranno fare, in un secondo momento, le nazioni confinanti. Le rivoluzioni si fanno quando i tempi sono maturi e quando l'organizzazione è sufficiente per poterle realizzare in maniera vittoriosa, ovviamente con un certo margine di probabilità.
Uno Stato non deve sentirsi troppo piccolo e temere che, dopo aver fatto la rivoluzione, sarà attaccato da Stati molto più grandi. Uno Stato non deve sentirsi troppo povero, analfabeta, rurale per poter affrontare Stati molto ricchi, acculturati, industrializzati. Sarà la storia a dimostrare che non bastano le armi per vincere. Servono anche le idee, le alternative al sistema dominante, l'organizzazione capillare, la rete dei sostenitori diretti e indiretti.
Non è forse vero che gli Stati capitalisti temevano che la rivoluzione bolscevica potesse attecchire anche al loro interno? E allora perché non decisero di abbattere la Russia anche dopo l'interventismo degli inizi degli anni '20? Perché non si coalizzarono nel decennio successivo? L'URSS fu attaccata quasi esclusivamente dai tedeschi. Le grandi nazionali capitalistiche del mondo (Francia, Inghilterra, Stati Uniti) furono alleate dei russi, anche se i loro governi, fino all'ultimo, avevano sperato in una vittoria dei nazisti, nella convinzione che, in questa maniera, Hitler avrebbe smesso di opprimere l'Europa occidentale.
I leader bolscevichi temevano, dopo la morte di Lenin, che la Russia sarebbe stata smembrata dalle più grandi potenze capitalistiche di quel momento. Ma non lo fece nessuno, salvo il Giappone, in misura molto limitata in Manciuria. Alla fin fine tutta la paura dell'accerchiamento e dell'imminente attacco militare da parte dell'occidente servì soltanto allo stalinismo per affermare il proprio potere.33
I limiti di un sistema
L'accusa rivolta a Stalin di "culto della personalità", ma anche di uso, da parte degli stalinisti, di metodi eccessivamente autoritari o burocratico-amministrativi (in senso coercitivo), di falsificazioni nei processi giudiziari, di violazioni della legalità (fino all'uso della tortura e delle minacce nel corso degli interrogatori degli imputati) andrebbero considerati degli aspetti collaterali rispetto alla mostruosità del sistema stalinistico qua talis. Si trattava infatti di un "sistema" che andava ben oltre il suo personaggio ideatore.
Stalin non fece che dare corpo a una tendenza in atto. Il sistema coinvolgeva una miriade incredibile di persone, che avevano non solo il culto del "personaggio Stalin", ma anche dell'ideologia politica che lui diceva d'incarnare. Era insomma un sistema "ideologico" a compiere il massacro della democrazia.
In un certo senso Stalin, soggettivamente, era solo la punta di un iceberg. Si dice che il suo potere venisse gestito dall'alto in basso, ma se ha potuto farlo sino alla morte, vuol dire che vi erano tendenze anche dal basso verso l'alto. Lui le ha rappresentate, portandole a compimento, anche contro gli interessi di chi le aveva promosse. Se si possiede un diario con le pagine bianche non incollate ma cucite, e si staccano alcune pagine per prendere appunti, le cuciture non potranno impedire che se ne stacchino automaticamente delle altre.
Se non ci fosse stato Stalin, il sistema ne avrebbe creato un altro. Questo perché la rivoluzione post-leniniana non poteva permettersi d'aver fallito su tutti i fronti. Il socialismo statalizzato aveva prodotto il "mostro" Stalin, ma anche tanti altri mostri, che non ebbero il coraggio di mettere seriamente lui in discussione. Erano come i funzionari di un faraone egizio, la cui dittatura non poteva essere sottoposta a critica senza che contemporaneamente il loro stesso potere non rischiasse d'incrinarsi.
Non Stalin in sé ma lo stalinismo come ideologia del socialismo statale è stato il più grande nemico della Russia, peggiore dello stesso nazismo hitleriano, poiché questo durò pochi anni, mentre lo stalinismo durò dalla morte di Lenin sino alla svolta di Gorbaciov, strumentalizzata da quello sciagurato di El'cin.
Infatti non fu sufficiente la destalinizzazione di Krusciov, proprio perché si aveva a che fare non con una persona "spaventosa" ma con un intero "sistema", indipendente per così dire dalle volontà soggettive. D'altra parte anche la politica occidentale è del tutto subordinata agli interessi economici del capitale.
Lo stalinismo e il socialismo statale furono dei sistemi così odiati che dopo Gorbaciov si volle un sistema e un'ideologia opposti, non meno disumani: quello del capitalismo privato e del neoliberismo più selvaggio, avviati non solo da El'cin ma anche da molti altri dirigenti irresponsabili. Non è quindi vero - come dice Putin - che la Russia ha fatto i conti col proprio passato. Li farà quando capirà che tipo di socialismo opporre ai sistemi dominanti nel mondo.
Questo per dire che non è stato lo stalinismo a creare il socialismo statale, ma in un certo senso il contrario. Lo stalinismo fu l'ideologia che il socialismo statale doveva inevitabilmente creare per sopravvivere il più a lungo possibile. O meglio, si potrebbe dire che lo stalinismo ha favorito la nascita di un socialismo statale che poi, a sua volta, ha trovato nello stalinismo la sua legittimazione più compiuta. Lo dimostra il fatto che quando con Gorbaciov si è cercato di democratizzarlo, gli stalinisti han reagito con un golpe. Ciò in quanto il senso della democrazia era estraneo alla loro mentalità autoritaria.
Stessa cosa avvenne al tempo della riforma protestante. Il calvinismo combatté con successo la corruzione del cattolicesimo-romano e favorì enormemente il capitalismo, ma poi il capitalismo andò ben oltre qualunque religione e inventò forme di corruzione ben più gravi e sofisticate. Le cose sfuggono di mano perché vengono avviati dei processi molto più importanti delle volontà individuali.
Stalinismo e socialismo statale han voluto porre in essere il completo controllo della società civile da parte dello Stato e del partito egemone. Il fallimento è stato totale. Ed è difficile pensare che l'esperimento potrà essere ripetuto, proprio perché si è capito che il socialismo statale è un orrore in sé, a prescindere dalla leadership e dall'ideologia che lo governano.
A questo punto però bisognerebbe chiedersi se lo stalinismo si pone come erede del leninismo o come una criminale deviazione. Cioè è forse plausibile sostenere che un socialismo statale guidato da Lenin o dal leninismo sarebbe stato più democratico? Si può forse affermare con certezza che il leninismo aveva saputo porre le basi democratiche che avrebbero potuto impedire al socialismo statale di trasformarsi in una dittatura? Insomma per quale motivo lo stalinismo ha potuto fare di un'eccezione, il comunismo di guerra, una regola? Perché ha voluto eliminare quanto prima la NEP?
Non è facile dare risposte a queste domande. Al massimo possiamo dire che la fine dell'epoca della NEP segnò l'inizio del socialismo statale. L'ideologia che giustificò tale transizione fu senza ombra di dubbio lo stalinismo, che non coincise con il solo Stalin. Infatti lo stalinismo, proseguendo anche dopo la morte di Stalin, impedì la democratizzazione del socialismo sia al tempo di Krusciov che al tempo di Gorbaciov.
Oggi la Federazione Russa può essere definita un Paese capitalistico controllato dallo Stato. La differenza tra la situazione odierna e il periodo della NEP si pone a un duplice livello: 1) non è la classe operaia e contadina alla guida del Paese, ma la borghesia, che può produrre e commerciare ad alti livelli e in tutte le direzioni, pur dovendo sottostare a un controllo statale; 2) l'ideologia del putinismo si rifà a tradizioni nazionalistico-ortodosse di epoca zarista e chiede al mondo intero di superare l'unipolarismo neocoloniale dell'occidente collettivo guidato dagli USA, che include anche l'egemonia finanziaria a livello globale del dollaro.
Il fallimento della sovietizzazione
Quello che più stupisce nella storia del partito comunista sovietico è l'incredibile rivalità interna tra i vari leader. Probabilmente Lenin morì così presto anche perché si sfiancò in durissime battaglie teoriche e organizzative.
Tuttavia solo al tempo dello stalinismo gli avversari venivano processati, imprigionati o giustiziati. Si salvavano solo quelli che non dissentivano mai dalle posizioni di Stalin e del suo staff privato (privato nel senso che non rappresentava nessuno se non lui stesso).
Il bello è che tutte queste repressioni non servivano affatto a pacificare gli animi. Sotto l'obbedienza formale covava sempre un odio reciproco tra i dirigenti. Sembrava che tutti facessero a gara a chi risultava più apprezzato agli occhi di Stalin. Invece di tenersi il più possibile lontani da lui e soprattutto dai suoi metodi disumani; di più, invece di fare in modo di spodestarlo dal trono, si preferiva cercare il suo favore, lo si imitava nel proprio ambito di competenza.
Ma la cosa più singolare è un'altra. Escludendo che atteggiamenti del genere siano specifici di una particolare popolazione o etnia, in quanto non si vuol offrire il destro a inevitabili accuse di razzismo, chiediamoci: in presenza di una proprietà statale dei principali mezzi produttivi, cos'è che scatena l'odio di classe? Può essere definito di "classe" o è semplicemente un odio "personale"? Ma questo odio da che cosa è generato?
Che qui, in effetti, vi fosse un "odio" reciproco tra i dirigenti del socialismo statale, appare abbastanza pacifico. Ma quali "classi" possono esserci in presenza di un collettivismo forzato? I dirigenti stalinisti si sentivano forse legittimati a odiarsi vicendevolmente, in quanto sapevano di rappresentare interessi contrapposti?
Se ci pensiamo bene, in una società collettivizzata le divergenze di opinione tra dirigenti politici dovrebbero vertere su questioni marginali, di secondaria importanza. Non avrebbe alcun senso scatenare delle azioni terroristiche verso chi la pensa diversamente.
Con la rivoluzione d'Ottobre, la guerra civile e quella contro l'interventismo straniero chiunque avrebbe potuto dire che il più era stato fatto, e che avrebbe avuto sempre meno senso odiarsi al punto da pretendere l'annientamento dell'avversario o la sua espulsione dal Paese.
Invece il terrore, un volta iniziato, continuò fino all'ultimo giorno di vita di Stalin, e in un certo proseguì, seppure in forma attenuata, anche dopo la destalinizzazione Kruscioviana, cioè nel periodo della stagnazione; ed era un terrore esercitato dallo Stato o, se si preferisce, dal partito-stato.
Dunque, cosa successe di così grave nel periodo dello stalinismo da determinare la creazione di un regime così oppressivo? Perché la libertà di parola e di associazione ha cominciato ad affermarsi solo nel periodo di Gorbaciov?
Qui la risposta può essere una sola: sotto il socialismo statale si è formata una classe di intellettuali che si contrapponeva al popolo, o comunque che sfruttava la credulità popolare per interessi esclusivi di potere. L'arrivismo o il carrierismo di quegli intellettuali con meno senso etico trovò nello stalinismo la sua valvola di sfogo, la sua occasione propizia. L'odio fu all'interno di un ceto intellettuale che, privo com'era di proprietà, fece di tutto per acquisire posizioni di prestigio. Certo, molti erano idealisti, disposti a morire in nome dell'ideologia socialista, ma molti altri erano cinici e spietati (in occidente questa seconda categoria ci è molto più familiare dell'altra).
Lo Stato, la stessa società civile avevano preso una forma piramidale, in cui pochi dirigenti davano ordini a una miriade di sudditi, che li dovevano eseguire senza discutere, anche quando apparivano irrealizzabili, salvo assumere, da parte di queste stesse persone, atteggiamenti ampiamente ipocriti e truffaldini.
Il socialismo statalizzato era inevitabilmente diventato un socialismo autoritario, burocratico, poliziesco. Al tempo di Marx veniva definito col termine " socialismo da caserma". Il collettivismo forzato e accelerato aveva prodotto un mostro.
Questa cosa è molto strana, poiché in genere è l'individualismo occidentale che, sin dai tempi dello schiavismo greco-romano, ha sempre generato delle "mostruosità". Contro questo individualismo plurisecolare si sono fatte valere le ragioni del collettivismo; lo si è fatto quando ancora esisteva il comunismo primitivo, quel comunismo che, sotto varie forme e modi e denominazioni, è sopravvissuto nelle grandi aree asiatiche, africane e sudamericane.
Cos'è dunque che non ha funzionato nel socialismo statale sovietico? è stata proprio la sovietizzazione, cioè l'esperienza del collettivismo che da libero, autonomo, autogestito, locale, si trasformò nel suo contrario; quel tipo di collettivismo umano e democratico che lo stalinismo non ha mai voluto riconoscere, e che non è stato riconosciuto neppure da quei leader che dicevano di opporsi allo stesso stalinismo.
Durante la rivoluzione tutto il potere dei soviet locali era in mano a operai, contadini, soldati, intellettuali. Non esisteva differenza di ceto o di classe. Si lottava per un obiettivo comune liberamente scelto, da cui dipendeva il futuro della propria vita. Fu proprio con la "sovietizzazione" che il potere di questi soviet fu ridotto a un nulla.
Dittatura, privilegio e miseria
Medvedev avrà sempre ragione contro gli storici stalinisti, poiché tendono a mentire sfacciatamente. E anche contro gli storici "sovietici", poiché questi tendono a relativizzare gli orrori dello stalinismo.
Lo scrive in maniera eloquente a p. 528: "non possiamo ridurre l'intero problema [dello stalinismo] alla tragedia personale delle vittime della repressione"; né ci si può consolare col fatto che molti leader eliminati "furono rimpiazzati da altri capi che continuarono con successo l'opera intrapresa". Questo perché "mutarono in modo fondamentale anche le condizioni del loro operare" (ib.). Cioè anche se i nuovi leader potevano essere moralmente irreprensibili, si corrompevano facilmente nel regime staliniano, se volevano continuare a dirigere il Paese.
Su questo Medvedev è impeccabile. "Molti dei princìpi base di una società socialista furono sovvertiti e fu arrecato un danno enorme alla causa del socialismo" (ib.).
Tuttavia, secondo noi, è sbagliato sostenere che lo stalinismo "minacciò la totale distruzione delle maggiori conquiste della rivoluzione d'ottobre" (ib.). Lo stalinismo non si limitò a "minacciare", ma rese assolutamente impossibile una qualunque idea alternativa di socialismo. Non soltanto "molti" princìpi socialisti furono sovvertiti, ma proprio tutti, come in un effetto domino. Lo stalinismo non creò soltanto condizioni sociali invivibili, in cui la dignità umana veniva messa sotto i piedi, ma impedì anche di metterle in discussione.
Lo stalinismo riuscì a sopravvivere per così tanto tempo non perché i dirigenti sovietici mostravano di possedere, nonostante le repressioni infami, dei valori umani di altissimo livello, ma semplicemente perché il loro territorio era sterminato, quindi non così facilmente governabile, e la popolazione, pur essendo ben poca cosa rispetto all'estensione territoriale, era comunque abbastanza rilevante da non percepire come catastrofico lo sterminio di milioni di persone. La tragedia sarebbe apparsa diversamente in condizioni geografiche e demografiche assai più ridotte.
Stessa cosa avvenne in Cina, dove anzi i conti col maoismo non vennero mai fatti, tant'è che ancora oggi esiste a Pechino un mausoleo dove Mao Zedong viene venerato come un "padre della patria". Da questo punto di vista bisogna dire che l'attuale Federazione Russa non ha l'ipocrisia della Repubblica Popolare Cinese, che continua a rifarsi al socialismo classico, pur essendo stata questa ideologia stravolta dalla dittatura maoista e contraddetta dall'attuale svolta capitalistica.
Si badi: dicendo che il socialismo statale ha prodotto dei politici che di democratico non avevano quasi nulla, non s'intende affatto sostenere, neanche per un momento, che i politici occidentali fossero più democratici. Anzi, si vuole affermare con convinzione che l'antidemocraticità dei politici del capitalismo era un modello per i politici del socialismo statale. Veniva esercitata diversamente solo perché erano diverse le condizioni in cui costruire il regime. L'occidente, infatti, ha sempre potuto beneficiare, sin dai tempi dei viaggi coloniali di Colombo, della possibilità di infierire in maniera disumana su tante popolazioni tecnologicamente inferiori. Questo permetteva alle madrepatrie occidentali di sfoggiare una pseudo-democrazia e di teorizzare mirabolanti diritti umani.
Viceversa, il socialismo statale, non avendo colonie da sfruttare (anche se l'area europea della Russia sfruttò l'area asiatica), si poneva come una dittatura politica nella miseria economica, e questa miseria veniva contrabbandata, sul piano ideologico, come "giustizia sociale". Non è forse singolare che nel socialismo statale le categorie sociali privilegiate fossero quelle economicamente meno produttive: politici, funzionari, militari…?
Ora però sappiamo che l'obiettivo fondamentale del socialismo democratico è quello d'impedire il formarsi di tre virus letali: dittatura, privilegio e miseria. Il vero socialismo è quello in cui la giustizia impedisce discriminazioni e la conduzione della vita quotidiana è basata sul rispetto delle esigenze riproduttive della natura.
Il socialismo può apparire miserevole a chi è abituato a sfruttare senza ritegno le risorse naturali e il lavoro altrui, ma la sua sostenibilità è facilmente verificabile dal fatto che, in assenza di discriminazioni sociali, anche la natura viene rispettata, e non c'è motivo di esercitare violenza su nessuno.
Fallimento sistemico e repressioni massive
Non è da escludere che le repressioni di massa da parte dello stalinismo avessero anche lo scopo di ridurre in tempi brevi l'entità numerica della popolazione, al fine di avere meno bocche da sfamare.
In genere i vantaggi che un lavoratore offre nel suo periodo produttivo sono di molto superiori ai costi che si devono sostenere quando non è in grado di lavorare. Ma se la politica economica di una società (quella che prevede l'utilizzo di una determinata forza-lavoro) è quasi totalmente fallimentare, allora il problema di come risolvere l'alimentazione diventa molto serio.
In fondo anche oggi, quando si parla di Great Reset, si prevede di fare la stessa cosa. Guerre, pandemie e carestie devono servire per rendere meno difficoltosa la riproduzione del capitale. Anzi i classici del marxismo han sempre detto che le guerre, comportando la ricostruzione di tutto quanto viene distrutto, sono un ottimo incentivo per l'investimento delle risorse finanziarie.
Al tempo dello stalinismo mancava lo strumento della pandemia e il Paese era uscito da una devastante guerra civile, ma il socialismo statale aveva facoltà di compiere una cosa che sotto il capitalismo è quasi impensabile: la repressione di massa sotto la copertura di motivazioni ideologiche. L'occidente è troppo anarcoide per realizzare uno sterminio del genere, e poi, avendo posto il mercato come riferimento di successo, non può, per cultura e tradizione, concedere troppo spazio alle ideologie. Il fanatismo deve essere a favore del consumismo, non delle idee, e il consumismo deve essere il più possibile mondiale. Le poche idee che il capitalismo coltiva devono essere funzionali alle esigenze del capitale.
Che in Russia fosse presente tra la popolazione una certa fiducia nelle idee del socialismo democratico è dimostrato dall'altissimo numero di militanti del partito fatti fuori. Le cifre offerte da R. Medvedev sono piuttosto impressionanti: nel 1934 c'erano 2.809.000 membri effettivi e candidati, ma nel 1939 erano scesi a 2.478.000. Ovviamente, per capire quanti ne mancavano, non basta fare la differenza. Infatti nel 1939, sulla base del trend precedente, avrebbero dovuto essere 3,5 milioni. Praticamente - afferma l'autore - bastarono solo due anni per avere più comunisti ammazzati di quanto si poté fare negli anni della lotta clandestina, delle tre rivoluzioni e della guerra civile (p. 288).
Nell'ambito dello stalinismo si giustiziava con una disinvoltura incredibile: potevano esserci motivazioni persino personali quando si voleva eliminare qualche dirigente di partito. Tuttavia è difficile spiegare decimazioni del genere senza chiamare in causa delle motivazioni politiche vere e proprie, naturalmente costruite ad arte, attribuendo all'imputato di turno l'idea di colpire o il partito o l'intero sistema sociale e istituzionale. Le repressioni erano senza dubbio la conseguenza di un fallimento generale di tutta la politica economica ideata dal partito e attuata dallo Stato. Ed erano anche la conseguenza di un rifiuto ad ammettere tale clamoroso insuccesso.
Per far capire che i problemi del sistema non dipendevano dal potere centrale ma da quello periferico, si procedette all'eliminazione dei comunisti (gli ultimi politici sopravvissuti) seguendo una scala gerarchica. Questo era anche un modo per far capire alla popolazione che il potere centrale si accollava l'onere di eliminare quello periferico, ritenendolo il maggior responsabile del disastro economico.
Naturalmente le repressioni servirono anche per derubare tutte le confessioni religiose delle loro principali risorse. Medvedev sostiene che "nel 1936-39, secondo i calcoli più prudenti, da quattro a cinque milioni di persone ebbero a subire la repressione per motivi politici" (p. 294). E poi aggiunge, sconsolato: "Nessuno dei tiranni o dei despoti del passato fu capace di perseguitare o di uccidere un tal numero di suoi compatrioti" (p. 295). A dir il vero non sappiamo quanti ne fece fuori il maoismo: si parla di 30-40 milioni (lo storico olandese Frank Dikötter arriva a 45 milioni). Tuttavia questa strage apocalittica fu successiva a quella staliniana.
Sarebbe stato impossibile per la destalinizzazione inaugurata da Krusciov andare sino in fondo nel denunciare queste enormi carneficine. L'intero sistema del socialismo statale sarebbe crollato. La popolazione sarebbe insorta, a meno che dopo 30 anni di stalinismo non avesse soffocato dentro di sé qualunque dignità, qualunque voglia di combattere. Il che nei russi non è mai successo.
Errori di metodo e di merito
Il disastro economico dell'URSS non iniziò con le purghe degli anni '30, ma con le decisioni politiche degli anni '20, prese dopo la morte di Lenin, che determineranno la fine della NEP e l'istituzione della collettivizzazione forzata nell'agricoltura e l'eliminazione delle aziende individuali dei contadini ricchi e medi. Nella visione dello stalinismo i contadini dovevano essere poveri e inseriti in aziende cooperativistiche controllate dallo Stato (colcos) o addirittura in aziende statali in tutto e per tutto (sovcos). Dovevano produrre secondo le esigenze dello Stato e non potevano decidere quasi nulla in autonomia (erano ammessi solo dei piccoli orti privati). I contadini erano diventati "servi dello Stato", inaugurando così una sorta di "nuovo feudalesimo".
Le conseguenze furono durissime per milioni di persone, che scomparvero dalla faccia della terra: il colossale numero di vittime della fame degli anni 1932-33 nessuno lo sa con precisione.
La resistenza a queste repressioni di massa non si tramutarono in una rivolta sociale o politica, ma in una serie di sabotaggi o in un'emigrazione di massa verso le città. Il paradosso era evidente a tutti: quanto meno si poteva lavorare liberamente in campagna, tanto più ci si trasferiva in città o nelle aziende industriali, ma quanta meno gente lavorava in campagna, tanto meno i cittadini urbanizzati riuscivano a sfamarsi. La situazione generale fu così abnorme nella propria gravità, che Stalin ebbe bisogno di far assassinare Kirov nel 1934 per avere il pretesto con cui iniziare le repressioni di massa.34
Di fronte a uno sfacelo del genere l'interpretazione di Volkogonov è piuttosto limitativa. Scrive: "Bucharin sosteneva la necessità di attuare la trasformazione delle campagne con tappe graduali, durante le quali la cooperazione e il settore socializzato avrebbero progressivamente soppiantato le aziende individuali" (p. 188, o.c.).
Il che conferma che non esisteva tra gli intellettuali bolscevichi un'opposizione di merito alle direttive degli stalinisti, ma si facevano rilievi solo sui metodi utilizzati. Cioè nessuno metteva in discussione che il socialismo dovesse realizzarsi nella forma della statalizzazione, che inevitabilmente sarebbe stata sempre più accentuata, soprattutto a danno dei contadini.
Si faccia ora attenzione a come procede Volkogonov: "[Bucharin] non aveva pienamente ragione, soprattutto nel delineare le prospettive storiche delle trasformazioni e i loro ritmi, che avrebbero prolungato il processo di parecchi anni" (pp. 188-9).
è pericoloso fare affermazioni del genere. L'autore, mentre contesta lo stalinismo sul piano del comportamento soggettivo (non solo di Stalin ma di tutti i leader del suo più stretto entourage), lo sta giustificando indirettamente, sul piano oggettivo. Sta dicendo che Bucharin, se poteva aver ragione sul piano etico, aveva torto su quello politico. Quindi, in sostanza, la NEP leniniana andava smantellata, poiché non sarebbe stato in virtù di qualche concessione capitalistica che si sarebbe potuto costruire un socialismo altamente industrializzato.
Volkogonov sta parlando di "prospettive storiche", che sono appunto quelle relative all'edificazione di un forte Stato socialista. Infatti lo dice espressamente: "La storia non concedeva tanto tempo al nostro paese" (p. 189). Tanto tempo per fare cosa? Per realizzare una rivoluzione industriale in maniera frettolosa, estendendola a tutto il Paese, cioè andando oltre la sua area europea? Una preoccupazione del genere non rispecchia forse il timore relativo all'accerchiamento capitalistico del Paese, che gli stalinisti diffusero ovunque e ripetutamente, usandolo come pretesto per sconvolgere l'economia rurale?
Il testo di Volkogonov si situa sulla stessa linea di quello di Medvedev: solo la spregiudicatezza è minore, forse perché l'autore era un importante militare. Alla fine il lettore ha la netta impressione che: 1) in un Paese economicamente arretrato come la Russia (rispetto ai canoni dei Paesi capitalisti più avanzati), il socialismo di stato, per recuperare in fretta il divario, era l'unica strada possibile; 2) purtroppo lo stalinismo, per colpa della personalità autoritaria di Stalin, che per di più del mondo rurale e di economia non capiva nulla, danneggiò enormemente la classe contadina; 3) ciononostante il Paese riuscì a diventare una grande potenza industriale, salvaguardando la propria integrità territoriale nei confronti dei Paesi capitalisti che volevano occuparlo o smembrarlo.
Questo è un modo di ragionare influenzato da ideologie di tipo borghese. Volkogonov fu un discepolo di Gorbaciov: credeva seriamente che il socialismo statale avrebbe potuto democratizzarsi. Dopo la fine dell'URSS, nel 1991, capì che il sistema sovietico, così come l'aveva visto crescere, non era riformabile. Morì nel 1995, a soli 67 anni, mentre il Paese veniva distrutto dal regime di El'cin.
Il suo libro su Stalin non piacque per nulla né al Pcus né, tanto meno, agli ambienti militari. Non poté pubblicarlo nel 1983, ma solo nel 1989. Quando arrivò a dire che lo stalinismo aveva arrestato prima della guerra 45.000 ufficiali dell'Armata Rossa, di cui 15.000 furono fucilati, fu costretto a dimettersi dalle forze armate. Fu anche consigliere di El'cin, ma nel 1994 si era dimesso.
Stalinismo e sviluppo economico
Mi pare abbastanza impressionante che Roj Medvedev dica che l'approccio staliniano ai complessi problemi dello sviluppo economico "non accelerò affatto il crescere dell'economia, ma lo rallentò" (p. 142, o.c.).
Poi ne spiega i motivi: le enormi fattorie collettive e statali in agricoltura e le immense imprese industriali non avevano sufficienti risorse finanziarie per funzionare. La scienza economica non era di casa in Russia. Non poteva bastare la leva del "volontarismo" soggettivo o collettivo. Alla fine "i risultati sarebbero stati di gran maggiori senza Stalin" (p. 143).
Insomma per Medvedev fu la gigantomania e l'eccessiva forzatura dei ritmi a produrre risultati molto discutibili, che ovviamente lo stalinismo non volle mai ammettere. Eppure fu proprio col primo piano quinquennale che l'industria pesante poté mettere radici, e queste furono solide, definitive, poiché, una volta tracciata la via, non si poté più tornare indietro.
Dunque in che senso la crescita dell'economia fu rallentata? Secondo noi non per motivi di mole o di ritmi, cioè non per motivi quantitativi, che pur erano particolarmente assurdi. Semmai si sarebbe potuto dire che il take off industriale fu pagato pesantemente dalle nuove condizioni di vita delle masse rurali, che col tempo divennero terribili.
Tuttavia anche questo aspetto andrebbe spiegato bene. Infatti chiunque sia favorevole a uno sviluppo industriale (sia esso in senso capitalistico o socialistico), sarà sempre indotto a dire che, in virtù di tale sviluppo, miglioreranno enormemente le condizioni di vita degli agricoltori.
Quindi è proprio questo il punto. Erano i fatti a dimostrare che, in tutto il territorio della nuova URSS, le condizioni di vita dei contadini tendevano a peggiorare continuamente e in maniera piuttosto grave, proprio perché il governo aveva favorito enormemente l'industrializzazione e l'urbanizzazione, a scapito dell'agricoltura e delle comunità locali dei nativi. Si era erroneamente convinti che, eliminando la frammentazione delle piccole aziende rurali, ovvero concentrandole il più possibile in poche unità colossali, dove tutto era centralizzato, la resa produttiva, grazie ai mezzi industriali, sarebbe stata infinitamente superiore.
Domanda: l'industria si sarebbe potuta sviluppare meglio, usando meno fretta e rinunciando ai progetti faraonici? Può darsi. Noi però sappiamo con certezza che a nessun leader bolscevico venne in mente di tutelare l'autoconsumo delle comunità agricole autogestite. Queste comunità dovevano acquisire mezzi industriali e produrre per le città, senza se e senza ma. L'esigenza quantitativa doveva prevalere su quella qualitativa, così come il progresso sulla tradizione. La principale differenza tra stalinisti e antistalinisti stava unicamente nei ritmi con cui decidere la transizione.
Man mano che le comunità di villaggio, a conduzione familiare o associata, venivano trasformate in colcos (in cooperative) o in sovcos (imprese statali), la tradizione veniva snaturata, la natura violentata, il passato nettamente subordinato alle esigenze del presente.
Tutti i leader bolscevichi furono dei colonialismi nei confronti degli agricoltori (e anche degli allevatori). Si creavano contraddizioni tali per cui il Paese si indeboliva non solo sul piano economico, ma anche su quello della coesione sociale.
Ufficialmente si diceva che un'industrializzazione accelerata e una collettivizzazione forzata erano dettate dall'esigenza di far fronte ai pericoli di un accerchiamento capitalistico del Paese.35 Alla resa dei conti però furono proprio quei due aspetti a indebolirlo maggiormente. L'URSS non aveva solo bisogno dell'industria per dotarsi di armi moderne, ma anche di un certo "affiatamento sociale" con cui affrontare le nazioni nemiche. Lo stalinismo diede la massima rilevanza alle questioni meramente quantitative, dimenticando l'eccezionale importanza che in ogni guerra ha il "fattore umano".
Se il nazismo non fosse stato sommamente dittatoriale; se non avesse avuto atteggiamenti razzistici nei confronti delle popolazioni slave; se fosse stato capace di crearsi un certo consenso con la propaganda mediatica, di sicuro avrebbe vinto. Nel 1941 lo stalinismo era sommamente odiato, e non solo dai contadini e dalle comunità native, non solo dalle realtà etniche e nazionali, ma anche da tanti soggetti residenti nelle città (intellettuali, militari…). Non ci sarebbe stato alcun motivo per difendere lo stalinismo, proprio perché con questa ideologia si era distrutto uno Stato plurinazionale a vocazione rurale.
La Russia aveva sì bisogno di un'industria con cui produrre un moderno materiale bellico, ma soprattutto aveva bisogno che tra popolazione e governo ci fosse un rapporto di fiducia, e questo lo stalinismo non seppe mai garantirlo.
Le origini del piano opposto al mercato
Come spesso succede, quando si vuole industrializzare una nazione, occorre che i contadini ne paghino il prezzo. I bolscevichi la pensavano nella stessa maniera: in tal senso erano "occidentalizzati".
L'industria non può svilupparsi (e con essa lo Stato centralista, con la sua burocrazia e il suo esercito, per non parlare delle sue città) se il mondo rurale non viene completamente trasformato. In particolare vi è necessità che molti contadini diventino operai di fabbrica.
La produzione agricola deve essere finalizzata anzitutto a un mercato, che può essere libero o regolamentato, e solo secondariamente può porsi al servizio dell'autosussistenza del produttore diretto e della sua famiglia. Inoltre l'intero comparto rurale deve acquistare i macchinari provenienti dall'industria per ottenere una resa dei terreni più significativa a livello quantitativo. La categoria della "quantità" fa diventare "qualitativo" anche ciò che non lo è.
Nel capitalismo, quando si produce per un mercato, l'agrario sceglie le colture più convenienti e, grazie ai macchinari (trattori, ecc.), tende a ridurre il personale salariato. Di qui l'emigrazione di grandi masse rurali verso le città, ove sono presenti le industrie che garantiscono un certo reimpiego della manodopera in esubero. L'emigrazione può essere interna alla nazione ma anche esterna, verso altre nazioni.
Nella fase iniziale del capitalismo i mercati sono liberi, ma quanto più il capitalismo si sviluppa, tanto più vengono monopolizzati da poche imprese. In una fase ancora successiva il capitalismo si internazionalizza, scegliendo i luoghi migliori del mondo per fare profitti (compatibilmente alla competizione tra le multinazionali, protette dai rispettivi Stati), o addirittura per riprodursi solo sul piano finanziario (come succede oggi in occidente).
Nel socialismo statale non esistono imprese industriali autonome; al massimo la loro gestione viene affidata, sotto varie condizioni, a dei privati, che così diventano una sorta di affittuari alle dipendenze dello Stato.
In Russia la rivoluzione bolscevica aveva avuto successo perché erano state immediatamente nazionalizzate e redistribuite ai contadini poveri le terre della corona, delle varie confessioni religiose e dei grandi nobili che avevano sostenuto la controrivoluzione. Processi simili si erano già visti durante le rivoluzioni borghesi in Europa occidentale, anche se qui, spesso e volentieri, le terre confiscate venivano messe all'asta al migliore offerente, e su queste vendite lo Stato ricavava una propria percentuale.
In Russia tale espropriazione (assai diversa da quella, del tutto farlocca, che pose fine al servaggio, regolamentata dallo zarismo nella seconda metà del XIX sec.) aveva tolto dalla miseria milioni di persone, ma di per sé non poteva contribuire a uno sviluppo vero e proprio dell'industria.
è vero che i bolscevichi avevano avuto la meglio nella guerra civile e contro l'interventismo straniero proprio perché erano stati sostenuti dai contadini che si sentivano finalmente proprietari di un pezzo di terra. Ma è anche vero che, dopo la vittoria, i bolscevichi furono costretti a permettere ai contadini di comportarsi come agrari capitalisti, evitando loro i prelievi forzati come al tempo del cosiddetto "comunismo di guerra". La NEP voluta da Lenin permetteva ai coltivatori diretti di nuova formazione di arricchirsi come gli agrari capitalisti di un tempo.
Tale situazione andò avanti sino alla fine degli anni '20. Poi lo stalinismo impose una svolta decisiva, dettata dal fatto che l'industria non si stava sviluppando. Cominciò a farlo al XV Congresso del partito, nel dicembre 1927. Le esigenze statali di pianificazione quinquennale economica richiedevano una gestione collettivizzata delle terre, al fine di sapere in anticipo quanto grande sarebbe stata la produzione (la cui diversificazione tipologica delle colture andava decisa dall'alto) e quindi su quante risorse l'industria potesse contare.36
Una delle differenze fondamentali tra leninismo e stalinismo stava proprio in questo, che per l'uno la famiglia contadina andava convinta con l'esempio che una conduzione individuale dell'impresa agricola sarebbe stata meno efficiente di una collettivizzata; per l'altro invece ci volevano le maniere forti per far capire la stessa cosa. La pedagogia stalinista si basava su minacce, ricatti, intimidazioni… La differenza era proprio nell'approccio metodologico del problema.
Per imporre la collettivizzazione, lo stalinismo aveva bisogno di vari pretesti: per es. che i contadini benestanti fossero virtualmente anticomunisti e che, prima o poi, avrebbero scatenato una nuova guerra civile; oppure che i Paesi capitalisti, vedendo una Russia debole sul piano industriale, ne avrebbero approfittato militarmente per trasformarla in una colonia.
In fondo che cos'era lo stalinismo? Era la pretesa di industrializzare in fretta un Paese prevalentemente agricolo, dando per scontato che tutto quanto viene statalizzato sia migliore di qualunque gestione privata dell'economia. La collettivizzazione agricola doveva coincidere con la sua statalizzazione (di cui la cooperazione, tipica dei colcos, era solo un aspetto, una variante sul tema), per cui non poteva che essere un processo violento, condotto in maniera amministrativa e, all'occorrenza, poliziesca e militare.
Lo stalinismo usava il concetto di "statalizzazione" al posto di quello di "socializzazione", o comunque faceva coincidere i due concetti dal punto di vista dello Stato, considerato come una sorta di deus ex machina. Non credere alle istanze superiori dello Stato significava, eo ipso, essere anticomunisti, "nemici del popolo". In sostanza non si volevano mettere in discussione i due primati economici di tipo capitalistico: quello dell'industria sull'agricoltura e quello della città sulla campagna. In questo il trockismo la pensava nella stessa maniera.
L'unica differenza tra socialismo statale e capitalismo privato stava nel fatto che il piano quinquennale doveva sostituire la libertà di mercato: si parlava infatti di cessione forzosa dei cereali, di prezzi fissati dallo Stato, di imposizione dello scambio diretto con altri prodotti, di riscossione anticipata delle imposte, di corresponsabilità dell'intero villaggio in rapporto ai livelli produttivi prestabiliti, e altre assurdità del genere.
All'intero mondo contadino non era solo vietato arricchirsi usando mezzi tecnici avanzati, ma anche basarsi sull'autoconsumo usando mezzi limitati, rispettosi delle esigenze riproduttive della natura. Chi dettava legge era un partito politico di intellettuali sradicati, preposti a gestire uno Stato centralizzato e uno sviluppo il più possibile industrializzato e urbanizzato dell'intera Federazione. Una pura follia in nome del socialismo.
I contadini potevano avere voce in capitolo solo nella misura in cui rispettavano i diktat produttivi, sul piano qualitativo e quantitativo, provenienti dal Ministero specifico.
In una situazione del genere la potenza di uno Stato non si rafforza ma s'indebolisce, poiché, nel caso scoppi una guerra, i contadini potrebbero parteggiare facilmente per il nemico, senza poi rendersi conto, purtroppo, che i nemici esterni non sono migliori di quelli interni.
Il disastro del primo piano quinquennale
L'inizio delle clamorose assurdità dello stalinismo risale al XV Congresso del 1927, quando si decise di sostituire la NEP con un piano statale quinquennale (a partire dall'aprile 1929) per l'intera economia, con cui si doveva dare il nulla osta alle mostruose forzature inerenti all'industrializzazione accelerata, alla collettivizzazione agraria, rinunciando definitivamente all'ideologia bucharinista. I tre aspetti erano strettamente concatenati tra loro: infatti il primo dipendeva dal secondo, e per procedere in questi termini, bisognava togliere di mezzo il gruppo di Bucharin, ancora favorevole alla NEP.37
Lo stalinismo voleva essere una dittatura non solo politica ma anche economica e finanziaria. Quanto più il potere centrale trovava difficoltà a legittimarsi di fronte alle crisi economiche, tanto più aumentavano le direttive autoritarie, senza soluzione di continuità. Tutto poteva essere usato come pretesto per incolpare qualcuno, fossero dei leader politici o degli amministratori locali o un'intera classe sociale, come per es. quella dei kulaki (i contadini ricchi).
Trovare nello stalinismo qualcosa di positivo è fatica sprecata, anche perché tutti gli assurdi obiettivi del piano quinquennale andarono disattesi (molti di quegli obiettivi furono raggiunti solo negli anni '50). Lo stalinismo si nutriva di demagogia, alzava l'asticella degli obiettivi da perseguire sempre più in alto, in modo da poter dire che, se venivano realizzati, il potere, per sua natura infallibile, era riuscito a fare delle ottime previsioni; se invece il fallimento era evidente, voleva dire che bisognava ricorrere a delle epurazioni a carico dei disfattisti e dei sabotatori. Non c'era alternativa: o lodare il capo o fare autocritica. Sembrava di assistere a una forma di messianismo religioso.
Gli stalinisti non facevano altro che comportarsi come capitalisti statali, ovviamente non privati. L'obiettivo finale non era l'arricchimento personale delle élites al potere, ma la fruizione di un privilegio d'immunità, che avrebbe permesso, col beneplacito di Stalin e del suo staff più vicino, di compiere qualunque nefandezza possibile, di dare ordini che in una situazione normale sarebbero apparsi folli.
Non c'era nulla che potesse giustificare un piano economico così abominevole, che si cercò di realizzare facendo leva sulla forza poliziesca e militare, oltre che su quella ideologica, che tanto entusiasmava le nuove generazioni, convinte di realizzare il primo Stato socialista della storia, in grado di competere, nell'arco di pochi anni, coi più potenti Stati capitalisti del mondo.38
Era un'idea assurda non tanto perché nell'ambito del capitalismo il Paese che inizia a industrializzarsi non ha bisogno di ripercorrere tutte le tappe degli Stati precedenti, quanto perché il capitalismo aveva già provocato sconvolgimenti epocali, che sarebbe stato meglio non ripetere. In Europa occidentale le classi rurali e artigianali erano state distrutte e trasformate in operai industrializzati (nel migliore dei casi gli agricoltori erano diventati agrari capitalisti intenzionati a vendere sul mercato i loro prodotti monocolturali). L'autoconsumo era completamente scomparso. Il benessere dei Paesi occidentali era strettamente correlato con le pratiche del colonialismo, iniziato a fine XV sec. coi portoghesi diretti in Africa. I disastri ambientali cominciarono a farsi sentire con la prima rivoluzione industriale.
Ma poi soprattutto c'era un altro aspetto, volutamente ignorato dallo stalinismo: l'area asiatica della Federazione Russa non aveva mai avuto a che fare con la mentalità borghese. Imporre un'accumulazione originaria coi mezzi dell'industrializzazione capitalistica, cui si andavano ad aggiungere le forzature del collettivismo agrario, era una decisione assolutamente scriteriata, anche perché, invece di partire dall'industria leggera, che avrebbe permesso un benessere più diffuso, si volle partire da quella pesante, la quale, essendo tutta statalizzata, doveva soddisfare anzitutto la proiezione di potenza dello Stato sovietico, la sua pretesa indipendenza nella produzione delle proprie macchine.
La megalomania di Stalin era pari al suo completo distacco dalla realtà effettuale. In occidente il mito salvifico del macchinismo doveva servire per assicurare il massimo della potenza allo Stato e il massimo del benessere alla popolazione. Viceversa, di questa seconda cosa non importava nulla allo stalinismo.
Mi meraviglio che una persona equilibrata come Giuseppe Boffa arrivi a scrivere: "se non ci fosse stata l'idea del ‘socialismo in un solo paese' quello slancio non sarebbe stato possibile".39 Il socialismo in Russia non doveva essere costruito vantandosi di poterlo fare senza l'aiuto di nessun altro Paese (tant'è che il primo piano quinquennale ebbe bisogno dell'appoggio tecnico dell'occidente). Non ci si doveva rinchiudere orgogliosamente nel proprio isolamento, né si doveva pensare che tutti gli altri Paesi, se volevano diventare socialisti, dovevano seguire l'unico modello esistente.
Una specie di cataclisma
Se si dovesse fare un confronto su quale dei due processi storico-economici (industrializzazione accelerata e collettivizzazione forzata) ha provocato più danni alla Russia stalinista, sarebbe banale dire il secondo. Boffa usa aggettivi eloquenti: "terribile e tempestoso", "una specie di cataclisma" (Storia dell'Unione Sovietica, cit., vol. II, p. 70).
Traumi del genere avvennero anche nell'Europa occidentale, quando il modo di produzione capitalistico, formatosi nelle grandi città, riuscì a imporsi in tutte le campagne, trasformandole in colonie. è celebre la frase di Thomas More nell'Utopia (scritta nel 1516): "le pecore mangiano gli uomini". Voleva dire che la decisione degli agrari latifondisti di trasformare gli arativi in prativi per vendere la preziosa lana sul mercato, richiesta dall'industria tessile, aveva comportato l'espulsione di masse rurali salariate, che poi andavano in città a cercare lavoro come operaio o come minatore o come militare, e se non lo trovavano, sceglievano la migrazione oltreoceano.
Tale processo si verificò in tutti i Paesi europei che avevano imboccato la strada del capitalismo. Fu senza dubbio molto traumatico, poiché comportò la fine irreversibile del feudalesimo. Nel nuovo continente determinò addirittura la decimazione di intere popolazioni indigene.
Tuttavia il processo avvenne in Europa occidentale molto più lentamente che in Russia, dove il servaggio era stato abolito solo a fine '800. In molti casi la borghesia europea poté sfruttarlo, usando le masse contadine come manovalanza militare nelle proprie rivoluzioni anti-nobiliari e anti-clericali. In altri casi trasferiva i contadini in esubero nelle proprie colonie extraeuropee. In Italia, dopo il fenomeno del brigantaggio e dell'emigrazione, si formò al sud la criminalità organizzata.
Senonché tutto ciò non può essere minimamente paragonato a ciò che avvenne in Russia. Soprattutto su un aspetto assolutamente inedito: lo stalinismo s'incaricò di far avvenire il suddetto processo non in nome del capitalismo ma in nome del socialismo, cioè in nome di qualcosa che, teoricamente, doveva porsi come l'esatto opposto del modo di produzione borghese.
Ancora oggi è impossibile quantificare quell'immane disastro in tutte le sue proporzioni. Non ci sono sufficienti archivi, o sufficienti dati negli archivi rimasti, anche perché lo stalinismo tendeva volentieri a farli sparire o a falsificare le statistiche. Si sa soltanto che il processo fu irreversibile e che causò milioni di morti e danni incalcolabili. Anche quando finì il socialismo statale, non fu più possibile tornare indietro. E nessuno fu risarcito del danno ricevuto. Al massimo si ricevettero delle riabilitazioni post-mortem.
Sotto il leninismo si era definitivamente chiuso il Medioevo agrario, permettendo finalmente ai contadini d'impadronirsi della terra e di non essere più servi o salariati agricoli. Sotto lo stalinismo li si obbligò con la forza a lavorare in una maniera prefissata, facendoli ridiventare servi, non di un singolo agrario ma dell'intero Stato.
Tutto sbagliato
Negli anni 1924-28 il governo sbagliò completamente, nei confronti dei contadini, sia la politica fiscale che la fissazione dei prezzi per gli ammassi dei cereali. Invece di incentivarli a produrre di più, li si demoralizzò. E invece di prendere atto di questo errore, si passò a un arbitrio ancora più grande: la collettivizzazione forzata nel periodo 1929-32.
Nonostante ciò è assurdo accusare il solo stalinismo di questa involuzione autoritaria del sistema. Qualunque politica di accelerazione dello sviluppo industriale comporta un danno colossale per l'ambiente rurale.40 L'agricoltore, ricco o povero che sia, ha a che fare con processi naturali oggettivi, che impongono determinati ritmi di lavoro. La produzione avrebbe potuto accelerare questi ritmi solo a condizione d'introdurre la meccanizzazione negli strumenti lavorativi e, col tempo, una concimazione chimica dei terreni. Tale sfruttamento intensivo avrebbe davvero fatto bene all'agricoltura?
Purtroppo l'errore di fondo di tutti i dirigenti bolscevichi era quello di voler eguagliare i successi del mondo capitalistico euro-americano, al fine di dimostrare che il socialismo statale, acquisendo gli stessi risultati produttivi in poco tempo, era l'alternativa migliore al capitalismo privato. Si era convinti che il capitalismo privato, essendo solo supportato, non regolamentato, dallo Stato, era destinato a produrre contraddizioni esplosive, che, ad un certo punto, avrebbero comportato - come nella prima guerra mondiale - uno scontro epocale tra Stati capitalistici per la spartizione del mondo e che, in tale spartizione, la Russia sarebbe diventata, ancora una volta, un obiettivo da conquistare.
L'esigenza di una difesa efficace, dovuta alla errata convinzione di un attacco imminente da parte dei Paesi europei più avanzati, fu usata come pretesto per accelerare l'industrializzazione (soprattutto quella pesante) e per imporre la collettivizzazione, che di quella industrializzazione doveva svolgere il ruolo di mero supporto.
Insomma l'URSS, proprio in nome dell'industrializzazione, si trovò a sperimentare, in tempi molto brevi, gli stessi processi di accumulazione di capitali che in occidente avevano richiesto molto più tempo. E lo stalinismo era convinto di poter raggiungere gli stessi risultati grazie all'intervento diretto dello Stato nell'economia.
Capitalismo però vuol dire individualismo produttivo. La borghesia occidentale è convinta che il meglio di sé può darlo quando è libera di comportarsi come meglio crede. La borghesia occidentale vede lo Stato come uno strumento utile per aumentare i propri profitti e interessi. Al massimo lo Stato può servire per regolamentare le contraddizioni del sistema, ma fino a un certo punto, in quanto la borghesia produttiva non vuol fare la parte, in tale regolamentazione, di un soggetto che vede calare i propri profitti.
La borghesia è individualistica nel senso che è abituata a vedere le altre classi sociali come soggetti da sfruttare, o direttamente o tramite alleanze. Non solo, ma all'interno della stessa borghesia i settori più avanzati o più competitivi (perché più attrezzati sul piano tecno-scientifico o per altre ragioni) tendono a fagocitare o a sottomettere tutti gli altri settori. Quindi gli Stati devono porsi al servizio principalmente dell'alta borghesia, che può essere quella dell'industria più sofisticata o della finanza più imponente.41 Sono questi settori privilegiati che formano trust, cartelli, monopoli e che scatenano guerre regionali o mondiali, inventandosi, di volta in volta, nuovi nemici da eliminare o sottomettere.
Un'eccessiva burocratizzazione dei processi economici è sempre vista dalla borghesia in maniera molto sfavorevole. La borghesia ha bisogno di uno Stato che la protegga dalla concorrenza delle borghesie di altri Stati, e che allo stesso tempo la favorisca nella competizione mondiale. è in forza di questa contraddizione evidente che si generano le guerre. Tutte le borghesie nazionali han bisogno di mercati internazionali, ma siccome il pianeta ha confini limitati, le guerre sono inevitabili.42
In nome di questa convinzione, tramite la quale lo stalinismo voleva far credere che una guerra fosse sempre dietro l'angolo, si sono trasformati tutti i lavoratori in servi dello Stato; dopodiché si sono distinti, tra questi servi, quelli più importanti (gli operai industrializzati) da quelli meno importanti (i contadini). Naturalmente questa sorta di neo-feudalesimo tecnologico poteva sussistere solo dando allo Stato degli enormi poteri dirigenziali, caparbiamente difesi da organi polizieschi, militari e giudiziari.
Quando nel 1941 scoppiò in Russia la guerra, cioè molti anni dopo ch'era stata prevista, la situazione economica era già catastrofica: le contraddizioni create dall'industrializzazione accelerata e dalla collettivizzazione forzata avevano causato, mediante le repressioni di massa o le carestie, milioni di morti. Il numero esatto non lo si saprà mai. Il Paese era già stremato al proprio interno, per motivi assolutamente endogeni, quando i nazisti decisero di occuparlo. Non subì una sconfitta immediata solo perché Hitler aveva pensato di poterlo occupare con la stessa facilità con cui, usando gli stessi mezzi e metodi, aveva occupato i Paesi europei, giudicati più avanzati della Russia, il cui unico punto a favore era l'incredibile estensione geografica.
Hitler era talmente convinto di una vittoria, in tempi molto brevi, che non fece alcuna campagna mediatica prima di sferrare l'attacco militare. Non si preoccupò, se non in Ucraina, di avere dalla sua parte quegli elementi politici che nutrivano idee anti-sovietiche, anti-polacche e antisemitiche. Hitler sapeva due cose: che Stalin aveva eliminato gran parte del proprio Stato Maggiore, e che la popolazione era stanca del socialismo statale.
Tutti sanno che se una popolazione vuole vincere una guerra, deve essere convinta che il proprio governo merita d'essere difeso. Tale convinzione, però, deve averla prima che scoppi la guerra, quando il governo possiede tutte le condizioni per dare il meglio di sé. Questa convinzione il popolo sovietico non poteva certo averla. Diciamo che se la fece strada facendo, a guerra già iniziata, quando prese atto che il nazismo non era assolutamente migliore dello stalinismo. L'odio razziale che i tedeschi provavano nei confronti dei russi e degli slavi in generale contribuì sicuramente a organizzare una resistenza di massa che, a partire dalle tre principali città sotto assedio (Mosca, Leningrado e Stalingrado), non prevedeva alcuna forma di arretramento.
Non è solo una questione di armamenti
Giuseppe Boffa ha pienamente ragione quando scrive, nella già citata Storia dell'Unione Sovietica (1928-41), che "l'industrializzazione e la collettivizzazione provocarono tali conflitti interni… da porre il paese nelle condizioni meno propizie per resistere a un'eventuale aggressione straniera" (p. 37).
Lo dice perché per tutto il primo piano quinquennale uno dei fattori che accompagnarono l'intero sforzo d'industrializzazione fu proprio quello di porre la massima attenzione a quei settori dell'economia da cui dipendeva la capacità difensiva del Paese. Detto altrimenti: Stalin fece dell'obiettivo della potenza militare uno dei pretesti per accelerare l'industrializzazione e la collettivizzazione. Solo che, paradossalmente, ottenne l'effetto opposto. A causa delle sue interne contraddizioni la Russia rischiava non solo una nuova guerra civile o un conflitto di lunga durata tra le tante regioni o etnie o nazionalità (e tra queste e il potere centrale), ma anche che, in una guerra contro un nemico esterno, le forze oppresse dallo stalinismo passassero dalla parte del nemico.
Ciò induce a fare serie riflessioni. Gli anni della guerra civile e dell'interventismo straniero non furono vittoriosi per i bolscevichi e per chi li appoggiava non tanto perché sul piano militare si possedevano mezzi più efficaci o anche solo equivalenti a quelli del nemico. I mezzi erano quegli stessi usati dallo zarismo per partecipare alla prima guerra mondiale. Anche per le potenze occidentali era così. Non era cambiato proprio nulla sul piano della potenza di fuoco, dall'inizio degli anni '20 sino alla fine di quel decennio. Ci vorrà infatti un altro decennio perché le forze armate cominciassero a basarsi su carri armati, aviazione e quant'altro. La Russia non aveva vinto perché più forte militarmente, ma perché le grandi masse contadine e il proletariato industriale avevano capito che se il nemico avesse avuto la meglio, le loro condizioni sociali e materiali sarebbero state peggiori.
Tuttavia col primo piano quinquennale questa certezza non era più così cristallina. Soprattutto la classe rurale aveva netta la percezione che si stesse tornando al cosiddetto "comunismo di guerra", dove le forzature erano all'ordine del giorno.
Questo per dire che per vincere una guerra, interna o esterna, non basta puntare sul livello degli armamenti. Non conta neppure essere uno Stato geograficamente enorme. I tataro-mongoli non conquistarono Russia e Cina usando i cannoni. è vero, gli spagnoli, per occupare quasi tutta l'America Latina, avevano armi da fuoco, ma numericamente erano poche centinaia (come i portoghesi in Brasile o in Angola e Mozambico): poterono vincere solo perché seppero sfruttare i gravi antagonismi interni a quelle popolazioni.
Gli sparuti inglesi, che si erano massacrati da soli nella guerra secolare contro i francesi, nella guerra delle Due Rose e nella lunga rivoluzione borghese, riuscirono a dominare l'India, il Nord America, il Canada, il continente australe e mezza Africa (mentre l'altra metà se la presero i francesi) usando soprattutto una spietatezza inusitata, una perfidia che non s'era mai vista.
Certo, nel colonialismo europeo il livello delle armi poteva essere qualitativamente diverso rispetto a quello dei popoli da sottomettere, ma non era questo che, in ultima istanza, permetteva la vittoria. Per vincere o per resistere a un'aggressione esterna occorre anche una certa coesione interna; occorre che le masse si fidino dei loro statisti e dirigenti politici. Devono poter credere che non verranno tradite. Si guardi per es. che magnifico esercito di liberazione popolare, composto di soli partigiani, seppe costruire Tito in Jugoslavia, tenendo testa alle armate tedesche e italiane.
Politica ed ecologia
Fino al 1991 è esistito un sistema socialista mondiale, che sicuramente faceva molta paura ai poli dell'imperialismo mondiale: Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone.
Oggi invece esiste un "occidente collettivo", dove quasi tutto il capitalismo è in mano ai privati. Gli si contrappone un capitalismo statale e un socialismo mercantile. La paura degli occidentali non è diminuita ma aumentata. Infatti vengono colpiti non con gli strumenti dell'ideologia socialista ma con gli stessi dell'economia borghese, che contrappone il capitalismo statale a quello privato.
Al tempo del socialismo sovietico si facevano queste curiose statistiche: nel 1919 il socialismo era una realtà solo in Russia; il posto che occupava nel mondo era determinato dal 16% della superficie terrestre e dall'8% della sua popolazione. L'URSS produceva solo l'1% del PIL mondiale.
Verso però la metà degli anni '80 vi erano almeno una quindicina di Stati socialisti in tre continenti: Europa, Asia e America latina. La superficie superava il 26% e la popolazione era di circa il 33%. Il socialismo produceva il 40% del PIL mondiale.
Oggi tutti questi dati non hanno alcun senso, non esistendo più alcun sistema socialista mondiale. è stata una tragedia? Per molti sì. In realtà questo crollo va visto positivamente: le esperienze negative devono fallire, affinché si possa ricominciare su basi completamente nuove.
Con molta superficialità e supponenza abbiamo misurato l'efficienza di tale socialismo statale sulla base di parametri economici tipicamente capitalistici. Anzi, con molta vanità si è stati convinti che l'espansione del socialismo dipendesse dalle acquisizioni politiche degli Stati nazionali centralizzati, ideologicamente ben caratterizzati.
Ora questa ipocrisia è finita, non perché sappiamo come costruire una nuova esperienza socialista, ma perché sappiamo che quella costruita in precedenza non aveva nulla di democratico, e non l'aveva a prescindere dalle caratteristiche soggettive dei vari dirigenti politici. Al massimo vi erano le buone intenzioni, che però, al momento di metterle in pratica, si erano rivelate in tutta la loro pochezza illusoria.
Bisogna che qui ci si convinca di un fatto ormai divenuto incontrovertibile: per costruire il socialismo democratico si deve prescindere dalle conquiste tecnico-scientifiche. La tecnologia avanzata può servire ma può anche non servire. Non è obbligatoria. La decisione finale, relativa al suo utilizzo, può essere presa solo mettendola in relazione all'impatto ch'essa ha o può avere sull'ambiente. Tentare di separare le questioni politiche da quelle ecologiche, oggi può portare soltanto a un fallimento sicuro di qualunque obiettivo rivoluzionario.
Noi dobbiamo cominciare a osservare attentamente quelle esperienze di socialismo democratico che sono tali anche nei confronti delle risorse naturali. Cioè il modo in cui si gestiscono tali risorse deve essere preso in considerazione per capire come realizzare il socialismo democratico anche sul piano politico.
Il rispetto per le esigenze riproduttive dell'ambiente naturale non può più essere considerato un aspetto di secondaria importanza in rapporto alla politica democratica, o un problema che si risolve da solo, come un effetto automatico di una certa politica democratica. Sappiamo benissimo che questo non è affatto scontato.
Le questioni ecologiche oggi hanno un'importanza tale che qualunque decisione venga presa in qualunque altro campo, va considerata irresponsabile, se non tiene conto delle inevitabili ricadute ambientali.
Il parametro del PIL
Il parametro quantitativo del PIL è deleterio nel misurare l'effettivo benessere di una popolazione. Anzitutto bisognerebbe distinguere tra produzione economica e benessere sociale, dando a quest'ultimo una netta prevalenza sull'altra. Non si è più "benestanti" quanto più si è ricchi, ma quanto più l'essenziale per vivere non manca, e soprattutto quanto più questo essenziale è equamente distribuito tra tutta la popolazione.
Gli individui non devono sentirsi in competizione tra loro. Le diverse attitudini al lavoro, nella scelta degli interessi da coltivare, devono avere come finalità lo sviluppo del bene comune. Altrimenti si formano gelosie, invidie, risentimenti… Nell'ambito del socialismo vanno evitate con cura le impressioni che qualcuno sia privilegiato.
è evidente che è la natura a porre le differenze tra un individuo e l'altro, ma le circostanze della vita non devono accentuarle, anzi, sta alla società nel suo insieme indirizzarle verso un beneficio collettivo.
Non dimentichiamo che se i beni essenziali per sopravvivere sono facilmente individuabili (relativamente all'alimentazione, al vestiario e all'abitazione), tutto il resto invece riguarda una certa complessità, in quanto la creatività umana, potenzialmente, non ha limiti. è questo che differenzia l'essere umano dall'animale. Si pensi solo allo sviluppo delle arti, dei mestieri, dei linguaggi, degli sport, dei passatempi… Questi aspetti, che riguardano la qualità della vita, sono decisamente superiori a quelli di tipo quantitativo, che devono soddisfare esigenze simili a quelle del mondo animale. è gratificante poter apprendere un'arte da chi già la conosce, senza doversi sentire in obbligo di ricambiare il favore. La gratuità dovrebbe diventare una regola comune nell'ambito del socialismo.
Non dimentichiamo anche che su questo pianeta dobbiamo soddisfare bisogni materiali che potrebbero essere molto diversi da quelli che incontreremo in una dimensione universale, anche se in questa dimensione potrebbero essere non molto diversi gli aspetti che qualificano il benessere umano, sociale ed esistenziale. Questo perché il meglio che abbiamo appreso o creato in questo pianeta e che ci ha riempito di soddisfazioni, non potrà andare perduto, se compatibile con le esigenze altrui di libertà e giustizia.
Quali tipi-ideali burocratici
Bisognerebbe studiare l'idealtypus di cittadino che più e meglio potrebbe apprezzare una configurazione sociale dove l'apparato burocratico dello Stato gioca un ruolo di assoluto rilievo.
Volkogonov infatti scrive che nell'URSS stalinista vigeva "una burocrazia totale indipendente da qualsiasi efficienza economica e dedita al culto dell'onnipotenza dell'apparato" (p. 599). E più avanti: "La gente ne è diventata parte integrante, è giunta perfino ad apprezzarlo" (ib.).
Solo una persona già frustrata di suo può apprezzare un'alienazione così istituzionalizzata. Dunque si tratta di capire chi, in astratto, potrebbe essere meglio predisposto, visto che, indicativamente, a nessuno piace sentirsi schiavo o servo di qualcuno.
è però difficile rispondere a questa domanda. Certo è che se uno ha ricevuto un'educazione autoritaria da parte dei genitori o dei tutori, può maturare il desiderio di riprodurre nella sua vita adulta questa forma di autoritarismo. Tuttavia si può anche maturare l'atteggiamento opposto, cioè quello di tipo anarcoide, insofferente a qualunque disciplina o obbedienza gerarchica, di stampo militaresco. Se prendiamo soggetti come Piotr Tkacev o Vladimir Majakovskij si fa fatica a dire che fossero entusiasti di rispettare l'autorità.
Chi usa un potere dispotico, può pensare che, abituando i propri subordinati a una disciplina ferrea, quest'ultimi diventino meno propensi a ribellarsi, più disposti alla rassegnazione. Al fine di poter dominare indisturbati, si può ovviamente far leva sulla paura di subire spiacevoli conseguenze, magari anche orribili, per sé o per i propri familiari.
Tuttavia basta guardare un po' la storia del genere umano per notare un fatto incontestabile: questo metodo psicopedagogico non appare sempre efficace come sembra. Prima o poi i popoli si stancano di obbedire, si ribellano, tradiscono il proprio governo chiedendo aiuto al nemico. Alla fine dell'impero romano i cittadini cominciavano a considerare "liberatori" quegli stessi popoli che fino a poco tempo prima chiamavano "barbari".
Inoltre Stalin non aveva ricevuto dai genitori un'educazione autoritaria. Semmai nella sua coscienza il problema psicologico era un altro. Lui era consapevole di non avere né il dono della scrittura raffinata né quello dell'oratoria pervasiva. Da giovane sapeva solo eseguire gli ordini che gli venivano impartiti, e contava di fare carriera sulla base di questa capacità esecutiva, che spesso metteva in atto con una certa spietatezza, in quanto era totalmente incapace di diplomazia. Pretendeva che gli ordini venissero eseguiti alla lettera e senza indugi. E bisogna ammettere che, finché non ebbe un potere rilevante, questo atteggiamento estremistico fu tollerato, anche perché quando si compie una rivoluzione popolare o si è alle prese con una guerra civile, non si va tanto per il sottile. Stalin andava bene nelle situazioni limite, certamente non in quelle ove occorreva ponderazione, misura, circospezione e, soprattutto, capacità interlocutoria, mediativa. Le persone spicciative non sono in grado di governare o gestire situazioni complesse: non ci vuol molto a capirlo. Eppure molti fecero finta di niente, e loro stessi ne pagarono le conseguenze.
Stalin conosceva benissimo i propri limiti e fece di tutto per nasconderli, eliminando chi li conosceva altrettanto bene. Era un soggetto vendicativo, altamente intollerante, adattissimo a creare uno Stato totalitario. Chi lo rispettava senza discutere, doveva per forza essere come lui.
Dunque per amare l'apparato statale, bisogna provare un certo risentimento nei confronti delle persone che si frequentano. Il potere burocratico serve per riscattarsi e per esercitare una forma di vendetta personale. Quando si trova soddisfazione in questo atteggiamento, nasce un habitus mentale che non va più via, una specie di "seconda natura" che si manifesta nei confronti di chiunque, senza particolari problemi di coscienza. Si diventa come quei killer a pagamento che si vedono nei film americani e che dicono alle proprie vittime, prima di ucciderle: "Niente di personale".
Senonché queste sono sempre considerazioni psicologiche, che inevitabilmente lasciano il tempo che trovano. Per costruire uno Stato totalitario, sommamente burocratico, composto da decine di milioni di persone, ci vuole ben altro. In fondo in apparati del genere quelli che comandano sono infinitamente di meno di quelli che obbediscono. Quindi le motivazioni di una sudditanza del genere vanno ricercate più nella sociologia o nella psicologia sociale che non nella psicopatologia.
è importante sottolineare questo aspetto, poiché non ha senso attribuire al solo stalinismo la causa che ha generato lo Stato totalitario o che ha contribuito a realizzare il socialismo statalizzato; anche perché queste forme di Stato o di socialismo sono peculiari della Russia o della Cina o di qualche altro Paese asiatico, ma non si trovano nei Paesi occidentali, caratterizzati da un certo sviluppo della borghesia, e quindi da un certo sviluppo (spesso abnorme) dell'individualismo.
Ovviamente anche in Europa abbiamo avuto delle dittature in ambito borghese, ma si tratta di casi rari, per lo più finalizzati a obiettivi specifici, come per es. la nascita del capitalismo, lo sviluppo del colonialismo, le guerre interimperialistiche, la minaccia del comunismo, e così via. Generalmente la borghesia, una volta che si è stabilizzata o imposta come classe sociale, preferisce la democrazia formale, quella rappresentativa a livello nazionale.
Viceversa in Russia o in Cina la classe che ha più favorito la nascita dello Stato totalitario è stata quella rurale, che allora era assolutamente dominante sul piano demografico. Non essendo, nella sua grande maggioranza, una classe di tipo borghese, quella rurale, abituata al collettivismo da tempi immemorabili, e per di più capace di sopportare una certa ristrettezza materiale, le difficoltà economiche, era la più adatta a far coincidere socializzazione con statalizzazione.
A questa considerazione si deve aggiungere che il livello culturale era molto basso, per cui i contadini tendevano a non discutere con chi esibiva capacità intellettuali. Se decidevano di opporsi, lo facevano con gesti concreti, con atti pratici, la cui gravità veniva sempre pagata duramente, proprio perché il potere dittatoriale ama sempre "dare l'esempio".
Quindi, mentre in teoria gli agricoltori non avrebbe dovuto favorire lo Stato totalitario, in quanto il contatto con la natura in genere non rende alienati, di fatto le precedenti esperienze collettivistiche, vissute da tempi ancestrali, vennero sfruttate ideologicamente da intellettuali che si presentavano come rivoluzionari rispetto ai limiti del feudalesimo.
Paradossalmente le basi per edificare il socialismo statale non vennero poste soltanto dal proletariato industriale, ma anche e soprattutto da quello agricolo (senza poi considerare che tutti gli operai altro non erano che ex contadini). Lo stalinismo non ha fatto altro che sfruttare una situazione di fatto. Doveva soltanto eliminare gli strati rurali più benestanti (i kulaki), e ridurre a obbedienza quelli medi, che, a differenza di quelli più poveri, avrebbero fatto fatica ad accettare una forzata collettivizzazione.
Tutto ciò per dire che quando si creano delle mostruosità, anche il popolo minuto deve chiedersi se per caso non ne sia in qualche modo responsabile.
Classi sociali e costrizioni statali
Non si può processare in tribunale un'intera classe sociale. Nel corso del primo piano quinquennale fu relativamente facile eliminare i contadini ricchi (kulaki). Più difficile fu costringere i contadini medi ad associarsi in cooperative (colcos). Chi, tra i kulaki, non accettava d'essere irreggimentato, veniva espropriato, deportato in Siberia, incarcerato, giustiziato.
Immaginiamo cosa succederebbe in Italia se, dopo una rivoluzione socialista, il governo decidesse che nessuna azienda rurale può possedere più di 10 ettari di terra coltivabile. Supponiamo che 10 ettari siano il minimo indispensabile per far sopravvivere un'intera famiglia. Ora, risulta evidente che chi, prima della rivoluzione, aveva molti più ettari, non potrà più arricchirsi, non potrà più considerarsi benestante. Certo, l'intera popolazione nazionale può infischiarsene delle lagnanze di questa infima minoranza. Ma se non si vogliono creare i presupposti per una controrivoluzione, bisogna affrontare caso per caso e vedere quali soluzioni ottimali si possono trovare: per es. tutti i 10 ettari di questo possidente vengono lavorati o lo sono soltanto in parte? Vengono lavorati con macchinari avanzati o a mano? Vengono impiegati operai agricoli o no? A questi operai lo Stato o una qualche cooperativa agricola ha offerto delle alternative o no? La terra viene lavorata rispettando le esigenze di ecosostenibilità? E così via, in maniera molto pragmatica.
Comunque in Russia il vero problema era un altro. La rivoluzione non aveva solo nazionalizzato la terra, eliminato i latifondi privati, costretto i contadini a requisizioni forzate durante la guerra civile e l'interventismo straniero (tutte cose necessarie o inevitabili); ma, con lo stalinismo, aveva anche fatto una cosa molto spiacevole, che si sarebbe potuta tranquillamente evitare: aveva obbligato a produrre determinate derrate agricole, e a farlo secondo un prezzo d'acquisto imposto dallo Stato, il quale doveva redistribuire i prodotti nelle città.
Cioè da un lato si era fatta una giusta ripartizione della terra, in maniera tale che nessuna famiglia potesse restarne senza e affinché si ponesse fine al lavoro salariato. Dall'altro però si subordinò senza discutere la produzione agricola alle esigenze urbane e industriali.
Si promettevano ai contadini i mezzi meccanici con cui aumentare considerevolmente la produzione, ma poi l'industria non era così efficiente da poter garantire in tempi brevi tale promessa.
Ma c'è di peggio. Si diede per scontato che l'aumento della produzione tramite il macchinismo fosse un obbligo che i contadini dovevano rispettare in tempi brevi.
Per quale ragione si prese a etichettare col temine spregiativo di "piccolo-borghese" la famiglia rurale che praticava l'autoconsumo e che vendeva sul mercato solo le eccedenze? Chi viveva in città e non era occupato nell'industria poteva forse vantarsi d'essere "produttivo"? Marx avrebbe storto il naso. Agli occhi di un contadino o di un allevatore non era forse legittimo considerare le persone inurbate, non impiegate nell'industria, come dei meri parassiti? In ogni caso, anche se queste persone urbanizzate fossero state considerate "utili" dal contadino, che diritto avevano d'imporre la loro volontà sul mondo rurale? A che titolo erano in grado di rappresentare gli interessi degli agricoltori?
Da questo punto di vista bisogna dire che tutto il dibattito sovietico intorno alla collettivizzazione agraria era per lo più fuori strada. Quando lo Stato veniva incontro alle esigenze di autoconsumo delle famiglie contadine, era disposto a riconoscere una porzione di terra a uso personale del tutto insignificante. I contadini erano sostanzialmente ridotti a servi dello Stato, esattamente come gli operai. E la stessa cosa si verificava nei confronti degli intellettuali, obbligati a un atteggiamento conformistico nei confronti della narrativa dominante. La situazione non era molto diversa da quella medievale, dove le posizioni di rilievo erano detenute da imperatori, princìpi, signorotti feudali, maestri artigiani e naturalmente la Chiesa romana.
Praticamente il contadino sovietico veniva messo alle strette: se non era in grado di rispettare gli obiettivi prefissati a Mosca, doveva per forza associarsi in cooperative, rinunciando a un arricchimento tradizionale. Fu così che mentre nel 1928 solo l'1% dei contadini russi apparteneva a un'organizzazione collettivizzata, nel 1931 tale percentuale era salita al 50%. Il contadino doveva sottostare a un ricatto di tipo mafioso: "Ti permetto di produrre se accetti determinate condizioni, altrimenti, in un modo o nell'altro, non ti faccio più lavorare, e se ti azzardi a protestare, ti requisisco tutto e lo cedo a chi è più disposto a sottomettersi".
Sintesi sulla collettivizzazione forzata
Dopo la fine della guerra civile la Russia sovietica era passata da 143 milioni di cittadini, nel 1917, a 136 milioni nel 1922. Nel periodo 1914-22, tra guerra mondiale, rivoluzione bolscevica, guerra civile, interventismo straniero e le inevitabili carestie ed epidemie vi erano stati circa 16 milioni di morti.
All'inizio del 1921, in rapporto alla produzione d'anteguerra, quella agricola era scesa a poco più della metà, mentre quella industriale era solo il 12% (gli operai si erano ridotti da 4 a 1,5 milioni).
Dopo il periodo del "comunismo di guerra", in cui lo Stato era stato costretto a operare requisizioni di grano o a imporre prezzi politici per poter fronteggiare la crisi alimentare del Paese, Lenin, nel 1921, aveva dovuto avviare la "Nuova Politica Economica" (NEP) per impedire il collasso dell'economia. La NEP consisteva nella rinuncia alle requisizioni agricole; nel conferimento di alcune quote di grano allo Stato secondo un prezzo stabilito; nella possibilità di vendere sui mercati le eccedenze da parte dei contadini e di assumere manodopera salariata; nel favorire lo sviluppo di piccole imprese capitalistiche con meno di 21 dipendenti.
L'industria pesante, le banche e il commercio estero restavano invece di proprietà statale. Le maggiori potenze europee, interpretando la NEP come un ritorno al capitalismo, riconobbero ufficialmente il governo sovietico, anche se gli Stati Uniti lo fecero solo alla fine del 1933, mentre le relazioni diplomatiche con gli inglesi saranno nuovamente interrotte nel 1927.
Nel 1923 ci si era accorti che i prezzi dei prodotti industriali erano troppo alti rispetto a quelli agricoli, proprio a motivo di una differente crescita produttiva nei due settori (l'industria non aveva ancora un vero mercato nazionale, anche perché quella leggera era del tutto insignificante, sul piano sia quantitativo che qualitativo). S'intervenne a favore dell'agricoltura, ma, a partire dal 1925, per aumentare l'entrata di valuta straniera, con cui finanziare l'industrializzazione, il governo iniziò ad abbassare il prezzo che lo Stato pagava ai contadini per il grano destinato all'export. La conseguenza fu che nel 1927 la raccolta di grano per lo Stato era stata di tre volte inferiore rispetto all'anno precedente. Il Paese rischiava la fame.
La produzione agricola e il reddito nazionale erano tornati ai livelli d'anteguerra. Solo che a questi livelli l'industrializzazione non avrebbe mai potuto essere accelerata.
Nel 1927 i braccianti rurali e i contadini poveri erano circa il 30%; i contadini medi poco più del 60%; i contadini ricchi (kulaki) poco più del 3%. I contadini aderenti ai colcos (cooperative) e ai sovcos (fattorie statali) circa il 4%.
Di fronte ai successi e ai limiti della NEP il partito si spaccò in tre correnti:
- una, capeggiata da Bucharin, era favorevole a un arricchimento borghese dei contadini (la stragrande maggioranza della popolazione), con cui si sarebbe potuto finanziare una graduale industrializzazione del Paese;
- un'altra, capeggiata da Trockij, era favorevole a una industrializzazione statale accelerata, contro qualunque ritorno al capitalismo e anzi col proposito di esportare la rivoluzione all'estero, onde impedire che i Paesi industrialmente più avanzati potessero soffocare la rivoluzione: le risorse per realizzare questa strategia andavano prelevate da quelle contadine (soprattutto con le tasse) e da quelle naturali del Paese, ch'erano immense e sfruttate solo molto parzialmente;
- la terza corrente era capeggiata da Stalin, che nel 1922 era stato eletto segretario generale del partito e che, alla morte di Lenin, nonostante le affermazioni espresse nel suo "Testamento politico", non venne rimosso. Stalin era nettamente contrario alla cosiddetta "rivoluzione permanente" caldeggiata da Trockij, cui opponeva la teoria del "socialismo in un solo Paese", pur essendo favorevole a una industrializzazione accelerata da far pagare ai contadini.
La posizione centrista di Stalin ebbe la meglio, in quanto i quadri e i funzionari di partito, da un lato, erano stanchi di attendere una rivoluzione mondiale o anche solo europea che non arrivava mai; dall'altro, non si riconoscevano nei ritmi della società contadina tradizionale. Inoltre gli stalinisti sfruttarono il pretesto che l'URSS non era ancora stata riconosciuta da tutti i principali Paesi capitalisti, per cui ci si poteva aspettare un attacco militare.
Temendo che, se avesse appoggiato Trockij, la NEP sarebbe finita, Bucharin finì col sostenere Stalin, e così Trockij, nel 1927, fu espulso dal partito insieme a un centinaio di militanti, tra cui Kamenev e Zinov'ev, ed esiliato nel 1929.
Nel 1928 Stalin ripristinò le requisizioni dei cereali, scatenando, nel contempo, una campagna propagandistica contro i contadini più ricchi (kulaki), come se tutti i problemi del Paese si potessero concentrare in quest'unica classe. L'anno dopo, al fine di eliminare tutta la proprietà privata contadina, decise la collettivizzazione forzata dell'agricoltura, che consisteva nell'unificare velocemente milioni di aziende contadine private o in fattorie cooperative (colcos) o in fattorie statali (sovcos), la cui produzione veniva inserita nei piani statali quinquennali, riguardanti anche l'industria. Fu relativamente facile convincere gli strati più poveri dei contadini a optare per una requisizione forzata di tutti i beni degli strati più agiati.
Nei sovcos tutta la manodopera era statale ed era salariata, anche perché tutti i mezzi produttivi appartenevano allo Stato, per cui tutta la produzione apparteneva allo Stato. Nei colcos invece i cooperatori, pur non avendo la proprietà della terra, che restava statale, avevano in comune macchinari, scorte, bestiame... Essi dovevano consegnare allo Stato una parte del raccolto a prezzi politici; un'altra parte veniva accantonata come riserva e fondo di assistenza; un'altra ancora doveva servire per modernizzare gli impianti; infine l'ultima parte poteva essere venduta sul mercato o comunque usata privatamente. Nei tempi morti dei raccolti i contadini dovevano sottostare a prestazioni obbligatorie di servizi.
Bucharin e la sua corrente si opposero contro questa forzatura, ma furono tutti espulsi dal partito e molti di loro furono fucilati alla fine degli anni '30.
Verso la metà degli anni '30 circa 4,5 milioni di piccole imprese contadine erano state trasformate in colcos, su una superficie pari al 17,5% di quella coltivabile. Praticamente solo il 10% rimaneva di proprietà privata. Nel 1940 le famiglie rurali nelle aziende collettive erano diventate il 97% di quelle totali.
La resistenza contadina fu molto forte in Ucraina, Siberia occidentale, Basso Volga e Caucaso settentrionale. Essa avveniva sostanzialmente in tre modi: usando le armi, imboscando le derrate alimentari e macellando il bestiame.
La risposta del governo non si fece attendere: si decise che i kulaki dovevano scomparire come classe sociale e, se necessario, anche fisicamente. Un decreto del 1930 li divise in tre categorie: quelli armati (63.000 famiglie), i fiancheggiatori (150.000 famiglie) e i leali allo Stato. Per le prime due categorie era prevista la confisca dei beni, da consegnare ai sovcos, e la deportazione in Siberia (circa 1,8 milioni); gli ultimi erano invitati ad abbandonare le loro terre (circa 200.000 si trasferirono in città).
Nonostante questi provvedimenti, solo nel 1940 la produzione di grano recuperò i livelli del periodo della NEP. Il crollo del patrimonio zootecnico fu drammatico: dal 1928 al 1933 i capi di bestiame diminuirono più della metà e senza di essi veniva meno la forza motrice e il concime (le terre non erano ancora adeguatamente meccanizzate). Non a caso la crisi agricola del 1932-33 eliminerà circa 6-7 milioni di contadini.
Naturalmente quanto più l'agricoltura veniva collettivizzata a forza, tanto più era possibile procedere a una industrializzazione accelerata, anche perché l'apertura di nuovi impianti richiedeva manodopera ingente, tutta proveniente dalle campagne: tra il 1926 e il 1939 la percentuale degli operai salì del 100%.
La collettivizzazione rurale fu completata intorno al 1935, quando lo Stato consentì ai colcosiani di coltivare in proprio piccoli appezzamenti di terra (circa 4.000 mq) e di allevare anche animali di piccola taglia.
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Solo una persona completamente ignorante di agricoltura poteva pensare a una collettivizzazione forzata. E non c'era solo Stalin in questa condizione (il quale, tra l'altro, non aveva alcuna conoscenza professionale, non era abilitato ad alcuna specializzazione), ma tutto lo staff che lo seguiva da vicino.
Intellettuali imborghesiti (urbanizzati), abbacinati dai successi produttivi del macchinismo occidentale, pretendevano di far capire ai contadini come si doveva lavorare la terra. Non riuscivano neppure a capire una verità che negli ambienti rurali era lapalissiana, e cioè che se anche una famiglia allargata viveva fisicamente (logisticamente) separata o lontana da un'altra, vi era comunque un legame culturale, valoriale, esperienziale che le univa, una rete di fili invisibili che garantivano, nel bene e nel male, una certa solidarietà.
Il collettivismo che gli stalinisti avevano in mente era la trasposizione in campo rurale del lavoro operaio condotto in fabbrica, un lavoro monotono, ripetitivo e, sostanzialmente, alienante, in cui tutto veniva deciso dall'alto.
Nessun leader bolscevico riuscì mai a comprendere che la vita, quella vera, non quella frustrata, può essere vissuta solo in campagna, nei boschi, nelle foreste, e nelle praterie erbose se si è allevatori. Le città, al massimo, possono servire per un mercato locale, temporaneo, transitorio o per una fiera annuale con mercanti provenienti da luoghi remoti. O anche per il disbrigo di pratiche amministrative, non certo come luogo in cui risiedere quotidianamente.
La collettivizzazione non solo comportò lo sterminio dei contadini agiati, ma anche la irreggimentazione di tutti gli altri, che si trovavano a essere trasformati in operai agricoli salariati dallo Stato o da una cooperativa, in burocrati della terra, sottoposti a una disciplina militaresca, nell'ambito di un socialismo da caserma.
è semplicemente assurdo sostenere che se anche la collettivizzazione agricola fu una tragedia colossale, si riuscì comunque col primo piano quinquennale a porre le basi per una industrializzazione di successo, con cui poi sarebbe stato possibile fronteggiare le armate naziste e nipponiche.
Infatti la produzione bellica si sarebbe potuta costruire ugualmente senza sconvolgere le tradizioni rurali. Non c'era alcun bisogno di affrettare la costruzione di una società che doveva per forza emulare gli Stati capitalisti più produttivi. Non era quello il modello tecnologico da imitare.
Una rivoluzione davvero "socialista" doveva favorire il ritorno al comunismo primordiale, con l'aggiunta delle scoperte tecno-scientifiche più recenti. Prima si doveva puntare sullo sviluppo dei rapporti umani e naturali, e solo dopo ci si poteva porre il problema su come sviluppare l'industria, il macchinismo, la tecnologia, senza stravolgere tradizioni ancestrali, senza ferire mortalmente la dignità, l'amor proprio, l'identità di popolazioni che, fino a quel momento, tutto sommato, avevano vissuto pacificamente tra loro.
La dittatura si vince con la democrazia, non con una dittatura più forte. Aver vinto il nazismo non servì ai russi per avere uno stalinismo migliore.
Tutti possono essere criminali
Quando si leggono certe frasi, come questa del criminale Ežov43: "è meglio che dieci persone innocenti soffrano, piuttosto che ci sfugga una spia" (cit. a p. 413 dello Stalinismo, o.c.), viene istintivo relativizzare la differenza tra le varie ideologie politiche.
Infatti quella frase avrebbe potuto essere pronunciata anche da un nazista o da un sionista o anche da un qualunque politico o militare seguace dell'ideologia liberale del globalismo occidentale.
Lo stalinismo è in fondo la rappresentazione più plastica che, al cospetto di una qualsivoglia ideologia, ciò che conta non è l'ideologia in sé ma l'interpretazione che se ne dà, e quella di Ežov, come di tutti gli altri stalinisti, era indubbiamente da criminale.
Stalin dimostrò, da par suo, che il fatto di provenire da ambienti emarginati, con pochissima istruzione, non vuol dire assolutamente nulla: non offre patenti né per un senso etico delle cose, né per un cinismo senza scrupoli.
Non conta nulla da dove si proviene. Non è affatto vero che gli operai, solo perché non possiedono nulla, sono più disposti a compiere la rivoluzione politica. E non è neppure vero (guardando gli sviluppi dello stalinismo) che gli operai siano in grado, più di qualunque altra classe sociale, di impedire che la rivoluzione si trasformi in una dittatura.
Al massimo si può sostenere che in una dirigenza apicale, di partito o statale, sarebbe bene che non vi fossero persone improvvisate o che non hanno avuto il tempo di dimostrare che i loro frutti sono corrispondenti alle loro parole. Relativamente a questo tipo di coerenza, conta poco avere molta cultura o nessuna. Erano forse analfabeti Plechanov o Kautsky? No, eppure della rivoluzione bolscevica non capirono nulla. E Trockij, pur con tutta la sua eccelsa cultura, sarebbe stato molto diverso da Stalin? Con sicurezza potremmo dire di no, tant'è che molte tesi autoritarie di politica economica Stalin le prese proprio da Trockij.
Insomma, quel che più conta non è solo la volontà di cambiare le cose, ma anche di farlo in maniera democratica, disposti persino a cambiare profondamente se stessi, se necessario, senza lasciarsi condizionare da interessi di piccola bottega, o da interessi che, col popolo, non hanno nulla a che vedere. Bisogna avere uno sguardo ampio e un respiro profondo, quando si affrontano le contraddizioni del sistema sociale in cui si vive.
I contadini vanno rispettati
Considerare il proletariato industriale una classe speciale, migliore delle altre, solo perché non possiede nulla, si è rivelato illusorio, soprattutto perché questa classe non ha fatto nulla per proteggere i contadini. Naturalmente ci riferiamo a un periodo in cui in Europa aveva un senso parlare di "rivoluzione socialista". Oggi è tutto cambiato.
Non si è più altruisti di altri solo perché si è nullatenenti. Non si è neppure più intelligenti per la stessa ragione. Tra i due elementi non vi è un rapporto automatico di causa ed effetto. Quando in Che fare? Lenin disse che la coscienza rivoluzionaria agli operai andava data dall'esterno, in quanto loro si limitavano a una coscienza sindacale, si era appunto reso conto della mancanza di tale consequenzialità. Poi precisò che gli operai più consapevoli dovevano smettere di lavorare per un'azienda capitalistica, ma iniziare a lavorare per il partito rivoluzionario.
Per essere migliori, bisogna dimostrarlo concretamente, e questo tutti possono farlo. Anche l'intellettuale o l'artista o il soldato che vive del proprio stipendio può essere migliore di chi possiede qualcosa o di chi non possiede nulla, come appunto l'operaio industriale o agricolo. La condizione sociale, di per sé, non è in grado di garantire nulla. Ci vogliono atti concreti di altruismo, ci vuole l'intelligenza delle cose per dimostrare d'essere migliori. Gesù Cristo fece diventare suoi discepoli non solo dei pescatori ma anche un esattore delle tasse, particolarmente inviso al popolo: Matteo, uno degli evangelisti.
Può un operaio o un salariato agricolo, che nella sua vita ha studiato pochissimo o addirittura per niente, avere una visione d'insieme delle cose? Essere capace di lungimiranza? Marx pensava che un operaio, non possedendo alcunché, non avesse niente da perdere nel fare una rivoluzione contro il sistema capitalistico. Tuttavia per fare una rivoluzione ci vogliono leader politici, ci vuole tattica, strategia, organizzazione generale. Non ci s'improvvisa veri rivoluzionari solo perché si è sfruttati. Al contrario, si può anche diventare rassegnati, oppure si può protestare in maniera spontanea, istintiva, senza però cambiare di molto le cose. Il potere è sempre maledettamente furbo, e dispone di molti mezzi coercitivi e persuasivi.
E poi perché considerare l'operaio industriale migliore del salariato agricolo? Forse perché l'industria rappresenta il progresso, il benessere, la potenza di una nazione? Forse perché l'operaio ha più importanza del povero contadino analfabeta, pieno di pregiudizi religiosi? Ma la stragrande maggioranza degli operai industriali non erano forse stati, in precedenza, dei salariati agricoli o degli artigiani impoveriti? Davvero è più emancipato l'ex contadino che per diventare operaio di fabbrica, ha dovuto recidere il proprio passato, la propria cultura o tradizione ancestrale, la propria rete di relazioni sociali? Davvero è più organizzato, e quindi più potenzialmente rivoluzionario, l'operaio che lavora insieme ad altri operai in una fabbrica? Per quale motivo un operaio non potrebbe essere più ricattabile da parte dell'imprenditore?
Quante volte si è detto che nelle campagne, nonostante il duro sfruttamento, il contadino riesce comunque a sopravvivere? (Sempre che ovviamente non venga cacciato con la forza dal terreno in cui lavora: un'azione, questa, che gli agrari o i latifondisti facevano volentieri quando impiantavano monocolture per il mercato o quando trasformavano gli arativi in prativi per vendere la lana delle pecore).
Ma soprattutto su una cosa bisognerebbe essere un minimo onesti: prima della nascita dell'industria non erano forse i contadini che facevano le rivoluzioni? I movimenti pauperistici ereticali, nel Medioevo, da chi erano prevalentemente composti? E durante la riforma protestante, quando ancora le industrie non esistevano, chi erano i protagonisti? Solo i borghesi e gli artigiani? Quando i contadini tedeschi se la presero coi nobili, da che parte si misero Lutero e Thomas Müntzer, uno opposto all'altro? Di queste rivolte contadine il mondo è stato pieno sino alla rivoluzione industriale.
è vero, i contadini potevano lasciarsi raggirare dal clero, mettendosi, a seconda dei casi, dalla parte dei nobili contro la borghesia, o dalla parte della borghesia contro il proletariato industriale di ideologia socialista. Erano ingenui, ignoranti, ma andavano comunque rispettati, e non si può certo dire che lo stalinismo abbia saputo farlo. Quando iniziò a farlo Lenin, scandalizzò tutti i socialisti europei della II Internazionale.
Ogni pretesto è buono contro i contadini
Certo è che quando si sosteneva - come facevano gli stalinisti e i trockisti - che un Paese prevalentemente rurale come la Russia non avrebbe potuto raggiungere i livelli produttivi dei Paesi capitalisti senza l'aiuto del proletariato di tali Paesi; e quando si era costretti amaramente a constatare che non ci poteva essere alcun aiuto da parte di quei Paesi, in quanto le rivoluzioni comuniste in Europa occidentale erano fallite tutte; diventava piuttosto facile tirare una conclusione sfavorevole alle proprie masse rurali. Nel senso cioè che se non poteva essere la classe operaia occidentale a tenere in piedi la rivoluzione bolscevica che voleva industrializzare l'intera Russia, allora il maggiore onere contributivo sarebbe ricaduto sugli stessi contadini russi, destinati a essere enormemente tassati, oppure costretti, all'interno di una collettivizzazione forzata, a produrre secondo direttive calate dall'alto.
L'irrealizzabilità pratica, relativa alla "rivoluzione permanente", favorì nettamente l'idea stalinista del "socialismo in un solo Paese". Tra le due teorie dominava l'esigenza, che mai venne messa in discussione da nessuno, di procedere verso un'accelerata industrializzazione, con l'obiettivo di stare al passo dei principali Paesi capitalisti mondiali.
In quel frangente non si riuscì neanche lontanamente a sfiorare l'argomento di come costruire un socialismo autenticamente democratico senza fare dell'industrializzazione una catena per il mondo contadino. Il fallimento di questo assurdo progetto porterà poi Stalin e il suo staff a trasformarsi in autentici criminali.
Non si riuscì neppure a capire che negli Stati Uniti, per ottenere altissimi livelli di produttività agricola, ci vollero due cose: 1) potenti mezzi meccanici gestiti in maniera del tutto privatistica; 2) un sistematico genocidio delle popolazioni native, completamente e irreversibilmente espropriate di tutti i loro beni.
La distruzione delle civiltà rurali o nomadiche, e la conseguente devastazione ambientale causata dall'uso del macchinismo industriale, è trasversale a tutte le moderne civiltà, siano esse borghesi o proletarie. Non c'è soluzione di continuità a questa tragedia.
Ancora oggi quando gli organismi internazionali chiedono di rispettare le identità e le esigenze delle comunità locali, basate sull'autoconsumo, il più delle volte tali comunità vengono percepite come un peso, un inutile fardello, una misera sopravvivenza del passato, quando invece ancora oggi costituiscono l'unica alternativa possibile all'apocalisse che ci attende.
Stalinismo e contadini
Quanti contadini fece fuori lo stalinismo, dopo la morte di Lenin, ancora oggi non si sa, poiché gli archivi personali di Stalin sono stati distrutti, le statistiche sono tutte falsate e per accedere agli archivi rimasti ci vogliono permessi speciali. Comunque si stima dai 10 ai 20 milioni: un range spaventoso.
Se a queste cifre si aggiungono i milioni di morti causati dalla guerra civile e dall'interventismo straniero, e i 27 milioni eliminati dal nazismo hitleriano, vien da chiedersi come abbia fatto la Russia a sopravvivere o a non essere smembrata dal capitalismo collettivo in vari territori autonomi, separati tra loro e sottoposti a un regime coloniale (che poi un regime del genere l'han subìto lo stesso da parte dello stalinismo e del socialismo statale).
Esistono, in effetti, alcuni progetti occidentali su come si sarebbe dovuto realizzare tale smembramento. Nessun Paese, da solo, riuscirebbe a dominare un territorio così immenso. Vi riuscirono i mongoli, ma solo perché i russi erano divisi tra loro. Appena tornarono ad essere uniti, la riscossa fu immediata.
Naturalmente non dobbiamo pensare che se non ci fosse stata la rivoluzione bolscevica, la Russia avrebbe subìto meno perdite umane dagli attacchi imperialisti delle nazioni capitalistiche. Pur di sfruttare le sue enormi risorse naturali, il capitalismo occidentale non avrebbe avuto alcuno scrupolo. Come non ne ebbe nei confronti dei nativi del nord e del sud America, o di tante popolazioni africane o asiatiche.
Dovendo scegliere su cosa sfruttare di più, tra risorse naturali e manodopera locale, il capitale predilige le prime, perché meno costose, anche se ovviamente queste risorse han bisogno di lavoratori salariati o semi-schiavizzati, a costi molto bassi. E se questi lavoratori non sono disposti a lasciarsi sfruttare, ad un certo punto vengono eliminati o segregati in speciali riserve, ove la loro vita è piuttosto breve. Poi i sostituti di questi lavoratori si trovano altrove (come fecero gli euroamericani che rimpiazzarono i nativi indiani con gli schiavi importati dall'Africa), oppure si arriva a realizzare una sorta di compromesso: si concedono taluni diritti in cambio di un certo sfruttamento economico.
La tragedia più grande del socialismo statale sovietico è stato il rapporto completamente sbagliato che, a partire dallo stalinismo, si ebbe con le grandi masse contadine, cioè proprio con quelle masse che vinsero lo zarismo, la guerra civile, l'interventismo straniero e il nazismo.
I bolscevichi stalinisti distrussero una tradizione consolidata, una cultura ancestrale. Vollero imporre non solo la collettivizzazione della terra e dei mezzi agricoli, ma anche le quote di produzione da versare allo Stato a prezzi prefissati, non soggetti a contrattazione. Inoltre imposero l'introduzione delle innovazioni tecnologiche per far in modo che l'agricoltura pagasse le spese del progresso industriale e dell'urbanizzazione dell'intero Paese. Non solo sparirono di scena i contadini agiati ma anche quelli medi. In pratica tutte le assurdità staliniste in campo rurale furono messe in atto dai contadini più poveri, che si trovarono a svolgere il ruolo di operai agricoli aventi lo scopo di adempiere i piani quinquennali decisi dal governo centrale di Mosca.
Se i contadini arrivarono a dire, già prima della collettivizzazione forzata: "soviet sì, ma senza i comunisti", una ragione doveva esserci. Lenin cercò di aver un occhio di riguardo per le grandi masse rurali, ma tutti gli altri leader non ne ebbero. E queste cose non si dimenticano facilmente.
L'identità del contadino
Il pregiudizio di un contadino nei confronti delle innovazioni tecnologiche in agricoltura, è davvero un pregiudizio o solo un'arma difensiva? Nell'un caso o nell'altro è davvero immotivato? è davvero un'esagerazione dettata da una forma d'ignoranza?
Ovviamente una persona urbanizzata può considerare un contadino non meccanizzato come una persona molto arretrata, primitiva. Ma è solo un punto di vista, quello di chi ha scelto di vivere in un luogo opposto alla campagna.
Se per un momento supponessimo l'inesistenza di questo luogo così artificioso, ecco che il giudizio di critica nei confronti del contadino perderebbe tutta la sua consistenza, la sua fondatezza. Il contadino non ha pregiudizi nei confronti delle innovazioni scientifiche; semplicemente ritiene che per il suo tenore di vita un certo tipo di tecnologia gli sia inutile.
Il contadino è un tipo di lavoratore che, tutto sommato, si accontenta, poiché capisce quali sono le esigenze, i cicli della natura; è abituato a combattere contro l'improvvisa, avversa fatalità. Non piega l'ambiente alla propria volontà, se non in misura limitata; preferisce rispettare il più possibile le leggi della natura. Certo non assomiglia al cacciatore e raccoglitore del periodo preistorico, poiché è uno stanziale e non ha interesse al nomadismo. Però non si può dire che ami l'urbanizzazione e che non veda l'ora di andarsene dal luogo in cui vive. Anzi, quando vede che lo fanno i propri figli, se ne dispiace.
Sostituire il lavoro manuale con uno automatizzato o comunque meccanico è un controsenso per un contadino, che in genere non vuol fare del suo lavoro un mezzo per arricchirsi in maniera smisurata, al punto da non aver più bisogno di lavorare. Il lavoro rurale è uno di quei pochi che dà ancora soddisfazione per il lavoro in sé, e non come mezzo per far lavorare gli altri, quelli che si assumono, quando occorrono, con un salario irrisorio. Quando si produce per un mercato, la mentalità è già cambiata.
Tuttavia, anche supponendo che non vi sia la possibilità di vivere senza sfruttare il lavoro altrui, che senso ha per il contadino lavorare per mantenere in vita la città? Inevitabilmente tutte le persone urbanizzate gli appaiono come parassiti. Per lui non ha senso che uno vada a vivere in città senza essere capace di provvedere al proprio sostentamento lavorando la terra. La persona urbanizzata è necessariamente vista con sospetto. Non piace all'agricoltore avere a che fare con persone profondamente ignoranti di faccende agricole e che però sfoggiano una grande sapienza per dimostrare che la vita rurale è rozza e primitiva.
Il contadino non ha una saggezza propria ma ancestrale, che gli viene dagli antenati. Si sente sicuro di ciò che ha ereditato. Non è privo di tutto come l'operaio di fabbrica, che deve imparare come un bambino ciò che gli serve per sopravvivere; e ciò che imparerà saranno poche cose da ripetere meccanicamente, finché non subentrerà un perfezionamento tecnologico che lo obbligherà a ripetere le azioni in forma diversa. L'operaio di fabbrica, in ultima istanza, non è che un accessorio della macchina.
Il contadino sa tantissime cose utili alla sopravvivenza, proprio perché la natura, che è il suo campo d'azione, è ricchissima, multiforme, variegata, a volte imprevedibile, nonostante le sue ferree leggi, da cui essa stessa non può prescindere, se non all'interno di un certo margine di manovra.
Il contadino non ha bisogno d'imparare quasi nulla da sé, cioè autonomamente, poiché la sua sapienza gli verrà trasmessa dagli antenati sin dalla culla. E in tutta la sua vita farà al massimo dei piccoli esperimenti, cioè degli innesti, degli incroci particolari, senza mai esagerare, a meno che non voglia arricchirsi producendo per un mercato. Ma a quel punto non sarà più un contadino: sarà un agrario capitalista o un latifondista che produce monocolture. Cioè uno sfruttatore di manodopera altrui e un violentatore della natura.
Un normale coltivatore diretto, che si basa sull'autoconsumo, non fa violenza a niente e a nessuno proprio perché non ha fretta, è paziente, non ha l'assillo di un "piano quinquennale" da rispettare, né vuole risultati cospicui e veloci per un profitto immediato e individuale. Non vuole usare mezzi sofisticati per ottenere risultati strabilianti, anche perché sa benissimo che prima o poi tutta questa ricercata efficienza finirà col pagarla caramente (vedi il problema della desertificazione e del calo costante delle rese).
Un contadino non si sente in competizione con altri contadini, anzi cercherà di trasmettere volentieri le sue conoscenze, perché sa per esperienza che se i suoi vicini, i confinanti, stanno bene, anche lui starà bene. Il contadino è una persona pacifica per definizione. Quando ha l'impressione che la terra stia soffrendo troppo, la lascia riposare, procede con la rotazione delle colture: una parte del terreno evita di lavorarla. E quando la lavora, usa un concime organico, snobbando le proposte urbane di usare il concime chimico. E quando taglia la cosiddetta "erba cattiva", non la brucia, ma la riutilizza come concime. Anzi, sta attendo a non andare troppo in profondità col versoio, perché sa per esperienza che la terra non ama essere ferita.
Il contadino sa per esperienza queste cose. E quando qualcuno pretende da lui l'impossibile, abbandona la terra e va a vivere in città, cercando un'azienda ove lavorare come operaio o come se fosse un disperato disposto a fare qualunque lavoro pur di campare. è così che perde la sua dignità e che può, in parte, recuperare solo mettendosi a lottare contro chi lo sfrutta, che a volte vede fisicamente, ma il più delle volte non sa neppure chi sia, in quanto il capitale si nasconde dietro mille facce.
L'operaio non è che un ex contadino senza speranza, costretto a lavorare per un padrone che non ha scrupoli a sfruttarlo. E che questo padrone sia un privato o lo Stato, per lui non fa molta differenza. Semmai può diventare facile che, per sopportare meglio questa alienazione, questa condizione di vita per lui inspiegabile e che pensa di non meritarsi, l'ex contadino diventi un criminale, un mafioso, un mercenario o un agente al servizio di uno Stato terrorista.
Non ci può essere alcun socialismo democratico senza permettere al contadino di vivere secondo natura. E se proprio si vuole sviluppare l'industria, perché lo Stato ha bisogno di difendersi da Stati industriali confinanti, che lo vogliono occupare e derubare delle sue risorse, lo si faccia apprezzando però i contadini per il lavoro che fanno, lasciandoli assolutamente liberi di scegliere come condurre la loro esistenza. La natura li aiuterà a sbagliare molto meno di chi vive in città.
La natura è "madre", tant'è che si parla di "madre terra", e possiamo scommettere che prima o poi la natura si riprenderà ciò che le è stato tolto. E in ogni caso non potrà avere molta pietà nei confronti di chi le impedisce di esistere. Per l'essere umano la natura è certamente un dono gratuito, ma sbaglia a considerarlo superfluo o sostituibile.
Quando la natura avrà ricostituito da sola le proprie foreste, i propri laghi e fiumi, quando gli animali torneranno a essere selvatici e non esisterà più alcuna traccia di civiltà urbana, ecco che allora anche la figura del contadino scomparirà, e ancor più quella dell'allevatore. Si vivrà soltanto di ciò che la natura avrà da offrire.
La definizione di "piccolo borghese"
Definire "piccolo borghese" il contadino che in Russia aveva facilmente ottenuto, in virtù della rivoluzione bolscevica, un piccolo pezzo di terra in proprietà, era ridicolo. A cosa doveva servire quella rivoluzione? Per che cosa i braccianti agricoli l'avevano appoggiata, facendosi ammazzare a milioni nella guerra civile?
Si può forse dire che l'operaio non era un "piccolo borghese" solo perché lavorava in una fabbrica statale? E il politico non lo era solo perché iscritto a un partito rivoluzionario? E il burocrate o il militare non lo erano solo perché funzionari statali?
Che orribile etichetta! Un non senso etimologico! Come se condizioni esterne o estrinseche di lavoro potessero far entrare il contadino in una diversa categoria mentale o sociologica!
Che cosa voleva dire "piccolo borghese"? Uno dalla mentalità ristretta, che pensa prima di tutto al proprio interesse e solo dopo al bene comune? Suvvia, perché mai i comunisti in Russia davano definizioni così riduttive? così schematiche?
Stando al dibattito della fine degli anni '20, i contadini sarebbero diventati "socialisti" solo a condizione di far parte di cooperative meccanizzate, in grado di elevare di molto la produttività per ettaro. In pratica era lo Stato a fornire la patente di "socialismo" alla cooperazione agricola. Chi non accettava la cooperazione era un "piccolo borghese". Chi non accettava di acquistare dallo Stato i mezzi meccanici con cui sostituire vanga e zappa, era un "piccolo borghese".
Determinazioni meramente quantitative, imposte dall'alto, dovevano magicamente cambiare la natura di un lavoratore. A questo punto era difficile non meravigliarsi che il contadino avesse l'impressione di finire sotto un nuovo servaggio. In fondo per lui era semplicemente un mutare di padrone: da individuale a collettivo, da privato a statale. Che cosa sarebbe qualitativamente cambiato nella sua vita se da Mosca gli avessero imposto quali prodotti mettere a coltura? quali indici di produzione doveva soddisfare e a quali prezzi di vendita doveva attenersi?
Collettivizzazione forzata voleva dire per lo stalinismo socializzazione assicurata: il tutto in nome dello Stato supremo, unico garante dei princìpi della rivoluzione. I contadini avevano ricevuto la terra: ora dovevano dimostrare che sapevano usarla secondo le esigenze superiori dell'intera società, il cui massimo interprete era il partito-stato, altrimenti l'avrebbero di nuovo perduta.
L'uso della coercizione statale appariva come una forma di ricatto, in pieno stile mafioso. Il prototipo di "socialista agrario" era stato ideato, prefissato dal partito di governo. Chi non l'avesse accettato, passava inevitabilmente per un "nemico del popolo". E, per definizione, nemici del popolo erano i kulaki, cioè i contadini ricchi, quelli che dalla rivoluzione non avevano ottenuto nulla, anzi, ci avevano rimesso. Costituivano forse un problema serio per la sopravvivenza della rivoluzione? Assolutamente no. Ma siccome lo stalinismo voleva realizzare un'industrializzazione accelerata (con grande priorità a quella pesante), dove andare a prendere quelle ingenti risorse per conseguire l'obiettivo dell'indipendenza produttiva? Potevano gli operai e i cittadini urbanizzati essere sfamati con beni agricoli venduti a prezzi di mercato? Certo che potevano esserlo, ma a condizione di non dare un primato alla città sulla campagna, e all'industria sull'agricoltura. Lo stalinismo, il socialismo statale hanno sbagliato tutto, ma proprio tutto, nei confronti del mondo rurale.
La definizione di "comunista"
è piuttosto paradossale che ancora oggi lo stalinismo venga difeso da coloro che si definiscono "comunisti" (una sorta di "vecchia guardia" degli anni '70), quando, se ci fu un'ideologia preposta a eliminare fisicamente i migliori comunisti del Pcus, quelli più rivoluzionari e più intellettualmente dotati, quelli più eticamente di valore, fu proprio lo stalinismo.
I comunisti andavano eliminati proprio perché erano gli unici che potevano criticare a ragion veduta, cioè all'interno dello stesso partito, il fallimento della politica economica del governo, dei suoi piani quinquennali.
I comunisti dirigevano praticamente tutto: per cercare di dimostrare che tutto funzionava, quando in realtà non funzionava niente, dovevano essere i loro colleghi di lavoro o compagni di partito a finire prematuramente sotto terra. Gli unici scrupoli di coscienza (se vi erano) si avevano nei confronti di queste categorie di persone: tutti gli altri potevano essere fatti fuori molto più facilmente. Infatti, dopo i grandi processi-farsa contro i maggiori esponenti di partito, critici dello stalinismo, anche se non del socialismo statale, le repressioni di massa furono molto più semplici ed estese, quasi un'inevitabile conseguenza.
Si prendano queste affermazioni di Medvedev riportate a p. 432 del suo Stalinismo. "Alla fine degli anni '30 c'erano tre tipi di informatori: coloro che provavano gusto a colpire alle spalle il prossimo, intenti a causare la maggior quantità possibile di vittime; i carrieristi, che cercavano di dominare col terrore il proprio settore di lavoro; e i codardi, decisi a proteggere se stessi sterminando gli altri".
Sono tre tipologie che dovrebbero escludere a priori i comunisti, che generalmente appaiono come idealisti che lottano contro un sistema ingiusto. Se il governo avesse davvero voluto esercitare un minimo di obiettività, non avrebbe dovuto favorire informatori del genere, che di "umano" non avevano nulla. Come minimo avrebbe dovuto sospendere il giudizio, avviare delle indagini e, qualora le accuse si fossero rivelate infondate, incriminare i calunniatori, i delatori, ecc.
Oggi, per colpa dello stalinismo, la parola "comunismo" è uscita dal lessico politico (al momento l'unico Paese "comunista" è la Corea del Nord); al massimo si parla di socialismo ("mercantile", se cinese) o di socialdemocrazia (in riferimento al Welfare State occidentale). L'odierno comunista designa una persona fanatica, inaffidabile, pericolosa, potenzialmente terrorista, o comunque priva di scrupoli, sostanzialmente amorale.
In questo libro abbiamo usato le parole "socialista" e "comunista" in maniera equivalente, ma sappiamo bene che per i classici del marxismo il comunismo è solo l'esito finale di una lunga transizione socialista, in cui lo Stato tende a scomparire. In tal senso lo stalinismo non aveva nulla a che fare né col socialismo (se non nella sua versione "statalizzata", antidemocratica per definizione) né col comunismo, poiché fece di tutto per rafforzare le leve dello Stato, nonché la forza della burocrazia, dei servizi segreti e naturalmente del potere centrale in generale.
La definizione di "proletariato"
Quando si afferma - come fa Medvedev - che "il proletariato è la classe più avanzata della società borghese" (p. 508, o.c.), bisognerebbe specificare in che senso. Infatti nella società borghese la classe più avanzata è quella capitalistica, cioè quella proprietaria dei mezzi produttivi e dei capitali, quella che paga i manager per far funzionare le proprie imprese, i propri affari.
Da tempo sono importanti anche i broker, che fanno aumentare gli interessi finanziari degli investitori, salvo quando glieli fanno perdere senza rimetterci nulla di tasca propria.
Sia come sia, gli operai contano assai poco, a meno che non si facciano sentire con manifestazioni di protesta, che in genere riguardano le loro rivendicazioni sindacali, dal respiro politico molto corto.
Quando le statistiche misurano l'indice quantitativo del PIL, non attribuiscono la sua crescita alla produttività operaia, ma alla capacità innovativa, tecnologica, mediatica, commerciale e finanziaria dei dirigenti d'industria, proprietari o manager. I lavoratori effettivi sono solo una rotella dell'ingranaggio, e la catena di montaggio tende sempre più ad automatizzarsi, sicché alla fine i molti operai di prima si riducono a pochi tecnici davanti a un computer.
Nei Paesi capitalistici più avanzati è diventata obsoleta l'affermazione secondo cui la classe operaia ha un ruolo decisivo, e che una qualunque transizione al socialismo può dipendere solo da questa classe.
La classe operaia sembra esistere solo nelle miniere del Sud Globale (ex Terzo Mondo), o nelle piantagioni in cui il ruolo delle multinazionali occidentali è ancora decisivo, o in quelle filiali di queste stesse corporazioni che si sono trasferite là dove la tassazione o il costo del lavoro è molto vantaggioso.
Il proletariato, manuale o intellettuale, produce solo plusvalore per chi possiede la proprietà dei mezzi produttivi o finanziari. La capacità gestionale di questa forza-lavoro è minima, in quanto riguarda singoli aspetti della catena produttiva, anche quando al posto di un tornio vi è un computer.
Se le forze operaie di un'azienda si costituissero in una cooperativa autonoma, intenzionata a gestire la stessa azienda (cosa che a volte succede in caso di fallimento o di delocalizzazione), dovrebbero ristrutturarsi completamente. Una parte di quelle forze dovrebbe per es. interessarsi degli aspetti meramente amministrativi, un'altra di quelli più propriamente giuridico-commerciali, un'altra ancora degli aspetti mediatici, di rappresentanza, ecc. Insomma di operai veramente "produttivi", affiancati da macchine e computer, quanti ne resterebbero? Se ne dovrebbero assumere di nuovi per mantenere i precedenti livelli di realizzo.
La cosiddetta "produttività" oggi in occidente ha poco a che fare con la "manualità". Chi svolge operazioni meramente manuali o meccaniche, ripetitive, sembra più appartenere a uno Stato "sociale" o "assistenziale", che distribuisce salari o stipendi minimi a chi in realtà è "improduttivo" (secondo le categorie del capitale), e che, nonostante ciò, non compie danni alla società vivendo una vita scapestrata o addirittura pericolosa per l'ordine pubblico.
Una vera alternativa a questo trend ipertecnologico, che paradossalmente aumenta la produttività e diminuisce l'occupazione, creando una situazione che, ad un certo punto, potrebbe diventare insostenibile, come può essere generata da un'intelligenza "artificiale"? Lo sanno tutti che una qualunque impostazione informatica di questo problema è basata su algoritmi che prevedono una maggiore automazione dei processi produttivi, per cui quanto più si sviluppa l'intelligenza artificiale, tanto più cresceranno i disoccupati. Si forma un circolo vizioso dal quale non si esce.
Ecco perché diciamo che una vera "intelligenza delle cose" può essere solo umana. Qui però le alternative sono due: o la società tecnologica diventa "socialista", nel senso che tutti i vantaggi della produttività vengono ridistribuiti equamente, al punto che i cittadini possono lavorare molto meno, senza dover rinunciare a una vita dignitosa; oppure si rimette in discussione il concetto quantitativo di "produttività", dipendente dalla tecnologia avanzata, e si imposta uno stile di vita più modesto, meno energivoro, meno impattante sull'ambiente.
Nello scegliere tra l'una o l'altra alternativa, una cosa dovrebbe essere chiara in via preliminare: il progresso ha i suoi costi. Non esiste un benessere materiale che non abbia un prezzo da pagare. E se anche questo progresso fosse gestito da un sistema socialista, non è detto che la natura sarebbe disposta a sopportarlo. Ormai siamo arrivati a un punto che l'idea stessa di favorire l'ecologia usando strumenti tecnologici avanzati, è diventata piuttosto ridicola.
Incentivare il socialismo agrario
Considerando che la Russia, dopo l'occupazione coloniale della propria area asiatica da parte dello zarismo, era diventata un Paese enorme con pochissima popolazione rispetto alla sua estensione, l'unica soluzione accettabile che il partito comunista al governo avrebbe potuto adottare nei confronti del mondo rurale, era la seguente: favorire con incentivi di varia natura una coltivazione collettiva delle terre incolte, ancora vergini.
Cioè se proprio si voleva dimostrare che una gestione sociale della produzione agricola è preferibile a una familiare, quale occasione migliore che mettersi alla prova nei luoghi più difficili e meno frequentati di quell'immenso territorio?
La terra era già stata in gran parte nazionalizzata. Quella incolta era già di proprietà statale. Che problemi ci sarebbero stati a darla in affitto a canoni agevolati? offrendo sementi, animali, concime e mezzi meccanici a prezzi simbolici, o rimborsabili con interessi minimi, o restituibili solo sulla base del reddito ricavato, con ampi margini di dilazione temporale, cioè evitando di tassare eccessivamente il reddito… In questo modo si sarebbe favorito lo start up delle aziende.
Inizialmente si sarebbe potuto chiedere all'azienda di cedere allo Stato una certa quota del raccolto o di venderla a un certo prezzo prestabilito. Poi col tempo gli incentivi avrebbero potuto essere superiori, nel caso in cui l'azienda si fosse allargata, oppure inferiori, se l'azienda dimostrava di potercela fare da sola. Le soluzioni a favore dell'agricoltura avrebbero potuto essere tante.
Il socialismo deve mettersi in testa che il lavoro comune, associato, resta tale nel suo valore etico ed economico, anche se la singola famiglia trae un beneficio personale, tanto maggiore quanto più grande è stato l'impegno profuso. Una famiglia contadina non ha interesse a "uccidere" un'altra famiglia contadina; anzi, in genere ci si aiuta, perché nei confronti della natura è sempre meglio stare guardinghi e alleati.
Il principio "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno", va inteso in maniera complementare al riconoscimento del merito individuale o familiare. L'emulazione sociale non è valida solo tra aziende ma anche all'interno della stessa azienda, tra i singoli lavoratori. Poi se uno vuole essere generoso e chiede di devolvere una parte di quello che gli spetta a chi ha avuto più difficoltà, nessuno potrà impedirglielo, anzi, gli verrà attribuito come un titolo di merito. L'importante è che a tutti venga riconosciuto quanto basta per condurre un'esistenza degna d'essere vissuta.
Questo però non può escludere la possibilità di accumulare un surplus. Non siamo tutti uguali. Non è obbligatorio che tutti vivano nella stessa maniera. Fatta salva l'esigenza di tutelare l'uguaglianza sociale, tutto il resto va lasciato alla discrezione dei singoli. Socialismo vuol dire che non si può sfruttare il lavoro altrui, non vuol dire accontentarsi del minimo o fare il meno possibile o delegare ad altri ciò che si può fare in prima persona. Socialismo non vuol dire parassitismo, deresponsabilizzazione, menefreghismo… Queste son tutte parole orribili, che minano l'importanza della creatività personale, dell'impegno che si può mettere in qualcosa che appassiona.
Fine e mezzi
La questione del rapporto tra mezzi e fini è una delle più controverse in ogni rivoluzione politica. Medvedev fa bene a parlarne estesamente. "Una rivoluzione socialista fissa a se stessa dei grandi obiettivi umanitari", scrive a p. 479 (o.c.). Dopodiché elenca vari personaggi, partiti, movimenti, istituzioni che di quella coerenza non vollero o non seppero tener conto. Tuttavia, più che i nomi, c'interessano le sue importanti precisazioni:
- il marxismo-leninismo non rinuncia ai metodi violenti di lotta rivoluzionaria;
- l'obiettivo della rivoluzione non giustifica in anticipo ogni mezzo usato per raggiungerlo;
- autorizzare arresti ed esecuzioni sulla base del sospetto è inammissibile;
- nessuna rivoluzione può trionfare senza i più alti ideali umani.
Al tempo della guerra civile i rivoluzionari russi si resero responsabili di esecuzioni sommarie e di crudeltà superflue. "Molti leader giudicavano che reintrodurre la legalità nel paese, equivalesse a ‘disarmare la rivoluzione'" (p. 482).
Lenin - scrive sempre Medvedev - pretendeva una definizione "politicamente esatta" per giustificare l'uso del terrore, cioè della pena di morte. E questa definizione doveva includere qualcosa di specifico, relativo alle azioni chiaramente controrivoluzionarie, dirette al rovesciamento del regime sovietico o a fornire aiuto ai suoi nemici all'estero. La definizione doveva essere "esatta", ma anche "estesa", onde permettere alla morale di decidere, caso per caso, se l'applicazione della definizione andava ampliata o ridotta.
Un po' paradossale questo modo di ragionare. Infatti è molto difficile che una definizione possa essere contemporaneamente "estesa" ed "esatta". Lenin non voleva una definizione "giuridica" ma politica. Quando afferma che "i tribunali non possono eliminare il terrore", intendeva appunto dire che la politica ha diritto a usare il terrore nonostante… il diritto! Cioè il diritto può soltanto dare al terrore una base di legalità, di razionalità, opponendosi agli abusi.
è quindi chiaro che per Lenin la politica era superiore all'etica, anche se nei limiti degli obiettivi rivoluzionari, che non potevano certo essere immorali. Semmai per lui si doveva discutere sulla congruità di tali obiettivi rispetto alle esigenze reali.
è difficile pensare che Lenin avrebbe permesso che l'uso di mezzi etici contraddicesse il raggiungimento di un fine politicamente rivoluzionaria. Era abituato a credere che il popolo oppresso venisse più che altro raggirato da concezioni di tipo religioso, quella zarista (aristocratica), e quella democratico-borghese, che invitavano stoicamente i nullatenenti alla rassegnazione su questa Terra e alla consolazione ultraterrena.
Bisogna ammettere che su questo punto ci sarebbe parecchio da discutere. La parola "rivoluzionario" non può possedere una valenza di tipo astratto-idealistico, o un'accezione di tipo magico. Per Lenin il termine "rivoluzione" includeva necessariamente un riferimento alla giustizia sociale. Sarebbe stato assurdo per lui garantire la pace o le libertà personali a detrimento della giustizia. La stessa parola russa "pravda" sarebbe impossibile tradurla come "verità" senza implicare, concretamente, la "giustizia".
A questo punto però una domanda diventa lecita: qual è il limite oltre il quale non si può andare nel cercare di realizzare la giustizia sociale? Purtroppo la risposta può apparire sconsolante: non si può definire o codificare in maniera chiara e distinta questo limite.
La violenza rivoluzionaria va sempre vista in rapporto alla violenza controrivoluzionaria. Di sicuro non può mai essere gratuita, cioè immotivata, ma non può neppure essere così ingenua e sprovveduta da permettere la vittoria alla reazione. Non foss'altro che per una ragione: se le classi oppressive hanno la meglio, non si limiteranno a cercare un compromesso con gli sconfitti, ma cercheranno di infierire su di loro in maniera vergognosa, come si è visto - tanto per fare due esempi - alla fine della Comune di Parigi e alla fine della guerra civile spagnola. Semmai è in questo che la vittoria degli sfruttati deve distinguersi, nel non praticare la vendetta sugli sconfitti.
Chi vince dovrebbe dimostrare d'essere eticamente superiore a chi viene sconfitto. In tal senso la prima cosa da fare sarebbe quella di eliminare la pena di morte. Qualunque esecuzione capitale, a prescindere dal tipo di reato, non prevedendo la possibilità del pentimento da parte dell'accusato, è una forma di giustizia arbitraria, che non diventa certo più legale solo perché compiuta in nome dello Stato.
Ovviamente durante le fasi più concitate della rivoluzione o della guerra civile è difficile rispettare la legalità, ma, se si vuole essere credibili, bisogna saperlo fare subito dopo, nella fase della transizione democratica al socialismo.
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Il dilemma, relativo alla domanda: "Il fine giustifica i mezzi?", non ha alcun senso, se preso in sé. Dapprima infatti bisognerebbe chiedersi: "Quale fine?", e solo dopo discutere sui mezzi. Dare una risposta astratta o univoca è puro moralismo o puro cinismo.
Lenin diceva che quando un fine rivoluzionario viene contrastato con la forza dai reazionari, non si può andare tanto per il sottile, non ci si può perdere nelle chiacchiere.
Ma con Stalin la situazione diventò molto diversa. Dal meglio che si poteva ottenere coi comunisti, si passò al peggio, e purtroppo senza soluzione di continuità.
Secondo Stalin (ma gli stalinisti la pensavano come lui), siccome nel capitalismo la ragione dipende dalla forza, il socialismo non può essere da meno, altrimenti viene sconfitto. Più che costruire una società eticamente superiore, il socialismo doveva anzitutto difendersi da chi voleva distruggerlo. Questa preoccupazione autorizzava a usare qualunque mezzo. Cioè ci si doveva mettere sullo stesso piano dell'avversario.
Ovviamente, così facendo, ne traeva beneficio anche il potere autoritario dello stesso Stalin e dello stalinismo in generale. Solo che, per non far vedere ch'era uno statista senza scrupoli, Stalin inzuccherava il culto della forza (del suo sistema politico) con obiettivi dal contenuto democratico, internazionalista, come quando diceva: "stiamo compiendo un'opera che, in caso di successo, sconvolgerà il mondo e libererà tutta la classe operaia". Era convinto che il modello russo (neppure quello "sovietico" ma proprio "russo") sarebbe stato imitato ovunque, come qualcosa di infallibile. Infondeva certezze prive di senso, che, alla fin fine, servivano soltanto a consolidare, anzi a ingigantire il suo potere personale.
Se nei russi fosse stata chiara questa profonda ipocrisia, si sarebbero guardati bene dal cercare di diventare un modello per gli altri. Anzi, se avessero dato retta al Testamento politico di Lenin, Stalin sarebbe stato rimosso prima ancora che mettesse radici l'idea di costruire un socialismo statale. Infatti l'alternativa a lui non avrebbe dovuto essere per forza Trockij, la cui ideologia era non meno autoritaria, ma chiunque altro, eventualmente inventando una gestione binaria del potere (come quella consolare dell'antica Roma repubblicana) o una gestione a rotazione, e sempre di breve durata nel periodo del mandato, il quale ovviamente si poteva rinnovare (per es. Cesare fu quattro volte console in cinque anni).
Questa sarebbe stata una soluzione un po' più compatibile con la democrazia diretta. Certo, non quella più adeguata, ma almeno quella che in qualche modo poteva essere tenuta sotto controllo. "A voi due concediamo tutti i poteri, ma solo per un anno, e nel frattempo vi chiediamo di controllarvi a vicenda, esercitando il potere in maniera collegiale e rendendo conto del vostro operato sia al popolo che al Senato". Ecco cosa si poteva stabilire.
Il tradimento del socialismo
Gesù Cristo ebbe due traditori: uno quand'era ancora in vita, Giuda; l'altro dopo la croce: Pietro, che s'inventò l'idea di "resurrezione", rinunciando a quella di "insurrezione". Solo Giovanni gli si oppose, ma il suo vangelo fu manomesso dai seguaci di Paolo, la cui ideologia portava quella di Pietro alle sue estreme conseguenze: Cristo non era solo "risorto", ma era anche "figlio di Dio", come nessun altro poteva esserlo. Tutti i miracoli che fece erano una conseguenza di questa natura divina. Solo in epoca moderna, a partire da Reimarus, si capì che questa storia non stava in piedi. Nonostante ciò, gran parte dell'umanità vi crede ancora.
All'epoca di Lenin il tradimento che avrebbe potuto compromettere l'esito della rivoluzione fu quello di Kamenev e Zinov'ev, i quali naturalmente sarebbero stati giustiziati dai loro compagni se la rivoluzione fosse fallita.
Tuttavia dopo la morte di Lenin il più grande traditore dei suoi ideali fu Stalin, che nessuno ebbe il coraggio di eliminare, o almeno di rimuovere dal suo incarico di segretario generale del partito. Perché? Ancora oggi, pur dopo la destalinizzazione avviata da Krusciov e proseguita da Gorbaciov, molti ancora lo rimpiangono. Perché?
Scrive Medvedev nel suo imponente Stalinismo: "la corsa di Stalin al potere assoluto non incontrò alcuna resistenza di rilievo, nemmeno da parte di coloro che finirono col venir abbattuti" (p. 441). Si riferisce ovviamente ai comunisti veri e propri, cioè ai bolscevichi. Lo scandalo maggiore è costituito dall'atteggiamento di costoro.
A Medvedev pare legittimo porsi la seguente domanda: "come riuscì Stalin a conservare il potere, ma perfino il rispetto e la fiducia della maggioranza del popolo sovietico?" (ib.). "Quando morì, nel marzo 1953, il dolore di centinaia di milioni di persone, non soltanto in Unione Sovietica, ma ovunque nel mondo, era assolutamente sincero" (ib.). Come si spiega questo paradosso - si chiede lo storico - "del tutto senza precedenti storici?" (ib.). Il paradosso era dovuto al fatto che in realtà Stalin fu un grande criminale politico nei confronti del proprio popolo, il peggiore della storia umana, paragonabile soltanto a Mao Zedong o, fatte le debite proporzioni, a Pol-Pot.
Qui è evidente che se non si riesce a trovare una risposta convincente sul piano strutturale, si sarà costretti a cercarla in quello sovrastrutturale, rischiando che il fenomeno dello stalinismo si ripeta da qualche altra parte del pianeta. Bisogna fare molta attenzione a non cercare una risposta epifenomenica, anche per evitare di trovare mille giustificazioni, ma non quella centrale. Oppure, al contrario, si rischia che alla fine una pseudo giustificazione prevarrà su tutte, questa: pur nella sua limitatezza culturale e intellettuale, Stalin era un genio assoluto della mistificazione. Nel peggiore dei casi se ne dirà un'altra ancora: anche se fu un "mostro", la sua ideologia fece comunque diventare la Russia una grande potenza.
Noi sappiamo che tutte queste risposte sono sbagliate, sia perché già Lenin s'era accorto, alla fine della sua vita, che Stalin andava rimosso dalla sua carica di segretario generale del partito (lo mise per iscritto, nel suo "Testamento", ma le sue volontà non furono rispettate); sia perché oggi non si parla più di "socialismo statale" in Russia: la tragedia è stata troppo grande per poterla ripetere.
Medvedev offre alcune risposte per spiegare il senso del suddetto paradosso, ma non coglie nel segno. Secondo lui la principale motivazione del successo dello stalinismo sta nel fatto che riuscì a creare una specie di "struttura ecclesiastica", i cui vertici apparivano come un clero intoccabile, lontano dal popolo, mentre Stalin veniva letteralmente deificato, cioè considerato perfetto e infallibile. Solo lui poteva salvare la Russia da tutti i pericoli che lui stesso individuava.
Una gigantesca illusione mistificava una realtà ben diversa. Infatti i disastri era lo stesso stalinismo a crearli, e le soluzioni che proponeva non facevano che renderli ancora più gravi. La lotta furibonda tra popolo e istituzioni fu vinta dalle istituzioni proprio perché il popolo, in ultima istanza, condizionato da questa mistica para-religiosa, non lottò in maniera efficace: più che altro subì qualunque repressione nella convinzione che Stalin non fosse a conoscenza dei grandi crimini statali che si commettevano. Moltissimi pensavano che gran parte del male compiuto andasse interpretato come qualcosa di necessario o di inevitabile, come un'eccezione che si doveva sopportare a vantaggio della giusta regola generale, che tutti dovevano mettere in pratica.
Non ho qui riportato le parole esatte di Medvedev, ma penso di non aver tradito il suo pensiero.
Ora, qual è la risposta ch'egli dà al formarsi di "questa strana varietà laica di credenza religiosa" (p. 444)? La attribuisce a un pregresso storico risalente allo zarismo: il carattere piccolo-borghese della Russia zarista; il basso livello di cultura e di educazione delle masse; l'assenza di forti tradizioni democratiche; l'ideologia dell'assolutismo come parte integrante della Russia; l'idealizzazione dei leader bolscevichi, ecc.
Se si esamina l'intero libro, si potrebbero aggiungere ulteriori giustificazioni con cui egli spiega gli orrori compiuti dallo stalinismo, eppure non ce n'è una che riesca davvero a comprendere il nocciolo del problema. Medvedev fa benissimo a dire che lo stalinismo riuscì a coinvolgere attivamente milioni di persone nello sterminio di altre milioni di persone.
Tuttavia, per evitare di considerare il popolo sovietico come un popolo di pazzi scatenati, fagocitati o infatuati da un'ideologia politica completamente assurda, siamo costretti a cercare una spiegazione più convincente nella struttura del sistema che si voleva realizzare. Infatti se si voleva costruire una società ateistica contro una religiosa, lo scontro sarebbe avvenuto sul piano etico-morale, ma, se questo vi fu, non fu certamente quello predominante. Il bolscevismo era indubbiamente una forma di ateismo, ma lo stalinismo non eliminava i suoi avversari per motivi religiosi e neppure etici.
Si fa fatica a ritenere che gli stermini di massa fossero l'esito di una lotta tra scienza e superstizione, tra fede e ragione, tra illuminismo e oscurantismo. Le questioni religiose erano state tipiche delle rivoluzioni borghesi, e neanche più di tanto rispetto al Medioevo. I bolscevichi avevano decisamente spostato l'attenzione sulle questioni economiche, che gli stalinisti, per opportunismo, riducevano a questioni ideopolitiche.
Il vero paradosso stava proprio in questo, che le questioni socio-economiche, così tanto analizzate dai classici del marxismo, venivano affrontate non con sano realismo, ma con un'impostazione ideologica che non permetteva alcuna vera soluzione. Lo stalinismo affrontò il presente coi criteri dello zarismo autocratico e assolutistico, entrambi supportati da un'ideologia dogmatica che aveva caratteristiche, più o meno esplicite, di tipo "religioso". Tra l'uno e l'altro sistema cambiarono soltanto le forme, le modalità inerenti a uno sviluppo accelerato in senso industriale e urbanistico di un intero Paese fondamentalmente rurale.
Lo stalinismo non fu semplicemente "socialismo più elettrificazione" - come voleva Lenin -, ma "dittatura politica più industrializzazione forzata". La "forzatura" doveva essere pagata dalle masse rurali, soggette a un tipo di collettivizzazione basata su esigenze urbane e industriali. All'interno di questi presupposti oggettivi la democrazia non aveva alcun senso, la popolazione non aveva alcuna autonomia, lo Stato di diritto, la giustizia sociale, i valori etici del socialismo erano soltanto slogan affermati in sede teorica. La base non è mai stata in grado, neppure per un momento, di controllare il vertice.
Il socialismo sovietico di stampo stalinista è riuscito a sommare tutte le caratteristiche che non si devono prendere come esempio per costruire una società autenticamente democratica. Lenin disse che la democrazia sarebbe scomparsa quando la società avrebbe potuto fare a meno dello Stato. Forse sarebbe stato meglio precisare che la democrazia rappresentativa, una volta terminato il ruolo dello Stato, sarebbe stata sostituita da quella diretta, e che senza quest'ultima nessun socialismo dal volto umano e naturale sarebbe stato possibile costruire.
Violenza e non violenza
Non bisognerebbe mai dimenticare una cosa. Se da un lato lo stalinismo veniva accettato da tanti comunisti perché si poneva, almeno in apparenza, in una linea di continuità ideologica e politica col leninismo, e se veniva accettato anche perché il socialismo statale sembrava essere un'alternativa al capitalismo e soprattutto al nazi-fascismo, di fatto restava una violenta dittatura in tutte le sue manifestazioni.
Naturalmente anche i Paesi capitalisti erano dittatoriali nelle loro colonie; anzi erano proprio le colonie che permettevano a questi Paesi di vivere nel benessere e quindi di avere meno necessità di praticare la dittatura politica al proprio interno.
Quando ha voluto emanciparsi dal dominio della nobiltà e della Chiesa romana in Europa occidentale la borghesia ha fatto grandi rivoluzioni, con grandi spargimenti di sangue. Ma poi lo sfruttamento delle colonie ha attenuato questa furia assassina, anche perché i genocidi venivano compiuti altrove.
Certamente le ultime due guerre mondiali sono state anche uno strumento della borghesia per attenuare la tensione sociale interna ai loro Paesi. Creando un nemico fittizio e mandando al fronte decine di migliaia di contadini, operai, disoccupati…, la borghesia s'illuse che i conflitti di classe potessero trovare una significativa valvola di sfogo. Cosa che però non avvenne, visto che subito dopo la prima guerra mondiale nacquero il fascismo e il nazismo, e subito dopo la seconda la guerra fredda, che sta portando oggi, nonostante l'implosione dell'URSS, a una nuova guerra mondiale.
In genere però il potere politico, nell'ambito del capitalismo, non ha necessità di trasformarsi in una esplicita dittatura per affrontare gli antagonismi che crea. Il dominio del capitale tende a essere indiretto. E di fronte alle contestazioni popolari ritiene sufficiente una trasformazione dei paradigmi culturali, o anche un allargamento delle competenze statali riguardo alla gestione del bene pubblico (Welfare State).
Il capitalismo occidentale (soprattutto quello euro-americano) poté perfezionare la sua ideologia liberaldemocratica, pluralistica, favorevole allo sviluppo dei diritti umani, proprio mentre esercitava un imperialismo economico e finanziario nei Paesi sottosviluppati sul piano tecnico-scientifico (secondo i criteri della modernità borghese). A questo imperialismo partecipavano tutte le classi sociali delle madrepatrie, producendo manufatti da esportare, trasformando materie prime provenienti dall'estero, emigrando in quegli stessi Paesi soggetti a colonizzazione, ecc.
La formazione del nazi-fascismo e del militarismo nipponico fu un fenomeno molto particolare, tipico di quei Paesi che, essendo entrati per ultimi nell'orbita del capitalismo, avevano bisogno di recuperare in fretta il tempo perduto.
Il capitalismo però, essendo una forma d'individualismo, non ama la dittatura politica. Preferisce di gran lunga la democrazia formale della rappresentatività nazionale e locale. Ovviamente l'individualismo si presenta sotto varie forme: quello statunitense, essendo un frutto originario del calvinismo e non avendo dovuto subire al proprio interno le ultime due guerre mondiali, è il più estremo, quello più polarizzato sul piano sociale, quello meno rispettoso delle istituzioni, le quali, infatti, per farsi valere, devono comminare sanzioni e sentenze pesantissime, anche nei confronti di reati minori, ed è anche quello che ha più bisogno di crearsi una narrativa fantastica, che faccia sognare tutti, comprese le persone di più umili condizioni.
Se si guarda l'intero pianeta, bisogna ammettere che tra capitalismo (privato e statale) e socialismo statale non vi è (o non vi è stata) molta differenza, in quanto la violenza è sempre stato l'atteggiamento dominante nei rapporti umani o nelle relazioni sociali. Che questa violenza venga esercitata in nome di un ideale politico o di un interesse materiale, non cambia molto la sua natura oppressiva.
Dai tempi in cui si formarono le prime società schiavistiche ad oggi, il genere umano ha soltanto esteso geograficamente il livello di oppressione, cambiandone ovviamente le forme e i modi, nell'illusione di aver compiuto un effettivo progresso verso l'emancipazione, il riscatto, la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, ecc. Certo, nel mentre si lotta per avere queste cose, si è davvero convinti d'aver compiuto dei progressi effettivi. Ma noi qui stiamo guardando le cose col senno del poi, ed è difficile dire che oggi viviamo in un mondo migliore di quello di sei millenni fa, quando nacque lo schiavismo.
Semmai potremmo dire, sub specie aeternitatis, che non ci si deve preoccupare più del dovuto se il genere umano rischia di estinguersi a causa di un uso scriteriato della propria tecnologia o delle proprie armi di distruzione di massa. Infatti un pianeta che non riesce a uscire dall'incubo della violenza, è meglio che cessi di esistere. Eventualmente si può sperare che una piccola o piccolissima parte della popolazione mondiale riesca a sopravvivere alla prossima apocalisse, cominciando finalmente a praticare i valori umani.
Questo perché nel caso in cui il genere umano sia destinato a vivere nello spazio cosmico, noi dobbiamo comunque capire quali sono le condizioni indispensabili (assolutamente irrinunciabili) per non praticare la violenza. Se non riusciamo a individuarle, tutte le guerre saranno state inutili, e il fatto di poter vivere solo su questo pianeta o anche nell'universo sarà del tutto irrilevante.
Noi dobbiamo trarre insegnamento dai nostri errori, altrimenti la vita umana non troverà alcun vero motivo per essere vissuta. Anzi, l'idea stessa di volerla continuare nell'universo, verrà percepita come un'insopportabile condanna. Tanto più se oltre a volerla, la dovremo comunque vivere.
Infatti è assurdo illudersi che, siccome nell'universo gli spazi sono infiniti, così come i pianeti, le stelle ecc., ci saranno meno motivi di usare la violenza. Gli spazi geografici, anche se astronomici, di per sé non contano nulla, come dimostrano tutti i film di fantascienza americani, che riproducono logiche e dinamiche della loro società altamente conflittuale. Piuttosto è lo stile di vita che deve cambiare, la mentalità relazionale, l'approccio ai problemi altrui, la condivisione dei bisogni…
Quando gli europei diedero inizio al colonialismo, prima in Africa, poi in America e altrove, provenivano indubbiamente da situazioni piuttosto tese, dove l'antagonismo sociale era la regola, per cui era impossibile trovare un'intesa pacifica con le nuove popolazioni incontrate; anzi, si cercò subito di sottometterle e di depredarle, visto che non possedevano una medesima tecnologia per difendersi. E se si ribellavano, non ci facevamo tanti scrupoli a sterminarle.
Cosa sarebbe successo se gli europei non avessero incontrato nessuno e si fossero appropriati delle nuove terre senza sparare un colpo? Certamente i colonizzatori avrebbero avuto meno motivi di esercitare una violenza reciproca. La pace sarebbe durata finché l'ultimo terreno sarebbe stato conquistato. Poi, ad un certo punto, sarebbero sorti i problemi. La violenza sarebbe di nuova emersa tra gli stessi colonizzatori di quelle terre vergini, non appartenute a precedenti popolazioni. Ci sarebbe stato chi voleva di più o chi avrebbe approfittato dell'ingenuità o della debolezza altrui.
La natura infatti non ci fa tutti uguali. Ed è appunto questo il nodo gordiano da sciogliere: quali sono le condizioni indispensabili che possono impedire alle differenze naturali di costituire un pretesto o un'occasione per trasformarsi in uno strumento di dominio? Se non le troviamo, noi rischiamo di riprodurre nell'universo gli stessi limiti che ci caratterizzano su questo pianeta. Non ci servirà a niente cambiare forme e modi.
Queste condizioni non possono essere stabilite soggettivamente: devono per forza avere una valenza oggettiva, che tutti devono rispettare, senza per questo rinunciare alla loro individualità. La soggettività può diversificarsi nelle proprie inclinazioni, attitudini, aspirazioni…, ma solo rispettando condizioni o leggi oggettive, imprescindibili, unanimemente condivise. E queste leggi non possono essere scritte, poiché la scrittura fossilizza il pensiero: devono essere percepite come tali, cioè come se fossero un'evidenza scontata, che non può essere messa in discussione, pena la destabilizzazione dell'intero sistema.
Bisogna che l'intera popolazione diventi consapevole di questa necessità, in maniera tale da avere strumenti interpretativi adeguati, nel caso in cui a qualcuno venga in mente di trasgredire queste leggi non scritte, le quali devono essere percepite come uno strumento per garantire la libertà di tutti, senza che nessuno le avvertirà come un limite all'esercizio del proprio libero arbitrio, della propria facoltà di scelta.
Davvero un "socialismo incompiuto"?
Volkogonov è convinto che, esaminando la figura di Stalin, non sia possibile separarla dal suo popolo, che, insieme al partito, glorificava la "guida suprema".
è vero, Stalin seppe diventare il "simbolo del socialismo", ma di quale socialismo? Qui Volkogonov è un po' reticente. Scrive: "è stato a causa di questo socialismo ‘incompiuto' che ha potuto emergere un uomo indegno dei suoi alti ideali" (p. 540, o.c.).
All'apparenza l'autore sembra voler fare un passo avanti rispetto a Medvedev, che tendeva a separare l'obiettivo del socialismo statale dalle mostruosità staliniane. Ma poi si limita ad attribuire la causa dell'incompiutezza al "grande apparato" che Stalin aveva saputo costruire, in base al quale aveva potuto far valere la sua idea dogmatica principale: l'assolutizzazione della lotta di classe, cioè il fatto che quanto più il socialismo si edifica, tanto più i suoi avversari s'incattiviscono. Un'idea che, in sé, potrebbe anche non essere sbagliata, se si chiarisse adeguatamente a quale tipo di socialismo ci si riferisce: a quello statalizzato o a quello democratico? In ogni caso è profondamente sbagliato impedire a una persona di cambiare idea o di pentirsi dei propri errori.
L'autore tuttavia non è in grado di spiegare analiticamente queste particolarità. Semplicemente si limita a dire che la dittatura stalinista (come poi in genere qualunque dittatura) non si regge in piedi se non ha dei nemici da combattere, e quando questi non ci sono, letteralmente se li inventa, proprio perché il sistema socio-economico ch'essa stessa crea, presenta difetti di non poco conto.
In Russia i principali nemici erano stati vinti durante la guerra civile, ma lo stalinismo continuò a vederli sino alla sua scomparsa. Il progetto di "socialismo" ideato dallo stalinismo era così disumano che inevitabilmente si creava da sé i propri nemici. Attraverso il terrore si otteneva sì il consenso, l'obbedienza, la fedeltà, ma lo stalinismo non poteva non sapere che il consenso era solo di facciata. Stalin temeva sempre che qualcuno lo potesse assassinare. Era sospettoso nei confronti di chiunque. Prima di uscire dal suo splendido isolamento voleva essere garantito da imponenti misure di sicurezza. Pochissime volte si recò all'estero, e sempre in visita ufficiale.
Eppure molti lo veneravano come un dio. Questo culto della personalità è inevitabile in un regime dittatoriale. In Russia ne andavano affetti soprattutto i ceti sociali più emarginati, più desiderosi di riscatto sociale. La massa sterminata di contadini poveri che accettò la collettivizzazione forzata fu all'origine della devozione mistica per la figura di Stalin. Chi passò dal non aver niente al possedere qualcosa, seppure alle restrittive condizioni del governo, assunse un atteggiamento di particolare riconoscenza.
Stalin, che odiava i contadini, in quanto voleva far pagare a loro la formazione di una società urbanizzata e industrializzata, fu capace di ottenere il loro placet, ovviamente eliminando fisicamente quelli più agiati, i kulaki, quelli che avevano meno bisogno di interventi statali. La decimazione dei contadini ricchi e le costrizioni subite da quelli medi non sarebbero state possibili se non ci fossero stati tanti contadini poveri e illetterati, disposti a prendere il loro posto. Lo Stato non fece altro che sfruttare questa esigenza di riscatto sociale per imporre la propria dittatura su tutto e su tutti.
Era forse questo un socialismo "incompiuto"? No, questo era una caricatura di socialismo, una sua orribile deformazione. Non si era in presenza di alcuna "transizione", ma piuttosto di una netta "involuzione", che di umano e di democratico non aveva nulla, se non la resistenza di chi vi si opponeva.
Stalin poté costruire un grande apparato burocratico e repressivo proprio perché l'idea fondamentale che aveva di socialismo era completamente sbagliata. Gli errori nati da questa idea non erano casuali ma una inevitabile conseguenza. Non sono neppure attribuibili alla sua personalità disturbata. Al suo posto, volendo salvaguardare il sistema, chiunque li avrebbe compiuti. Tutto l'entourage di Stalin, incluso Krusciov, non sarebbe stato in grado di superare i profondi limiti del socialismo statale.
Ancora oggi in Russia non sembra esserci nessuno in grado di dire come il socialismo democratico debba essere costruito.
Davvero una "specifica alienazione"?
A volte bisogna stare attenti anche ai singoli aggettivi. Prendiamo per es. questa affermazione di Volkogonov: "lo stalinismo è una forma specifica di alienazione dei lavoratori dal potere" (p. 587, o.c.). Il corsivo è suo, per cui si può presumere che tale affermazione la consideri molto importante.
In realtà vi è un errore di fondo: lo stalinismo non è una forma "specifica" di alienazione, ma è l'alienazione che inevitabilmente appare ogniqualvolta si pretende di costruire un socialismo statalizzato, soprattutto quando le condizioni economiche di partenza sono di basso livello produttivo. Anche il maoismo era una forma di "stalinismo", benché incentrato sulle comuni agricole: i maoisti non hanno mai detto nulla di significativo contro Stalin, anzi, quando apparve Krusciov, considerarono la sua destalinizzazione una forma di revisionismo. Anche tutti i Paesi del Comecon erano gestiti da governi stalinisti. Anche l'attuale Corea del Nord è caratterizzata da un regime "stalinista".
L'alienazione è proprio dovuta al fatto che non è il popolo a dirigere se stesso, ma qualcuno o qualcosa al di sopra di sé, che sia un dittatore o un partito, un governo, uno Stato non fa molta differenza. Di sicuro si sa che la dittatura è connessa a qualcosa di ideologico imposto con la forza. Le direttive vengono prese solo nelle alte sfere e trasmesse alla società come ordini indiscutibili. Le discussioni avvengono solo in un gruppo ristretto di persone, le quali, volendo gestire in proprio un intero Paese, temono che la democrazia (o il decentramento decisionale) sia d'intralcio, faccia perdere tempo.
Bisogna cioè convincersi che, se si vuole uno Stato superiore alla società civile, lo stalinismo o il cesarismo o il bonapartismo o il burocratismo autoritario sono inevitabili. è proprio la gestione della società a partire non da se stessa ma dallo Stato, che porta alla dittatura. è proprio l'idea d'impedire alla società di autogestirsi, che obbliga a rinunciare all'idea di una progressiva estinzione dello Stato.
Lo stalinismo non è un semplice tradimento del marxismo: è piuttosto una metafora del governo antidemocratico per definizione, che, ideologicamente, dice di riferirsi al socialismo scientifico, considerato molto più moderno del liberismo economico o liberalismo borghese. Che in tale regime governi un dittatore singolo (una specie di faraone) o un gruppo di persone legate a un partito, dipende solo dalle circostanze, che spesso possono essere casuali.
Se si potesse associare strettamente lo stalinismo a una persona specifica, probabilmente dopo la morte di Stalin vi sarebbe stato un regime più democratico. Invece la direzione collegiale del partito non eliminò affatto le basi dello stalinismo, anzi, le consolidò, offrendo proprio l'impressione di averlo reso più democratico. In tal senso Krusciov, limitandosi a circoscrivere lo stalinismo nell'ambito del culto della personalità, non diede un contributo davvero significativo al suo radicale superamento.
Semmai ci si dovrebbe chiedere: visto che lo stalinismo è stato capace di distruggere il leninismo, come si sarebbe potuto distruggere lo stalinismo? Perché in Russia non lo si è fatto, affermando la democrazia? Bisogna forse dare per scontato che il superamento dello stalinismo deve per forza portare la società nelle braccia del capitalismo? E che quindi prima di poter parlare nuovamente di socialismo, e questa volta in maniera democratica, occorre che passi un tempo piuttosto lungo, o comunque necessario al fine di permettere alla popolazione di rendersi conto da sé che anche il capitalismo (privato o statale fa lo stesso) non è in grado di garantire alcuna vera democrazia? Insomma è una caratteristica della democrazia quella di aspettarsi dei risultati positivi solo dopo molto tempo?
Quando i popoli si muovono, sconvolgono il mondo, ma chi ha piena consapevolezza di questa transizione necessaria, sembra essere destinato a morire prima, come Mosè, che non vide mai la "terra promessa".
Circostanze fortuite
Bisogna ammettere che lo stalinismo è stato una grande mistificazione. è riuscito a far credere che il socialismo statale fosse il vero socialismo, quando in realtà era solo una spregevole dittatura. Grave che gli intellettuali non siano stati capaci di fermarlo in tempo: per mandare in malora un cesto intero di mele, ne basta una sola.
è inverosimile che una persona così culturalmente limitata come Stalin potesse escogitare una mistificazione di tale portata. Pare quindi evidente ch'essa sia dipesa da un concorso di circostanze più o meno fortuite. Diciamo che gli stalinisti han saputo approfittare di una situazione favorevole.
La principale circostanza fu che i bolscevichi seppero realizzare, primi nella storia, una vittoriosa rivoluzione socialista: una rivoluzione popolare, non un colpo di stato. Gli stalinisti si presero un'eredità che invece avrebbe dovuto essere ripartita tra tutti i componenti dell'evento epocale.
La seconda riguardava l'enorme estensione geografica del Paese, che lo rendeva di fatto inespugnabile. La Russia patì sonore sconfitte nella guerra di Crimea (1853-56), nella guerra del 1904-5 contro il Giappone, e uscì dalla prima guerra mondiale con le ossa rotte, tant'è che Lenin, con la pace di Brest-Litovsk (1918), cedette molti territori alla Prussia. Ciononostante nessuno aveva la forza di occuparla per intero. E quando cercarono di smembrarla nel periodo 1918-20, passato alla storia col nome di "interventismo straniero", fallirono tutti clamorosamente, determinando anche la sconfitta delle forze reazionarie durante la guerra civile.
La terza circostanza riguardava la lunga durata del feudalesimo zarista, che impedì lo sviluppo di un capitalismo privato. L'industrializzazione borghese fu un prodotto importato dall'Europa occidentale verso la metà del XIX sec., e riguardò soltanto l'area europea della Russia. La popolazione era abituata a obbedire. Cominciò a protestare seriamente con la rivoluzione del 1905 (troppo tolstojana per poter trionfare). Lo zarismo tuttavia dovette cedere nel febbraio 1917. I bolscevichi non fecero altro che approfittare di uno sfacelo immane, durato molti secoli, cui il governo socialista-borghese di Kerensky non riuscì a porre alcun vero rimedio.
La quarta circostanza fu il dilagante analfabetismo della popolazione, non in grado di affrontare i raggiri degli stalinisti. La stragrande maggioranza della popolazione viveva di agricoltura e non fu mai in grado di costruire un'alternativa teorica e un'efficace opposizione pratica al socialismo statale, che veniva predicato dagli stalinisti come se fosse la quintessenza del socialismo in generale.
Lo stalinismo fallì quando i condizionamenti subiti dal capitalismo privato dei Paesi euroccidentali furono così forti ch'era impossibile farvi fronte. Di fatto l'occidente viveva un benessere materiale che l'area sovietica poteva solo sognare. La realtà non poteva essere mistificata per un tempo illimitato. L'occidente vinse la guerra fredda senza sparare un colpo: semplicemente mostrando che il benessere preteso dal socialismo statale non esisteva, era un nulla rispetto a quello occidentale.
L'implosione fu terribile. A nessun comunista importava sapere che tutto il benessere occidentale era in realtà un frutto del saccheggio operato nei confronti del cosiddetto "Terzo Mondo". Fu imposto, con El'cin, un capitalismo privato a dir poco "selvaggio". Bastò meno di un decennio per portare il Paese alla fame e alla bancarotta. Ci guadagnarono solo gli oligarchi delle risorse energetiche e di talune materie prime. Tutto il periodo dello stalinismo non aveva prodotto uomini con alti valori etici, ma persone spregevoli.
La Cina non volle fare la stessa fine, sicché, dopo la morte di Mao, prese le sue contromisure. Il partito capì chiaramente che avrebbe potuto continuare a operare in maniera dittatoriale solo a condizione di permettere lo sviluppo del capitalismo sul piano sociale. Ecco perché in Cina si parla di "socialismo mercantile" e non, propriamente, come in Russia, di capitalismo statale. Ecco perché la Cina sta realizzando una mistificazione più grande di quella sovietica: sta unendo due cose che, all'apparenza, dovrebbero essere incompatibili. Bisognerà mettersi a studiare attentamente come sia possibile far convivere nello stesso Paese socialismo politico e capitalismo sociale.
è evidente che se l'esperimento riesce, sarà destinato a durare molto di più del socialismo statale di marca sovietica, non foss'altro perché nessun Paese occidentale potrà sostenere che in Cina vi è la miseria tipica dei Paesi socialisti. Anzi, molti cercheranno d'imitarla, ma non vi riusciranno, poiché la cultura occidentale è fondamentalmente individualistica, mentre quella cinese è da sempre collettivistica.
Il potenziale politico ed economico della Cina è ben visibile in alcuni momenti di capitale importanza: l'eliminazione della cosiddetta "Banda dei quattro" nel 1976; l'acquisizione delle ex colonie europee: Macao (1999), Hong Kong (2009); la repressione della rivolta giovanile di Tienanmen (1989); lo stretto controllo delle minoranze nazionali (uiguri, tibetani…: in tutto sono 56); la sorveglianza di massa, di tipo elettronico, della popolazione; lo sviluppo veloce dell'intelligenza artificiale; l'imponente sviluppo dei megastore, dove è possibile comprare tutto a prezzi molto contenuti; lo sviluppo mondiale della Belt and Road Initiative (Nuova via della seta); l'acquisizione di tutti quegli elementi che possono favorire una "transizione verde"; le mire verso i semiconduttori prodotti a Taiwan. Insomma la Cina ha già le carte in regola per imporsi a livello mondiale.
Milioni di morti
Chi pensa che qualunque esperienza di socialismo non possa essere costruita senza compiere immani delitti, è perché ritiene che l'individualismo sia più naturale del collettivismo. Il che però è tutto da dimostrare. Anzi, si potrebbe tranquillamente sostenere il contrario.
In fondo la prima esperienza di individualismo della storia è stata lo schiavismo, un tipo di società e di produzione economica che, stando alla storia delle civiltà antiche, può risalire a circa 6000 anni fa (al massimo si può fare una certa differenza tra schiavismo privato e schiavismo statale). L'individualismo stava nel fatto che un gruppo di persone voleva comandare e molte altre dovevano obbedire. Per convincere queste ultime si usò la religione, o forse la s'inventò.
Prima di allora si parlava di "comunismo primitivo", intendendo con l'aggettivo "primitivo" qualcosa di "primordiale", non qualcosa di "barbarico" o anche solo di "arretrato" rispetto ai parametri attuali, che sarebbe un confronto opinabile sul piano concettuale e del tutto insensato su quello storico.
Se invece si vuol sostenere che quel tipo di socialismo statalizzato sotto lo stalinismo, non poteva essere realizzato se non compiendo crimini mostruosi, allora ci si può anche credere, benché storici come Medvedev e Volkogonov non l'ammetterebbero mai, in quanto considerano lo stalinismo una deviazione accidentale di tipo soggettivistico, certamente non una scelta obbligata, inerente a quella particolare formazione sociale.
In realtà questi due storici sovietici possiamo considerarli tranquillamente degli ingenui, come lo furono i due statisti cui fanno riferimento: Krusciov e Gorbaciov, che pensavano di superare lo stalinismo senza eliminare il socialismo statale.
Tuttavia chi pensa che fu solamente per costruire il socialismo statale si ricorse a immani violazioni della legalità, mentre per edificare il capitalismo non ve ne fu bisogno, si pone, sic et simpliciter, come un mistificatore della storia. Questo perché anche il capitalismo fu incredibilmente violento, sia nei luoghi di origine (gli Stati dell'Europa occidentale), sia nei continenti in cui fu esportato. Solo che lo fu nel corso di un millennio, in maniera diluita, a partire dalle crociate medievali, mentre nella Russia zarista iniziò verso la metà del XIX sec. Inoltre quando nei Paesi d'origine il capitalismo non mostrava più un alto tasso di violenza come ai suoi albori, era perché il massimo della violenza la esercitava nelle colonie che aveva conquistato.
Semmai ci si può chiedere: se in Russia non ci fosse stato lo stalinismo, la rivoluzione industriale avrebbe avuto ugualmente bisogno di procurare così tanti morti? Qui le risposte che si possono dare sono due: se dopo la morte di Lenin si fosse proseguito sulla strada della NEP, è difficile pensare a un'industrializzazione edificata su milioni di morti; tuttavia, avendo scelto di costruire un socialismo sempre più statalizzato, prima o poi sarebbe sorta una direzione autoritaria della società, per cui, alla fine, l'ecatombe ci sarebbe stata lo stesso.
Questo però c'induce a porre un'ulteriore domanda. La scelta d'industrializzare un'intera società può essere compatibile con l'edificazione di un socialismo non statalizzato? Oppure: è possibile costruire democraticamente un socialismo statalizzato in maniera tale che l'industrializzazione non comporti milioni di morti e una devastazione della natura?
Se la definizione "milioni di morti" appare iperbolica, la si sostituisca con una più soft: "stravolgimenti sociali innaturali", in quanto sicuramente le attività artigianali o rurali tradizionali non sarebbero state più le stesse. Infatti è pacifico che, come nell'ambito del capitalismo non era più possibile parlare di autoproduzione o di autoconsumo, superati negativamente da mercati e sfruttamento del lavoro, così sarebbe successo nell'ambito del socialismo, con la differenza che il lavoratore veniva sfruttato non da un privato ma dallo Stato, e il mercato non era che una rivendita regolamentata dall'alto, senza il gioco della domanda e dell'offerta.
Questo per dire che è l'industrializzazione in sé a decidere il destino di qualunque lavoro pre-industriale, e quindi di milioni di persone, proprio perché la popolazione ha l'impressione che l'industria renda tutto più facile e veloce, salvo poi accorgersi che ha prezzi salatissimi da far pagare.
In Cina l'industrializzazione non ha comportato milioni di morti semplicemente perché vi erano già stati prima, con lo statalismo rurale maoista. Dopo il maoismo il governo chiese alla popolazione di lasciarsi sfruttare come schiavi giuridicamente liberi, promettendo un veloce riscatto economico. è stato così che la Cina è diventata il primo Paese industriale del mondo. Lo sfruttamento incredibile del lavoro applicato all'industria è stato reso possibile dal fatto che gli Stati capitalisti più avanzati del mondo delocalizzavano in Cina le loro imprese per ricavare profitti più alti. Oggi la Cina non sa che farsene di queste filiali estere: ha imparato tutto velocemente e anzi sta migliorando enormemente le prestazioni di una tecnologia automatizzata. Non ha bisogno di ripercorrere tutte le fasi evolutive del capitalismo occidentale.
Tuttavia questa esperienza non può essere definita "socialista", anche se il partito, il governo, lo Stato pretendono di controllare in qualche maniera l'economia privata, e anche se il richiamo ideologico al socialismo persiste nell'attuale partito comunista al potere.
Quindi dal nostro punto di vista "socialismo democratico" e "sviluppo industriale" sono due concetti poco compatibili. In ogni caso bisogna vedere fino a che punto si vuole sviluppare l'industria. Nella Russia stalinista non hanno voluto porre alcun limite all'industria pesante, penalizzando però enormemente quella leggera, per non parlare della democrazia. Ad un certo punto però (sotto El'cin) una parte della popolazione ha preteso l'iniziativa privata tipica del capitalismo; poi, quando un'altra parte della popolazione ha visto gli effetti catastrofici di questa scelta, ha chiesto (sotto Putin) che il capitalismo venisse controllato dallo Stato. In Cina potrebbe avvenire che, a forza di sviluppare le dinamiche capitalistiche a livello di società civile, lo Stato si trovi a non avere più la forza necessaria per tenerle sotto controllo.
Questi processi così altalenanti sembrano ineludibili, cioè avvengono a prescindere dal tipo di ideologia con cui vengono legittimati. Questo per dire che Medvedev fa bene a sostenere che senza lo stalinismo "l'industria si sarebbe sviluppata più rapidamente" (p. 675) e anche l'agricoltura moderna. "Stalin non accelerò, ma rallentò il cammino del socialismo e del comunismo" (ib.). Fa bene a scrivere queste cose contro gli stalinisti, ma dovrebbe definire meglio il significato delle parole che usa.
Lo stalinismo sviluppò enormemente, usando la violenza politica e amministrativa, sostenuta da un regime altamente poliziesco, tre cose: 1) la statalizzazione del socialismo, 2) la collettivizzazione rurale forzata, trasformando i contadini in servi dello Stato e 3) l'industria pesante. Tutto il resto (socialismo democratico, collettivizzazione libera nelle campagne, industria leggera) non fu "rallentata" ma addirittura impedita. Proprio perché non credono nella democrazia, gli stalinisti non sopportano l'idea che la popolazione possa autogestirsi.
è possibile rivalutare qualcosa dello stalinismo?
Certo che se uno pensa di dover rivalutare lo stalinismo perché, col senno del poi, si è reso conto che il capitalismo è una mostruosità non meno grave del socialismo statale, se non superiore, non si può dire che un atteggiamento del genere possa essere definito democratico.
Fra socialismo statalizzato e capitalismo (privato o statale) non ci si deve sentire costretti a scegliere il meno peggio. E non è che scegliendo il meno peggio si può pensare di essere (o di apparire) più democratici. Non dobbiamo sentirci obbligati a scegliere tra Scilla e Cariddi. Chi pensa di "recuperare" lo stalinismo (in funzione anti-borghese), non era democratico neppure prima, quando contestava qualunque forma di capitalismo.
Siamo davvero convinti che il capitalismo sia un'aberrazione? è vero, lo è, ma lo sono (o lo sono stati) anche lo stalinismo e il socialismo statale. Sono tutte falsità, pratiche e teoriche. Anzi potremmo dire che lo stalinismo è una forma di dittatura di tipo occidentale, applicata in un Paese che aveva molte caratteristiche asiatiche, relative al collettivismo delle comunità primitive.
Lo Stato plurinazionale e plurietnico russo stava sperimentando, al tempo dello stalinismo, delle esperienze sociali che in Europa occidentale, a causa del capitalismo, erano state superate da tempo: "superate" non in senso positivo ma negativo, in quanto completamente distrutte. Lo stalinismo, con lo strumento del socialismo statale, non ha fatto altro che applicare al proprio territorio tutte quelle incredibili nefandezze che il capitalismo occidentale aveva già realizzato, nel passato, al proprio interno e all'interno delle proprie colonie.
Quindi lo stalinismo non è un prodotto completamente autoctono dell'URSS. La principale differenza dai metodi brutali dell'occidente borghese stava semplicemente nel fatto che lo stalinismo faceva pagare soltanto alla propria popolazione i limiti del socialismo statale, mentre il capitalismo, grazie a colonialismo, imperialismo e globalismo, ne scaricava il peso all'esterno, sul Terzo Mondo (oggi Sud Globale).
Il fatto che lo stalinismo abbia potuto dominare così a lungo, sottomettendo l'economia alla politica, è dipeso da almeno due fattori:
1) la rivoluzione borghese è avvenuta molto tardi in Russia, e quando è avvenuta, è durata molto poco, sicché l'economia capitalistica non ha avuto tempo sufficiente per sottomettere la politica;
2) l'ideologia leninista era straordinariamente avanzata rispetto alla socialdemocrazia euroccidentale, sicché si riteneva impensabile reintrodurre il capitalismo dopo aver avviato la costruzione del socialismo statale (l'esperienza della NEP riguardò solo i piccoli produttori e i commercianti).
Non serve a niente sostenere che lo stalinismo fu la creatura di una persona particolarmente cinica e crudele. Lo stalinismo fu un sistema di governo largamente condiviso. Il suo principale difetto stava proprio nell'idea di socialismo statale che voleva realizzare. Bisogna rinunciare a questa idea, senza se e senza ma, togliendoci dalla testa l'illusione di poter realizzare un più democratico socialismo statale con leader migliori di Stalin e del suo entourage. Non è con l'umanizzazione soggettiva delle personalità che possiamo migliorare un sistema oggettivamente autoritario.
Rivoluzione politica e rapporti personali
Quando si è in procinto di compiere una rivoluzione politica, che comporti l'abbattimento di un sistema di potere, da sostituirsi con un altro, il valore delle amicizie personali conta relativamente.
Naturalmente fa piacere averne, poiché è importante poter contare sulla fiducia altrui. Ma non è sulla base dell'amicizia che si fanno le rivoluzioni.
Lenin lo disse più volte: le rivoluzioni si fanno con chi c'è in quel momento, con chi ne condivide gli scopi, le finalità e soprattutto le modalità di esecuzione. Il carattere del leader ha poca importanza, anche se è fondamentale, ai fini del consenso, mostrarsi umani e democratici, senza esagerazioni autoritarie ma anche senza forzature ipocrite.
Nell'imminenza dell'insurrezione armata, che avrebbe dovuto compiersi col favore delle tenebre, Gesù chiese a Giuda di eseguire un compito decisivo: "Quello che devi fare, fallo presto". Ora, è impensabile che scelse proprio lui a motivo di qualche caratteristica soggettiva. Semplicemente Giuda avrebbe dovuto eseguire l'ordine alla lettera, senza interpretarlo, senza infarcirlo di considerazioni personali.
Sappiamo che Kamenev e Zinov'ev si comportarono come traditori (quanto meno come crumiri) il giorno in cui il C.C. del partito bolscevico aveva deciso di rovesciare il governo di Kerensky. A causa del loro atteggiamento tutto sarebbe potuto andare in rovina, con grave danno per i cospiratori.
Eppure, subito dopo aver compiuto la rivoluzione, Lenin assegnò anche a loro due delle funzioni di alta responsabilità. Questo a testimonianza che, se è impossibile compiere le rivoluzioni soltanto con persone moralmente ineccepibili (semplicemente perché non è detto che ve ne siano), è altresì impensabile che non si commettano degli errori, anche gravi. Ed è non meno falso che questi errori non possano essere riparati grazie a una sincera autocritica. D'altra parte quando i tempi sono maturi per compiere una rivoluzione popolare, non è che ci si può formalizzare più di tanto di fronte agli inevitabili errori individuali. Anche perché, in genere, gli errori più gravi vengono dopo, quando, a rivoluzione compiuta, si cominciano a gestire i suoi risultati in maniera tale da portarla al fallimento o al tradimento.
Spesso infatti - sulla scia di Lenin - si sostiene che in occidente, a causa dei condizionamenti borghesi, è molto difficile far scoppiare una rivoluzione socialista. Bisognerebbe però aggiungere che, proprio a causa di quei condizionamenti, sarebbe anche molto difficile gestirla in maniera davvero democratica.
Anche un bambino è in grado di capire che quanto più diventano remote le esperienze storiche del socialismo democratico, tanto più difficile diventerà il loro recupero. Cioè anche se fosse possibile impostare la nuova società rivoluzionaria su basi socialiste, non si può dare per scontato che vi si riesca facilmente facendo leva su un elevato sviluppo tecnologico. Questo perché un socialismo davvero democratico può essere realizzato in maniera del tutto indipendente dal livello tecnologico dei suoi mezzi produttivi. Anzi, si può facilmente sostenere oggi che quanto più è elevata e diffusa la tecnologia, tanto più ne risente l'ambiente naturale. Quindi si potrebbe dire che una qualunque rivoluzione politica oggi non può prescindere da una rivoluzione ecologica.
Fare i conti sino in fondo
Fare i conti col proprio passato non vuol dire soltanto riabilitare integralmente le vittime del terrore staliniano o individuare tutti i nomi dei carnefici. Occorre anche cercare di capire come sia potuto accadere che un dato sistema ideologico e politico abbia potuto trasformare così tanto le persone da indurle a diventare mostruose.
Bisogna assolutamente escludere a priori l'idea che solo determinate persone, a causa del loro particolare carattere, erano più predisposte di altre a diventare criminali di stato, assassini legalizzati. Infatti se si procede in termini così psicologici, soggettivistici, non si potrà in alcun modo porre le basi perché una reiterazione dei crimini di stato venga impedita.
Qui bisogna cercare di capire molto seriamente come sia possibile che si affermi un terrorismo statale proprio mentre lo Stato dice di volersi difendere dal terrorismo presente nella società civile. Questo perché all'interno di una società è effettivamente possibile che si formino esperienze terroristiche, ma è anche indubbio che se è soltanto lo Stato ad accollarsi l'onere di debellarle, sarà poi impossibile impedire allo stesso Stato di compiere degli abusi.
Lo Stato esprime sempre, in sé e per sé, una gestione verticistica del potere. Per questa ragione va progressivamente smantellato. Se accadono azioni terroristiche all'interno della società, deve essere la stessa popolazione civile a risolverle. Bisogna togliere allo Stato la tentazione di approfittare delle contraddizioni sociali per aumentare a dismisura i propri poteri. Anzi, in presenza di determinati problemi, bisogna impedire che qualcuno rivendichi un potere particolare per risolverli.
La democrazia o è diretta o non è, e se è diretta, deve coincidere con la comunità locale. L'unica istituzione possibile è la stessa comunità locale. Non possono esistere istituzioni permanenti che non dipendono da un controllo periodico, possibilmente quotidiano, da parte della comunità locale.
Stato e società civile devono coincidere, ma dal punto di vista della società, che è Stato di se stessa, senza alcun bisogno di delegare a qualcuno o a qualcosa di esterno a sé la propria identità, la propria sicurezza, la propria esistenza in vita.
Se all'interno di una comunità locale si formano abusi nei confronti della democrazia, tendenze autoritarie, atti di terrorismo, la responsabilità ricade interamente, cioè nella sua interezza, sulla stessa comunità locale, che deve risolvere autonomamente i propri problemi. Le altre comunità possono intervenire soltanto quando vengono coinvolte (a vario titolo) da quella comunità che non è riuscita a risolvere i propri conflitti.
Se si vogliono creare istituzioni super partes, mediante cui si affrontano i conflitti irrisolti in una o più comunità locali, queste istituzioni devono avere un carattere limitato, un periodo di tempo transitorio, un obiettivo specifico da realizzare. Dopodiché vanno sciolte.
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Ridurre la critica dello stalinismo, limitandosi - come ha fatto Krusciov - al solo culto della personalità e ai crimini correlati, è stata una scelta minimalistica. Sarebbe stato meglio cercare di salvare tutto l'archivio privato di Stalin. Ancora oggi sarebbe importante sapere quante vittime ha causato quell'ideologia estremista e autoritaria.
Che i metodi dello stalinismo fossero stati profondamente acquisiti dai leader dell'entourage di Stalin, è dimostrato anche dal modo come hanno liquidato Berija. Sarebbe stato meglio processarlo e stabilire la verità su molte migliaia di fatti. Evidentemente si temeva che "parlasse troppo", e soprattutto lo temeva Krusciov, che lo eliminò senza tanti complimenti, pur avendo intenzione di iniziare la destalinizzazione.
Anche Vyšinskij andava processato, poiché mandò a morte migliaia di persone coi suoi metodi inquisitoriali: invece si preferì aspettare una morte naturale. E così è stato per altri leader stalinisti di spicco.
Non si sono fatti i conti seriamente col passato, ma si è scaricata tutta la responsabilità su Stalin (come i nazisti fecero con Hitler), limitandosi a fare della psico-politica. Questo comportò che anche Krusciov durasse poco. Infatti venne rimosso con gli stessi metodi stalinisti di sempre.
In ogni caso il vero problema non fu tanto quello di non riuscire a imbastire in Russia una specie di processo di Norimberga contro i grandi crimini e criminali dello stalinismo, quanto piuttosto quello di non riuscire a mettere in discussione il modello del socialismo statale. La pretesa democratizzazione avviata da Krusciov fu superficiale, non intenzionata o forse del tutto incapace di modificare l'impianto generale del sistema.
Gorbaciov cercò di ripercorrere la strada di Krusciov, bruscamente interrotta dallo stalinismo della stagnazione brezneviana; cercò di approfondirla, di estenderla alla struttura economica. Ma anche quella volta gli stalinisti si opposero ed ebbero la meglio, seppur poco tempo dopo furono sconfitti dal neoliberismo a oltranza di El'cin.
Sembrava una maledizione da cui la Russia non sarebbe mai stata in grado di uscire. Paradossalmente chi cercò di opporsi agli stalinisti (El'cin), ne approfittò per abbattere l'intero sistema statale, favorendo l'introduzione del capitalismo privato più selvaggio, che in Europa occidentale non lo si vedeva dai tempi di Marx. Praticamente consegnò la Russia nelle mani degli americani. Ecco perché gli Stati Uniti s'illusero che le condizioni estremamente vantaggiose acquisite negli anni '90 sarebbero durate per i secoli a venire.
Con El'cin la Russia passò dalla padella alla brace, come se fosse un Paese totalmente incapace di vera democrazia, un impero votato, in un modo o nell'altro, alla violenza più cieca e irrazionale.
Forse qualcuno può pensare che, essendo stato il primo Paese al mondo a realizzare le idee del socialismo scientifico, molti errori, anche gravi, non potevano che essere inevitabili. Resta il fatto che in questo immenso Paese ancora oggi è molto forte il desiderio, anche da parte della popolazione comune, di avere una leadership molto autorevole, se non addirittura autoritaria. Nella lingua italiana si fa molta differenza tra la parola "autorevole" e "autoritario". Non so se nella lingua russa si faccia la stessa distinzione: benché anche loro abbiano due parole diverse, non è da escludere che la seconda venga usata come sinonimo della prima.
Gli analisti dicono che sia impossibile governare un Paese così gigantesco senza una leadership autoritaria. In questo senso non meraviglia più di tanto che uno storico, pur molto equilibrato, come Giuseppe Boffa, lasci capire che la sostituzione, al tempo dello stalinismo, dei tanti modi di vita e di produzione con uno solo in tutto il Paese, fu, in definitiva, un fenomeno positivo (p. 246 in Storia dell'Unione Sovietica, 1928-41, o. c.).
Per quanto ci riguarda, pensiamo proprio il contrario, e cioè che se per ottenere la democrazia sociale o il socialismo democratico, è necessario che la Federazione Russa venga scissa in Stati più piccoli, non ci si dovrebbe porre nessun problema. Non è detto che lo sviluppo della democrazia sia favorito dal fatto che la Russia dispone di così ingenti ricchezze energetiche e di altre materie prime: potrebbe essere anche il contrario.
Tutti i grandi Stati odierni - che in fondo somigliano a degli imperi nelle dimensioni - dovrebbero essere suddivisi internamente in entità più piccole, basate sulle diversità culturali, etnico-linguistiche, che sono sicuramente anteriori di molti secoli alla formazione politico-nazionale di quegli Stati, alla loro unificazione nazionale, o meglio, plurinazionale. è evidente, infatti, che quando si formano Stati così imponenti, esiste sempre una tradizione o cultura o etnia o lingua che prevale su tutte le altre.
Una domanda retorica
Oggi la domanda che si poneva Roj A. Medvedev nell'Introduzione a Lo stalinismo, è diventata retorica: "Non era meglio concentrare la nostra attenzione sulla costruzione del comunismo, lasciando l'analisi dei crimini di Stalin agli storici futuri?" (p. 3).
L'autore fa bene a sostenere che non ha alcun senso parlare di socialismo senza parlare degli errori e orrori dello stalinismo: in fondo ha scritto il suo monumentale libro nel periodo 1962-68.
Tuttavia oggi la sua domanda è diventata retorica perché non esiste alcuna esperienza di socialismo democratico che meriti d'essere considerata come una vera alternativa al capitalismo. Quindi è proprio inutile parlare di "comunismo": mancano le giuste coordinate per farlo, i requisiti metodologici.
Lo stalinismo ha completamente distrutto l'idea di socialismo democratico e ha dimostrato che qualunque idea di socialismo statale è destinata a fallire. Da questo punto di vista per reimpostare in maniera euristica un discorso un minimo convincente sul socialismo bisogna rifarsi a esperienze completamente diverse.
Semmai oggi dovremmo dire che la situazione geopolitica, in cui si scontrano due forme di capitalismo, quello privato occidentale e quello statale di marca cinese o russa, non è meno preoccupante di quella al tempo dello stalinismo o del maoismo. Lo scontro infatti sta avvenendo tra superpotenze nucleari, che potrebbero distruggersi a vicenda e nuocere a gran parte dell'umanità.
Sul piano ideologico il conflitto di fondo è tra una democrazia falsa e bugiarda (quella occidentale) e una democrazia imperfetta, che per svilupparsi ha bisogno della forza dello Stato, senza rendersi però conto che proprio tale forza può costituire una seria minaccia al suo ulteriore sviluppo.
La differenza tra il capitalismo statale russo e quello cinese sta nel fatto che in quest'ultimo l'ideologia socialcomunista gioca ancora un ruolo di rilievo. Cioè i dirigenti cinesi vogliono far credere che uno sviluppo mercantile del socialismo è compatibile con l'ideologia dei classici del socialismo scientifico, a condizione che l'economia e la finanza vengano sottoposti a un controllo statale.
Ovviamente Medvedev non poteva sapere nulla di tutto ciò, in quanto negli anni '60 le tracce dello stalinismo erano ancora ben visibili in quegli statisti che tolsero di mezzo la scomoda figura di Krusciov e che inaugurarono il periodo della cosiddetta "stagnazione". Non a caso quel libro, allora, non poté essere pubblicato nell'URSS; anzi costò all'autore l'espulsione dal partito. Oggi invece sarebbe un libro del tutto innocuo, quanto meno perché nella Federazione Russa si è smesso di parlare di socialismo (l'unico a farlo è il partito di Zjuganov, che però non mette in discussione l'idea di un socialismo statale). E, in ogni caso, se vi sono ancora tracce di "stalinismo", non vengono più associate a un'ideologia o a un partito che si richiami per statuto ai princìpi del marxismo-leninismo. Il putinismo può anche sembrare un'ideologia autoritaria, ma per molti versi si oppone al socialismo; anzi, in un certo senso, se proprio vogliamo usare delle etichette, si avvicina di più a un populismo a sfondo religioso, che ricorda i tempi pre-sovietici.
La violenza che può esercitare il potere politico in Russia si rifà a ideologie che col socialismo scientifico nulla hanno a che fare.
Crimini troppo grandi
Nel complesso si può tranquillamente affermare che se anche in qualche aspetto teorico o pratico Stalin può aver avuto ragione, i suoi crimini sono stati talmente grandi che offuscano qualunque merito egli possa aver avuto. Anzi, si può dire che qualunque cosa giusta egli abbia potuto dire o fare, chiunque, al suo posto, avrebbe ugualmente potuto dirla o farla, in quanto non era prerogativa di una persona eccezionale, come lui invece si faceva passare quand'era in vita.
Cioè in lui non è possibile riscontrare qualche virtù esclusiva, in forza della quale egli meritava di acquisire il successo che ha ottenuto. Semmai dovrebbe essere il popolo russo (e di tutte le altre etnie e nazionalità dell'URSS) a chiedersi il motivo per cui esso stesso non sia riuscito a scoprire e a impedire i grandi crimini che Stalin e il suo entourage hanno compiuto.
Per es. Lenin, alla fine della sua vita, aveva capito chiaramente la pericolosità di Stalin riguardo all'unità del partito. Aveva anche chiesto, nel suo Testamento politico, di rimuoverlo dalla carica di segretario generale. Gli storici sovietici han dato molte spiegazioni sul motivo per cui in Russia rimase un solo partito, ma non si sono sforzati molto di spiegare quali potevano essere le condizioni per rispettare il Testamento di Lenin. Tali condizioni dovevano andare oltre le caratteristiche psicologiche dei leader che avevano compiuto la rivoluzione.
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Bisogna dare pienamente ragione a Medvedev quando afferma che, valutando l'opera di Stalin, è del tutto sbagliato sostenere che "i grandi meriti danno talvolta il diritto di commettere dei crimini" (p. 678, o.c.).
Lo dice - beninteso - perché di Stalin non salva nulla, non perché gli riconosca qualche merito. Per lui è semplicemente un "mito" che fosse "un grande leader" (ib.). Tuttavia non lo dice perché contrario all'idea di un socialismo statalizzato. Infatti aggiunge: "Né per il fatto che l'Unione Sovietica abbia compiuto dei progressi negli anni del potere staliniano ne deriva che Stalin fosse un buon comunista o un grande marxista-leninista. Un buon esercito può vincere anche con un cattivo comandante" (ib.).
Anche da queste semplici affermazioni è facile comprendere come Medvedev fosse una persona eticamente irreprensibile, anche se ingenua sul piano politico. Infatti stalinismo e socialismo statale non sono due elementi separabili. Questa inscindibilità non venne compresa neppure da quegli statisti comunisti che nel passato gestivano, in altri Paesi, un socialismo ugualmente statalizzato, pur senza la perfidia criminale degli stalinisti sovietici. Lo dimostra il fatto che quando si cercò di democratizzare questa forma di socialismo (per es. in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968), i governi in carica o comunque i partiti comunisti non si opposero in maniera decisa (o non seppero farlo) a un intervento militare dell'URSS. Si era assolutamente convinti che un'alternativa al capitalismo occidentale fosse possibile solo nella forma statalizzata del socialismo.
Il fatto che dopo il fallimento di quella tipologia di socialismo non si sia riusciti a costruire un socialismo autenticamente democratico, non può certo voler dire che l'unica forma possibile del socialismo sia quella statalizzata. Se fosse così, il capitalismo durerebbe in eterno; cioè anche se vi fossero guerre tra Stati capitalisti o tra questi Stati e quelli colonizzati, la formazione sociale capitalistica resterebbe, nella sostanza, invariata. Persino gli Stati che vogliono liberarsi del colonialismo, lo farebbero per diventare capitalisti in autonomia, difendendo una propria totale sovranità.
Oggi invece siamo arrivati alla conclusione che l'esigenza di un socialismo democratico non è semplicemente connessa al superamento degli antagonismi sociali tipici del capitalismo, ma anche a un ripensamento del primato della scienza e dell'industria su tutto quanto è naturale. Tale consapevolezza non può essere ricercata in nessuno dei fondatori e sviluppatori del marxismo-leninismo o del socialismo scientifico. Occorre un altro paradigma interpretativo della realtà.
Spietatezza insensata
Fascismo e nazismo volevano dire certamente anti-democrazia e anti-comunismo, ma i loro leader non fecero mai pagare agli iscritti al partito gli errori che il partito stesso commetteva.
è vero, Hitler nella cosiddetta "notte dei lunghi coltelli" fece fuori alcuni elementi di sinistra del suo partito, ma un'epurazione del genere fu un caso piuttosto raro. Un'altra la fece dopo aver subìto un attentato nella "Tana del lupo", uno dei suoi quartier generali, ma si poteva capire.
In realtà gli iscritti pagarono gli errori del partito solo quando non si volle ammettere che con la Russia non c'era niente da fare, ma in quel caso le conseguenze ricaddero su tutti e su tutta la popolazione nazionale.
Viceversa Stalin, mentre eliminava, in tempo di pace, migliaia di dirigenti comunisti, del proprio partito e dello Stato che governava, non poté mai dimostrare che qualcuno avesse attentato alla sua vita. Nessuno poté mai esibire la verità di nessuna accusa contro i condannati a morte, proprio perché ci si limitava alle confessioni estorte con la forza. Chi, ancora oggi, sostiene il contrario, continua a perorare la causa dello stalinismo.
Anche Mussolini fece fuori alcuni esponenti di rilievo del suo partito (il più importante dei quali fu Ciano), ma perché lo pretese Hitler. Se fosse dipeso da lui, non l'avrebbe fatto. E il dittatore Franco, in Spagna, eliminò forse qualcuno della Falange? Si limitò a emarginanare alcuni politici di spicco, sostituendoli con altri più leali al suo regime.
Stalin non si accontentava di eliminare quelli che lui considerava suoi nemici personali (la maggior parte dei quali, peraltro, non lo era affatto), ma sterminava anche i parenti di costoro, persino nel caso fossero totalmente estranei ad alcuna attività politica. Un atteggiamento del genere non può rientrare, sic et simpliciter, nel novero delle dittature consuete: c'è qualcosa di patologico.
Finita la guerra, i sovietici pretesero che a Norimberga si tenesse un processo pubblico a carico dei nazisti, ma non hanno mai preteso un analogo processo a carico dello stalinismo. La destalinizzazione, avviata da Krusciov e ripresa da Gorbaciov, non arrivò mai a riabilitare tutte le vittime dello stalinismo, non arrivò mai a considerare dei criminali veri e propri tutti coloro che obbedivano ciecamente alle direttive dello stalinismo. In nome della politica si chiuse un occhio sull'etica e sul diritto, che pur avevano subìto gravissime offese, ancora oggi rimaste senza piena riparazione.
Eliminare i parenti
Incredibile che Stalin chiedesse di eliminare anche i parenti più prossimi ai condannati a morte. Medvedev dice chiaramente che "l'epurazione di ogni leader di partito si accompagnò all'arresto di centinaia, perfino di migliaia di persone direttamente o indirettamente connesse con lui" (pp. 413-4, o.c.). Quando non parenti stretti, erano amici, colleghi, collaboratori, dipendenti…
Questo modo primitivo di ragionare col criterio della "colpa collettiva" era tipico degli europei nelle loro colonie. Oggi lo si vede tra i sionisti, intenti a massacrare qualunque palestinese pur di espropriarlo dei suoi beni e della sua terra natìa. Anche gli statunitensi, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, consideravano tutti i giapponesi residenti nel loro Paese come potenziali nemici, per cui li reclusero in riserve speciali.
"Chiunque è vicino a un mio nemico non può essere considerato mio amico". è incredibile questa superficialità di pensiero, questa ristrettezza di vedute anche in popoli tecnologicamente evoluti.
Se pensiamo che oggi, nel conflitto russo-ucraino, molti soldati ucraini si arrendono, chiedendo di andare a combattere nello stesso esercito russo, vien da pensare che le cose siano cambiate parecchio. Non si deve pensare che un soldato sia tenuto esclusivamente a obbedire.
Capra e cavoli
Dalle seguenti affermazioni è facile capire quanto fosse legato Volkogonov al suo Paese e quanto ci tenesse a non essere espulso dal suo partito: "Anche se il livello di vita medio era di poco superiore alla soglia di povertà, il fatto stesso che esistesse una tendenza a un miglioramento lento ma continuo, generava un certo consenso" (p. 600, o.c.). E più avanti: "Il lavoro duro e disinteressato del popolo sovietico non poteva non dare qualche risultato. Nella società non si notavano segni evidenti di corruzione, né quel degrado morale della leadership che sarebbe emerso con chiarezza due o tre decenni dopo la morte di Stalin. L'atmosfera generale era quella di una società moralmente sana: il sistema della burocrazia totale sembrava in qualche modo soddisfare ampi strati della popolazione" (ib.).
Cerca di salvare capra e cavoli, anche se in altre pagine è molto duro con lo stalinismo, peraltro giustamente.44 Si fa comunque molta fatica a credere in queste parole. Il consenso allo stalinismo poteva forse venire dagli ambienti ideologizzati del partito o da quelli corrotti dello Stato; difficilmente emergeva in chi aveva sofferto la collettivizzazione forzata, l'esperienza del gulag, il confino, la deportazione, il terrore, la repressione… Spesso gli storici sovietici dell'URSS guardano le cose da una prospettiva limitata, da un angolo visuale piuttosto parziale; dopodiché tendono a generalizzare, come se davvero potesse esistere un consenso libero, spontaneo allo stalinismo.
Uno storico non dovrebbe comportarsi così. Ma forse una storia obiettiva della Russia sovietica potrà un giorno essere fatta soltanto da uno studioso che non sarà né comunista né anticomunista, andando oltre gli schemi ermeneutici tradizionali. In fondo lo stesso autore lo dice: "tra qualche decennio queste cupe pagine della cronaca del popolo sovietico saranno esaminate con più profondità e più decisione. Oggi il passato è ancora troppo vicino…" (p. 617).
A volte si ha l'impressione che l'autore faccia affermazioni più pertinenti al genere del romanzo storico che non alla storiografia vera e propria. Per es. quando sostiene che il popolo sovietico accettava un "lavoro duro e disinteressato" perché si accorgeva che dava un "qualche risultato", non si rende conto che anche il lavoro schiavile della Roma antica fu in grado di produrre magnifiche reti stradali, idriche e fognarie, ma non per questo si può dire che venisse fatto con orgoglio e soddisfazione personale. Il lavoro sovietico era sempre frutto di una coercizione, magari non direttamente "economica" come quella della rendita feudale, o non direttamente "fisica" come quella schiavile, in quanto in epoca moderna il cittadino è giuridicamente libero, ma sempre coercizione era. I miglioramenti strutturali o infrastrutturali del Paese erano per lo più frutto di un'imposizione cui tantissime persone non potevano sfuggire; e di queste, non poche morirono di stenti, malattie, malnutrizione, condizioni climatiche proibitive…
Non si può essere teneri con lo stalinismo. I segni della corruzione erano facilmente evidenti, e non emersero ufficialmente due-tre decenni dopo la morte di Stalin, ma già col rapporto segreto di Krusciov, che pur si volle tenere circoscrivere ai processi-farsa, al culto della personalità e agli errori clamorosi di strategia compiuti all'inizio dell'"Operazione Barbarossa".
Inoltre bisogna sfatare un mito. Non è vero che in presenza di una dittatura politica, di uno Stato burocratico e autoritario, la società civile può comunque salvaguardare se stessa e restare "moralmente sana". Una mela marcia corrompe tutto il cesto. Più tempo si permette alla dittatura di esistere e più la società si corrompe, e più drammatiche saranno le conseguenze su di sé; e anche quando, ad un certo punto, la popolazione riesce a sollevarsi, perché proprio la dittatura è diventata assolutamente insopportabile, si finisce col creare un'alternativa poco credibile, debole sul piano etico e politico, destinata dopo un po' di tempo a ricreare i mali precedenti, ovviamente in forme mutate.
Se si ha il coraggio di affermare che "il sistema della burocrazia totale sembrava in qualche soddisfare ampi strati della popolazione", allora bisogna poi aggiungere che non è certamente possibile che da questi strati della popolazione si possa attendere una qualche evoluzione del socialismo in direzione della democrazia, cioè una vera intelligenza delle cose. Quando si è accecati dall'ideologia, non si è disposti a credere in nulla che possa contraddirla, neanche all'evidenza dei fatti, come ben descrive, simbolicamente, il mito platoniano della caverna. E quando si preferisce accettare il totale relativismo delle idee e dei valori, allora forse è anche peggio.
Bastone e carota
Quando le repressioni staliniste furono così estese che in tutta la Russia non c'era una famiglia che non avesse subito almeno un lutto o una qualche grave ingiustizia, Stalin, fingendo naturalmente di non saperne nulla, fece giustiziare, nell'estate 1940, colui che poteva essere facilmente considerato l'ideatore ed esecutore principale di quelle immani stragi: Nikolaj I. Ežov.
Il principio cardine dello stalinismo era: "l'opposizione politica si trasforma presto in violenza e terrorismo". Stalin aveva preteso Ežov al posto del criminale Jagoda e lo sostituì col criminale Berija.
L'importante era tenere l'intero Paese sotto pressione. Cioè la popolazione andava soltanto illusa che la situazione sarebbe migliorata. E, in effetti, nel momento del passaggio da un carnefice a un altro un po' si poteva respirare.
Fortuna volle (per modo di dire, s'intende) che nel giugno 1941 Hitler scatenò l'"Operazione Barbarossa", così almeno i sovietici potevano sperare di morire per una buona causa e non più senza motivo, per mano di una dirigenza folle e assassina.
Durante la guerra (caso più unico che raro) ci furono alcune migliaia di riabilitazioni. Medvedev ne spiega la ragione: "Stalin riteneva probabilmente che un piccolo numero di riabilitazioni servisse a sottolineare, più che a rinnegare, la giustizia delle repressioni di massa" (p. 303 o.c.). Io avrei omesso l'avverbio "probabilmente", anche perché lo stesso autore afferma che "arresti e fucilazioni accompagnarono Stalin fino agli ultimi giorni della sua vita" (p. 304).
Certamente uno può anche pensare, dopo aver constatato che le mostruosità dello stalinismo sono state compiute praticamente a partire dalla fine degli anni '20, che la rivoluzione d'Ottobre avvenne per puro caso, cioè forse perché la vollero energicamente Lenin e pochi altri bolscevichi. Sarebbero legittimo pensarlo, poiché a nessuno venne in mente che Stalin si stava comportando peggio dello zar più criminale che la Russia avesse mai avuto, o comunque a nessuno venne in mente di cercare un modo concreto per toglierlo di mezzo.
Su Berija, figura ideale per ogni stalinista, R. Medvedev parla chiaro: "Fin dall'inizio fu un carrierista privo di scrupoli, capace di ogni delitto" (p. 297). Per di più "non era mai stato un marxista o un rivoluzionario" (ib.). Quindi non sarebbe mai potuto diventare un oppositore ideologico o politico. Era solo un soggetto molto pericoloso, di cui non era possibile fidarsi in alcun modo, tant'è che subito dopo la morte di Stalin fu eliminato, forse senza alcun processo.45
Tutti gli altri psicopatici dell'entourage di Stalin poterono invece morire o di vecchiaia o di malattia, senza mai essere accusati o processati di alcunché. Questo a testimonianza che per destalinizzare una società non basta eliminare fisicamente i suoi artefici. Anzi, questa è un'azione che non serve proprio a niente. Semmai servirebbe di più processarli, chiamando a testimoniare i sopravvissuti alle loro nefandezze, alle loro azioni terroristiche.
L'URSS pretese che a Norimberga si tenesse un processo contro i crimini del nazismo, ma, dopo la morte di Stalin, Krusciov non ebbe la forza di pretendere un analogo processo contro gli ideatori dello stalinismo. Probabilmente temeva d'indebolire il Paese nei confronti degli Stati capitalisti avanzati. O che addirittura la verità avrebbe fatto crollare l'intero castello di carte chiamato "socialismo reale" e quindi aperto le porte a una nuova guerra civile.
Una volta Putin disse a chi lo accusava d'essere uno stalinista, pur non professando un'ideologia comunista: "Noi i conti col nostro passato li abbiamo già fatti". In realtà i russi, sino in fondo, non li hanno mai fatti. E se pensano che, scegliendo un capitalismo statale, abbiano il diritto di sentirsi esonerati da questo difficile, anzi tormentato impegno della coscienza, continueranno a vivere come nel film Truman Show, in una bolla sognatrice. E da questa bolla non potranno pretendere di uscire né dopo aver vinto in Ucraina, né dopo aver fatto trionfare il gruppo dei BRICS, né dopo essersi sostituiti militarmente ai francesi in Africa, o cose del genere, che sicuramente sono di successo e che meritano ogni rispetto.
Potrebbero anche distruggere la NATO, ridurre Israele ai minimi termini, polverizzare le basi nucleari degli USA e della UE, ma il nodo gordiano resterà sempre lì, più stretto che mai. I russi devono imparare a vivere la democrazia, quella diretta, e devono fare un esperimento che li dovrà segnare per tutta la vita: realizzare un socialismo davvero democratico, secondo la volontà dei classici del marxismo e del leninismo.
Una dittatura superiore
Ci vorrebbe un fine psicologo per capire il motivo per cui Stalin, nell'arco di pochissimi giorni, dicesse o promettesse una cosa, e poi faceva praticamente tutto il contrario. Non si può qualificare come "capriccioso" un comportamento del genere. Ma è pure limitativo dire che soffrisse di una qualche forma di schizofrenia o di disturbo bipolare. Di sicuro un soggetto così instabile non avrebbe dovuto avere nessun tipo di potere.
Tuttavia uno che si comporta tranquillamente in una maniera così folle e disumana doveva per forza beneficiare di ampia complicità o condiscendenza, anche se, per non rischiare d'essere eliminato, doveva far vedere di non essere responsabile di alcun crimine.
Sarebbe quindi meglio dire che Stalin fu un grande mistificatore, in quanto sapeva che in un confronto diretto con un qualunque avversario di formazione intellettuale avrebbe sempre avuto la peggio. Doveva mascherare al massimo i fallimenti della sua politica economica, e uno dei modi migliori per farlo fu quello d'inventarsi l'epiteto ignominioso di "nemico del popolo", cioè di persona irrecuperabile, destinata a essere incarcerata per lunghissimo tempo o addirittura giustiziata. Lui stesso arrivò ad affermare, contro ogni senso di etica umanistica, che la pressione fisica (cioè la tortura) era ammissibile contro un "nemico del popolo", esattamente come in tutti i Paesi occidentali la usano contro i rappresentati del proletariato socialista.
Stalin non cercava mai un'alternativa democratica ai disumani metodi capitalistici, ma soltanto un pretesto per giustificare le sue repressioni interne. Evidentemente sapeva che nessuno l'avrebbe contestato per non aver cercato delle alternative sul piano etico. Tutti erano convinti che quelle trovate sul terreno socio-economico fossero di per sé sufficienti a giustificare qualunque cosa.
è singolare che mentre nei Paesi occidentali il fallimento del fascismo italiano comportò la destituzione di Mussolini nel 1943, messo in minoranza al Gran Consiglio e arrestato dalla corona; e mentre il fallimento del nazismo tedesco in Russia comportò il tentativo di eliminare in maniera terroristica il Führer e il suo entourage nel 1944; viceversa in Russia Stalin non subì mai alcun attentato, alcuna votazione negativa, da parte degli altri dirigenti politici, che mettesse in discredito la sua autorità.
Non dimentichiamo che Stalin rimase sepolto accanto a Lenin, nel mausoleo, fino al 1961, e che solo di nascosto la sua salma fu trasferita altrove. Ma ci volle il XX Congresso del Pcus (1956) per convincersi di questa necessità.
Tragiche epurazioni di massa
Le epurazioni più tragiche furono fatte nel biennio 1937-38, perché, dopo un decennio, era evidente a tutti il fallimento sia dell'industrializzazione accelerata che della collettivizzazione forzata. O meglio: a tutti era chiaro che la prima veniva pagata dalla seconda e che, nonostante questo, il Paese viveva nella miseria più nera.
Gli stalinisti volevano attribuire ai bolscevichi il formarsi di una certa ideologia ritenuta "insensata", di una certa politica ritenuta "autoritaria", priva di sbocchi. Non c'erano altri "nemici" (da inventare) su cui rifarsi, poiché tutti gli altri erano già stati eliminati negli anni precedenti.
Tuttavia il vero problema, secondo noi, era un altro: perché nessun dirigente del partito reagì? Al massimo, infatti, vi furono reazioni individuali, non opposizioni organizzate. Eppure avevano militato nel partito da molti anni. Sui temi dell'organizzazione, della propaganda, del consenso non erano certo degli sprovveduti.
I dati relativi alle persone arrestate o eliminate, offerti da R. Medvedev, sono semplicemente spaventosi. Non vale neanche la pena riportarli (si trovano nel cap. VI). Fu un autentico inferno per i dirigenti del partito, dello Stato, delle forze armate, degli intellettuali, dei sindacati, persino delle organizzazioni giovanili e delle confessioni religiose46. Si salvarono solo quelli che avevano sempre taciuto o quelli che si erano comportati come criminali al servizio dello stalinismo, e a volte neppure questi, in quanto gli stalinisti il più delle volte volevano far vedere che la politica economica era fallita anche per colpa di chi aveva eseguito male le direttive centrali. Volevano far vedere al popolo che il "centro" aveva sempre ragione e che la "periferia" spesso aveva torto.
I militari, nei loro ranghi ufficiali più elevati, andavano eliminati, a titolo semplicemente precauzionale, nel timore che potessero compiere un colpo di stato. Cioè mentre il nazismo e il fascismo avrebbero avuto paura per i destini della loro dittatura, se avessero sterminato le figure apicali del partito e dello Stato; lo stalinismo invece non ne ebbe alcuna. Evidentemente sapeva di avere a che fare con una popolazione abituata a obbedire. Come se sapesse a priori che tutte le persone che falcidiava, non avrebbero opposto alcuna resistenza! Come se queste persone avessero il dovere di ritenersi, a vario titolo e grado, complici di qualcosa! In effetti di una cosa molti dovevano ritenersi responsabili: della gestione folle dell'economia.
Non è da escludere che molti si facessero ammazzare senza reagire, proprio perché si sentivano in colpa d'aver permesso il trionfo dello stalinismo, che tanto aveva nuociuto agli interessi delle classi rurali e delle etnie e nazionalità minoritarie, ma anche ai diritti fondamentali dell'uomo, come la libertà di coscienza, di parola, di associazione…
I più ingenui o i più sani di mente o quelli con un briciolo di umanità preferivano morire martiri piuttosto che continuare a fare i criminali contro il proprio popolo. Si pentirono di non aver avuto il coraggio o l'intelligenza di opporsi con la dovuta fermezza quando lo stalinismo era ancora in fieri.
Forse lo stalinismo avrebbe preferito dei suicidi di massa, ma se nelle tradizioni russe esiste una sorta di culto per il martirio (per es. nelle tradizioni cristiane), il suicidio non è una pratica cui si ricorre per evitare sofferenze, privazioni, umiliazioni… Lo slavo è un popolo resistente (resiliente), abituato a grandi sacrifici. I dirigenti si lasciavano ammazzare, convinti che col tempo sarebbero stati riabilitati.
I nazisti se ne accorsero, sicché, vedendo i russi così indeboliti, nel 1939 gli offrirono un patto (Ribbentrop-Molotov) con cui li vincolavano allo scoppio della guerra mondiale, e nel 1941 decisero di attaccarli, sperando di sconfiggerli entro pochi mesi, visto che tutte le popolazioni sovietiche stavano sopportando da un ventennio dei dirigenti criminali.
La percentuale della sofferenza
Probabilmente in ogni Stato esiste una percentuale di abitanti che, rispetto al totale della popolazione, può essere considerata potenzialmente eliminabile, senza che ciò faccia scattare quell'inevitabile reazione umana che si è soliti definire col termine di "istinto di autoconservazione". In caso contrario è difficile spiegare il motivo per cui le popolazioni dell'URSS non abbiano reagito con decisione alle repressioni di massa compiute dallo stalinismo.
Prendiamo per es. questa affermazione di Medvedev: "In Azerbaijan più di diecimila persone furono fucilate sotto l'accusa di aver tentato di uccidere Bagirov" (p. 419, o.c.).47
Oppure quest'altra: "In Georgia vennero uccise migliaia di persone che potevano essere di ostacolo a Berija e alla sua banda" (ib.).48 In Georgia "dei 644 delegati al X Congresso del partito georgiano, riunitosi nel maggio 1937, 425, ovvero il 66 per cento, furono arrestati, fucilati o esiliati" (p. 255). E qui si tratta solo di casi specifici, localizzati geograficamente.
Insomma delle due l'una: o Medvedev esagera nel fornire numeri così incredibili, oppure bisogna dire che, nonostante la loro ampiezza, non erano ancora così preoccupanti da suscitare l'esigenza di organizzare una ribellione di massa. Il che però appare inverosimile, anche se bisogna considerare che in Russia la popolazione era diffusa su un territorio immenso, per cui non era facile organizzarsi. Non solo, ma eliminare frange significative di tale popolazione non avrebbe potuto avere lo stesso peso che farlo in uno spazio molto più ristretto.49 Non va poi esclusa l'efficienza degli apparati di polizia dello stalinismo.
Forse ci vorrebbero degli studi psico-sociali per cercare di capire quale sia la soglia di resistenza al dolore oltre la quale una determinata popolazione non può andare. Qui però è difficile non tener conto delle abitudini pregresse. Infatti si può anche accettare l'idea che quanto più una popolazione è coesa, tanto meglio riesce a sopportare una massiccia repressione. Cioè se una popolazione ha l'abitudine a subire angherie e persecuzioni da parte dei governi al potere, può anche essere indotta a credere che, in virtù dell'unità popolare locale, riuscirà comunque a sopravvivere, in quanto si reputa superiore a qualunque potere politico centrale.
Ma a questo punto ci si dovrebbe chiedere il motivo per cui una popolazione così coesa non sia riuscita a trovare in se stessa la capacità per opporsi con fermezza a una determinata repressione. Peraltro, di fronte a una popolazione molto unita, dove troverebbe il potere centrale la forza per una repressione massiva? e senza temere per sé alcuna conseguenza?
è davvero molto complesso ipotizzare un'adeguata spiegazione a certi comportamenti collettivi. Di sicuro non può essere fatto in maniera astratta e generica. Ovviamente, pensando, col senno del poi, alla fine che ha fatto il socialismo statale, si può anche essere indotti ad attribuire una particolare verità a questo modo sociologico di ragionare, favorevole alle tradizioni, agli usi e costumi popolari. Ma è anche vero che l'identità originaria delle comunità primitive nell'area asiatica della Russia, è stata completamente sconvolta dallo zarismo e dallo stalinismo, e di sicuro non tornerà più come prima. In fondo ci si può anche illudere, restando un'infima minoranza, priva di potere politico, di riuscire a conservare le migliori tradizioni, i valori più significativi del proprio passato.
I processi-farsa
Quando si prende in esame l'argomento dei processi-farsa sotto lo stalinismo, uno storico, un minimo obiettivo, non può non metterli in relazione con la situazione socio-economica di allora. Quelli infatti sono processi così assurdi che se vengono presi in sé e per sé, cioè decontestualizzati, è impossibile capirne il motivo. Tutti gli inquirenti appaiono accecati da un'ideologia criminale, che è anti-comunista pur in nome dello stalinismo: un'ideologia che non ha assolutamente nulla di democratico, non rispecchiando neppure le condizioni minime della legislazione giuridica dei Paesi capitalisti.
Volkogonov è costretto a fare della psicologia, dando delle spiegazioni che chiamano in causa il ruolo dell'inconscio. Politici, ministri, procuratori, giudici chiedevano la morte di persone innocenti solo per il gusto di farlo, solo perché provavano un piacere sadico nell'esercitare il loro potere.50
Tuttavia non si può essere così superficiali, meno che mai quando si ha possibilità di accedere a una parte degli archivi più compromettenti. Alla fine della lettura del capitolo "L'epicentro della tragedia" del suo libro si resta con l'amaro in bocca, e ci si chiede come sia stato possibile che tutta una serie di persone di potere si siano comportate come se fossero state mentalmente squilibrate. Era stata l'ideologia stalinista a ridurle così, oppure ognuno di loro aveva delle turbe psichiche inconsce? E come mai questi criminali incalliti, autori di infiniti omicidi giuspolitici, han potuto morire di morte naturale (salvo Berija), senza mai essere stati processati? Ancora oggi ci si chiede come sia possibile fidarsi di una popolazione che non ha mai davvero fatto i conti col proprio passato.
In realtà le repressioni di massa non avevano nulla a che vedere né coi cosiddetti "nemici del popolo", né col trockismo come ideologia da superare, né con possibili colpi di stato militari o attentati terroristici contro qualche dirigente di partito, né con sabotaggi agli impianti industriali o ai colcos, né con possibili attacchi militari da parte di potenze capitalistiche estere. Anche nel caso in cui tutte queste cose vi fossero state, non avrebbero mai potuto costituire un problema così catastrofico da provocare una reazione politica così folle e disumana.
L'unico vero scopo di tutte quelle sanguinose repressioni di massa era di coprire i fallimenti dei piani quinquennali, cioè della politica economica realizzata dallo stalinismo, che in sostanza si estrinsecava nell'obiettivo di statalizzare tutta l'economia. I pretesti elencati sopra dovevano soltanto giustificare dei crimini che non si sarebbero potuti compiere chiamando in causa delle motivazioni economiche.
Se non si parte da questo presupposto, cioè se non si dà per scontato che il socialismo statale non ha nulla di "democratico" e che non può costituire un'alternativa al capitalismo e alla civiltà borghese, i processi-farsa non possono essere assolutamente capiti. Anzi, quanto più le loro cause vengono imputate alle menti malate dei loro protagonisti attivi, tanto meno si finisce col non mettere in discussione l'idea stessa di "socialismo statale", lasciandoci disarmati di fronte all'eventualità che, in presenza di un regime analogo, la mostruosità possa ripetersi.
Uno storico non può neppure limitarsi a studiare il passato, ma deve offrire delle chiavi di lettura per il presente, aiutandoci a capire come non ripetere taluni gravissimi errori.
Due diverse inquisizioni
La repressione di massa negli anni 1935-38, coi suoi assurdi processi, non incontrò alcuna vera opposizione.
Le accuse erano così mostruose che praticamente i pubblici inquirenti ritenevano insensato garantire una difesa agli imputati, i quali peraltro, sotto tortura, avevano già dovuto confessare tutto quanto veniva loro richiesto. Le cosiddette "prove" non servivano, e neppure i testimoni. La confessione era ritenuta superiore a tutto.
I metodi erano chiaramente inquisitoriali. Anche Bucharin, nel processo a suo carico, lo disse: "La confessione degli imputati è un principio giuridico di tipo medievale". Per tutta risposta il giudice Ul'rich gli disse che si stava trincerando dietro affermazioni astratte, evitando di dire la verità, cioè di chiarire la natura di ciò di cui veniva accusato.
La differenza dai metodi medievali della Chiesa romana era però fondamentale. Il papato voleva salvaguardare l'istituzione ecclesiastica; lo stalinismo invece voleva distruggere il partito comunista per poterlo ricostruire a proprio uso e consumo.
La Chiesa combatteva le cosiddette "eresie"; lo stalinismo voleva fare piazza pulita dei leader più importanti del partito, affinché ne rimanesse solo uno, circondato dai propri lacchè. D'altra parte la Chiesa romana aveva già alle spalle mille anni di soprusi e menzogne. Lo stalinismo invece era ancora imberbe. Paradossalmente, in un sistema del genere, non serviva a niente che qualcuno, mostrandosi più zelante di altri, denunciasse per primo qualche "nemico del popolo" o che elogiasse chi l'aveva già fatto, confermando le accuse di quest'ultimo. Questi atteggiamenti delatori o servili non erano di per sé una garanzia che non si sarebbe finiti sul banco degli imputati.
Stalin voleva far capire, in una maniera molto esplicita, che nessuno doveva sentirsi sicuro. Lui era in grado di gestire completamente la polizia politica; e faceva leva sul timore che se qualcuno, dentro il partito, si fosse opposto alla repressione, l'intero mondo contadino, per non parlare delle tante etnie e nazionalità, avrebbero fatto saltare la rivoluzione. Cioè i leader comunisti, se non avessero accettato di farsi ammazzare dal terrore stalinista, sarebbero stati comunque travolti da una controrivoluzione interna. Sperare di salvarsi era quindi inutile. Ci si era spinti troppo in là con l'industrializzazione accelerata e la collettivizzazione forzata. Se i leader comunisti volevano fare gli idealisti, dovevano sacrificare se stessi, nella speranza di poter salvaguardare gli ideali originari della rivoluzione. Stalin sfruttò l'idealismo innato dei russi, che spesso vanno a cercare nell'autoimmolazione un'importante ragione di vita.
In quei processi ciò che lascia più sconcertati è il ruolo dei giudici (in genere militari) e dei pubblici ministeri (il più famoso dei quali era Vyšinskij, novello Torquemada). La domanda che ci si pone è molto semplice: sapevano o non sapevano che tutte le confessioni venivano estorte con minacce o torture? Erano complici consapevoli o inconsapevoli di queste aberrazioni giudiziarie? Anche nel caso in cui fossero stati inconsapevoli, come potevano accettare che i criteri di procedura dei processi fossero così palesemente antidemocratici, illegali, incostituzionali? Come potevano accettare l'idea che la magistratura fosse totalmente asservita al potere politico?
Qui la risposta può essere una sola: si comportavano così perché erano profondamente cinici e corrotti, fanatici e arrivisti. Il meglio che Stalin potesse desiderare.
*
Su Vyšinskij i giudizi di Medvedev e Volkogonov coincidono: non vi è necessità di distinguere a chi dei due appartengano.
Al suo nome, a quello di Ul'rich ed Ežov sono legati tutti i principali processi politici dello stalinismo, la cui finalità non era solo quella d'impedire qualunque opposizione al regime, ma anche di creare un sistema di reciproco controllo sociale, tant'è che alla fine di ogni udienza gli imputati venivano avvertiti che dalla esattezza con cui esponevano in aula le versioni concordate in istruttoria (generalmente con l'uso di mezzi coercitivi), dipendeva non solo il loro destino, ma anche la vita dei loro parenti. In ogni caso rarissimamente si concedeva la grazia, e quando si optava per il carcere, in luogo della pena di morte, gli imputati, in genere, venivano comunque eliminati.
Nei processi non si facevano perizie, supplementi d'indagine, dibattimenti giudiziari, discussioni fra procuratori e avvocati difensori, anche perché dovevano essere molto veloci e le sentenze andavano applicate immediatamente. Decidevano tutto il pubblico ministero (Vyšinskij era anche procuratore generale) e il presidente della corte, nella convinzione che in tribunale non si può aspirare alla verità assoluta: per condannare è sufficiente un "ragionevole dubbio". La legge non è che una formula algebrica che il giudice può correggere a suo piacere. Per queste sue idee Vyšinskij ebbe vari premi e riconoscimenti da parte di Stalin.
Gli imputati erano totalmente rassegnati: potevano solo confessare e denunciare i complici (per lo più inventati). Un complice doveva sopportare l'intera responsabilità del gruppo di appartenenza, anche se non aveva dato il suo assenso per l'attuazione del crimine. Un detenuto che negava la propria colpevolezza, doveva provare lui stesso la propria innocenza restando in carcere.
In una situazione del genere il parlamento approvava qualunque tipo di legge giudiziaria.
L'uso della tortura
Una delle cose che più stupisce nei processi farsa dello stalinismo è l'uso della tortura o della pressione fisica.
Agli occhi di un Paese convinto d'aver realizzato una rivoluzione che in occidente non era ancora stata fatta da nessuno, avrebbe dovuto apparire insensato usare un tale strumento coercitivo, sulla cui utilità si era dubitato sin dai tempi dell'Illuminismo. è impossibile pensare che gli inquirenti sovietici non conoscessero le Osservazioni sulla tortura scritte da Pietro Verri. Quello era un classico della letteratura giuridica mondiale. Impossibile che non sapessero che sotto tortura uno è disposto a confessare qualunque reato o delitto, purché la si smetta. Chi resiste al supplizio, va considerato un'eccezione, ch'era naturalmente più facile trovare tra i celibi che non tra gli sposati e con prole.
Si fa fatica a pensare che per gli inquirenti il socialismo fosse così superiore alla democrazia borghese da ritenere legittimo l'uso della tortura per difenderlo. Chiunque avrebbe dovuto capire che un metodo del genere rendeva automaticamente il socialismo un sistema nettamente inferiore a qualunque democrazia liberale, che pur lo usava, a dispetto delle proprie convinzioni teoriche, soprattutto nei confronti degli elementi ribellistici presenti nelle colonie. Naturalmente anche il passato zarismo non disdegnava l'uso della tortura.
Ciò porta a credere che lo stalinismo non sia stato un prodotto del leninismo, ma piuttosto dell'autoritarismo europeo, soprattutto prussiano, applicato in un contesto sociale, prevalentemente rurale, che in Europa occidentale non esisteva più da tempo, in quanto completamente trasformato dalla rivoluzione industriale di tipo capitalistico.
Lo stalinismo servì per imporre in Russia, con tutta la forza coercitiva possibile, un'industrializzazione accelerata, nella convinzione che, in poco tempo, si sarebbero oltrepassati i limiti strutturali tipici di un ambiente ancora in gran parte pre-capitalistico. La pretesa dello stalinismo era quella di superare detti limiti non solo con la tecnologia occidentale ma anche col volontarismo collettivo, che si riteneva un merito specifico delle popolazioni orientali. Quanto più tale tentativo mostrava tutte le proprie incongruenze, tanto più il potere centrale le mistificava tramite ampie repressioni di massa.
In una situazione del genere l'enormità dei delitti compiuti rendeva impossibile un'autocritica indolore. Ecco perché gli stessi inquirenti venivano divorati dalla loro "mostruosa macchina", come spiega Medvedev a p. 318 del suo libro. Era impossibile ammettere l'uso della tortura e la falsità delle testimonianze e delle confessioni processuali senza far crollare l'intero sistema giuspolitico. è strano che molti di questi inquirenti corrotti non si aspettassero di fare la stessa fine dei loro imputati. Quando su commissione si compiono efferati delitti, ci si deve aspettare di tutto: il mandante non ama avere testimoni scomodi.
Ecco perché Stalin fu costretto a non uscire dal suo ruolo di despota sino alla fine dei suoi giorni, fingendo, per di più, che fosse ignaro dei delitti che si compivano. Anzi, il suo sistema politico dirigistico durò così tanto tempo (anche dopo la sua morte), che solo con una transizione violenta avrebbe potuto essere liquidato. E qui bisogna dire, evitando espressioni politicamente corrette, che fino a quando in Russia non si realizzerà la democrazia diretta, un pieno, totale, integrale, definitivo superamento dello stalinismo non avverrà mai.
Natura degli eccidi di massa
Ci sono sempre cause oggettive che portano a compiere eccidi di massa da parte di chi detiene il potere politico. In presenza di una dittatura governativa si deve sempre trovare un capro espiatorio su cui addossare tutte le colpe di quei fallimenti che tutti possono constatare.
Il problema vero sta nelle interpretazioni che si danno a quelle cause oggettive: qui naturalmente le analisi dei poteri costituiti sono sempre distorte, tendenziose, caparbiamente mistificanti.
A quel punto il popolo dovrebbe insorgere. Tuttavia, se si è lasciato circuire per molto tempo, è difficile, anche se non impossibile, che trovi in se stesso le risorse sufficienti per farlo. Per questo è indispensabile che le condizioni concrete per realizzare la democrazia vengano poste il più presto possibile. Bisogna individuare le deviazioni dalla democrazia entro un tempo utile per poterle rimuovere o scongiurare. Più si tergiversa e più difficile sarà il ripristino della legalità.
Follia e tragedia
Scrive Volkogonov a p. 12: "N. S. Krusciov, nella sua relazione al XX Congresso del partito, diede questa interpretazione [di Stalin]: ‘Non possiamo dire che si comportò come un despota folle. Era convinto che bisognasse comportarsi così nell'interesse del partito, delle masse lavoratrici, in nome della difesa delle conquiste rivoluzionarie. Proprio in questo consiste la tragedia.' A mio parere - obietta lo storico - questa interpretazione non è del tutto corretta, perché mira a giustificare Stalin. La ‘guida suprema' amava più di ogni cosa al mondo il suo personale potere, e in nome di questo potere illimitato Stalin ordinò le più mostruose repressioni, senza che esse gli sembrassero fatti tragici" (o.c.).
Solo su queste parole bisognerebbe scrivere un intero libro. Infatti secondo noi nessuno dei due autori (Medvedev e Volkogonov) si avvicina alla comprensione della vera tragedia.
Anzitutto non era "folle" la "persona-Stalin", ma il sistema in sé del socialismo statalizzato, il quale però, per poter essere gestito, richiedeva degli amministratori cinici e crudeli, cioè sostanzialmente "folli", in quanto disumani. Che lo fossero perché condizionati dall'ideologia o dai loro interessi privati non fa, in tal senso, alcuna differenza.
Secondo Krusciov, Stalin si comportava da folle senza volerlo, nel senso ch'era in buona fede, per cui commetteva crimini convinto di fare del bene. Col che Krusciov salva completamente il sistema del socialismo statale, e quindi, in parte, lo stesso Stalin, da cui lui pretende di distinguersi sul piano caratteriale, quello psicologico.
D'altronde Krusciov non poteva condannare completamente Stalin, poiché lui stesso faceva parte del suo entourage più stretto, e nessuno di questo entourage di fedelissimi fu eliminato fisicamente, se non Berija dopo la morte di Stalin. Altri furono al massimo emarginati o sostituiti nei loro ruoli di potere, ma nessuno fu processato per i suoi crimini o anche solo per l'assenso dato ai crimini di Stalin, altrimenti lo stesso Krusciov avrebbe dovuto essere sottoposto a un processo giudiziario.
Volkogonov invece sostiene che Stalin si comportava come un folle perché era più interessato al proprio potere che non al bene del socialismo statale, per cui era assolutamente consapevole dei crimini che commetteva.
Domanda: può esistere una lucida follia? Sì, ma bisogna intendersi sul significato della parola "follia". In un certo senso tutti i dittatori sono "folli", poiché tendono a eliminare, senza molti scrupoli, gli avversari politici, nella convinzione di non poter essere giudicati da nessuno. Nelle dittature l'esecutivo comanda sul legislativo e sul giudiziario.
La differenza, rispetto ai folli individuali, è che i dittatori sono capaci di far condividere la loro follia a milioni di persone. Devono quindi preoccuparsi di apparire "normali", pur mentre professano o soltanto coltivano idee estreme o molto radicali, cioè devono apparire formalmente democratici o pacifisti: lupi travestiti da agnelli, oppure lupi contro i "nemici del popolo".
Una follia di massa è certamente molto più pericolosa di una follia individuale. Un singolo non può uccidere un numero potenzialmente illimitato di persone (come invece permettono le armi di oggi in mano agli statisti e ai militari), né può sperare che, dopo la sua morte, la sua follia trovi un seguito.
Se le istituzioni politiche non vogliono ammettere i loro errori, è molto facile che si scateni una follia di massa. Il potere "folle" vuole, anzi deve attribuire a qualcuno le ragioni dei propri fallimenti, delle proprie incoerenze e assurdità. La vera tragedia sta nel fatto che questa attribuzione di responsabilità a terzi viene condivisa da milioni di persone, in nome di una certa ideologia. Tutti diventano complici di incredibili mostruosità.
Per arrivare a tali conclusioni tragiche occorrono due fattori: un sistema sociale profondamente iniquo e un'ideologia politica profondamente falsa. Entrambi i fattori devono essere reputati da una certa collettività come sommamente giusti.
Sulla base di queste premesse, la follia di Stalin come persona risulta del tutto irrilevante, come lo è il fatto che ne fosse più o meno consapevole. Qui si va ben oltre le intenzioni personali o le specificità caratteriali. La vera tragedia stette nel fatto che il socialismo sovietico, al tempo dello stalinismo, non aveva assolutamente nulla di democratico, pur avendo un consenso di massa (gli stessi funerali di Stalin lo dimostrano). Non solo, ma chi aveva la possibilità di accorgersene, non ebbe mai la capacità di far valere le proprie ragioni. Naturalmente non avevano nulla di democratico neppure le dittature nazi-fasciste presenti in Europa, il militarismo nipponico, il maoismo cinese e così via.
Il fatto che Krusciov si fosse dimostrato personalmente antistalinista non riuscì a impedirgli d'essere rimosso dal sistema politico ch'egli voleva salvaguardare. La stessa cosa si può dire di Gorbaciov. Solo con El'cin il sistema fu definitivamente spazzato via, per costruire però qualcosa che, in fondo, era soltanto il rovescio della medaglia, nel senso che da una dittatura politica (il socialismo statale del partito unico) si passò a una dittatura economica (il capitalismo privato degli oligarchi). In entrambi i casi, per motivi e con modalità diverse, si favorì l'eliminazione fisica di milioni di persone.
La soluzione neoliberista di El'cin determinò anche la colonizzazione del Paese da parte degli Stati Uniti e la bancarotta finanziaria dello Stato nel 1998. Oggi il putinismo non è altro che una via di mezzo tra socialismo statale e capitalismo privato, tant'è che si parla di capitalismo controllato dallo Stato.
I paradossi della Russia
Certe affermazioni di Medvedev, se non esprimessero un'estrema tragicità, potrebbero apparire comiche. Per es. questa: "Per la repressione di massa, Stalin si affidò agli organi di sicurezza dello Stato. Ma un'importante precondizione era la distruzione fisica di migliaia di funzionari di questi stessi organismi di repressione" (pp. 264-5, o.c.).
Si stenta a crederlo. Poi però l'autore riporta decine di nomi importanti, per cui ci si arrende all'evidenza. Inevitabilmente si finisce col credere che il potere dello stalinismo, che pur si basava sui servizi segreti e la polizia politica, doveva essere incredibilmente grande, praticamente illimitato.
Persino quei carnefici che si erano distinti nelle prime repressioni di massa, potevano essere, a loro volta, eliminati. Questo perché Stalin voleva "sbarazzarsi dei testimoni e di coloro che avevano preso parte ai suoi vecchi delitti" (p. 265).
Ma perché farli fuori, visto che le loro stragi erano ben collaudate? Semplicemente perché quei funzionari zelanti avevano sì accettato di eliminare, per ragioni ideologiche, i cosiddetti "nemici del popolo", ma non sempre erano altrettanto disponibili a fare la stessa cosa nei confronti dei "quadri di partito e dello Stato sovietico" (ib.). In effetti che senso avrebbe avuto far fuori milioni di persone su richiesta del partito, e poi eliminare lo stesso partito? Dove voleva arrivare Stalin, a governare come un monarca assoluto, con pochi leccapiedi al suo servizio?
Atteggiamenti così contraddittori fanno pensare che il popolo russo sia abbastanza sui generis. Noi quando critichiamo l'occidente borghese e capitalistico, diciamo che la democrazia è puramente formale, in quanto non tiene conto dei diritti socioeconomici di tutti i cittadini. Ma se si guarda questo gigantesco Paese così come s'è venuto formando oltre mille anni fa, bisogna dire che le sue popolazioni non hanno mai conosciuto, a livello istituzionale, neanche la democrazia formale, pur vantandosi, a partire dall'Ottobre 1917, di aver per la prima volta garantito a tutti gli oppressi i diritti socioeconomici, che nella storia delle civiltà sono sempre stati negati. In un qualunque Paese occidentale sarebbe stato difficile subire delle persecuzioni così mostruose senza reagire. Sarebbe stato impossibile scongiurare delle guerre civili o delle rivoluzioni.
Ecco perché ritengo che questa devozione che le popolazioni russe tributano a un "capo carismatico" può essere molto pericolosa. Per loro è il modo migliore per tutelare le tradizioni del passato, incluse quelle del periodo zarista, o per restare uniti come popolo, contro gli invasori esterni. Ma il modo in cui lo fanno può risultare rischioso per la democrazia in generale.
Naturalmente non voglio dire che la borghesia occidentale abbia fatto bene a eliminare le tradizioni medievali. Però non credo abbia molto senso accettare una sorta di dittatura per difendere un'identità nazionale. Non voglio neppure dire che la dittatura del capitale sia da preferire a quella politica, tipica della Russia o della Cina. Voglio solo dire che qui bisogna andare oltre qualunque dittatura. Non si realizza la democrazia né con un capo carismatico, né tutelando tradizioni o identità popolari sulla base della motivazione che appartengono al passato.
Divorare i propri figli
In genere, purtroppo, le rivoluzioni politiche tendono a divorare i propri figli, cioè i leader che le compiono e quelle fette di popolazione che li sostengono. In tal senso lo stalinismo è un esempio classico
Ogni volta ci si dovrebbe chiedere come evitare questa tragica deriva, che ha tutto il sapore di una inspiegabile fatalità. Quando Lenin decise ch'era il momento di abbattere il governo di Kerensky, non poteva non sapere che tale rischio era ben presente.
D'altra parte non è che si può rinunciare a compiere una cosa giusta solo perché c'è il rischio di compiere qualcosa di molto sbagliato. I tempi - come si suol dire - erano maturi: la Russia non soffriva solo di gravissime contraddizioni interne, ma anche di tutte quelle causate dagli antagonismi interimperialistici. Anzi, guardando le cose da vicino, sembrava che il centro del movimento rivoluzionario mondiale si fosse spostato proprio in Russia: una cosa che la maggioranza dei leader socialisti europei non riusciva a capire. Si pensava infatti che il socialismo si sarebbe dovuto realizzare più facilmente in Paesi sviluppati sul piano industriale e tecnologico. Si era soliti dire: "il francese ha cominciato [con la Comune di Parigi], ma il tedesco terminerà".
La Russia appariva come un anello debole del capitalismo europeo. Praticamente solo l'area europea di questo immenso Paese poteva essere definita "capitalistica". L'area asiatica viveva ancora in una situazione semi-feudale o comunque pre-borghese: un'area - come aveva previsto Lenin nella sua polemica anti-populistica - destinata, inevitabilmente, ad essere assorbita entro la logica del capitale.
La convinzione che il socialismo avrebbe potuto realizzarsi solo in presenza di un capitalismo così maturo da rendere impossibile un suo ulteriore sviluppo senza la socializzazione della proprietà dei suoi mezzi produttivi, risaliva agli stessi classici del marxismo, soprattutto a Engels.
Lenin era convinto che in Europa occidentale, vedendo il successo della rivoluzione bolscevica, i grandi partiti socialisti avrebbero cercato di fare la stessa cosa. Invece non andò così, a testimonianza che un eccessivo sviluppo del capitalismo non crea affatto le condizioni per il proprio superamento, meno che mai quando questo capitalismo si regge in piedi grazie anche allo sfruttamento delle colonie.
A questo punto però cominciano a sorgere delle domande, cui bisogna per forza dare una qualche risposta.
1) I leader socialcomunisti dei Paesi capitalisti avanzati sono facili alla corruzione proprio a causa dei condizionamenti borghesi della loro società?
2) Il Paese non occidentale che compie una rivoluzione socialista fino a che punto può contare sul sostegno dei partiti socialcomunisti dei Paesi capitalisti?
3) Si può escludere a priori che questi partiti socialcomunisti (che ovviamente non vogliono essere accusati di corruzione), di fronte a una rivoluzione comunista compiuta da un Paese non occidentale, finiscano con l'appoggiare i governi borghesi dei loro stessi Paesi? Se lo facessero, fino a che punto sarebbero disposti a farlo?
Ma forse la domanda più difficile da porsi è un'altra: un Paese arretrato come la Russia, una volta constatato che l'Europa occidentale non riusciva a compiere un'analoga rivoluzione socialista, cosa avrebbe dovuto fare per affrontare l'argomento dell'accerchiamento capitalistico?
A tale domanda lo stalinismo diede una risposta completamente sbagliata, che non rafforzò ma anzi indebolì seriamente l'intera Russia: accelerò l'industrializzazione, forzò il collettivismo agrario e statalizzò tutto, imponendo un regime poliziesco, uno Stato dittatoriale. Fece una cosa che favorì enormemente l'aggressione nazista. Ancora una volta i russi e i popoli delle altre etnie e nazionalità si trovarono ad affrontare due nemici: uno interno e l'altro esterno. Come abbiano potuto superare anche questa durissima prova, solo loro lo sanno. Vien da pensare che i russi solo da se stessi possano essere sconfitti.
Anche Lenin temeva l'accerchiamento, ma riuscì a vincere la guerra civile e l'interventismo straniero senza dover ricorrere a soluzioni di tipo stalinista. Certo, il cosiddetto "comunismo di guerra" fu una soluzione dolorosa per l'intera società, ma una volta difesa con successo la rivoluzione, Lenin alleviò la sofferenza della fame e della miseria introducendo la Nuova Politica Economica.
Praticamente fece questo ragionamento: se il socialismo uscirà sconfitto dagli sviluppi borghesi della NEP, sarà stata per colpa dell'inefficienza economica dello stesso socialismo, non perché sarà stato sconfitto militarmente dai nemici interni ed esterni.
Ecco, se c'è una cosa che non si può perdonare allo stalinismo, è proprio questa: l'essersi rifiutato di marciare, da posizioni di forza, sulla strada che il leninismo aveva indicato nel momento in cui la rivoluzione era più debole. Lo stalinismo non aveva alcun bisogno di eliminare la democrazia diretta dei soviet, né la NEP, proprio perché il popolo russo (e quello delle altre etnie e nazionalità) aveva decisamente optato per uno sviluppo autonomo della propria economia.
Struttura e sovrastruttura
Fa bene Medvedev a sostenere che non solo è falsa la tesi secondo cui Stalin era tenuto all'oscuro degli orrendi crimini che avvennero negli anni '30, ma è falsa anche la tesi secondo cui egli era convinto della colpevolezza dei condannati a morte.
Nel primo caso è assurdo pensare che non sapesse nulla di milioni di morti; nel secondo è assurdo pensare che nel giro di pochi anni tutti fossero "colpevoli" di qualcosa di grave. Semplicemente Stalin dava mano libera ai servizi segreti per togliere di mezzo le persone giudicate scomode. E quando si trattava di eliminare alti dirigenti del partito o dello Stato, provvedeva lui stesso ad autorizzare la decimazione.
Un dittatore non ha bisogno di sapere quante persone vengono eliminate dal suo entourage più stretto; anzi, in molti casi non lo vuol neppure sapere, per non rischiare d'esservi in qualche modo coinvolto. Gli basta aver creato il clima adatto per eliminare quelli che rientrano nella categoria, da lui stesso inventata, di "nemici del popolo". Le persone prive di etica godono nel poter infierire su qualcuno, nel poter dimostrare che vanno temute e rispettate.
Semmai quando egli avvertiva che la situazione si stava surriscaldando, cioè che le proteste aumentavano, si limitava a togliere di mezzo qualche dirigente responsabile di alcuni eccidi di massa, giusto per far vedere d'essere sempre al di sopra delle parti. Ma si trattava comunque di provvedimenti limitati, dal carattere simbolico e soprattutto privi di continuità. A Stalin, com'è naturale che sia, piaceva apparire un "santo" non un "mostro".
Detto questo però, Medvedev avrebbe dovuto chiedersi se davvero il socialismo merita d'essere considerato un'alternativa al capitalismo. Uno storico che, in virtù delle sue ricerche, viene a scoprire fatti così sconvolgenti, dovrebbe quanto meno chiedersi se lo stalinismo debba essere considerato come una disgraziata parentesi nell'ambito del socialismo statale di marca sovietica, oppure la sua espressione ideologica più adeguata (esattamente come lo fu il maoismo nella Cina rurale).51
In altre parole: nell'ambito del socialismo totalmente statalizzato poteva forse essere evitata la formazione dello stalinismo? Il fatto che sia durato così tanto tempo, persino dopo la morte di Stalin e persino dopo la destalinizzazione di Krusciov, non lascia forse pensare che fosse una sovrastruttura corrispondente a quella struttura? Può uno storico non porsi queste domande? Anche perché, appurato questo, non vi è molto altro da dire.
Medesimi interrogativi si potrebbero fare nei confronti del cattolicesimo romano, perfetta ideologia atta a giustificare il passaggio dall'alto Medioevo rurale al basso Medioevo borghese. Così come il protestantesimo fu l'ideologia più adeguata per giustificare il passaggio di tutte le tipologie di capitalismo verso quella industrializzata. La riforma luterana e calvinistica fu anche l'ideologia più adeguata a dare al cristianesimo una veste laicizzata, conforme al capitalismo del XVI sec. Quando si arrivò in questo secolo il cristianesimo borghese di tipo protestantico s'impose definitivamente sul cristianesimo borghese di tipo cattolico.
è curioso vedere come dalla nascita del protestantesimo a quella del socialismo statale passarono altri 400 anni (1517-1917). Sono tempi lunghissimi, che riguardano quasi un millennio. Fernand Braudel parlerebbe di longue durée, per dimostrare però che l'alternativa al capitalismo è meglio non considerarla dietro l'angolo.
Oggi chi vuol passare dal socialismo statale a quello democratico non ha bisogno di aspettare così tanto tempo, proprio perché è già consapevole degli errori compiuti. La stessa Cina non ci ha messo molto tempo per passare dal socialismo statale di marca maoista a quello mercantile. Se vogliamo, anche l'esperienza umana che si vive su questo pianeta sembra non avere altro scopo che quello di farci capire che cosa non fare nell'eventualità che si debba colonizzare qualche altro pianeta.
Le formazioni sociali sembrano incastrarsi le une dentro le altre e non senza usare un certo tasso di violenza. Lo schiavismo ha distrutto il comunismo primitivo; il feudalesimo ha distrutto lo schiavismo; il capitalismo ha distrutto il feudalesimo; il socialismo statale ha tentato di distruggere il capitalismo privato, ma alla fine non vi è riuscito.
Oggi il capitalismo privato viene combattuto sul suo stesso terreno, dal capitalismo di stato e dal socialismo di mercato. Sono tutti scontri epocali che possono porre le basi del socialismo democratico solo indirettamente, dimostrando appunto che cosa non si deve fare.
Le leggi e la loro applicazione
Il fatto che lo stalinismo abbia potuto annientare la vecchia guardia leninista secondo "un disegno politico deliberato", come scrive Medvedev a pag. 399 del suo Stalinismo; e che abbia potuto farlo a tutti i livelli istituzionali (partitici, statali, militari…), come se avesse mobilitato un grande esercito, al punto che per un crimine del genere "è difficile trovare uguale traccia nella storia" (ib.), dovrebbe farci riflettere seriamente.
Stragi di questo genere, in effetti, si sono verificate anche ai tempi di Mao e di Pol Pot, e tutte furono compiute in nome del socialismo, cioè di un'ideologia raffinata, che aveva saputo criticare in maniera scientifica le leggi del capitalismo. Qui non abbiamo a che fare con un primitivismo ideologico, che sfrutta l'ignoranza delle masse popolari per favorire atteggiamenti dittatoriali. Tanti dirigenti di partito erano in grado di smascherare qualunque ipocrisia della cultura occidentale.
Qui abbiamo a che fare con eminenti personalità, con intellettuali di spicco, di livello per molti aspetti superiore a quello degli intellettuali borghesi che in occidente si ponevano al servizio degli interessi del capitale.
Dunque come si spiega questa incredibile carneficina? Ancora oggi in Russia parlare di socialismo potrebbe far venire la pelle d'oca ai discendenti di quelle disumane epurazioni. Appare quindi evidente che l'ideologia, di per sé, non è sufficiente a garantire un approccio umano e democratico alla realtà. Anzi, sembra proprio non servire a nulla, o addirittura a giustificare, secondo determinate interpretazioni, gli abusi più vergognosi.
Dunque che cos'è l'ideologia? Una dottrina da imparare a memoria come si faceva col catechismo? Ma chi decide l'interpretazione corretta? Il partito al potere?
Un socialismo davvero democratico deve stare lontano da queste pretese illuministiche, da queste ambizioni enciclopediche, tipiche di uno Stato totalitario. "Socialismo" vuol dire condivisione collettiva di mezzi e metodi per soddisfare bisogni comuni. E "democrazia" vuol dire che la condivisione va liberamente accettata, e ridiscussa quando sembra non funzionare. Solo dopo averla accettata, ha un senso razionale rispettare le regole del socialismo. Quando esiste una democrazia, deve esistere la libertà di verificare continuamente che quelle regole vengano applicate nel migliore dei modi. Non può esistere una legge evidente di per sé, che va oltre qualunque capacità interpretativa.
Non si dimostra la propria superiorità scrivendo leggi più importanti di quelle dei Paesi giudicati di livello inferiore, ma applicandole in maniera intelligente.
Limiti oggettivi e soggettivi
Quando si sostiene - come fa Volkogonov - che dopo l'assassinio di Kirov "l'illegalità più totale dilagò rapidamente" (p. 3, o.c.), non è più possibile mettere sotto accusa il solo stalinismo, ma ci si deve chiedere se nel leninismo vi erano dei difetti "oggettivi", che neppure l'ottima personalità di Lenin avrebbe potuto superare.
Purtroppo l'autore non vede questi limiti, tant'è che si sente autorizzato ad affermare che, "nonostante Stalin", il socialismo riuscì comunque a ottenere delle "reali conquiste".
Qui gli errori dello storico sono due: anzitutto sotto lo stalinismo non ci fu nessuna vera "conquista", ma solo un'immane tragedia; in secondo luogo tale tragedia non può essere imputata a Stalin più di quanto non possa esserlo a tutto il suo staff e al sistema in sé del socialismo statale.
Cioè lo stalinismo non può coincidere con la "persona" di Stalin, proprio perché esso rappresentò l'ideologia ufficiale di una specifica forma di socialismo. Era l'ideologia politica (e insieme una concezione etica e filosofica della vita) corrispondente a un determinato sistema sociale dominato dallo Stato e dal partito unico (come lo fu il maoismo in Cina, ma qualcosa di simile vi fu anche nella Tirana di Enver Hoxha).
Se al posto di Stalin vi fosse stato Trockij, l'ideologia si sarebbe chiamata "trockismo", e così con qualunque altro nome di leader bolscevico. Lo stesso Volkogonov lo dice: "Il predominio burocratico, l'uso della violenza, del pugno di ferro, di cui proprio Trockij era stato l'apologeta, sono i metodi che verranno più adottati da Stalin" (p. 11). Non è da escludere che Stalin abbia pensato, visto che Trockij veniva considerato molto popolare nel partito, a come acquisire un'analoga popolarità usando metodi non meno autoritari. Certamente Stalin non aveva le stesse capacità intellettuali e persuasive di Trockij, però ne aveva molte di più nella gestione amministrativa del partito e dei servizi segreti. Cioè era uno che sapeva lavorare dietro le quinte, all'insaputa di molti altri leader.
Le persecuzioni di Stalin han fatto passare per "martiri" molti suoi oppositori politici, al punto che, a partire da Krusciov, si è stati costretti a riabilitarli. Tuttavia, se soggettivamente potevano apparire migliori di lui, oggettivamente a nessuno di loro venne in mente di costruire un socialismo non statalizzato. O comunque se, tra i bolscevichi, vi fu qualcuno contrario alla estrema centralizzazione dei poteri politici e amministrativi, la sua posizione ebbe un ruolo del tutto marginale, assolutamente ininfluente alla costruzione di un socialismo democratico.
Se non si fa piazza pulita di tutto ciò che è stato realizzato sotto il socialismo statale, le seguenti domande di Volkogonov sono destinate a rimanere senza risposta: "Com'è potuto accadere che la grandezza abbia convissuto con la bassezza, che il male si sia camuffato da bene? Perché molti soggetti hanno vissuto una sorta di degenerazione sociale?" (ib.).
Per rispondere in maniera adeguata, bisogna avere il coraggio di premettere che non ci fu alcuna "grandezza". L'unico vero "bene" si espresse nella resistenza al male oggettivo del sistema e dell'ideologia che lo giustificava, ma fu un bene debole, insufficiente a invertire la marcia di una tragedia che continuò per altri 30 anni dopo la morte di Stalin, a testimonianza del fatto che lui, come persona, rappresentava soltanto qualcosa di simbolico.
Non basta però dire che "il fenomeno Stalin non si sia prodotto per semplice casualità" (p. 5). Bisogna capirne le cause oggettive e Volkogonov non vi riesce, anche perché qualunque insistenza venga profusa nel criticare i limiti soggettivi di Stalin, rischia di trasformarsi in un alibi per celare i grandi limiti oggettivi del socialismo statale.
I sovietici e la sofferenza
è evidente che in uno Stato totalitario, guidato da un partito egemonico, quando esiste una repressione in atto, è facile che colpisca in più direzioni. In tal senso fa bene Medvedev a dire che caddero vittime del terrore staliniano anche "migliaia di scienziati, ingegneri e dirigenti di settori industriali, economici e così via…" (p. 274, o.c.).
è singolare che parli di "migliaia" di intellettuali di spicco; ancor più che nell'elenco dei settori colpiti lo concluda con un "eccetera". Infatti altri settori furono quelli degli studi filosofici, giuridici, pedagogici, linguistici, e ci fermiamo qui perché l'elenco sarebbero davvero lungo. Non solo, ma chiunque avesse avuto contatti con Stalin e avesse scoperto alcuni suoi limiti o vizi o debolezze o caratteristiche negative del suo carattere, rischiava facilmente d'essere eliminato.
è semplicemente spaventoso che in una dittatura nessuno possa pensare, con un margine relativo di sicurezza, di salvarsi, di ritenersi sufficientemente tranquillo. Ancora più sconcertante è la rassegnazione con cui si affronta un destino del genere, soprattutto dopo aver compiuto la più grande rivoluzione della storia.
In un certo senso la guerra contro il nazismo fu un sollievo per i sovietici. è vero che comportò, quanto a vite umane, un salasso impressionante e senza precedenti storici (circa 27 milioni di morti), ma almeno era chiaro che l'enorme carneficina era stata compiuta da un nemico esterno. Cioè non foss'altro ci si poté organizzare, alla bell'e meglio (vista la decimazione staliniana del proprio Stato Maggiore), per combattere qualcuno che non aveva origini slave e che anzi considerava gli slavi una stirpe sub-umana, da schiavizzare senza scrupoli.
Certamente uno storico potrebbe dire che i sovietici passarono, senza soluzione di continuità, da una strage apocalittica a un'altra. Ma bisogna convenire che soltanto sotto il nazismo i sovietici riuscirono a capire perché venivano eliminati. Sotto lo stalinismo era letteralmente impossibile capirlo. Si moriva come fanno certi animali che, quando incontrano un loro nemico mortale, si sentono paralizzati, non sapendo bene cosa fare.
Evidentemente Stalin approfittò di una certa predisposizione popolare a subire soprusi e angherie da parte delle istituzioni. Naturalmente non poteva escludere che dei rivoluzionari ancora in forze avrebbero potuto ribellarsi. Ma evidentemente sapeva che le persone più eminenti erano concentrate in poche città dell'area europea dell'URSS. Eliminate quelle, il resto sarebbe stato molto più facile.
Da questa ecatombe demografica la Russia non si riprenderà mai più. E ancora oggi è assai difficile che riesca a farlo con le sue sole forze. Il Paese ha bisogno di molta manodopera proveniente dall'estero, disposta a sopportare la rigidità invernale dell'ambiente. Questa popolazione non può che provenire dalla Cina, che sicuramente in Siberia può ritrovare i più antichi antenati.
Probabilmente c'è un "virus intellettuale" che circola nel nord Europa, quello di credere che la verità delle cose stia nella sofferenza. Forse, quando non si riesce ad affermare la verità positivamente, compiendo rivolte o rivoluzione, ci si accontenta di farlo negativamente, accettando di subire dei torti ingiustificati.
Terrore e demografia
In Russia l'uso del terrore statale è sempre esistito. Lo stalinismo non fece che ereditarlo. Se Stalin fosse vissuto altri 20 anni, sarebbe stato praticato altri 20 anni, come lui voleva, a meno che qualcuno non lo facesse fuori. Non è una tautologia ma una specie di deduzione logica: se in 30 anni di governo terroristico non si è stati capaci di rovesciarlo, non si capisce perché non avrebbe potuto durare un altro ventennio. Quello franchista non durò forse 40 anni? Questo per dire che la paranoia, quando è politica, non si cura, se non appunto sostituendo con la forza la dirigenza al potere.
Il periodo di Krusciov, a confronto, fu una breve parentesi, tant'è che lui stesso, pur dicendosi antistalinista, organizzò l'occupazione dell'Ungheria nel 1956, per porre fine alla rivoluzione in atto, che non voleva essere a favore del capitalismo, ma solo di una democratizzazione del socialismo statale.
Anche il governo di Gorbaciov fu una breve parentesi, con la differenza che non compì nulla di "terroristico", né in politica interna né in quella estera.
Il terrore subentrò nuovamente con El'cin, ma fu di tipo economico, nel senso che si introdusse violentemente il capitalismo privato, portando milioni di persone alla fame e lo Stato in bancarotta.
Molti si chiedono come sia possibile che un Paese così esteso abbia così pochi abitanti. è solo una questione climatica? No, è anche una questione di sterminio sistematico della popolazione.
Si pensi alla prima guerra mondiale: i morti russi furono tra 1,7 e 2,5 milioni. è un range enorme. Ed è incredibile che ancora oggi non si possano avere dati più precisi. Probabilmente gli stessi russi hanno ritegno a darli. Preferiscono non scavare nel loro passato e affidarsi alla retorica dell'eroismo personale e collettivo. Neppure loro riescono a spiegarsi il motivo per cui morire, nel loro sterminato Paese, è sempre stato molto facile: morire di vecchiaia o di morte naturale è quasi un lusso. Se potessero dar la colpa alle condizioni climatiche o all'alcolismo o a qualche deficit genetico, a quest'ora l'avrebbero fatto. Evidentemente sanno che le cause vanno cercate anche nella politica e non possono andarne fieri.
Prendiamo, a titolo esemplificativo, la guerra civile successiva alla rivoluzione d'Ottobre: si parla di 2-2,5 milioni di morti. Una cifra enorme rispetto alla sua durata: marzo 1918-ottobre 1922, con la presa di Vladivostok. Nei momenti più acuti vi erano circa mezzo milione di morti all'anno!
Passiamo allo stalinismo e basiamoci per un momento sui dati riportati da Volkogonov nel libro citato, visto che sono più recenti di quelli di Medvedev. Secondo lui la collettivizzazione forzata, negli anni 1929-33, fece circa 8,5-9 milioni di vittime tra i piccoli proprietari. Nel 1937-38 le repressioni colpirono circa 5 milioni di cittadini sovietici. Nel periodo tra queste due grandi ondate gli arrestati furono circa un milione.
Dopo la guerra - incredibile a dirsi - crebbe notevolmente il numero dei lager52, dei confinati e degli esiliati, invece di diminuire, anche perché nel 1947 fu abolita la pena di morte: in tutto furono colpite circa 6 milioni di persone (p. 558). Fino alla morte di Stalin il 25-30% dei detenuti nei lager era stato condannato per attività controrivoluzionaria, secondo la versione di Berija.
"Nel complesso tra il 1929 e il 1953 il numero dei cittadini sovietici che furono colpiti dalle repressioni staliniane oscilla tra i 19,5 e i 22 milioni (senza considerare gli anni della guerra). Di essi almeno un terzo fu condannato alla pena capitale o perì nei lager o al confino… Si tratta senz'altro della più terribile e mostruosa orgia di violenza della storia" (pp. 558-59). Tuttavia, nell'ambito più ampio dei "lavori forzati", si devono aggiungere circa 4 milioni di prigionieri della seconda guerra mondiale, 700.000 detenuti nei campi di smistamento e almeno 6 milioni di "confinati speciali", cioè kulaki e altri contadini deportati durante la collettivizzazione, per un totale di circa 28.700.000. Sono dati così impressionanti che ancora oggi nessun comunista riuscirebbe ad accettarli.
Poi ci fu l'invasione nazista, che comportò, stando agli ultimi dati, 27 milioni di morti. A morire sono stati prevalentemente gli uomini, e in Russia non è mai esistita la poligamia per poter rimpiazzare le perdite. Né la Russia è mai stata favorevole a un'immigrazione massiccia da parte degli Stati confinanti.
Se invece ci basiamo sul testo di Medvedev e su altri testi storici i cui autori non potevano accedere agli archivi segreti, ci si limita a parlare di 340.000 condannati a morte sotto lo stalinismo, senza mai specificare quanti ne morirono nei gulag.
Questo disastro demografico epocale della Russia si ripercuote ancora oggi, in quanto la densità è di soli 9 abitanti per kmq, una delle più basse al mondo. Se si prende la sola Russia, senza tener conto delle altre Repubbliche che costituivano l'Unione Sovietica, si noterà che dal 1991 ad oggi i russi sono passati da 148 a 140 milioni. Cioè in 30 anni non sono aumentati ma diminuiti.
Considerando la scarsa natalità e l'alta mortalità, la Russia può in teoria calare demograficamente di 1/3 entro il 2050, con una diminuzione concentrata soprattutto nelle campagne, i cui abitanti oggi sono equivalenti a quelli delle città, ma sono in costante flessione. D'altra parte vi sono mezzo milione di aborti ogni anno, e un tasso di suicidi molto alto (21,6 ogni 100.000 persone). è raro vedere un russo superare i 65 anni di età: solo il 14,4% vi riesce (le donne arrivano in media a 77 anni).
Bisogna ammettere che se scoppiasse una guerra mondiale nucleare, la parte maggiormente da colpire sarebbe quella europea urbanizzata, dove è concentrato il 77% della popolazione russa. In questa maniera si potrebbero sfruttare le grandi risorse naturali presenti nell'area asiatica, dove la popolazione è di circa 40 milioni.
Tuttavia la dottrina nucleare russa parla chiaro: se il governo ha soltanto la "percezione" che esiste una minaccia esistenziale alla sopravvivenza del Paese, non ci sarà scampo per nessun nemico. Hanno abbandonato l'idea di non utilizzare mai per primi l'atomica. E, tutto sommato, con un occidente collettivo così aggressivo, han fatto bene.
Particolarità del terrore stalinista
Finché Lenin rimase in vita i detenuti politici venivano trattati con riguardo rispetto ai criminali comuni. Viceversa con Stalin al potere le guardie carcerarie avevano ricevuto l'ordine di infierire soprattutto sui detenuti politici, giudicati molto più pericolosi di tutti gli altri.
Le celle di detenzione smisero d'essere separate; anche i gulag erano gli stessi. Anzi, le carceri più usate erano proprio i gulag, fatti costruire da Stalin in Siberia. Questi luoghi di pena erano un po' diversi dai lager nazisti, poiché non avevano ufficialmente il compito di realizzare uno sterminio di massa. Non si usavano lo Zyklon B e i forni crematori, anche se nella regione del Kolyma i cancelli dei gulag avevano una scritta simile a quella presente nel lager di Auschwitz, e cioè invece di "Il lavoro rende liberi", la frase "Il lavoro è motivo di onore, valore ed eroismo".
I gulag dovevano servire come serbatoio di manodopera gratuita per costruire nei posti più difficili del Paese alcune opere faraoniche pretese dal governo al potere. Le condizioni di vita e di lavoro erano così proibitive che ci si ammalava o si moriva piuttosto facilmente. è questo il motivo per cui riteniamo che tra stalinismo e nazismo le differenze non fossero sostanziali.
Praticamente fu liquidata tutta la generazione che aveva partecipato alla rivoluzione d'Ottobre, quella che aveva vinto la guerra civile e si era opposta con successo all'interventismo straniero successivo alla prima guerra mondiale; quella che aveva realizzato la Nuova Politica Economica voluta da Lenin.
Non ci fu più nessun leninista, trockista, buchariniano, ecc.: solo stalinisti, la cui diversità era di tipo meramente psicologico. Il terrore fu come un'esplosione atomica: di chi veniva colpito non restava nulla. Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi è impossibile fornire dati precisi. Si poteva sparire dalla faccia della terra senza che nessuno sapesse nulla.
Bisogna ammettere che è piuttosto incredibile che una popolazione dimostratasi altamente capace di condurre con successo una rivoluzione che in Europa occidentale si poteva soltanto sognare, si mostrasse così passiva nei confronti di una dittatura mille volte peggiore di qualunque epoca zarista.
Merita d'essere riportata, in sintesi, un'affermazione di Medvedev: il tribunale militare internazionale di Norimberga condannò l'atteggiamento di quei gerarchi nazisti che giustificavano i loro crimini dicendo d'aver obbedito a ordini di Hitler. Eppure anche i carnefici della polizia politica in Russia si comportarono nella stessa maniera, e assai pochi di loro furono condannati.
Fiducia cieca nell'ideologia
L'entità delle epurazioni staliniste nella seconda metà degli anni '30 fu così abnorme che neppure gli stalinisti poterono censurarla come avrebbero voluto. Se ci fossero riusciti, non sarebbe venuta fuori la destalinizzazione inaugurata da Krusciov. La quale comunque mise in luce solo una piccola parte di quella immensa tragedia. Peraltro cercò di farlo a porte chiuse, temendo la reazione popolare.
Resta tuttavia significativo che dopo la morte di Stalin, i politici stalinisti non furono processati, come si sarebbe dovuto fare, invitandoli a non mentire sui fatti più incresciosi, in cambio di una pena più leggera dell'ergastolo o dell'esecuzione capitale. L'unico a essere eliminato in tutta fretta fu Berija; tutti gli altri statisti furono al massimo isolati o trasferiti ad incarichi di minor rilievo.
Sembrava esserci una tacita intesa: "Non vi mandiamo a morte come Berija, a condizione che voi non diciate nulla contro Krusciov e i suoi alleati", che pur avevano fatto parte del medesimo entourage di Stalin. In questa maniera degli orrori dello stalinismo si sarebbe saputo lo stretto necessario.
Si riuscì addirittura a conservare un certo margine di incertezza sulla responsabilità effettiva di Stalin nei confronti di taluni crimini, facendo credere che fossero avvenuti a sua insaputa, approfittando della fiducia ch'egli riponeva nel suo staff più stretto.
Quando si è accecati dall'ideologia, non si riescono a vedere le contraddizioni in tutta la loro nitidezza: qualcosa resta sempre nel chiaroscuro. A tale proposito Medvedev cita l'esempio della figlia di Stalin, Svetlana, che nelle sue Memorie del 1967 cercò di gettare le colpe di alcuni crimini su Berija, invece che su suo padre.
Certo in questo caso il conflitto d'interesse riguardava il legame familiare, ma in tanti altri casi (che purtroppo si verificano ancora oggi nella sinistra radicale) è la credenza in un'ideologia che pesa come un macigno. D'altra parte anche in certi ambienti di destra spesso si sente dire che Mussolini fece molte cose buone, e che se non fosse entrato in guerra o se non si fosse alleato con Hitler, il fascismo sarebbe durato come in Spagna, dimenticandosi però di aggiungere che dopo la guerra civile Franco fece assassinare ben 200.000 spagnoli.
Qui non ci si rende conto che i delitti di questi statisti rendono del tutto irrilevanti i loro meriti personali; e che ciò che di positivo essi realizzarono, chiunque altro, al loro posto, avrebbe potuto farlo. Anzi, molte di quelle cose giudicate "positive", avrebbero potuto essere fatte meglio in nome di un'ideologia più democratica.
Naturalmente qui non si vuol sostenere che si possa vivere senza alcuna ideologia. Semplicemente si vuol ribadire un precetto evangelico: "Il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato". Cioè l'ideologia vale se è una semplice guida per l'azione, altrimenti è solo un fardello insopportabile. Magari col tempo non ci sarà bisogno di alcuna "guida" messa per iscritto. Ci sarà solo "azione", e ognuno sarà guida di se stesso. Ma prima di arrivare a questa autoconsapevolezza, il singolo dovrà sentirsi parte di un tutto in cui riconoscersi completamente.
Risultati e aberrazioni
è assurdo sostenere che sotto lo stalinismo, nonostante le mostruosità compiute da questa ideologia, furono conseguiti imponenti obiettivi economico-produttivi e militari, tali per cui l'URSS risultò inattaccabile da parte del capitalismo occidentale.
Tutti i risultati conseguiti nel periodo dello stalinismo vanno messi in discussione non tanto perché esisteva lo stalinismo, quanto perché esisteva il socialismo statale. L'ideologia era tutta falsa perché lo era l'economia. Lo stalinismo ha soltanto rappresentato un elemento peggiorativo di tale forma di socialismo (quanto fosse inevitabile solo con altre analisi è possibile stabilirlo).
Con questo non si vuol dire che se, come ideologia dominante, ci fosse stato il trockismo, la popolazione avrebbe sofferto di meno o i diritti sarebbero stati maggiormente rispettati. Anzi, forse gli errori sarebbero stati di più, visto che Trockij entrò nel partito solo all'ultimo minuto. Questo poi senza considerare che Stalin, al momento di pensare a come sviluppare l'industria e collettivizzare le campagne, ebbe in mente proprio le tesi trockiste (cui però non voleva riconoscere alcuna paternità).
Paradossalmente potremmo dire che se anche al potere fossero andati leader diversi da Trockij, come Rykov, Bucharin, Zinov'ev, Kamenev, Kirov, ecc., sarebbe stata la stessa cosa. Esattamente come, alla resa dei conti, non ci fu molta differenza tra Marat, Danton, Robespierre, Saint-Just ecc. Le rivoluzioni tendono a mangiarsi le migliori intenzioni dei loro protagonisti. E comunque se viene fuori qualcosa di sensato da una follia, non dipende certo dalla follia.
Insomma, ad un certo punto i leader bolscevichi avrebbero dovuto chiedersi se la costruzione economico-produttiva della Russia socialista doveva necessariamente seguire i criteri di sviluppo della rivoluzione industriale europea, oppure se non fosse stato meglio adottarne di più democratici, di più rispettosi delle esigenze riproduttive della natura e delle caratteristiche salienti delle popolazioni locali. Invece a livello di vertice nessuno fece niente: o non ne aveva le capacità operative o proprio non aveva idea di quali idee sviluppare. Nel migliore dei casi si ribadiva quanto già detto da Lenin e quanto da lui raccomandato come atteggiamento nei confronti del mondo contadino.
Lo stalinismo ha soltanto accelerato dei processi economici che sul piano ecologico o ambientalistico erano sbagliati in partenza. Lo stalinismo è stata l'ideologia della fretta, connessa all'atteggiamento psicologico della paura, dovuto alla sensazione dell'accerchiamento capitalistico (una sensazione ovviamente indotta dallo stesso stalinismo per giustificare il proprio terrore, almeno sino al 1941, una data che, non a caso, Hitler scelse dopo che Stalin aveva sterminato il proprio Stato Maggiore: 3 marescialli su 5; 8 ammiragli su 8; i 9/10 dei comandanti di corpo d'armata e 35.000 ufficiali su 144.300).
La convinzione che la guerra contro il capitalismo fosse imminente, anzi inevitabile, e che in questa guerra l'occidente avrebbe anche potuto vincere, ha favorito la tendenza ad accelerare qualunque cosa: dall'industrializzazione pesante alla centralizzazione dei poteri statali e politici, sino alla collettivizzazione forzata delle terre agricole.
Nessuno tra i leader bolscevichi mise in dubbio l'esigenza di tale accelerazione. Purtroppo Lenin morì molto presto, ma sicuramente si sarebbe chiesto se gli obiettivi che di volta in volta si raggiungevano, potevano essere considerati accettabili e non invece discutibili. Uno sviluppo meno violento dell'economia avrebbe comportato una valutazione più obiettiva e ponderata dei risultati conseguiti, anche nel breve periodo.
In tal senso l'unico vero errore di Lenin è stato quello di non rimuovere in tempo la figura di Stalin dal ruolo di segretario del partito. Altri vistosi errori non ci furono, anche perché non ebbe il tempo per farli. Oppure, se si preferisce (perché qui non si vuole idolatrare nessuno), bisogna riconoscergli il merito di saper rimediare velocemente ai propri errori, a quelli del partito e a quelli dello Stato.
Oggi le conseguenze della rivoluzione industriale in tutta la Federazione Russa vanno considerate catastrofiche non solo perché le cause furono gestite dallo stalinismo, ch'era totalmente incapace di autocritica, ma anche e soprattutto perché si riconnettevano a un'idea sbagliata di socialismo, in cui il ruolo dello Stato restava centrale su tutto, e il ruolo primario dell'industrializzazione (a quel tempo completamente controllata dallo Stato) non si poteva mettere in discussione.
Semmai ci si dovrebbe chiedere: se i delitti di Stalin hanno ostacolato lo sviluppo democratico dell'URSS, la mancanza di tali delitti avrebbe davvero indotto a ripensare i criteri economici fondamentali di tale sviluppo? Noi pensiamo di no. A quel tempo infatti tutti i bolscevichi pensavano che la natura fosse semplicemente una risorsa da sfruttare e che le comunità locali dei nativi fossero troppo primitive per farlo adeguatamente.
Davvero uno sviluppo ecosostenibile avrebbe indotto l'imperialismo mondiale a scatenare con più convinzione una guerra contro l'URSS? L'URSS non aveva altro modo di difendersi dal capitalismo che sviluppare soprattutto l'industria pesante e il militarismo? Non aveva altre risorse intellettuali e morali?
L'ipocrisia al potere
Quello che non si riesce assolutamente a sopportare in Stalin non è solo la ferocia assassina con cui eliminava chi ostacolava la sua ambizione di potere e i suoi progetti faraonici sul piano industriale, ma anche e soprattutto la sua estrema ipocrisia, la sua falsità.
Il libro di Medvedev è pieno di esempi dalla prima all'ultima pagina. Prendiamone uno solo, a pagina 235. "Il 5 marzo 1937 Stalin affermò davanti al Comitato centrale che soltanto i trockisti ‘attivi'… dovevano venir colpiti". Cioè non quelli che avevano da tempo abbandonato il trockismo. La repressione infatti colpiva tutti in maniera indiscriminata, anche chi aveva commesso il più piccolo errore negli anni passati. Sicché la polizia politica "cominciò a ridurre la portata della repressione. Tuttavia presto ricevette appropriate spiegazioni del discorso di Stalin e la repressione di massa tornò a scatenarsi con nuova intensità" (ib.).
Come interpretare un comportamento del genere? Stalin soffriva forse di un disturbo bipolare? di una qualche forma di schizofrenia o di paranoia? Aveva un lato "buono" nella sua coscienza che di tanto in tanto riusciva a emergere? Niente di tutto questo. Lo stalinismo non va interpretato in chiave psicologica.
Stalin dirigeva un partito politico, non una comunità familiare o un'associazione culturale di poche persone. Stalin si circondava di criminali come lui, persone spietate, ciniche, che sicuramente più di lui avevano il polso della situazione, essendo più abituate a scontrarsi con le contraddizioni che inevitabilmente si formavano nell'applicare le assurde direttive del governo o del partito.
Stalin, al contrario, viveva in una torre d'avorio, come tutti i grandi dittatori. Per lui, in via di principio, non faceva alcuna differenza eliminare 10, 100 o 1.000 persone. Doveva però tener conto dei suggerimenti, delle obiezioni che gli esponevano gli elementi del suo staff, soprattutto quando determinati aspetti negativi venivano sottolineati da più persone. In tal caso egli ne prendeva atto, li assumeva come propri, cioè fingeva che fossero una sua propria preoccupazione. Faceva vedere d'essere migliore di chi eseguiva le sue condanne capitali. Così la gente si convinceva della sua estraneità alle terribili persecuzioni. Era un maestro nella propaganda farlocca.
Poi tuttavia in privato, in totale segretezza, chiedeva alla polizia politica di fare il contrario di ciò che aveva sostenuto in pubblico. Cioè da un lato svolgeva il ruolo del giusto giudice; dall'altro invece si comportava come uno spietato macellaio; e in mezzo stava l'ipocrita senza scrupoli, la cui perfidia era semplicemente smisurata.
A questo punto la domanda che ci si deve porre è inevitabile: com'è possibile potersi comportare così nell'ambito del socialismo? Se si riesce a persistere indisturbati in questa mostruosità, che cos'è che nel socialismo non funziona? Cosa occorre fare per invertire una marcia completamente sbagliata?
Bisogna infatti ammettere che ci voleva una certa abilità per eliminare "quasi tutti gli ex oppositori" (ib.) entro la fine del 1937, cioè dopo pochi anni dall'assassinio di Kirov, commissionato dallo stesso Stalin per dare inizio al terrore di massa nei confronti dei comunisti che avevano compiuto la rivoluzione. Ma era solo questione di abilità personale o si stava sfruttando un'opportunità inedita, di tipo strutturale?
Non è sempre bene accontentarsi
Vi è nel testo citato di Medvedev un'affermazione che fa un po' sorridere. Scrive alle pp. 452-3: "i dirigenti di partito e di Stato venivano arrestati quali ‘nemici del popolo', ma al tempo stesso crescevano ovunque scuole, fabbriche, case della cultura". Poi prosegue parlando dei capi militari arrestati come spie e dell'esercito che si modernizzava; degli scienziati arrestati come sabotatori e dello sviluppo della scienza, e così via.
Ha un modo di ragionare tipico di chi è costretto a condannare lo stalinismo (poiché non farlo sarebbe insostenibile) e, nel contempo, vuole a tutti i costi difendere il socialismo statale. Come se non sapesse che non è possibile accettare uno e rifiutare l'altro: quelli sono elementi strettamente interconnessi, che si sostengono reciprocamente.
Questo comporta una conseguenza spiacevole per l'autore, ancorché involontaria: è costretto a mentire, proprio perché le realizzazioni avvenute sotto lo stalinismo o il socialismo statale non avevano nulla di democratico, e persino nulla di socialistico e tanto meno di ambientalistico.
Non si possono avere incertezze a riguardo, come non se ne possono avere nei confronti del nazifascismo. Ciò che di "buono" è stato fatto sotto queste dittature, in realtà esisteva già prima che si formassero. Al massimo si potrebbe dire che quanto di "buono" c'era, venne strumentalizzato dal potere, oppure riuscì in qualche maniera a resistere, con le ossa molto rotte, agli attacchi furibondi del sistema e della sua perversa ideologia.
In ogni caso non ha alcun senso sostenere che, nonostante lo stalinismo, crescevano "scuole, fabbriche e case della cultura". Questa cosa sarebbe avvenuta tranquillamente anche senza gli orrori dello stalinismo. Anche perché un qualche sviluppo della società deve per forza esserci, a prescindere dall'ideologia che la governa. è nella natura umana svilupparsi progressivamente.
Semmai avrebbe avuto più senso fare un qualche paragone tra gli sviluppi di un dato settore sotto lo stalinismo e quelli che vi sarebbero potuti essere sotto un'ideologia non totalitaria, oppure quelli che vi erano già stati prima del socialismo statale. Quanto Stalin eliminò gran parte dello Stato Maggiore, dando a Hitler l'occasione buona per intervenire, l'intera società non seppe che farsene della modernizzazione dell'esercito: l'avanzata dei nazisti fu travolgente sino alle porte di Mosca e Leningrado.
Solo il fatto che la popolazione sovietica diminuì in maniera drammatica sotto lo stalinismo, in quanto sterminata dalle persecuzioni, dovrebbe essere considerato sufficiente per capire che qualunque successo ottenuto grazie al socialismo statale, non ebbe alcun vero valore. Infatti nessun vantaggio quantitativo merita d'essere apprezzato quando viene ottenuto rinunciando alla qualità umana e democratica della vita. Peraltro lo stalinismo, abbacinato com'era dall'idea di industrializzare velocemente l'intero Paese, voleva far credere che gli indici qualitativi della vita dipendessero proprio da quelli quantitativi: il che era un modo completamente borghese di ragionare.
Quindi non ha davvero alcun senso affermare che gli "ovvi progressi riempivano d'orgoglio il cuore dei sovietici" (p. 453). Per quale motivo uno storico che si sforza d'essere obiettivo, deve scivolare su queste amenità moralistiche? Temeva forse d'essere espulso dal suo partito o dal suo Stato o che il suo libro non venisse pubblicato in Russia?
Oggi non si ha alcun dubbio nel sostenere che qualunque progresso avvenuto sotto lo stalinismo è stato pagato da un numero spropositato di persone. Tutte le grandi opere urbanistiche e ferroviarie costruite in Siberia si devono più che altro al lavoro coatto dei detenuti, la cui tragica sorte, in quelle terribili condizioni ambientali, era considerata del tutto irrilevante per gli organi di potere.
Perché non ci fu un'opposizione significativa?
Scrive Volkogonov, che di sicuro, approfittando della glasnost di Gorbaciov, doveva aver fatto parecchie ricerche negli archivi storici: "Dall'inizio degli anni Trenta in poi non sono riuscito a scoprire la minima traccia di dissenso pubblicamente espresso nei confronti dei dogmi enunciati da Stalin" (p. 587).
Incredibile un'affermazione del genere. Praticamente sin da quando, nel 1929, Trockij fu espulso dall'URSS, non si poté più essere anti-stalinisti. Proprio nel momento in cui la stragrande maggioranza del Politburo appoggiò Stalin contro Trockij, si scavò la fossa sotto i piedi, e non perché Trockij fosse migliore di Stalin, quanto perché, molto più semplicemente, si era eliminato il dissenso interno al partito, dopo aver già eliminato quello esterno.
Ci si può chiedere, legittimamente: quando si costruisce il socialismo, è forse lecito o addirittura necessario eliminare il dissenso? Ma forse la domanda potrebbe essere ancora più generica: quando si fa politica, si può eliminare il dissenso? Lenin non lo fece mai: diceva che bisognava andare a maggioranza, e la minoranza era tenuta a rispettare le risoluzione deliberate; al massimo arrivò a dire, nei confronti dei credenti, che il dissenso era possibile nei limiti delle finalità del partito, nel senso che i militanti, in generale, non erano costretti ad andare d'accordo con chi professava idee opposte alle loro. Poi, per quanto riguardava i rapporti con gli altri partiti, mostrava molta flessibilità: riteneva lecito ogni compromesso che non fosse vergognoso.
La storia dell'URSS cos'ha dimostrato? Che non solo il dissenso non può essere eliminato, ma anche che, se si cerca di farlo, si finisce col provocare milioni di morti inutili. Se poi lo si fa per un periodo di tempo piuttosto lungo, è come se si favorisse lo scoppio di una pentola a pressione. Cioè ad un certo punto la popolazione non ne può più e decide di mandare in soffitta non solo la dittatura politica, ma anche il socialismo statale e persino l'idea stessa di socialismo.
Probabilmente questa assoluta mancanza di duttilità da parte dello stalinismo non dipendeva solo dalla struttura oppressiva del socialismo statale e dalle caratteristiche sociopatiche dei singoli stalinisti, ma anche da un retaggio storico, quello zarista, che di democratico non aveva nulla, essendo una vera e propria autocrazia ereditaria, favorevole ai grandi proprietari terrieri.
Di tutte le etnie e nazionalità dell'ex impero zarista, quella russa si vantava d'essere la più abituata alla democrazia, proprio perché la più "europea", e quindi la più predisposta a diffondere le idee del socialismo europeo. Ma era tutto relativo. è vero che nell'area asiatica vigeva un tardo feudalesimo, ma sarebbe assurdo sostenere che le comunità di villaggio non conoscessero la democrazia, solo perché non usavano i moderni termini del socialismo scientifico.
Probabilmente lo stalinismo non fece altro che ereditare la violenza della cultura euroccidentale, applicandola anzitutto al proprio interno, cioè a partire dal partito, per poi trasferirla allo Stato (coi suoi servizi segreti, il suo esercito e la sua burocrazia), giungendo infine all'intera popolazione, da secoli abituata a obbedire allo zarismo, soprattutto nell'area asiatica.
Un'ideologia del genere, senza il tipico collettivismo asiatico, non avrebbe potuto resistere per molto tempo in Europa occidentale, proprio perché l'individualismo borghese si era imposto sin dai tempi dei Comuni medievali. Questo per dire che se anche il fascismo e il nazismo fossero esistiti per 40 anni, come successe al franchismo, vi sarebbe stato, alla morte dei rispettivi dittatori, un inevitabile rivolgimento di fronte. Cioè avrebbe potuto esserci una rivoluzione comunista, un governo socialdemocratico, una democrazia formale: qualunque cosa, meno un replay della dittatura cesarista. Questo perché l'individualismo borghese è, nella sostanza, un atteggiamento anarcoide che non sopporta le dittature. Un politico deve sempre essere il rappresentante di qualcosa di impolitico, cioè qualcosa di economico, in quanto, per il borghese, l'interesse è superiore all'idea, ovvero l'idea serve per affermare un certo interesse. è questo, in nuce, il cosiddetto "materialismo volgare" di cui parla il marxismo. E l'interesse economico viene formalmente difeso dal diritto e sostanzialmente difeso dagli eserciti. è così dal tempo dei Romani. La differenza tra lo schiavismo romano e il capitalismo borghese sta nel fatto che fino a quando su un individuo si esercita una coercizione fisica non si ha alcun bisogno d'inventarsi una tecnologia mediante la quale si possa esercitare una dipendenza salariata.
In fondo non è possibile essere favorevoli al libero mercato, all'evasione fiscale, alla deregulation, al gioco borsistico e ad altre "perle" del sistema capitalistico in presenza di una dittatura politica e poliziesca. In genere le dittature si affermano là dove il capitalismo è debole. Se proprio una dittatura deve esserci, le motivazioni devono essere molto serie, gravose, esistenziali; e, in ogni caso, la sua durata non può essere a tempo illimitato.
Il capitalismo non ama i personalismi, in quanto la politica e qualunque forza dell'ordine pubblico devono stare subordinate all'economia; anzi, questa, col tempo, tende a subordinarsi alla finanza, che è ancora più anonima, in quanto le imprese più moderne non sono in mano a singoli imprenditori, ma a consorzi, trust, cartelli, fondi d'investimento al cui interno si viene suddivisi sulla base delle quote azionarie di partecipazione e si beneficiano costantemente di dividendi, cedole, premi di produttività o di fusione, insomma rendite parassitarie.
Un Paese prevalentemente agricolo e autocratico come la Russia, la cui area industriale era solo quella europea, non poteva realizzare una democrazia formale, anche perché il capitalismo era un prodotto di recente importazione. Avrebbe rischiato una reazione negativa da parte dell'area asiatica, ch'era tre volte più grande. Tant'è che Lenin volle realizzare un socialismo democratico il più possibile rispettoso dell'autonomia e della diversità delle tante etnie e nazionalità. Senonché ebbe la meglio Stalin nel perseguire un obiettivo più semplice (ma anche più rozzo) nel contesto di allora: il socialismo autoritario.
è solo a questo punto che ci si dovrebbe porre la domanda: l'URSS avrebbe potuto sperimentare da subito una gestione collegiale del socialismo autoritario, oppure aveva prima bisogno di passare attraverso il culto di una personalità singola? Cioè si poteva dare una parvenza di democraticità al socialismo statale, come si fece a partire da Krusciov, o il socialismo doveva per forza imporsi, da subito, con la ferocia e la spietatezza di criminali senza scrupoli?
Probabilmente se si fosse applicato alla lettera il Testamento di Lenin, o meglio, se si fosse tenuto conto di tutti i suoi ultimi scritti, quelli sulla cooperazione, sul rapporto coi contadini e con le nazionalità, sull'Ispezione operaia e contadina, sulla sburocratizzazione dello Stato, sulla democratizzazione del partito, non vi sarebbe stato alcun culto della personalità. Le cose sarebbero potute andare molto diversamente, in quanto non vi è mai nulla di predeterminato.
Per questo motivo il popolo dell'attuale Federazione Russa può e deve fare i conti con se stesso relativamente agli errori compiuti nel passato, senza però fare di tutta l'erba un fascio.
Come creare pretesti
Impossibile non condividere la seguente affermazione di Medvedev: "Una tra le leggende più largamente diffuse fu che Stalin non sapesse niente del terrore" (p. 353, o.c.).
Infatti le sue furono mostruosità così grandi che ci si rifiuta di ammetterle, anche perché furono compiute in nome di un'alternativa al capitalismo, che in occidente ha cominciato a farsi sentire sin dai tempi dei Comuni medievali, coi movimenti pauperistici ereticali.
Impossibile dire quanto tempo ci vorrà per sfatare definitivamente questo mito negli ambienti della sinistra radicale, per non parlare del fatto che gli stessi russi odierni continuano ad avere un certo debole per il capo carismatico al potere.
Si pensi solo al fatto che ancora oggi milioni di persone sono convinte che Gesù Cristo sia "figlio di Dio", fece molti miracoli, non aveva nulla di politicamente eversivo e altre sciocchezze del genere.
Anche l'assassinio di Cesare fu sfruttato da Augusto con l'intento apparente di tutelare le istituzioni repubblicane, quando in realtà fu proprio lui a imporre una soluzione ultradittatoriale come quella principesca di origine divina, che segnò una svolta durata molti secoli, in luoghi differenti e sotto svariate bandiere ideologiche (l'impero bizantino si concluse solo nel 1453; la Mosca zarista, autoproclamatasi "terza Roma", durò fino al 1917).
D'altra parte quante persone oggi in occidente sarebbero disposte ad ammettere che dietro il crollo delle Torri Gemelle nel 2001 vi furono gli stessi servizi segreti americani? Non è forse vero che con quell'attentato terroristico s'inaugurò una guerra contro un nemico del tutto inventato: il fondamentalismo islamico? Solo nel 2021, abbandonando improvvisamente l'Afghanistan, gli USA sostituirono il nemico islamico con quello russo (salvo il fatto che i palestinesi vanno comunque sterminati da Israele, se non rinunciano ai loro territori).
Persino il bombardamento nipponico del 1941 alla base navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, avvenne col consenso del Deep State americano, al fine di convincere la popolazione a entrare in guerra a fianco degli inglesi e a occupare quanti più territori possibili in Asia. Da notare che con gli inglesi (che disponevano di un esercito considerevole nell'ambito del Commonwealth) gli USA riuscirono a occupare tutta l'Europa occidentale, sottomettendo la stessa Inghilterra sul piano finanziario.
Ma anche la sortita terroristica di Hamas in Israele, il 7 ottobre 2023, non poté avvenire senza il consenso del Mossad israeliano, il quale, a sua volta, prendeva ordini dai servizi segreti americani.
Queste azioni estreme, condotte contro i propri concittadini, avvengono quando, in politica interna, la situazione socio-economica diventa insostenibile e non si hanno strumenti adeguati, di tipo democratico, per affrontarla. Sono azioni così ciniche che nessuno è disposto ad ammettere la loro vera causa. Si guardano solo gli effetti più eclatanti, che sono poi quelli più emotivi.
Stalin avviò la propria campagna genocidaria nei confronti del proprio popolo e soprattutto nei confronti dei bolscevichi, a partire dall'assassinio di Kirov, che lui, dietro le quinte, promosse.
Quando una situazione sociale tende a sfuggire di mano, a causa delle sue macroscopiche contraddizioni, e non si reagisce con l'autocritica (che potrebbe anche implicare le dimissioni dal proprio potere), la repressione di massa diventa inevitabile, e in forma tanto più vasta e profonda quanto più è necessario eliminare il dissenso.
Chi è al potere si gioca tutte le sue carte, e chi non è al potere, non essendo abituato a comandare, lo lascia fare, nella speranza che la repressione duri poco o non assuma toni apocalittici.
Questa è un'altra dimostrazione che né il capitalismo privato né il socialismo statale sono compatibili con la democrazia. Al peggio non ci si sa difendere.
La giustificazione del fallimento è una sola
Bisognerebbe smettere di dire che lo stalinismo si formò perché le condizioni prerivoluzionarie erano molto burocratiche, o perché vi era un disperato bisogno di un potere centralizzato durante la guerra civile, o perché la Russia era circondata da Paesi ostili, o perché si era formata una strana "mistica del futuro", che tutto sottoponeva all'ideologia e alla linea politica del partito, o perché non vi erano adeguate basi materiali, o perché la classe operaia era poco numerosa, o perché il livello di cultura delle masse era troppo basso, o perché i contadini poveri non erano sufficientemente consapevoli di dover costruire qualcosa di assolutamente alternativo al capitalismo.
Andando avanti di questo passo, le giustificazioni possono essere infinite. In tal senso ha ragione Medvedev quando dice: "è difficile trovarsi d'accordo con l'idea che in un paese sottosviluppato la trasformazione socialista della società e la rivoluzione industriale debbono necessariamente accompagnarsi con la violenza di massa" (p. 440, o.c.).
Ha ragione, anche se, effettivamente, una qualunque rivoluzione industriale, nella storia di ogni nazione, dal XVI sec. ad oggi (ma in Italia anche prima, in riferimento alla manifattura, opifici tessili ecc.), non è mai avvenuta pacificamente, senza sconvolgere in profondità i rapporti pre-borghesi, cioè quelli basati su autoconsumo e baratto delle eccedenze.
Con ciò naturalmente non si vuol dire che "qualunque" trasformazione "industriale" della produzione vada ostracizzata. Tutto dipende dal peso, dall'importanza, dalle finalità che si vogliono dare a una trasformazione del genere. Di sicuro, affinché non si contraddica la prassi della democrazia e quella del socialismo, una produzione industriale non può e non deve diventare prioritaria su quella artigianale, proprio in quanto la tecnica o la tecnologia non può sostituire l'essere umano, cioè l'operaio non può diventare un ingranaggio della macchina che usa. Se si pretende che lo diventi, ci si pone automaticamente in una posizione innaturale, lesiva dei diritti riproduttivi della natura, e seriamente rischiosa per i rapporti egualitari tra gli umani, anzi per gli stessi valori umani in generale. Anche a prescindere dai problemi relativi alla proprietà privata dei mezzi produttivi, si imporranno col tempo, inevitabilmente, dei gravi problemi tra urbanizzazione e ruralità, tra operai, intellettuali, professionisti dei servizi, militari, da una parte, e contadini e allevatori dall'altra.
Medvedev fa bene a chiedersi: "Forse che le centinaia di migliaia di dirigenti annientati nel 1936-38 non furono tra i migliori organizzatori dell'industrializzazione del paese? Perché dunque la macchina del potere statale, ch'essi avevano creata in collaborazione con Stalin, doveva poi rivoltarsi contro di loro?" (ib.).
Peccato che la prima domanda sia sbagliata e che la seconda, a causa di questo errore, non trovi alcuna risposta nel suo libro. Infatti una domanda più pertinente sarebbe stata questa: "Per realizzare il socialismo è necessaria la rivoluzione industriale?" Ovvero: "Ci fu forse qualche dirigente comunista che capì la non necessità della rivoluzione industriale ai fini della costruzione del socialismo?" Ora, siccome non ce ne fu neanche uno, non diventa forse facile rispondere alla seconda domanda?
La rivoluzione annientò i propri protagonisti a partire dal momento in cui l'industrializzazione accelerata, e la forzata collettivizzazione agricola ad essa correlata, si rivelarono in tutta la loro tragicità, in tutta la loro mancanza di senso del realismo, di congruità rispetto alle effettive esigenze della popolazione.
Il disastro epocale della rivoluzione bolscevica fu quello d'aver assunto in maniera acritica un'ideologia socialista elaborata nell'Europa industrializzata. Tutte le tragedie compiute dallo stalinismo sono solo una conseguenza di questo presupposto sbagliato. Di suo Stalin e il suo entourage aggiunsero gli aspetti deviati della loro personalità.
Tanto meglio, tanto peggio
Le pagine 238-9 dello Stalinismo (o.c.) di Medvedev sono obiettivamente durissime contro Stalin come persona.
La tesi di fondo è molto semplice e coerente nella sua incisività:
- Stalin era un despota, maniaco del potere e amante del culto della propria persona.
- Negli anni 1928-32 s'inventò, come nemico da combattere, i sabotatori tra l'intellighenzia borghese; nella seconda metà degli anni '30 prese a colpire tutti i membri più autorevoli delle varie organizzazioni politiche e amministrative.
- Per poter fare queste stragi, era solito dire una cosa e smentirsi subito dopo nei fatti.
- Non perché i politici fossero davvero pericolosi, Stalin decideva di annientarli. Il motivo principale per cui lo faceva era la vendetta personale nei confronti di chi l'aveva criticato nel passato.
- Il pretesto ideologico per comportarsi così era basato su una tesi, lanciata dallo stesso Stalin nel 1933, secondo cui man mano che lo Stato sovietico si avvicina alla vittoria finale del socialismo, cresce l'opposizione delle forze più retrive.
Quest'ultima tesi, dal sapore apocalittico, tipico di tutte le religioni, legittimava - com'è facile capire - qualunque azione repressiva. Se questo nesso di causa/effetto fosse scontato, chi edifica il socialismo dovrebbe vivere asserragliato in un bunker, isolandosi il più possibile dal mondo. D'altra parte la politica estera staliniana la rispecchiava benissimo: i Paesi capitalisti - si diceva - fan di tutto per accerchiare la Russia e smembrarla.
Ora, è evidente, che se il sospetto, la diffidenza, la mania di persecuzione sono gli atteggiamenti che preliminarmente si devono avere nei confronti dei propri concittadini e degli Stati confinanti, qualunque democrazia è impossibile, così come qualunque rispetto della legalità. Se l'altro è visto, in sé e per sé, come un potenziale "nemico" da combattere, l'amicizia, la fratellanza, la collaborazione, la cooperazione sono letteralmente impossibili, non auspicabili. Vengono considerate una forma di debolezza.
Tuttavia questo modo di ragionare di Medvedev è piuttosto limitato. Stalin si comportava così non tanto perché era disturbato psichicamente, quanto perché le sue idee sull'industrializzazione accelerata e la collettivizzazione forzata erano completamente sbagliate, e gli stalinisti (quindi non solo lui) non avevano il coraggio di ammetterlo, forse perché temevano, essendosi comportati in maniera dispotica, anzi criminale, che sarebbero stati spazzati via dal popolo.
Infatti la collettivizzazione agraria comportò un numero incredibile di arresti, deportazioni, condanne capitali e soprattutto fallimenti sociali ed economici.
I limiti dello stalinismo
In che cosa sbagliò lo stalinismo? Sicuramente nella fretta di ottenere tutto e subito.
Da che cosa nasceva questa esigenza? Dall'errata convinzione che se tale obiettivo non fosse stato conseguito, il capitalismo occidentale avrebbe dichiarato guerra alla Russia, vincendola.
Di qui la necessità di potenziare al massimo la coercizione statale, senza la quale sarebbe stata impossibile la collettivizzazione forzata nelle campagne e la costruzione delle grandi opere industriali, civili e militari.
Il prezzo che le popolazioni dell'URSS pagarono fu elevatissimo, anche perché qualunque opposizione a questa paura infondata e a questa fretta parossistica comportò milioni di morti, provocati da un terrore spietato.
Lo stalinismo, in soldoni, eliminò la generazione che aveva realizzato la rivoluzione bolscevica. E la sostituì con un'altra totalmente priva di spirito critico, abituata soltanto a obbedire.
La Germania decise di dichiarare guerra all'URSS dopo essersi resa conto che col terrorismo statale lo stalinismo aveva perso un vero consenso popolare. Hitler era convinto che la guerra sarebbe durata solo pochi mesi, cioè che i russi avrebbero accolto i nazisti come dei liberatori.
Sotto questo aspetto bisogna dire che non fu propriamente lo stalinismo a vincere il nazismo, ma fu l'eroismo, la resistenza indomita del popolo russo, o comunque dell'intera Federazione di etnie e nazionalità. Semmai lo stalinismo se ne prese il merito, e continuò col suo autoritarismo fino alla morte di Stalin. Anzi, se si esclude la breve parentesi di Krusciov, continuò fino a tutto il periodo della stagnazione.
L'idea di socialismo statale non fallì con Gorbaciov, ma era già fallita quando lo stalinismo volle por fine alla Nuova Politica Economica inaugurata da Lenin. La NEP non fu altro che una sorta di "socialismo mercantile", cioè un socialismo che tollerava entro certi limiti la presenza di un capitalismo privato.
L'idea di pianificare tutto dall'alto si rivelò fallimentare già nella prima metà degli anni '30. Nella seconda metà si scatenò il terrore statale per non voler ammettere questa sconfitta.
Oggi qualunque riproposizione del socialismo statalizzato è destinata a fallire. L'idea di socialismo va totalmente ripensata. Senza democrazia il socialismo muore. Ma la democrazia, per essere efficace, autentica, deve essere diretta. Una democrazia diretta sul piano politico implica necessariamente una gestione locale del territorio in cui le principali risorse appartengano all'intera popolazione che vi abita. In definitiva è anche il rapporto con la natura che va completamente rivisto.
Davvero lo stalinismo aveva una base marxista?
Quando Volkogonov sostiene che "Stalin e tutti i fenomeni a lui collegati sono sorti in gran parte su basi marxiste" (p. 581 o.c.), nutro sempre molti dubbi sulla veridicità di tali affermazioni.
Infatti, se questo fosse vero, dovremmo ammettere che nel socialismo scientifico vi sono gli estremi per uno svolgimento dittatoriale di tale ideologia. Il che è falso. Semmai vi sono gli estremi per accettare l'idea di una continua industrializzazione della vita sociale, e quindi per un peggioramento delle condizioni ambientali di questa vita.
Tuttavia è anche vero - checché ne pensi il positivista Althusser - che il socialismo è una forma di "umanismo", per cui, ad un certo punto, chi lo professa o chi lo mette in pratica dovrebbe accorgersi del pericolo ambientale. Il socialismo, sin dai suoi esordi, ha sempre ambito a essere migliore del capitalismo.53
Quanto al rischio di una dittatura, tutti i classici del marxismo prevedono l'estinzione dello Stato, quindi la fine della burocrazia, degli eserciti professionali e persino della politica intesa come scienza e come pratica della lotta di classe. Il popolo deve autogovernarsi, altrimenti il socialismo democratico non può esistere o non può perdurare.
Quindi, secondo me, lo stalinismo c'entra assai poco col marxismo. Cioè non è vero che "storicamente lo stalinismo è stato una delle possibili varianti (estremamente negativa) della realizzazione delle idee contenute nella dottrina marxista" (p. 583). I più stretti collaboratori di Stalin aveva una conoscenza del marxismo piuttosto scarsa o scolastica, che peraltro doveva combaciare esattamente con quella che aveva lui. Per es. l'idea che quanto più aumenta la costruzione del socialismo, tanto più aumenta la lotta di classe, è un'idea psicopatica, non proviene da nessuna affermazione marxista.
Gli stalinisti han dovuto tener conto del socialismo scientifico semplicemente perché il leninismo fece la rivoluzione in nome del marxismo, ovviamente superando i limiti interpretativi che ne aveva dato la II Internazionale. Lenin non fece altro che aggiungere all'analisi storica, filosofica ed economica del marxismo ciò che era necessario per compiere una rivoluzione vittoriosa, quindi lavorò soprattutto sul piano tattico e strategico, anche se a tempo perso produsse capolavori teorici d'inestimabile importanza.
Il giovane Stalin si aggregò al bolscevismo come tanti altri che non sopportavano più lo zarismo, ma, appena giunto al potere, la prima cosa che fece fu quella di minare alle fondamenta, in maniera costante e irreversibile, sino all'ultimo dei suoi giorni, le caratteristiche democratiche del leninismo e del socialismo in generale.
Qui è del tutto irrilevante sapere se questa sua involuzione verso il cesarismo fosse dettata da un'altra ideologia o da una devianza di tipo psicologico. è sufficiente constatare che qualunque riferimento degli stalinisti al socialismo scientifico era falso, profondamente sbagliato, al punto che poteva essere sostenuto solo usando la forza più cinica e brutale. Alla resa dei conti non vi era molta differenza tra nazismo e stalinismo, salvo il fatto che il retroterra socio-culturale su cui le due ideologie facevano riferimento, era piuttosto diverso: l'individualismo borghese-germanico l'una e il collettivismo slavo-asiatico l'altra.
Quindi il fatto che gli stalinisti usassero il marxismo-leninismo in maniera dogmatica, non implica che tale ideologia si prestasse, in sé e per sé, a un'operazione del genere. Gli stalinisti avrebbero potuto comportarsi così con qualunque altra ideologia, e non tanto perché fossero di una crudeltà particolarmente feroce, quanto perché non esiste un'ideologia che, oggettivamente, possa impedire d'essere stravolta in maniera dogmatica. Tutto dipende dai criteri interpretativi che si usano. Anzi, il fatto stesso che esista una "ideologia", racchiusa in decine di volumi, favorisce la sua falsificazione o mistificazione. Quante più parole scritte esistono, tanto più facile diventa porre le une contro le altre.
Un socialismo davvero democratico dovrebbe basarsi sull'oralità, cioè sulle parole che si usano sul momento, in maniera collegiale, per risolvere un determinato problema, per soddisfare una specifica esigenza.
Insomma Stalin non aggiunse nulla al marxismo-leninismo non tanto perché non ne aveva le capacità, o perché non fosse sufficientemente a conoscenza dei princìpi fondamentali di questa ideologia, quanto perché non aveva nulla né di democratico né di umano. Finché il socialismo continuerà a presentarsi in una maniera così distorta, il capitalismo non avrà mai fine, anzi potrebbe diventare così astuto da assumere le sembianze dello stesso socialismo.
Tanti, troppi errori
I tanti errori e orrori compiuti dallo stalinismo erano dovuti a una serie di fattori che, una volta sommati, resero inevitabili le repressioni di massa.
Prendiamo, a titolo di semplificazione, l'idea di voler costruire a tutti i costi un socialismo statale, in cui gli elementi borghesi della società vengono considerati come un ostacolo che va progressivamente superato. è evidente che in una situazione del genere la politica prevarrà sempre sull'economia (il che non è detto sia un bene, e comunque sarebbe meglio che ciò avvenisse in ultima istanza, quando la situazione sta cominciando a minacciare i valori umani e naturali).
è altresì evidente che se la politica prevale sempre sull'economia, l'ideologia tenderà a prevalere sulla politica, e quella stalinista aveva assai poco a che fare con quella leninista, non solo perché non aveva "etica", ma anche perché, più in generale, un'applicazione schematica dell'ideologia alla realtà comporta sempre risultati disastrosi.
Questi due errori erano dovuti al fatto che, alla fine dei conti, si voleva uno Stato del tutto superiore alla società civile. Per essere sicuri che ciò avvenisse con facilità, il pluripartitismo doveva scomparire. Qualunque altro partito, oltre quello egemonico, non avrebbe favorito l'idea di pluralismo ma solo quella di scissionismo o frazionismo. All'interno del partito-stato le decisioni andavano prese all'unanimità, altrimenti la minoranza veniva guardata con sospetto.
Tuttavia, se si leggono le opere di Marx ed Engels, lo Stato, nell'ambito del socialismo realizzato, va considerato meno importante della società civile, anzi, è destinato a scomparire proprio nella misura in cui la società dimostra di sapersi autogestire. Di conseguenza anche la politica è destinata a scomparire rispetto all'economia. Quando mancano i conflitti sociali dovuti alla proprietà dei principali mezzi produttivi, le cose che nel capitalismo appaiono normali, non hanno più ragione di esistere, inclusa la burocrazia, l'esercito separato dal popolo, l'uso strumentale dei media, il sistema creditizio, la circolazione della moneta, la dipendenza dai mercati, lo sfruttamento della natura e così via.
Si dirà che molte di queste cose restano nella fase di transizione dal capitalismo al socialismo. è vero, ma bisogna fare in modo che scompaiano progressivamente, e perché ciò avvenga, non si devono rafforzare i poteri dello Stato. Se di tutte le cose negative se ne vuole tenere una, con cui eliminare le altre, quella che si sarà conservata diventerà mostruosa.
Per far passare l'idea che lo Stato andava progressivamente rafforzato e non indebolito, lo stalinismo si servì di due giustificazioni: la prima è che quanto più cresce il socialismo tanto più aumentano i suoi oppositori; la seconda è che gli Stati capitalisti vogliono distruggere il socialismo, e siccome in quel momento solo la Russia lo rappresentava, una guerra era inevitabile.
Poste queste due condizioni di ricatto, è naturale che l'atteggiamento dominante diventi quello della paura. Si finisce con l'obbedire senza discutere e con il compiere azioni criminogene. La corruzione s'impone a tutti i livelli. Il socialismo statale sovietico era gestito da pochi intellettuali contro tutti (o a nome di tutti gli altri gruppi sociali, senza che questi gruppi potessero interferire).
Il vero potere doveva per forza essere élitario. Si entrava nei suoi meccanismi solo per raccomandazione o cooptazione: i meriti personali dovevano essere graditi a forze superiori, che pretendevano il rispetto della gerarchia e che non tolleravano d'essere criticate. Se le direttive degli stalinisti ottenevano risultati disastrosi, il motivo stava nella loro errata applicazione: non a caso Stalin parlava sempre di "sabotatori". In Italia atteggiamenti del genere si chiamano "mafiosi".
Non può esserci "equità" nel socialismo statale. Lo stalinismo era quella forma di forzatura che doveva tenere in piedi qualcosa di abnorme, di totalmente squilibrato perché fondamentalmente ingiusto.
Poteva durare un regime del genere? Dipende da come la popolazione reagisce. Lo Stato della Chiesa romana, ch'era indubbiamente una forma di dittatura, si protrasse per circa un migliaio di anni, cioè dai tempi di Carlo Magno fino alla breccia di Porta Pia.
Quando uno Stato così dispotico viene attaccato dall'esterno, è evidente che la popolazione interna tenderà a difenderlo con poca convinzione. Paradossalmente infatti quanto più si cerca di rafforzare uno Stato contro la propria società, tanto più si pongono le premesse che inducono la società a combattere non solo lo Stato, ma anche tutte le idee che l'hanno sostenuto, buone o cattive che siano state.
Oggi in Russia non solo non esiste il socialismo statale e l'ideologia stalinista che gli era correlata, ma anche l'intera ideologia marxista-leninista ha un peso del tutto irrilevante. Per poter riparlare di socialismo, in Russia potrà essere fatto solo su basi completamente diverse, che probabilmente saranno quelle ecologiste.
Fino a che punto si può parlare solo di errori?
Quando certi atteggiamenti estremi di Stalin vengono considerati degli "errori", aggiungendo persino l'espressione "a carattere limitato", si fa un torto gigantesco a chiunque: non solo ai suoi oppositori ideologici o politici, ma anche alle tante persone innocenti, eliminate senza un valido motivo. Si fa un torto alla democrazia in generale, poiché si dimostra di non conoscerne neppure le fondamenta.
Considerare la deviazione ideologica, l'opinione divergente (il cristianesimo parlava di "eresia") come una colpa meritevole di pena capitale o di dura carcerazione, è semplicemente orribile. Al massimo una persona del genere potrà essere emarginata dal governo che amministra un Paese, ma non può mai essere tolta di mezzo.
Una cosa infatti è la guerra civile, in cui lo scontro diventa armato, e bisogna decidere, caso per caso, quale destino riservare a chi compie delitti efferati, verificando se esiste la possibilità reale di un recupero del criminale, che in genere si avvale di motivi politici, non personali. Andrebbe persino fatta una certa distinzione, quando scoppiano rivoluzioni popolari o guerre civili, se uno uccide sulla base di idee politiche o di interessi economici.
Tendenzialmente comunque si dovrebbe essere contrari alla pena di morte, non solo per motivi umanitari (nessuno può vantare d'essere "assolutamente innocente", come nessuno può essere accusato d'essere "assolutamente colpevole"), ma anche perché, per comminare una sentenza del genere, ci vorrebbe un regolare processo, dando tempo e mezzi all'accusato di difendersi, di provare la sua innocenza o di far valere determinate attenuanti: cosa che, mentre si è in guerra, non è certo facile.
Ha senso fucilare i disertori o i traditori? Da un punto di vista militare avrebbe senso se, in conseguenza di tale decisione, una o più persone avessero pagato con la morte. Tuttavia trovare la verità delle cose o la profonda motivazione di certe scelte, compiute per giunta in circostanze così particolari, è sempre un'operazione incredibilmente complessa. A volte, per avere un riscontro sufficientemente veridico dei fatti, non bastano neppure i testimoni, in quanto le versioni non collimano mai perfettamente.
Gli stalinisti, in tal senso, erano molto sbrigativi: ritenendo il diritto una pura formalità, si accontentavano delle sole confessioni degli imputati, spesso estorte con la forza o con qualche seria minaccia. Lo stalinismo non ha mai accettato l'idea che quando si esprimono pareri opposti, la verità può trarne giovamento. L'essere umano è un soggetto ambiguo per definizione, e quindi ricchissimo di variabili, oggetto di infinite sfumature semantiche, ermeneutiche. Non è una macchina che agisce in maniera predisposta, anche quando sembra che debba imparare dai propri errori. Di qui i grandi limiti di qualunque intelligenza artificiale.
Una verità non può mai essere imposta con la forza o esposta secondo le opzioni di vero o falso. La verità include sempre il valore della libertà, nel senso che uno deve sentirsi libero di credere nella verità che vuole. Poi naturalmente si va a maggioranza, poiché comunque una decisione, dopo ampia discussione, va presa, e chi finisce in minoranza, deve adeguarsi alla volontà (e alla verità) della maggioranza, salvo nuove discussioni sullo stesso argomento in un momento successivo, quando ulteriori fatti lo richiedono espressamente.
Quando si svolge in maniera pacifica, senza dover ricorrere alle armi, la democrazia permette più facilmente di trovare la verità e di agire quindi con maggiore giustizia. La fretta è sempre una cattiva consigliera. La democrazia ha bisogno di una decisione ponderata e collegiale, il più possibile esente da pregiudizi o dalle passionalità che certi momenti suscitano. Nessuno deve essere messo nelle condizioni di sentirsi umiliato per aver preso delle decisioni sbagliate o per aver detto delle affermazioni ingiuste. Tutti devono sapere in anticipo che il mutamento di opinione fa parte delle regole della democrazia, cioè si deve poter essere sicuri che questo mutamento non avrà conseguenze nefaste su di sé o sui propri parenti.
Va comunque precisato che in una democrazia diretta, tipica di una comunità locale, il contributo di tutti alla gestione dei beni comuni è ritenuto molto più importante che in una democrazia semplicemente rappresentativa. Sarebbe del tutto assurdo mettersi a eliminare fisicamente gli oppositori a una determinata idea.
Gli stalinisti potevano mandare a morte chiunque molto facilmente proprio perché non volevano neanche sentir parlare di democrazia diretta: l'ambito locale o periferico doveva limitarsi a eseguire gli ordini che provenivano dall'alto. D'altronde quando viene imposta una dittatura, fosse anche espressione di una grande maggioranza della popolazione, la democrazia non esiste.
In tal senso bisogna fare molta attenzione a parlare di "dittatura proletaria", poiché questa, in presenza di un istituto permanente della delega, può facilmente trasformarsi in dittatura partitica o governativa o statale. Una dittatura proletaria trova la sua ragion d'essere fintantoché una minoranza cerca di prevaricare usando la forza, intesa come terrorismo, delitto politico, crimine ambientale...
è indubbio che per costruire la democrazia, van pagati alcuni prezzi, in quanto non è da tutti accettarla spontaneamente. Certo è che quando questa opposizione si fa talmente seria da costituire una minaccia esistenziale, diventa inevitabile prendere sul momento la decisione di sospendere temporaneamente la democrazia, in attesa di ristabilire un accettabile ordine pubblico, che permetta di sentirsi sufficientemente sicuri.
L'importante è escludere a priori l'idea che la dittatura sia il mezzo migliore per evitare di pagare certi prezzi. Non si può impedire l'abuso della libertà impedendone l'uso. Le contraddizioni devono essere risolte in maniera democratica, altrimenti non faranno che acuirsi. La dittatura può servire temporaneamente per evitare il crimine, ma va considerata come una soluzione di dubbia efficacia, se non intervengono altri fattori che hanno più a che fare con la ragione e i sentimenti che non con la forza.
Se c'è una cosa infatti che fa sentire il colpevole una "vittima del sistema", una persona ingiustamente perseguitata è proprio la dittatura che gli viene esercitata dall'esterno. Ecco perché è sempre meglio cercare mezzi e metodi di tipo pedagogico, tramite i quali usare una persuasione convincente, ragionata.
Per ottenere fiducia, bisogna anzitutto darla. Il vero obiettivo da perseguire è la non reiterazione della colpa, più che la sua punizione. Sotto questo aspetto la carcerazione dovrebbe essere più che altro simbolica, cioè non può essere troppo lunga, altrimenti diventa una condanna, e deve prevedere da subito una rieducazione, nel senso che il colpevole deve poter essere convinto che, seguendo un determinato percorso riabilitativo, il suo reingresso in comunità è assicurato. Naturalmente qui si parla sempre di soggetti che hanno compiuto crimini contro la persona. I crimini contro la proprietà vanno trattati con più indulgenza, anche se possono colpire molte più persone.
Il crimine più grande in assoluto è quello di togliere alla persona il diritto di esercitare la propria libertà di coscienza. Quando si compie un delitto del genere, bisogna che la comunità di sforzi di porre le condizioni affinché non si ripeta, almeno non con la stessa facilità. è evidente che se per tali condizioni si scelgono la pena di morte o l'ergastolo o il carcere duro, l'isolamento forzato, o la mutilazione e cose del genere, chiaramente irreversibili o che non prevedono il pentimento, la libertà di coscienza viene di nuovo violata. Al massimo si può accettare l'idea che un soggetto venga allontanato per un periodo provvisorio dalla comunità, con la possibilità di farvi ritorno, se lo desidera.
In ogni caso se il colpevole toglie la libertà di coscienza (che è il valore più grande dell'essere umano) alla propria vittima, l'istituzione non può toglierla al colpevole, altrimenti la giustizia si trasforma in vendetta, cioè in una sorta di legge del taglione. Dopo che Caino uccise Abele, un segno distintivo metteva sull'avviso che Caino non doveva essere ucciso. Semmai l'istituzione deve chiedere a parenti, amici e conoscenti del colpevole e della vittima che cosa hanno fatto per impedire che avvenisse il delitto. Una regola fondamentale della democrazia è che tutti devono sentirsi responsabili di tutto e di tutti, ovviamente in forme e gradi diversi. Quando in una democrazia prevale l'indifferenza o anche soltanto la delega, la democrazia non esiste più.
La dittatura non tratta
L'etichetta infame inventata dallo stalinismo di "nemico del popolo" (cioè di "criminale politico") è paragonabile a quella odierna di "terrorista": non lascia scampo.
Le istituzioni, siano esse democratiche o meno, non trattano coi terroristi. Temono di perdere di credibilità. Sono convinte che la forza stia nei muscoli, come al tempo dei Romani.
Uno o più terroristi possono tenere in ostaggio centinaia di persone, anche dei bambini, oppure possono minacciare di uccidere un politico o un generale o di far precipitare un areo con tutti i passeggeri dentro, ma lo Stato moderno non tratta, almeno non ufficialmente. Resta convinto d'essere tanto più autorevole quanto più è irremovibile.
Per giustificare questa suo atteggiamento fa leva su una disposizione legislativa presa precedentemente all'atto terroristico, di cui ogni cittadino deve essere ben consapevole. Coi terroristi non si tratta mai, in nessun caso.
Se poi lo Stato riesce a convincere la propria popolazione che i problemi del Paese sono in gran parte causati da questi estremisti e che la loro entità numerica non è insignificante, il gioco è fatto. Avrà ottenuto il consenso per comportarsi nella maniera più cinica e spietata.
è una posizione eticamente assurda, frutto di una concezione che considera irrilevante la vita umana, una concezione che può portare a conseguenze molto tragiche, di cui la storia è piena.
Lo sanno tutti che se uno Stato è davvero forte, non può aver problemi a trattare, anche perché si può facilmente prevedere che, col consenso della popolazione, prima o poi riuscirà ad arrestare i terroristi. Di qui lo sconcerto generale quando il governo in carica organizza blitz delle forze dell'ordine speciali, mettendo a repentaglio la vita degli ostaggi.
Gli statisti affermano: "Non vogliamo costituire un precedente, accettando una trattativa, anche perché oggi ci chiedono una cosa, domani ce ne chiederanno un'altra, ancora più grande".
Di fronte a queste affermazioni a volte vien da pensare che sia lo stesso governo a "creare" i terroristi, o a infiltrare in questi gruppi alcuni suoi agenti segreti, che fanno fare ai terroristi cose inconsuete o persino inverosimili. Altre volte sembra che tra governi e terroristi vi sia come una tacita intesa, basata sulla promessa che non verranno perseguiti i loro capi, ma solo qualche figura minore o soltanto gli esecutori materiali. Ai capi viene concesso una specie di salvacondotto, che potrebbe tradursi nella possibilità di un espatrio o di una riduzione significativa della pena. Anche con la criminalità organizzata, che di politico non ha nulla, si nota tale complicità.
Lo stalinismo comunque non aveva questi problemi di tattica: i cosiddetti "nemici del popolo" li faceva fuori tutti e, spesso, anche i loro parenti, amici e conoscenti. Lo stalinismo non ebbe quasi mai la preoccupazione di salvaguardare le apparenze della legalità, proprio perché voleva far credere che il socialismo fosse superiore a qualunque democrazia.
Sono stati gli archivi a dimostrare che tutte le condanne inflitte ai "nemici del popolo" erano basate su falsificazioni patentate. Neppure una era giusta. Tant'è che chi pensa che, trovandone una giusta, possano esserlo state anche tante altre, finisce completamente fuori strada.
Infatti, anche se se ne trovasse una, essa sicuramente dovrebbe essere interpretata come una reazione legittima a una situazione pregressa (di tipo socioeconomico) oggettivamente insostenibile, una situazione invivibile causata dallo stesso stalinismo. In questi casi il reato, il crimine o il delitto andrebbe interpretato come una forma di legittima difesa nei confronti di qualcosa di disumano, o comunque come un comportamento che beneficia di molte e valide attenuanti.
Dello stalinismo e del socialismo statale dobbiamo convincerci che non si può salvare nulla. Anzi, dovremmo pensare che quanto più si cerca di edificare, coi mezzi odierni, il socialismo su basi non democratiche, tante più possibilità vi sono che si costruisca una mostruosità ancora più grande di quella sovietica. Tutte le vittime dello stalinismo vanno riabilitate, senza alcuna eccezione, e vanno ricordate ogni anno come se si fosse trattato di un genocidio ideologico.
Guardare le cose con più obiettività
Avendo intenzione di attribuire al solo Stalin la nascita dello stalinismo, Volkogonov fa un'affermazione sostanzialmente sbagliata. Scrive a p. 12 del suo libro Trionfo e tragedia: "All'inizio ci fu la lotta contro dei nemici reali, che indubbiamente esistevano. Poi venne l'eliminazione degli avversari personali. In seguito si instaurò una sorta di paurosa inerzia e infine l'impiego della violenza divenne prova di devozione alla ‘guida suprema'".
Se si presentano le cose in maniera così psicologica, diventa poi inevitabile aggiungere: "è difficile spiegarsi perché, una volta soppressi gli avversari, Stalin abbia continuato ad accanirsi contro gli uomini migliori all'interno del partito e dell'apparato statale, per di più alla vigilia di alcune prove terribili per il Paese" (p. 13).
Qui, a parte il fatto che Stalin non prevedeva assolutamente che Hitler gli avrebbe dichiarato guerra, sono molti gli errori di valutazione dello stalinismo:
- anzitutto dopo la fine della guerra civile e dell'interventismo straniero non vi erano "nemici" all'interno della Russia. Se, in presenza dello stalinismo, si formarono nuovi nemici, ciò era dovuto alle assurdità dell'industrializzazione accelerata e della collettivizzazione forzata, entrambe strumenti del primo piano quinquennale;
- l'eliminazione degli avversari personali, da parte di Stalin, può essere stata dettata solo in parte da risentimenti pregressi di tipo psicologico; nella sostanza rispecchiava l'esigenza di non ricevere contestazioni nei confronti delle decisioni prese dal partito riguardo alla politica economica del Paese, che sin dal primo piano quinquennale si rivelarono un disastroso errore;
- il fatto che la popolazione non riuscì a reagire a questa tragedia va imputato ai limiti strutturali del socialismo statale, che impediscono, di fatto, qualunque forma di autogestione da parte della popolazione, qualunque forma di autonomia locale e regionale;
- il fatto che, oltre a questa passività da parte della popolazione, si formò anche una sorta di compiacenza o di piaggeria nei confronti dello stalinismo, sta a significare che la rivoluzione bolscevica non seppe porre le basi per lo sviluppo di un'autentica democrazia in Russia. O comunque queste basi non erano abbastanza solide da impedire il formarsi di una dittatura mostruosa.
Colpa di Lenin? Sarebbe stupido sostenerlo. Lenin ebbe un ruolo centrale nel realizzare la rivoluzione, nel far uscire il suo Paese dalla guerra mondiale, nel distribuire la terra ai contadini, nel creare la prima Costituzione socialista della storia, nel vincere la guerra civile e l'interventismo straniero. Ma nel 1922 era già in condizioni fisiche molto precarie.
Se si ha il coraggio di ritenerlo responsabile di gravi errori, allora si deve avere il medesimo coraggio di dire che la rivoluzione proletaria non andava fatta (magari perché la Russia non era ancora politicamente matura o abbastanza sviluppata sul piano economico, come sostenevano tutti i nemici del leninismo, dentro e fuori del suo Paese, soprattutto in Europa occidentale e nell'ambito dell'Internazionale socialista).
Se invece gli si riconoscono meriti speciali, allora tutte le responsabilità del disastro successivo ricadono sugli altri dirigenti del partito. E se anche a questi dirigenti non si vogliono attribuire cause dirette alla formazione dello stalinismo, di sicuro vanno ritenuti responsabili per la nascita del socialismo statale.
Semmai si può dire, guardando le cose col senno del poi, che i limiti dimostrati da questi dirigenti nel non saper prevedere gli esiti antidemocratici del socialismo statale, oggi ci possono servire per non ripetere gli stessi errori. Solo la storia può decidere quando verrà il momento di tornare al comunismo primitivo, naturalmente in altre forme e modi, in quanto nulla si ripete uguale a se stesso.
Due generazioni a confronto
Quando si distrugge un'intera generazione di rivoluzionari, la sorte di un Paese è segnata. La nuova generazione sarà completamente diversa dalla precedente. Le idee del socialismo diventeranno un semplice paravento, che alla prima occasione verrà dismesso.
Per poter parlare nuovamente di socialismo, dovrà accadere qualcosa di altamente drammatico, i cui effetti durino così a lungo da indurre le masse popolari a credere che non vi siano altre soluzioni. Ma in tal caso dovrà esserci qualcuno che teorizzi un socialismo completamente diverso, associato pienamente alla democrazia, non foss'altro che per controbattere a chi salterà su dicendo che l'esperimento precedente (quello relativo a un socialismo statalizzato) era stato del tutto fallimentare.
è difficile dire se la generazione rivoluzionaria eliminata dallo stalinismo, avrebbe potuto operare una transizione dal socialismo statale a quello democratico, autogestito. Il fatto stesso che si sia lasciata eliminare, lascia pensare che non avesse in sé i necessari anticorpi per combattere le deviazioni burocratiche e autoritarie di una certa forma di socialismo.
Qualcuno potrebbe dire che fu lo stesso Lenin (e il suo entourage più prossimo) che non seppe porre le basi strutturali, oggettive, per scongiurare un'involuzione del socialismo verso l'autoritarismo statale.
Forse però sarebbe meglio dire che una classe sociale non risulta essere, in quanto nullatenente, migliore di quella che possiede qualcosa. In chi non ha nulla da perdere possono maturare grandi ideali e comportamenti virtuosi, ma anche forme di cinismo e spietatezza (come appunto accadde a Stalin e ad altri come lui). Molto cioè dipende dall'atteggiamento soggettivo con cui si affronta la propria condizione marginale.
In ogni caso Lenin seppe passare dal comunismo di guerra alla Nuova Politica Economica quando vide che le contraddizioni erano insostenibili. Viceversa, gli stalinisti, di fronte alle contraddizioni, tendevano sempre ad accentuare il loro autoritarismo. Non a caso passarono dalla NEP a una forma di socialismo da caserma che per un trentennio somigliò a quello del periodo della guerra civile, paventando continuamente, per di più, i rischi di una nuova guerra civile o di un intervento bellico straniero.
Le perdite mostruose che l'URSS ebbe nella guerra contro la Germania furono causate proprio dall'autoritarismo illimitato del socialismo statale. Chi pensa che la vittoria dell'URSS fu determinata dall'industrializzazione ottenuta con tale socialismo, non potrà mai sostenere che lo stesso risultato non sarebbe stato ottenuto con un socialismo più democratico.
Vincere la paura
Se in Russia non ci fosse stato lo stalinismo, ma una prosecuzione del leninismo (cosa che forse avrebbe potuto essere garantita dal gruppo attorno a Bucharin), il Paese oggi sarebbe una potenza economica equivalente alla Cina, che si è arricchita dopo la fine del maoismo, con la trasformazione del socialismo da statale a mercantile.
Probabilmente non si arrivò a questa flessibilità in favore del capitalismo solo per paura. Cioè si temeva che, concedendo troppo ai nepmen e ai kulaki, la transizione verso il socialismo sarebbe fallita. In fondo, se ci pensiamo, il socialismo mercantile cinese e il capitalismo statale russo sono la conseguenza di un fallimento ideologico e politico. Forse si potrebbe dire che il fallimento politico fu la conseguenza di un eccessivo peso dato all'ideologia. Il socialismo statale (industriale in Russia, agricolo in Cina) pretendeva un'assurda uniformità nel modo di pensare, un conformismo che comportò milioni di morti.
Tuttavia, mentre in Russia ci fu un leader, Lenin, che avrebbe saputo impedire una deriva così totalitaria, in Cina non ci fu nessuno, almeno sino a Deng Xiaoping. La rivoluzione fu fatta da Mao, che fu ideologico sin dall'inizio. Né Stalin né Mao misero in pratica il principio secondo cui il marxismo è solo una guida per l'azione, non una scienza dogmatica.
Peraltro quando si parla di "dogma", si tradisce ipso facto lo stesso marxismo, che non ha mai scritto alcuna "logica" analoga a quella hegeliana. Dogmatismo vuol dire povertà di pensiero, morte della dialettica, distacco dalla realtà. è il modo di esprimersi della dittatura politica e militare o poliziesca.
In Lenin non c'è un solo testo dogmatico, ma sempre lo sforzo di capire una realtà mutevole. Anche Marx si preoccupa continuamente di guardare le cose da più punti di vista: non si accontenta mai delle proprie conclusioni. Pensa che ci sia sempre qualcosa che gli sfugge, tant'è che i testi pubblicati sono pochissimi. Il fatto stesso che non sia riuscito a terminare la sua principale opera, il Capitale, lo dimostra. Negli ultimi anni della sua vita s'interessò a un argomento di cui non sapeva quasi nulla: l'etnoantropologia.
Queste sono persone che nell'arco di un secolo possono apparire molto raramente. Sono persone inarrivabili. Non è giusto affidare a persone del genere la realizzazione di una società autenticamente democratica o socialista, proprio perché nessuno sarebbe in grado di imitarle, di proseguire la loro azione.
Bisogna smettere di far dipendere le rivoluzioni dalla presenza di persone del genere. Protagonista delle rivoluzioni deve essere il popolo, i cui leader non sono dei geni assoluti, ma delle persone semplici, normali, capaci solo di organizzare al meglio le forze a disposizione. Non abbiamo bisogno di analisi approfondite sulle contraddizioni sociali del sistema. La necessità di un cambiamento epocale deve poter essere colta da chiunque. E chiunque deve sentirsi responsabile di operare il necessario cambiamento.
La questione della genialità
Questa affermazione di Volkogonov è sostanzialmente sbagliata: "La tragedia della rivoluzione russa nasce dal fatto che i collaboratori di Lenin, per quanto fossero tutti di alto livello intellettuale, non avevano comunque nessuna genialità. è per questo che dopo la morte di Lenin le tendenze canonizzatrici e dogmatiche ebbero facilmente il sopravvento" (p. 583, o.c.). In questa maniera lui pensa di spiegare la nascita dello stalinismo.
è un'affermazione che lo stesso Lenin non avrebbe potuto condividere. Infatti è assurdo pensare che il socialismo, per essere democratico, abbia bisogno di qualche mente eccezionale. Si può forse giustificare lo stalinismo col pretesto che non vi era una mente geniale a contrastarlo? Lo stesso Volkogonov, mentre critica lo stalinismo, ritiene forse di poterlo fare solo perché è un "genio"? Queste sono domande stupide che non meritano neanche una risposta.
Quando Lenin criticava i socialisti della II Internazionale, non lo faceva perché si sentiva una persona speciale (semmai questa alta considerazione di sé l'aveva Trockij, che sicuramente era dotato di buone capacità intellettuali). Lo faceva perché si era reso conto che, sulla base di quel tipo di socialismo teorico, erede più che altro di Engels, in Europa occidentale non si sarebbe mai realizzata alcuna rivoluzione proletaria, prima che il capitalismo non avesse esaurito tutte le sue forze propulsive. Solo che finché non si giunge a questo "esaurimento" (il cui tempo massimo, peraltro, nessuno può conoscere anticipatamente, anche perché ogni Stato si è sviluppato in maniera autonoma), come si può essere sicuri che chi nutre idee comuniste sia capace di restare coerente con se stesso e non si corrompa? E per quale motivo si dovrebbe attendere, piuttosto passivamente, che il capitalismo acutizzi i conflitti sociali fino a renderli insopportabili? Chi può assicurare che questa esasperazione sia davvero il preludio al suo crollo definitivo? E se invece per il capitalismo fosse l'occasione per ristrutturarsi diversamente?
In effetti fu proprio Lenin a sostenere che la pratica dell'imperialismo aveva reso meno conflittuali i rapporti tra capitale e lavoro nell'Europa occidentale: i salari erano aumentati e la dirigenza sindacale e persino politica (della sinistra) aveva perso mordente, si era imborghesita. Non ci voleva un genio per capire questa involuzione del socialismo di origine marxista.
Lenin non interpretava il marxismo come gli pareva; chiedeva soltanto di approfittare dei momenti di crisi acuta del capitalismo per rovesciare il governo in carica. Quando arrivò a dire che la guerra imperialista doveva essere trasformata in guerra civile all'interno dei singoli Stati coinvolti nel conflitto, lo presero per matto, per un istigatore al tradimento patriottico. Eppure diceva una cosa semplicemente dettata dal buon senso.
Quando lo accusavano di non tener conto del fatto che la Russia, essendo un Paese arretrato sul piano industriale, non poteva avere un proletariato in grado di compiere o di gestire la rivoluzione, lui rispondeva una cosa che spiazzava tutti, benché fosse di una semplicità disarmante: anche i contadini possono essere interessati alla rivoluzione se i latifondisti vengono espropriati. Che importava se i contadini erano culturalmente arretrati, credenti, filo-clericali…? Il partito non poteva sindacare sulle questioni di coscienza. Gli operai (che il più delle volte erano ex-contadini) avevano soltanto bisogno di alleati fidati.
Inoltre aggiungeva un'altra considerazione che ai "geni" della II Internazionale pareva una specie di bestemmia: se una rivoluzione industriale può essere fatta sotto il capitalismo, a maggiore ragione può esserlo sotto il socialismo, dove la concorrenza tra le imprese non esiste e dove tutta la produzione può essere pianificata. Tutti stavano lì a chiedergli: come puoi pensare di sviluppare l'industria se non vi è concorrenza tra le imprese? Sarà sempre un'industria di basso livello!
I leader della II Internazionale lo consideravano un "eretico", ma lui faceva soltanto discorsi che anche un bambino avrebbe potuto capire. Compiendo una rivoluzione socialista, grazie all'appoggio dei contadini, che sicuramente "marxisti" non erano, aveva praticamente dimostrato che il socialismo non ha bisogno di menti geniali, né per essere realizzato con una rivoluzione popolare, né per essere gestito sul piano sociale e istituzionale.
Semmai il problema era un altro, e non riguardava tanto gli intellettuali quanto le persone comuni. Quali devono essere i meccanismi di controllo che possono impedire il tradimento della rivoluzione? ("Possono" non "devono", altrimenti la libertà di coscienza è destinata a morire.)
Stalin non era un "genio", anzi era una persona piuttosto mediocre sul piano intellettuale. Non fece leva sulla sua intelligenza per acquisire un potere immenso. La sua forza stava nel saper controllare gli altri, pochi o tanti che fossero non faceva differenza.
Per controllare le persone bisogna conoscere i loro punti deboli ed essere capaci di ricattarle o di minacciarle senza tanti scrupoli. Stalin era un "genio del male", che creò tante persone sottomesse, spietate come lui. Nei confronti di leader del genere non si può essere ingenui. Ma non occorre essere intellettualmente dotati: basta essere autenticamente democratici.
L'inizio della destalinizzazione
Essendo limitata alla personalità disturbata di Stalin, la destalinizzazione Kruscioviana fu così parziale che la prima testimonianza sovietica sui lager (gulag) staliniani fu il racconto di Aleksander Solzhenicyn, Una giornata di Ivan Denisovich, pubblicato nel 1962, benché si riferisca agli anni '50. Fu lo stesso Krusciov ad autorizzarne la diffusione, che fu molta ampia.
Si riferiva al lavoro coatto nei campi dell'Asia centrale, della Siberia orientale, dell'estremo Nord. Solo però nel 2006 l'autore poté pubblicare il volume senza le censure dello Stato, cioè secondo la stesura originaria.
Solženicyn era stato condannato a otto anni di lavoro forzato dal 1945 al 1953. La pena fu trasformata in esilio perpetuo in un campo di lavoro rurale in Kazakistan, dove nel 1956 fu liberato da Krusciov.
Dopo la defenestrazione di Krusciov (1964) Solženicyn non poté pubblicare né Divisione cancro né Arcipelago Gulag: quest'ultimo un saggio di inchiesta narrativa edito in tre volumi, scritto tra il 1958 e il 1968. Fu pubblicato in occidente nel 1973, dopo che l'autore era riuscito a microfilmare il testo, appena prima che fosse requisito dal KGB.
Solženicyn fu di nuovo costretto all'esilio nel 1974 (prima in Europa, poi negli USA), anzi nel 1969 era già espulso dall'Unione degli scrittori, a causa del fatto che Divisione cancro era stato pubblicato in occidente.
Il KGB, avendo in mano solo uno dei tre dattiloscritti di Arcipelago Gulag, interrogò per cinque giorni la segretaria Elizaveta Voronjanskaja per sapere dove fossero gli altri due. Quand'essa fu rilasciata, nell'agosto 1973, s'impiccò subito dopo, vergognandosi d'aver rivelato il nascondiglio dell'opera. Il che però non servì a impedire che il testo vennisse pubblicato in occidente. Lo scrittore poté rientrare definitivamente in Russia solo nel 1994.
Le sue opere comunque sono, in genere, fortemente ideologiche, in quanto il cristianesimo ortodosso viene considerato come unica alternativa possibile allo stalinismo.
Socialismo e democrazia
I
Il fatto che Trockij non fosse adatto a governare la Russia bolscevica dipese anche dall'impossibilità di trovare un altro teorico come Lenin. Personaggi come Marx, Engels, Lenin non è che si trovano dietro l'angolo. A volte devono passare decine di anni. Trovare poi uno che, oltre a grandi capacità teoriche, è persino in grado di compiere fattivamente una rivoluzione politica, può volerci anche un secolo.
Ecco perché si può tranquillamente dire che il post-leninismo non poteva che essere gestito da leader capaci soltanto di organizzare la nuova realtà che si era appena formata con la rivoluzione, senza aver bisogno di grandi doti intellettuali. Naturalmente dovevano anche essere in possesso di quei requisiti etici e politici che agevolano l'edificazione di una società democratica. Una qualunque discussione su come realizzare l'obiettivo del socialismo non avrebbe mai dovuto prescindere dall'uso di mezzi e metodi umani e democratici.
Purtroppo Stalin era l'ultimo a possedere tali qualità, e il fatto che tutti gli altri leader non siano stati capaci di rimuoverlo, lascia pensare che fosse in "buona compagnia".
Proviamo a chiederci: il fatto che nei 30 anni di stalinismo la democrazia non venisse mai messa all'ordine del giorno, può essere considerato come una dimostrazione eloquente che la successione di Stalin a Lenin era, tutto sommato, abbastanza inevitabile? La risposta a questa domanda dovrebbe essere negativa.
Certo, nessuno si aspettava che a Lenin succedesse un altro di pari livello. Tuttavia sarebbe stato legittimo attendersi che la gestione dei problemi sociali, economici, politici ecc. avvenisse sulla base di criteri democratici, possibilmente di livello non inferiore a quelli coevi del mondo occidentale e capitalistico.
Invece lo stalinismo cadde in un imperdonabile peccato di presunzione, quello secondo cui la realizzazione del socialismo include già, di per sé, qualunque riferimento alla democrazia. Cioè la democrazia non fu mai vista come uno strumento da utilizzare per corregge gli inevitabili errori che si possono compiere mentre si costruisce qualcosa di storicamente inedito; anzi fu vista come un intralcio.
Ecco perché stalinismo e socialismo statale si identificano in maniera molto stretta, tant'è che l'equazione è rimasta anche dopo la sua morte, come dimostra il fatto che quando, con Krusciov e Gorbaciov, si è cercato d'introdurre qualche elemento di democrazia all'interno di un socialismo che doveva restare statale, la reazione dei comunisti stalinisti è stata molto negativa. Si fece chiaramente capire che il socialismo, essendo un ideale superiore alla democrazia borghese (in quanto, per la prima volta, pretendeva di realizzare i diritti economici e sociali), non aveva bisogno di alcun riferimento alla democrazia liberale delle società capitalistiche, i cui diritti vengono considerati dal comunismo del tutto formali, vuoti di contenuti, inerenti ai soli interessi di classe della borghesia.
Questa debolezza sul piano democratico della Russia non permise di capire che la svolta compiuta da El'cin contro lo stalinismo della stagnazione e contro il socialismo statale, apriva le porte al neoliberismo degli oligarchi, cioè al capitalismo più puro, che, per recuperare il tempo perduto, doveva manifestarsi nella maniera più selvaggia.
A questo punto la domanda che sorge spontanea è tutta in direzione dell'operato di Lenin: fu davvero in grado di porre delle basi oggettive, indipendenti dalla sua personalità, affinché la democrazia costituisse un valore imprescindibile per la realizzazione del socialismo?
Prima di rispondere a questa difficile domanda, uno dovrebbe porsene un'altra: esistono davvero condizioni "oggettive" che tutelano in maniera convincente il valore della democrazia? E tali condizioni, se esistono, possono essere stabilite una volta per tutte? Possono essere codificate in un testo scritto?
Diciamo questo perché Lenin spesso stupiva i suoi interlocutori, i suoi stessi compagni di partito, proponendo soluzioni controcorrente, che non rispecchiavano gli schemi dominanti. Perché mai questa sua abitudine a guardare le cose in maniera divergente non fu ereditata dopo la sua morte? Lo stalinismo infatti sembra assomigliare a un hitlerismo applicata a un contesto non europeo, ma asiatico. Anche il maoismo soffre di questo condizionamento occidentale e di questa caratteristica asiatica.
Comunque è evidente che le condizioni oggettive della democrazia che prescindono dalla libertà umana non esistono. Al massimo si possono creare quelle condizioni in cui la libertà umana può esprimersi con maggiore autonomia e determinazione. Lo stalinismo non pose mai alcuna di queste condizioni.
II
Di per sé nessuna ideologia rende più umani. Credere che ne esista una è sommamente ingenuo. è vero il socialismo è un'ideologia più avanzata della democrazia borghese, ma non per questo rende più umani o più democratici. Bisogna sempre vedere come le idee vengono applicate.
Stalin e lo stalinismo in generale sono la dimostrazione più lampante che si può essere antidemocratici e disumani pur professando idee socialiste. Che tali idee vadano considerate una specie di "eresia" rispetto a quelle formulate dai classici del marxismo, non cambia molto le cose. Di fatto, nell'ambito del socialismo statale sovietico, nessuno, finché Stalin rimase in vita, fu in grado di sconfessarle. E quando ci provarono sia Krusciov che Gorbaciov, il socialismo statale dimostrò, nei panni della stagnazione, che lo stalinismo, nella sua essenza, non era ancora morto.
Con questo non si vuol sostenere che l'unico vero socialismo è quello associato alla democrazia, proprio perché la stessa parola "democrazia" non può essere presa così com'è. Infatti, se si guarda al socialismo democratico realizzato in Europa occidentale, si può tranquillamente affermare che di "socialista" vi è al massimo il laicismo, cioè la rinuncia a usare le categorie religiose per interpretare gli eventi; e che di "democratico" vi è solo il liberalismo borghese, cioè tutta quella serie di diritti favorevoli alla proprietà privata, nonché alla rappresentanza parlamentare nazionale, che di "democrazia diretta" non sa nulla.
Né si può ridurre il problema del rapporto socialismo/democrazia a qualcosa di moralistico, come l'intenzionalità, la disposizione d'animo, il buon senso e cose del genere.
Ovviamente qui non si tratta di dare delle definizioni esatte di cosa sia il socialismo, cui far dipendere, come effetto secondario e inevitabile, altrettante definizioni esatte di cosa sia la democrazia. Secondo noi, c'era più democrazia e più socialismo all'epoca del comunismo primitivo, pur in assenza di scrittura e senza che neppure esistessero i due termini. Socialismo e democrazia esistevano anche se non se ne parlava.
Il socialismo riguardava la gestione collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, nel rispetto delle esigenze riproduttive della natura. La democrazia trovava il suo compimento al momento di prendere decisioni comuni, che non prescindessero dall'uguaglianza di genere.
Se guardiamo da vicino lo stalinismo, dal punto di vista del comunismo primitivo, dovremmo dire, con assoluta sicurezza, ch'esso fu lontano dal socialismo perché lontano dalla democrazia e fu lontano dalla democrazia perché lontano dal socialismo. Entrambi gli aspetti gli erano estranei.
Socialismo voleva dire, per tutti i seguaci dello stalinismo, industrializzazione accelerata, facendone pagare il prezzo al mondo rurale e all'ambiente naturale; e quindi voleva dire collettivizzazione agricola forzata. Tutte le direttive venivano calate dall'alto e il partito coincideva con lo Stato, tant'è che Stalin divenne capo del governo solo quando i nazisti invasero la Russia: prima si era limitato a fare il segretario generale del partito.
Nessuna forma di democrazia è mai esistita in Russia, né sotto lo stalinismo, né nell'ambito del socialismo statale. Su questo bisogna essere espliciti. Al massimo si può parlare di democrazia nell'ambito dell'esperienza dei soviet.
Lo stalinismo era semplicemente una forma di "monarchia assoluta", in cui la Costituzione aveva un valore molto relativo, e in cui lo staff dirigenziale doveva mostrare come virtù principale la fedeltà personale a un sovrano, considerato infallibile nei suoi giudizi, inamovibile nel suo ruolo, indefettibile nelle sue qualità soggettive. Era una forma di servilismo analogo a quello che dovevano provare, nel Medioevo, le gerarchie ecclesiastiche e quindi tutti i fedeli nei confronti del papato. I suoi ordini andavano eseguiti senza discutere: "perinde ac cadaver", avrebbero detto i gesuiti.
Quando si è in presenza di una dittatura politica, le discussioni che devono portare a delle decisioni, possono avvenire in qualunque luogo e momento. Di "regolare" nella gestione del potere politico stalinista non esiste assolutamente nulla. Il dittatore può convocare gli organi direttivi solo se lo ritiene opportuno. Non a caso gran parte delle sue decisioni Stalin le prese nella sua dacia non al Cremlino.
Una cosa è certa: quanto più una comunità locale è autonoma nel gestire le proprie risorse territoriali, tanto più sarà facile realizzare un socialismo democratico. Quanto più queste comunità si sentiranno autonome, tanto più facile sarà una loro reciproca collaborazione per salvaguardare le rispettive autonomie e per affrontare dei nemici comuni.
Dittatura e democrazia
In un certo senso è sbagliato parlare di stalinismo come se fosse un'ideologia specifica di Stalin. Infatti molti tratti autoritari di tale ideologia si trovano anche nel maoismo, nell'hitlerismo e in tante altre dittature esplicite che si sono succedute negli ultimi 6000 anni di storia, quelli tipici delle varie civiltà schiavistiche.
Tuttavia non ha neppure senso usare un termine astratto (come per es. cesarismo o bonapartismo) che includa tutte le possibile forme di dittatura politica. Lenin usava l'espressione "dittatura del proletariato" per indicare un periodo di transizione, in cui la classe proletaria (industriale e agricola) avrebbe esercitato un'egemonia politica su quella borghese, pur permettendo a questa di praticare una qualche forma di attività mercantile, di portata ridotta. Parlava di "dittatura" in quanto riteneva che se i bolscevichi avessero adottato i criteri della democrazia occidentale, la borghesia avrebbe ripreso il potere molto facilmente. A quel tempo era impossibile non avere una qualche forma di paternalismo nei confronti di una enorme popolazione ingenua che viveva nelle campagne della grande Russia, soprattutto nella sua area asiatica. Non a caso Lenin negli ultimi anni della sua vita era subissato da un milione di problemi amministrativi da risolvere, e temeva che decentrando la gestione del potere sarebbe finita male per la neonata rivoluzione.
Lenin voleva far capire a chiare lettere che il tempo dei capitalisti, dei latifondisti, degli speculatori privati era finito in maniera irreversibile. Con ciò però la dittatura non avrebbe dovuto assumere un carattere arbitrario, privo di princìpi etici. Anzi il socialismo avrebbe dovuto dimostrare d'essere superiore al capitalismo sotto ogni punto di vista, incluso quello della democrazia rappresentativa.
Fu piuttosto lo stalinismo che sfruttò la nozione di "dittatura del proletariato" per imporre una dittatura tout-court, di tipo personalistico, partitico, burocratico, statalizzato, poliziesco…
Questa dittatura durò 70 anni, salvo le parentesi di Lenin, Krusciov e Gorbaciov. Se la confrontiamo con quella esercitata dagli imperatori romani, dobbiamo dire che fu ben poca cosa. Tuttavia una differenza significativa c'è: quella stalinista pretendeva d'essere, pur usando tutti gli inganni possibili, una dittatura a favore delle classi più deboli, quelle prive di beni immobili privati. Anche la dittatura maoista si pose allo stesso livello, pur dando più importanza all'agricoltura che non all'industria.
Se invece guardiamo le altre dittature della storia, si cerca sempre di tutelare gli interessi delle classi sfruttatrici. Cioè non si usa mai il potere politico per far sì che i nullatenenti scatenino una guerra civile contro i possidenti. In Russia, dopo la guerra civile, se non ci fosse stato lo stalinismo, il proletariato avrebbe potuto effettivamente gestire in proprio il potere politico. I grandi capitalisti, latifondisti e speculatori o erano stati sterminati o erano espatriati: difficilmente si lasciavano espropriare senza reagire.
Dopo la guerra civile si sarebbe dovuto parlare di più di democrazia e meno di dittatura, ma con lo stalinismo si fece il contrario. Semmai ci si può chiedere il motivo per cui gli eventi si svolsero in una maniera così imprevista. Le aspettative dei rivoluzionari non erano certamente quelle di veder progressivamente diminuire i loro diritti e le loro libertà. Infatti è possibile accettare un periodo di dittatura in casi particolari, sottoponendosi a sacrifici di non poco conto, pur di abbattere i cosiddetti "nemici del popolo". Ma l'obiettivo finale deve sempre essere quello di realizzare la democrazia, il più possibile estesa e in tempi ragionevoli.
Viceversa con lo stalinismo passarono 30 anni di crescente dittatura. Per giustificarla, a Stalin fu sufficiente dire che quanto più si edifica il socialismo, tanto più cruenta diventa la lotta di classe.
Tutto ciò per dire che mentre in tutte le altre dittature il potere politico usava il malcontento popolare per opporre i diritti/privilegi di una tradizionale classe autoritaria contro i diritti/privilegi di un'altra classe proprietaria, sotto lo stalinismo invece l'idea - puramente teorica - era quella di fare del proletariato l'unica classe proprietaria in virtù della statalizzazione di tutti i fondamentali mezzi produttivi. Sulla base di questa idea astratta si sfruttò quella statalizzazione per creare una dittatura onnipervasiva degli intellettuali (leader politici, funzionari statali, burocrati, ecc.).
Un tale stravolgimento della democrazia sarebbe stato impossibile senza poter abbinare gli alti ideali dell'ideologia socialista con la pratica del collettivismo tipica dell'area asiatica.
Nelle civiltà basate sullo schiavismo privato (incluse quelle capitalistiche, dove lo schiavismo non è fisico ma salariale) non c'è mai stato bisogno di compiere uno sconvolgimento del genere, sia perché l'ideologia non era mai stata a favore della piena uguaglianza sociale, sia perché l'individualismo è sempre stato l'atteggiamento prevalente o comunque dominante.
Proporzionale o maggioritario?
Che cos'è preferibile? Che in parlamento vi siano tanti partiti in lotta tra loro o che uno solo diriga tutta la nazione? Nel primo caso si garantisce la libera espressione del dissenso, ma nel secondo l'efficacia di un governo.
Di sicuro se si elimina il dissenso, dopo un po' lo si ritrova all'interno del monopartitismo. Pensarla diversamente dalla narrativa dominante è inevitabile: l'unità non può essere costruita eliminando la diversità. Lo stalinismo pretese di farlo, ma fu costretto a farlo sempre di più, anche dopo la morte di Stalin. Quando si è violenti, non si può smettere di esserlo, se si gestisce un determinato potere, a meno che non s'incontri una forte opposizione.
Come si può risolvere questo problema? Un sistema parlamentare proporzionale garantisce più democrazia, ma anche più instabilità, soprattutto in quei Paesi dove esistono molti antagonismi sociali o regionali. Alla fine si ha l'impressione che la democrazia sia puramente formale, una sorta di anarchia parlamentare, che riflette dei poteri extraparlamentari.
è tuttavia risaputo che un eccessivo premio di maggioranza può indurre il governo in carica a compiere disastri di notevole entità per tutta la durata del suo mandato.
Il partito che ottiene più voti deve poter governare più o meno tranquillamente, o da solo o in una coalizione, ma non può impedire all'opposizione di esprimersi, altrimenti renderebbe inutile le elezioni.
Il vero problema tuttavia non è quello di come assicurare che vi sia la possibilità di un'effettiva alternanza democratica al governo, ma che sia rispettata la necessità di tutelare gli interessi dell'intera nazione, o comunque della sua grande maggioranza.
Ora, in un Paese dove gli antagonismi sociali sono molto forti, com'è possibile che un partito non anteponga i propri interessi di parte a quelli nazionali? I partiti sono un'espressione politica di interessi socioeconomici. Chi ci dice che le contestazioni rivolte al governo in carica non siano strumentali a esigenze particolari o "partigiane"? Per rispondere a questa domanda ci vuole una dimostrazione convincente, e questa può essere offerta solo dai cittadini.
Cioè non ha senso che la popolazione (o una sua parte) si lamenti di non essere rappresentata da un determinato partito. Può farlo in un momento iniziale, ma poi deve per forza farsi sentire, organizzarsi autonomamente, scendere in piazza, convocare assemblee, promuovere delle petizioni o dei referendum.
Se un partito al governo vuole eliminare il dissenso, deve aspettarsi l'uso della violenza da parte del popolo. Se un partito non vuole correnti interne, deve aspettarsi una o più scissioni.
Tutte le volte che lo stalinismo constatava il pericolo (vero o presunto) di una scissione interna, alzava l'asticella della repressione fisica. Quella sua strana forma di socialismo non ha mai avuto nulla di democratico dopo la morte di Lenin. Non si può aver dubbi in merito.
In un certo senso proprio il ricorso all'eliminazione fisica (e non solo politica) dell'avversario, era un chiaro sintomo della grande debolezza del Pcus e dello Stato, i quali volevano imporsi a tutti i costi.
Il motivo per cui la popolazione non abbia reagito a questo disastro sta nel fatto ch'era abituata da secoli a obbedire all'autocrazia zarista, e quando finalmente riuscì a liberarsene a prezzo di enormi vittime, si era convinti di aver generato qualcosa di autenticamente alternativo. Alla popolazione sfuggì una verità politica elementare: la democrazia non può mai essere data per scontata, neppure se ottenuta in virtù di una rivoluzione senza precedenti storici. Lo stalinismo giocò sul fatto che una popolazione non può ammettere a se stessa d'aver compiuto per niente dei sacrifici inenarrabili.
Centralismo e democrazia
è letteralmente impossibile sostenere qualcosa contro il centralismo quando è in corso una guerra tra Stati o anche solo una guerra civile. Sotto questo aspetto il bolscevismo avrà tutte le ragioni di questo mondo. Nessuna rivoluzione (borghese o proletaria che sia) ha mai potuto vincere senza basarsi sul centralismo.
Certo, si può sostenere che il centralismo può trasformarsi facilmente in una dittatura, ma per scongiurare questo pericolo bisogna chiarirsi prima. Il centralismo non può essere imposto da una parte del movimento rivoluzionario contro un'altra. Deve per forza essere consensuale per diventare efficace.
è evidente che fino a quando esiste centralismo, non può esserci democrazia. Tuttavia la dittatura consensuale del centralismo va considerata provvisoria, cioè finalizzata a uno scopo preciso e condiviso, raggiunto il quale tutto deve tornare alla normalità.
La regola è la democrazia, che va vissuta sia prima (nell'ambito del movimento rivoluzionario) che dopo il centralismo (a livello di società civile). Se, una volta vinta la rivoluzione, si continua a parlare di "centralismo democratico", bisogna cominciare a insospettirsi. Qualcosa non ha funzionato.
Infatti la democrazia o è diretta o non è. Qualunque centralizzazione venga richiesta nel regime della democrazia diretta, deve avere come scopo un determinato obiettivo, conseguito il quale il centralismo si scioglie. Generalmente quindi gli obiettivi da conseguire sono trasversali alle varie comunità locali.
è la comunità locale che deve dettar legge ai propri cittadini. Lo Stato centrale non deve neppur esistere. Non è possibile che qualcosa di astratto e di impersonale possa prevalere su qualcosa di estremamente concreto e determinato.
Chi non vuole il centralismo quando si deve combattere con le armi in mano, si condanna a una sicura sconfitta, ma ottiene lo stesso risultato se, dopo aver vinto la guerra, ne approfitta per impedire la democrazia.
Si faccia però attenzione. Non si può scongiurare il rischio di una dittatura post-rivoluzionaria, limitandosi a favorire la libertà di critica nei confronti degli organi dirigenti di un partito o di un movimento. Se ci si limita a questo, si fa soltanto del paternalismo o del moralismo: di sicuro non si offrono garanzie concrete.
La garanzia fondamentale della democrazia è il controllo reciproco permanente a livello locale. Quanto più tale controllo è quotidiano, tante meno possibilità vi sono di sbagliare, o comunque di compiere errori di particolare gravità, oppure, se compiuti, di non riuscire a porvi rimedio. Il vantaggio della democrazia diretta di una comunità locale è proprio questo, infinitamente superiore a qualunque vantaggio della democrazia rappresentativa, che è farraginosa di per sé, essendo sommamente burocratica.
Reprimere qualcuno perché ha esercitato male la sua libertà di parola, è assurdo. La libertà di parola, di stampa, di associazione vanno considerati diritti umani fondamentali, inalienabili. Si può offendere qualcuno con le parole, ma non si può incarcerare chi lo fa, poiché in questa maniera lo si priva di tanti altri diritti che con quello alla parola non c'entrano niente.
Diciamo che di fronte a un insulto si potrebbero pretendere le scuse. Ma diciamo anche che per capire un fenomeno bisogna studiarne le cause. In un regime di democrazia diretta, dove i componenti di una comunità locale possono facilmente conoscersi e riconoscersi in nome di qualcosa, è piuttosto facile scoprire le cause di tutti i fenomeni; di conseguenza gli errori sono più facilmente risolvibili. Peraltro in una comunità locale ci sono molte meno ragioni per assumere un atteggiamento offensivo nei confronti di qualcuno, anche perché una comunità del genere si regge in piedi grazie alla collaborazione di tutti.
è solo negli Stati centralizzati che i governi in carica pensano che, eliminando una serie di persone, il potere non subirà conseguenze preoccupanti. Ecco perché diciamo che qualunque critica allo stalinismo, che non sia capace di porre le basi per una democrazia diretta, non serve a nulla. Né possono servire a qualcosa i colpi di stato o l'eliminazione fisica di chi ama esercitare un potere dittatoriale. Servì forse a proteggere la democrazia senatoriale l'omicidio di Cesare? Al contrario, fu proprio il cesaricidio a porre le basi di una dittatura imperiale che avrebbe considerato il senato un'istituzione sempre più formale, un guscio privo di contenuto.
Centralismo e sovranità popolare
Il centralismo del Pcus non si trasformò in assolutismo nella seconda metà degli anni '30 per colpa della personalità di Stalin, né per quella della sua cerchia.
Quando uno storico come Medvedev afferma che "la centralizzazione era necessaria, ma avrebbe dovuto accompagnarsi a garanzie effettive contro ogni abuso di potere" (p. 461, o.c.), deve anche spiegare quali sono queste "garanzie effettive". Infatti devono per forza essere più oggettive della personalità dei singoli individui, per quanto nessuna garanzia possa essere così "oggettiva" da impedire l'uso della libertà personale.
Se riducessimo lo stalinismo a uno scontro tra personalità eticamente "buone" e altre eticamente "cattive", non riusciremmo a trovare il bandolo della matassa. Se non si vuole che il centralismo si trasformi da democratico a burocratico o autoritario, bisogna chiedersi in che senso va intesa la parola "centralismo".
Nell'ambito di una democrazia diretta i poteri del popolo sono direttamente correlati alla realtà locale in cui si possono esercitare. Cioè una popolazione andrebbe considerata tanto più "sovrana" quanto più caratterizzata sul piano geografico-locale.
Prima di riconoscere un potere di sovranità a un cittadino locale, bisogna che questi dimostri di non essere di passaggio, di non essere capitato lì per caso, di conoscere bene usi e costumi locali. In caso contrario non potrebbe esprimere giudizi pertinenti. Una cosa è rivendicare dei diritti; un'altra è esercitare un potere.
A uno straniero non si possono negare dei diritti solo perché è straniero, ma prima di conferirgli un certo potere politico, deve dimostrare d'essere integrato nella comunità locale, conoscendone soprattutto la lingua.
Detto questo, è evidente che in un regime di democrazia diretta la concessione del potere politico deve risultare tanto più limitata quanto più tale potere viene esercitato in maniera delegata. Ecco perché diciamo che la forza del potere politico deve essere inversamente proporzionale alla distanza che separa l'eletto dagli elettori. Se gli elettori sono locali e l'eletto deve rappresentare la propria comunità di appartenenza in un consesso nazionale, i suoi poteri saranno meramente diplomatici, come quelli di un ambasciatore, cioè non potranno essere autonomi ed effettivi, proprio in quanto la decisione finale deve sempre spettare alla comunità locale. è escluso a priori che l'eletto pensi di non avere alcun vincolo di mandato.
L'eletto è un semplice delegato, un portavoce di istanze e diritti locali, e, come tale, può essere rimosso in qualunque momento. Non può prendere decisioni a titolo personale; non può trarre conclusioni che non siano preventivamente concordate con la comunità locale. Anzi gli eletti devono essere almeno due, aventi lo scopo di controllarsi a vicenda.
La democrazia diretta è la cosa più importante di questo mondo. Non può essere confusa con la democrazia delegata, né può essere limitata allo strumento referendario o all'elezione diretta del Capo di Stato. Se vogliamo, un Capo di Stato non dovrebbe neppure esistere, in quanto la presenza di uno "Stato" impedisce qualunque democrazia diretta.
Naturalmente il pensiero che la democrazia diretta sia soltanto una forma di anarco-primitivismo, o che ci riporti al Medioevo rurale con le sue comunità di villaggio, e che quindi non meriti d'essere presa in considerazione, in quanto debolissimo retaggio del passato, ci toglie qualunque vera arma contro la centralizzazione statale e nazionale dei poteri politici.
è infinitamente peggiore chi tradisce la propria comunità locale di appartenenza di chi tradisce il proprio Stato nazionale. Quando Lenin chiedeva di trasformare la guerra imperialista che il suo Paese conduceva, insieme ad altri Paesi occidentali, nell'ambito della guerra mondiale, appariva un traditore della patria. Ma il vero tradimento si verificò dopo la vittoria della rivoluzione d'Ottobre, quando lo stalinismo eliminò la democrazia diretta dei soviet locali.
Al di fuori di questa oggettività concreta si fa solo, nel migliore dei casi, del moralismo o del paternalismo. Medvedev infatti si limita a parlare di "regolari avvicendamenti nella direzione del partito e dello Stato" (p. 462). Tuttavia un sistema del genere, di per sé, non garantisce proprio nulla. Infatti è il meccanismo della democrazia rappresentativa che va modificato alla radice.
Medvedev lascia intendere che dopo la morte di Lenin si doveva assicurare una periodica turnazione nella gestione del potere, proprio perché nessuno aveva le capacità di Lenin.
L'autore ha un modo patetico di affrontare il problema della democrazia. Infatti scrive: "Lenin fu alla testa del partito ininterrottamente per un quarto di secolo" (ib.). Si comportò come un dittatore? No, perché lui fu "il fondatore del partito bolscevico e dello Stato" (ib.). E allora? Questo di per sé non vuol dire che fosse una persona democratica.
Probabilmente l'autore si è accorto di una questa debole argomentazione, ma ha pensato di ridurne l'evidente illogicità, aggiungendo una giustificazione ancora più incongruente: Lenin "fu quel tipo di genio che appare nell'arena politica non più di una volta per secolo" (ib.). Quindi, siccome tutti gli altri erano al massimo dei "talenti" (come si sentiva Engels nei confronti di Marx), allora s'imponeva "un altro genere di potere" (ib.), quello appunto dell'avvicendamento periodico.
E perché non lo si fece? Qui l'autore fa una capriola di tipo psicologico, che dovrebbe risultare estranea al fare di uno storico. Riporta anzitutto il problema alla partenza: dopo la morte di Lenin "il partito non aveva mezzi per limitare il periodo di tempo in cui un individuo doveva restare alla testa del partito e dello Stato" (ib.).
E come mai non aveva questi "mezzi"? è qui che vengono riprese le parole psicologiche di Gor'kij: "i capi sono necessari nella veste di leader che conoscono le vie più brevi per raggiungere gli obiettivi che il popolo si propone" (ib.).
Comincia a essere chiaro da dove viene il culto della personalità? Ora, come si fa a evitare che un leader non diventi un despota? L'autore usa sempre le parole di Gor'kij: "Il capo di un popolo lavoratore deve sempre essere un modello di alta moralità, di autosacrificio" (ib.). Cioè deve essere un capo "modesto", deve rifiutare le "frasi fatte", gli "atteggiamenti studiati", gli "onori" e la "glorificazione".
Insomma tutto viene ridotto a psicologia e moralità. L'autore si rende conto che questo non può bastare, per cui preferisce ribadire quanto già detto prima: occorre "l'avvicendamento della gente al potere" (p. 463). E non si chiede quale debba essere la struttura oggettiva di questo potere, quella che rende efficace qualunque turn-over.
La democrazia diretta
La storia è lì a dimostrare che quando una nazione è molto grande, tanto da sembrare un impero (come per es. Russia, Cina, India, Stati Uniti ecc.), prima o poi si scinde in territori più piccoli.
Gli imperi del passato, a partire da quelli schiavistici, si sono tutti disintegrati, o a causa di contraddizioni interne, o perché conquistati da nemici esterni, o per entrambe le ragioni.
Queste nazioni-impero avevano tutte le caratteristiche di predicare, ipocritamente, la forza del diritto, quando in realtà il diritto serviva soltanto per giustificare l'uso della forza. La dimostrazione più lampante di questo era il mancato rispetto delle minoranze etniche o locali, regionali, nazionali. I territori delle minoranze (o comunque delle popolazioni sottomesse perché più deboli militarmente) venivano saccheggiati di tutte le risorse naturali, utili in quel momento. La popolazione locale veniva sfruttata a livello lavorativo, ma anche fiscale e militare (offrendo truppe all'esercito ufficiale). Il suo mercato veniva obbligato a vendere qualcosa di appetibile per lo Stato centrale. L'intera società di queste minoranze poteva anche essere trattata come un mercato di sbocco di merci prodotte altrove.
Gli esseri umani non sono fatti per vivere in grandi nazioni o sotto l'egemonia di un impero centrale. La democrazia diretta non può essere realizzata là dove esistono entità geografiche di queste dimensioni. L'autodeterminazione dei popoli non può essere pienamente rispettata quando esistono governi centralizzati, che da una capitale emanano le loro direttive. Anche quando si concede una relativa autonomia amministrativa, questa non è mai paragonabile all'indipendenza vera e propria. è sempre una concessione fatta obtorto collo. Infatti indipendenza vuol dire autonomia decisionale in qualunque campo della vita sociale.
La democrazia diretta può essere realizzata solo in una comunità ristretta, come emanazione di una volontà popolare, che va dal basso verso l'alto. Ci vuole una comunità in cui tutti i suoi componenti si conoscono e si tengono reciprocamente sotto controllo.
In una comunità del genere tutti sono responsabili gli uni degli altri. Non esistono istituzioni astratte cui si può delegare la soddisfazione di bisogni collettivi o la mediazione dei conflitti. Lo Stato non deve esistere. La delega di funzioni di potere ha valore solo se è provvisoria e finalizzata a un preciso obiettivo da conseguire, raggiunto il quale tutto deve tornare come prima. Il mandato per esercitare tale funzione deve poter essere revocato in qualunque momento. E chi revoca un mandato non può certamente essere un organo monocratico.
L'idea di fondo che deve passare in un regime di democrazia diretta è che nessuno è insostituibile, nessuno è perfetto, nessuno è insindacabile e nessuno merita d'essere eliminato solo perché dissente su qualcosa o perché ha compiuto un errore, grave quanto si voglia. Gli errori si fanno, inevitabilmente, e si correggono, necessariamente. Non abbiamo la fortuna di vivere nell'isola di North Sentinel, dove la popolazione, che rifiuta ogni contatto con l'esterno, non fa un errore da 60.000 anni!
Se la democrazia e il socialismo non rispettano queste condizioni, sono falsi entrambi. è preferibile sbagliare quando è presente la democrazia diretta, piuttosto che aver ragione quando esiste solo una democrazia formale. La stessa cosa si può dire del socialismo, dove la differenza è tra autogestito e statalizzato.
In che senso controlli dal basso?
Scrive Roj Medvedev nel libro citato: "la degenerazione di una parte dei quadri rivoluzionari è la regola di ogni rivoluzione…" (p. 503).
Difficile però pensare che laddove s'impone da sé una "regola", solo una "parte" dei militanti si corrompa. E comunque la domanda da porsi, in casi del genere, è evidente: perché dobbiamo dare per scontata una tale involuzione? Qui la risposta sta nei rapporti tra etica e politica.
è cioè possibile che, da un lato, la politica, che è sempre la gestione del potere istituzionale, venga considerata più importante dell'etica, che è l'esperienza dei valori morali. Dall'altro però sappiamo tutti che l'etica senza la politica può trasformarsi in una mera astrazione. Fare la carità a un povero, senza porre le condizioni per cui non sia costretto a mendicare, non serve a niente; anzi, lo illude che il sistema oppressivo possa anche essere benevolo.
Tuttavia una politica senza etica è la cosa più pericolosa di questo mondo, poiché può fare del male a un numero incalcolabile di persone, e proprio in nome di ideali di giustizia e libertà.
A questo punto però vien da chiedersi: se Medvedev ha ragione, che senso ha fare le rivoluzioni? Se tutto deve cambiare perché nulla cambi, sarebbe meglio risparmiarsi i fiumi di sangue che in genere accompagnano tutte le rivoluzioni. E assumere un atteggiamento simile a quello stoico o religioso, cioè rassegnato.
Senonché è anche vero che le rivoluzioni s'impongono da sé, quando il popolo non è più disposto a sopportare determinate contraddizioni, tant'è che si parla appunto di "rivoluzioni popolari", non di "colpi di stato" organizzati da poche persone, più che altro appartenenti al mondo militare, che è quello più disciplinato e armato.
Una volta, come sinonimo di "colpo di stato", si usavano le parole putsch o golpe. Oggi si usa il termine "rivoluzioni colorate", organizzate all'esterno dello Stato, di cui si vuole abbattere il governo o fortemente destabilizzare (in genere con la complicità di ONG interne).
Si finanziano e si indottrinano le categorie sociali più marginali o più giovanili, quelle che più facilmente s'illudono in mutamenti epocali e veloci, che sono poi anche quelle meno esperte dei maneggi che si compiono a loro insaputa. Sono i giovani che aspirano a "occidentalizzarsi", a "imborghesirsi", a contrapporre la libertà personale alla giustizia sociale (lo si vede anche dalle bandiere che espongono: americana o europea).
Per far nascere una rivoluzione colorata ci vuole un'esperta intelligence, una certa forza mediatica, una notevole disponibilità finanziaria e un qualche addestramento mirato alla lotta armata. Se questi quattro elementi sono presenti in maniera congrua, la vittoria è quasi sempre assicurata.
Infatti le generazioni più anziane sono meno reattive, più pazienti di fronte ai problemi della vita, più tolleranti al cospetto delle contraddizioni, anche quando queste possono risultare particolarmente fastidiose. Non vivono sulla base del principio "tutto e subito". Sono più disincantate.
Ecco come sono cadute, tanto per fare un esempio, quasi tutte le democrazie socialiste dell'ex blocco sovietico. In questo momento è in forse il destino dell'Ucraina, che ha fatto male i suoi conti con la Russia, ripresasi magnificamente con Putin dopo lo sconcertante risultato prodotto dallo sciagurato El'cin. Sono cadute anche perché i loro governi non sono mai riusciti a passare da un socialismo statale a uno davvero democratico e popolare.
Va detto tuttavia che la soluzione proposta da Medvedev alla "degenerazione" dei militanti è alquanto riduttiva. Così scrive: "La continua centralizzazione dei poteri non si accompagnò a un crescere dei controlli dal basso" (ib.).
C'è qualcosa di paradossale in questa affermazione, e lui non se ne rende conto per niente. Infatti non ha alcun senso permettere una "continua" centralizzazione dei poteri, nella speranza che venga attenuata o ridimensionata da una serie di controlli dal basso, che risultino proporzionati, come dei contrappesi bilanciati, a quella concentrazione. Una rivoluzione non può mai essere democratica se permette che il potere politico si trasferisca nelle mani di pochi privilegiati (che spesso sono anche quelli con meno scrupoli).
Democrazia vuol dire "governo del popolo". Le élites sono escluse a priori. Quando il popolo deve affrontare una guerra civile o una guerra contro uno Stato nemico, i poteri possono anche essere centralizzati, onde favorire una visione d'insieme delle singole operazioni belliche. Ma, finita la guerra, tutto deve tornare alla normalità. Cioè le comunità locali, coi loro usi e costumi, devono prevalere sul potere centralizzato.
Il potere centralizzato non va "controllato" ma semplicemente abolito. L'unico vero potere democratico è quello che si autocontrolla, in quanto tutti i suoi componenti si conoscono tra loro. Il controllo deve essere reciproco, e quindi non può che essere permanente, quasi quotidiano. Questa è la differenza tra democrazia formale e sostanziale.
Quando ci si trova a un incrocio stradale, che cosa dà più sicurezza: il semaforo o una rotatoria spartitraffico? è evidente che quando manca il semaforo, gli automobilisti stanno molto più attenti, si responsabilizzano di più.
Socialismo non vuol dire altro che autogestione collettiva di risorse locali condivise, quelle risorse che permettono la vivibilità e la riproduzione di una comunità locale. Al di fuori di questa definizione di socialismo, esiste solo una democrazia falsamente rappresentativa, cioè indiretta, che si può trovare sia nel capitalismo privato o statale, che nel socialismo mercantile o statalizzato. Siamo ancora lontanissimi dall'aver realizzato qualcosa di veramente umano e naturale.
Popolo e regime
Certe affermazioni di Medvedev, come per es. questa: "le masse rovesciano ogni sorta di tiranni e di despoti, ma talvolta le masse stesse sono il più forte appoggio del dispotismo" (p. 519, o.c.), è impossibile non condividerle.
Di regola diciamo che nessun popolo può coincidere direttamente col proprio governo. Così è giusto sostenere che il popolo sovietico non può essere identificato col regime stalinista. Lo stesso potremmo dire del popolo tedesco rispetto al regime nazista. E così di tante altre dittature.
I popoli vengono ingannati da imbonitori, ciarlatani, truffatori (economici e politici), ma tutta questa gente fa sempre parte del popolo: non sono forestieri, anche perché, se lo fossero, verrebbero creduti di meno. Istintivamente il popolo si fida di chi conosce bene.
Quindi in un certo senso è sbagliato dire che "popolo" e "regime" (cioè il potere politico) sono due realtà diverse. Nessuna dittatura può imporsi per lungo tempo facendo leva soltanto sulla paura: ha bisogno anche del consenso.
La paura viene conculcata dalle forze dell'ordine, coordinate da apparati di intelligence, cioè da spie, delatori, pedinatori, intercettatori, mentitori seriali ecc. Ma anche tutta questa gente fa parte del popolo: non viene dal di fuori, anche se per torturare il proprio popolo, deve appartenergli solo formalmente.
Quando la violenza esercitata dal potere diventa insopportabile, può accadere di tutto: colpi di stato, rivoluzioni, guerre civili, guerre con altri Stati. Ecco perché il regime ha bisogno di usare figure ambigue o mezzi mediatici che, in apparenza, sembrano neutrali, equidistanti, a disposizione di tutti, ma che in realtà fanno gli interessi solo di chi comanda politicamente o economicamente. Una volta si usava molto il clero; oggi si usa di più la tecnologia comunicativa gestita dai giornalisti o da redazioni che controllano i modi di esprimersi dell'utenza.
Quindi la differenza tra "popolo" e "regime" è valida solo fino a un certo punto. Il problema è che tutti devono imparare la democrazia: non solo chi comanda ma anche chi obbedisce, proprio al fine di superare questa assurda discriminazione di ruoli e funzioni.
Spesso ci si affida a dei dittatori per risolvere certe situazioni molto critiche. Ma perché? Semplicemente perché appaiono più sbrigativi, più coerenti tra il dire e il fare. Ma sono solo illusioni. Non perché il popolo non abbia diritto a ribellarsi (solo a pensarlo saremmo ridicoli), ma perché è sbagliato credere nell'azione risolutiva di un "messia".
Il popolo non ha mai bisogno di essere governato da qualcuno, ma ha sempre bisogno di potersi autogovernare. Qualunque leader carismatico deve saper porre le condizioni per cui il popolo non abbia bisogno, per risolvere i propri problemi esistenziali, di figure autoritarie. è questo il senso della democrazia diretta: ognuno deve poter fruire di condizioni mediante le quali possa esercitare una responsabilità personale.54
Bisogna arrivare a un punto in cui si percepisce chiaramente che la responsabilità che si esercita non è meramente individuale, ma condivisa. Un collettivo responsabile di sé dà forza e coraggio, proprio perché questa forza non è semplicemente fisica ma anche morale: è una forza sociale, culturale, politica e, all'occorrenza, militare.
Un collettivo (sia esso un partito, un movimento, un sindacato, ecc.) deve avere la netta sensazione che sta lottando anzitutto per se stesso, per la propria sopravvivenza, e che, nel contempo, non lo sta facendo per acquisire un potere al di sopra della popolazione che non combatte o che lotta di meno. Se la politica è un servizio, non può essere un potere, e chi esercita questo potere va detronizzato.
Un collettivo può essere inteso come "avanguardia cosciente", ma in realtà tutto il popolo ha bisogno d'essere organizzato come molti collettivi locali autocoscienti. Non ha alcun senso passare da una dittatura a un'altra, nella convinzione che la seconda, proprio perché venuta dopo, non voglia ripetere gli errori della precedente. Con atteggiamenti del genere le dittature saranno sempre più pericolose, poiché, nel frattempo, la scienza e la tecnica avranno fatto passi in avanti e saranno sempre meno controllabili democraticamente.
Ecco perché il problema è proprio quello di come porre le condizioni perché non vi sia la necessità di compiere una rivoluzione popolare. Uno deve lottare, esibendo i propri carismi politici o intellettuali, per insegnare al popolo a non aver bisogno di persone speciali. Ognuno deve saper scoprire in se stesso le proprie potenzialità. La democrazia deve permettere a queste potenzialità di esprimersi nell'ambito di un collettivo, dove la libertà di uno è la libertà di tutti.
Non facciamo del moralismo
Quando si vuol conservare l'idea di socialismo statale, pur contestando duramente lo stalinismo, il moralismo diventa inevitabile. Lo si vede bene a p. 506 del volume di Medvedev, laddove scrive: "I quadri genuinamente proletari e marxisti-leninisti, e un'atmosfera di tipo sovietico, prevalsero in molte delle organizzazioni di base del partito durante gli anni del culto".
Come può uno storico fare affermazioni del genere, è difficile dirlo. Medvedev era nato nel 1925 e nel Pcus entrò solo nel 1956. Questo libro è scritto secondo una metodologia storiografica riguardante un passato che l'autore non poteva aver vissuto con una consapevolezza da adulto, sufficientemente esaustiva degli eventi a lui coevi. Non si presenta come una testimonianza diretta. Al massimo l'autore poté assistere alla morte del padre in un gulag nel 1941, dopo ch'era stato arrestato nel 1937, durante le purghe staliniane. E in ogni caso, anche se affermazioni del genere possono essere state fatte per timore di essere espulsi dal partito, il fatto stesso che lo fu comunque nel 1969, dimostra che quella affermazione non pescava nel vero, e più avanti lo spiegheremo.
Anche ammettendo che la nostra considerazione sia esagerata o totalmente falsa, basta leggersi le seguenti osservazioni dell'autore per convincersi che l'accusa di "moralismo" non è poi così fuori luogo. "Le organizzazioni primarie del partito applicarono parecchie direttive sbagliate e perfino criminali. Ma gli sbagli venivano commessi in maggior buona fede55, e la capacità di autoinganno era più genuina a questi livelli bassi che in quelli alti. Molte delle direttive applicate alla base si nutrivano dello spirito della rivoluzione…" (ib.).
Ora, a parte che è piuttosto facile attribuire una maggiore ingenuità, nel proprio autoinganno, agli strati più popolari del partito, il problema di fondo è che se davvero fosse stato come vuole l'autore, la destalinizzazione di Krusciov e la glasnost di Gorbaciov avrebbero dovuto essere accettate con più convinzione; se lo fossero state, l'URSS non sarebbe mai dovuta cadere; oppure, cadendo, non avrebbe dovuto esserci una transizione verso il capitalismo privato ma verso un socialismo autenticamente democratico.
I fatti purtroppo han dimostrato, contro ogni evidenza opposta e al cospetto degli orrendi crimini dello stalinismo, che le organizzazioni comuniste di base non possedevano un livello di moralità superiore a quello dei vertici, in quanto i comunisti tendevano a subordinare, con troppa facilità, l'etica alla politica, tant'è che la resistenza maggiore alla disumanizzazione della vita sociale e culturale veniva spesso compiuta dagli elementi poco "comunisti", o comunque poco avvezzi all'ideologia dominante.
In ogni caso, prendendo le cose alla larga, non cambia nulla se i diktat di Mosca venivano applicati controvoglia o in buona fede. Quando si accetta l'idea, in sé sbagliata, di voler creare un socialismo statalizzato, si può essere criminali in maniera diretta e consapevole, oppure in maniera indiretta e inconsapevole. Non rende meno colpevoli la convinzione di dover obbedire a ordini, percepiti come assurdi o quanto meno esagerati, solo perché provengono da istanze superiori, o solo perché si è, del tutto in buona fede, convinti che vengano emanati perché si vuole combattere in maniera dura e inflessibile le forze anti-comuniste. Chi non è stato capace di opporsi con fermezza allo stalinismo avrebbe dovuto quanto meno chiedersi se sarebbe stato capace di farlo in qualunque altro regime dittatoriale, contro qualunque altra ideologia o sistema sociale.
I gradi o i livelli della "criminalità" possono avere sfumature molto diverse: si può essere ideatori, organizzatori, esecutori, complici, disposti a confessare qualunque delitto pur di salvare la pelle, e persino disposti a denunciare qualsiasi persona sulla cui innocenza non si ha alcun dubbio. Si può essere spie, delatori, opportunisti… La Chiesa cristiana s'inventò, peraltro giustamente, anche il "peccato di omissione", cioè quella forma di atteggiamento ipocrita così ben rappresentata visivamente dalla triplice postura delle scimmiette, che si coprono gli occhi o le orecchie o la bocca. Tre posture che si possono intrecciare tra loro: "se ho visto, non ho sentito; se ho sentito, non ho visto", e così via.
Questo per dire che, nel mentre si costruisce un progetto politico sbagliato, tutti sono colpevoli, tutti, a vario titolo, devono sentirsi responsabili di qualcosa di più o meno grave, e tutti devono fare i conti col loro passato, con quello che hanno fatto e che avrebbero potuto fare, possibilmente versando un fiume di lacrime, onde impedire atteggiamenti vittimistici e moralistici fuori luogo.
Un potere locale e diretto
Uno pensa che i voltafaccia siano una cosa naturale in politica, anzi, necessaria, se si vuole conservare il potere. Ma non dovrebbe essere così, non perché il potere non lo richieda, ma perché non dovrebbe esistere alcun potere al di fuori di una sovranità popolare effettiva.
Vi sono molte pagine nel libro di Medvedev (Lo stalinismo) che descrivono come il comportamento di Stalin era soggetto a incredibili capriole mentali nel giro di pochi giorni o mesi. Il più delle volte egli assumeva le posizioni dell'avversario politico che aveva appena criticato o addirittura demolito. Cioè Stalin non voleva far vedere che, nel compiere le cose che riteneva giuste, dipendesse da qualcuno.
Chi mette in atto le stesse cose che, poco tempo prima, ha ritenuto pubblicamente sbagliate, come viene definito in psichiatria? schizofrenico? affetto da disturbo bipolare? Di individui di tal fatta, psicologicamente instabili, o comunque moralmente inaffidabili, il mondo è pieno. In occidente siamo da tempo abituati ad avere a che fare con politici o statisti che mentono per partito preso, e che non se ne preoccupano affatto, non avvertendo la loro cronica incoerenza come un problema. Questo perché non tengono in alcun conto il giudizio altrui. Anzi, generalmente disprezzano o sottovalutano chi li circonda e usano le relazioni personali solo per un tornaconto personale. La loro unica, vera, preoccupazione è quella di essere rieletti, o di ricevere, quando il loro mandato non può essere oggettivamente rinnovato, un altro incarico non meno prestigioso.
Indicativamente dovrebbe essere la gente comune a temere seriamente che un mentitore incallito acquisisca posizioni di rilievo, in grado di condizionare la vita di migliaia o milioni di persone. Tuttavia i nostri sistemi politici non sono in grado di scongiurare tale rischio. Infatti, quando uno statista viene sostituito, il successivo si comporta nella stessa maniera: al massimo appare "normale" solo agli inizi della sua carriera.
In occidente si dà quasi per scontato che in campagna elettorale si votano candidati che non realizzeranno ciò per cui sono stati votati, né lo farà il loro partito d'appartenenza. La politica, soprattutto nei momenti elettorali, è semplicemente un teatrino dove ognuno recita la sua parte, e in cui le abilità migliori sono quelle retoriche (fondamentale soprattutto è ricordarsi il più possibile a memoria, e nel modo grammaticalmente corretto, i discorsi che si devono tenere e che devono essere facilmente comprensibili, senza troppe subordinate o con frasi tra parentesi: non siamo al tempo di Cicerone!). Gli elettori al massimo arriveranno a sperare che i loro candidati non facciano il contrario di ciò che propagandavano.
Ebbene, nello stalinismo era la stessa cosa, con l'unica differenza che non esisteva il pluripartitismo e quindi non si eleggeva liberamente nessuno. Un folle e astuto assassino è rimasto al governo per 30 anni, condizionando gli anni successivi, al punto che quando Krusciov cominciò, timidamente, a dire le prime verità, lo defenestrarono quasi subito.
C'è quindi qualcosa di assai grave che non funziona nel potere in sé. Lo democrazia è ovunque qualcosa di assolutamente formale, che serve soltanto a mascherare una prassi dittatoriale. Che la dittatura sia del capitale o dello Stato cambia poco. Che la motivazione sia quella di far soldi o di obbedire a un'ideologia è piuttosto irrilevante.
Tutto ciò ci porta a credere che per realizzare un socialismo davvero democratico, la politica centralizzata o come forma delegata del potere sarebbe meglio proibirla. Il potere politico, che è in sostanza quello decisionale, deve sottostare a due precise condizioni: deve essere locale e diretto. Chi viene votato, deve poter essere controllato e, se necessario, immediatamente sostituito dalla comunità locale che l'ha eletto. Qualunque delega di potere va ristretta nelle sue funzioni e nei suoi obiettivi, limitata nel tempo e, in ogni caso, resa pubblicamente accessibile nel suo pratico svolgimento. Inoltre, visto che non esiste solo un potere decisionale ma anche un potere consultivo, e visto che bisogna tassativamente impedire una qualunque rendita di posizione, è bene chiarire che su problemi specifici i delegati possono avvalersi di persone particolarmente competenti (anche se una competenza specialistica su un determinato argomento non è detto che offra una maggiore saggezza: occorre sempre una visione d'insieme, quella tipica della ragione rispetto all'intelletto, come voleva Hegel).
Città contro campagna
è evidente che vivendo in contesti urbanizzati, sempre incredibilmente complicati nella loro gestione, è praticamente impossibile parlare di democrazia diretta. Non vi sono i presupposti di base.
Le città sono dei cantieri sempre aperti, intenti a continui rifacimenti, ricostruzioni, edificazioni di nuove abitazioni e infrastrutture. Il tutto è sempre molto dispendioso, faticoso, pericoloso e spesso ha una finalità poco convincente, poco comprensibile. Tanti progetti staliniani furono un buco nell'acqua. Si pensava di poterli realizzare solo perché la manodopera, essendo presa dalle galere, era gratuita. In occidente invece non è raro fare progetti non tanto perché servono veramente a qualcosa, ma solo perché ci sono i finanziamenti, e se le istituzioni non li spendono, l'anno dopo ne ricevono di meno. Nelle città o, se si preferisce, nel mondo urbanizzato si è sommamente autoreferenziali.
Nell'URSS stalinista la democrazia diretta avrebbe potuto avere un senso nei colcos cooperativistici o, al massimo, nei sovcos statali. Viceversa nell'ambito urbano si potrebbe tentare qualcosa a livello di Consigli di quartiere o di assemblee condominiali. Tuttavia le condizioni socioeconomiche dovrebbero essere molto diverse da quelle attuali, nel senso che ogni quartiere dovrebbe essere autosufficiente sul piano produttivo: il che è infattibile.
Chi vive in città è per forza di cose dipendente dalla campagna, ovunque questa si trovi, anche a migliaia di chilometri di distanza. Il mondo è globalizzato: le cose vicine possono essere lontanissime e viceversa.
è proprio la struttura in sé delle città che va superata. Se si parte dal presupposto che ognuno deve guadagnarsi da vivere, lavorando in maniera produttiva, cioè ottenendo qualcosa di essenziale all'esistenza in vita, sua e di chi gli è più prossimo, è evidente che i lavoratori più efficaci (che, non a caso, rientrano nel settore primario) sono quelli che si dedicano all'agricoltura, anche se oggi tutta l'agricoltura, se vuole davvero essere efficiente, deve finalizzare i suoi prodotti alle esigenze di mercati urbani.
Un agricoltore, se fa parte di una cooperativa, in teoria potrebbe anche essere un allevatore, senza aver bisogno di fare "soltanto" l'allevatore. Potrebbe anche essere un artigiano, senza doversi specializzare in nessun particolare mestiere. è un errore pensare che il mondo abbia più bisogno di specialisti che di persone dalle molteplici mansioni.
In fondo il contadino ha soltanto bisogno degli strumenti con cui lavorare la terra e allevare del bestiame, e con cui costruirsi un'abitazione e garantirsi un abbigliamento adeguato, delle calzature sufficientemente comode… Non ha esigenze stratosferiche.
è evidente che se i bisogni vitali vengono visti con gli occhi di una persona urbanizzata, questi bisogni aumenteranno sempre più in quantità e saranno sempre più sofisticati in qualità.
L'industrializzazione è una conseguenza dell'urbanizzazione, che in Italia cominciò a formarsi in maniera autonoma, con propri statuti e istituzioni borghesi, circa mille anni fa, dopo la parentesi altomedievale causata dalle cosiddette invasioni "barbariche", secondo la narrativa razzista del mondo romano.
L'urbanizzazione è anche una conseguenza della separazione dell'artigiano dal contadino. Probabilmente lo stesso mercante è nato dalla separazione nei confronti del mondo contadino-artigiano. Il mercante non è che un contadino "alienato", stanco di lavorare la terra o di farlo sotto padrone. Il mercante voleva emanciparsi, riscattarsi, arricchirsi con meno fatica, con più prospettive per il futuro, accettando anche rischi maggiori, come quelli tipici di chi fa lunghi viaggi, verso terre ignote o poco battute dalle carovane. Se ci pensiamo, l'imprenditore (tessile) può essersi formato come un prodotto derivato del mercante.
Il mercante potrebbe anche essere stato un'evoluzione affaristica dell'artigiano, così come il banchiere può essere stato un'evoluzione finanziaria del mercante o dell'imprenditore. I passaggi da un mestiere all'altro sono una caratteristica costante dell'alienazione urbana.
L'intera città, con le sue figure professionali specializzate in qualcosa, non è che una frantumazione sempre più radicale e irreversibile di una unità produttiva basilare. è frutto di un individualismo che si esaspera senza sosta, dotandosi di mezzi sempre più energivori e lasciandosi caratterizzare da comportamenti sempre meno etici.
La città è il regno dei falsi bisogni, delle occupazioni sostanzialmente inutili per la vita rurale. La città sfrutta la campagna, facendole credere che è la campagna ad aver bisogno della città.
Tutta questa superfetazione non ha nulla a che fare con la democrazia diretta. Persino il ruolo dell'intellettuale che critica queste assurdità, fa parte di un'alienazione profonda e diffusa. Siamo tutti frutto di un'estraneazione esistenziale, di uno sradicamento di tipo sociale. Non c'è bisogno di esaminare i limiti dello stalinismo. Lo si vede anche nelle analisi marxiane del capitalismo e nelle teorie politiche che aveva Lenin.
Tutti vogliono ricomporre a unità qualcosa di diviso, ma se non si mettono in discussione l'industrializzazione in sé, l'urbanizzazione in quanto tale, la scienza e la tecnica così come si sono sviluppate, il risultato finale sarà sempre molto limitato, una lotta donchisciottesca contro i mulini a vento.
Noi riusciamo a sopravvivere finché le risorse energetiche permetteranno alle nostre alienazioni quotidiane di funzionare. Infatti attraverso l'industria sfruttiamo tutte le risorse del pianeta, e non ci chiediamo che cosa sarà di noi quando queste risorse saranno terminate. Ci preoccupiamo di non incidere troppo sull'ambiente, di riciclare ciò che usiamo, ma nel complesso rappresentiamo per la natura un peso insopportabile.
La natura riuscirà a riprendersi ciò che le appartiene, a riprodursi agevolmente non tanto quando il genere umano non esisterà più, ma solo quando sarà finita l'urbanizzazione e ovviamente lo sfruttamento delle risorse umane e naturali. "Sfruttamento" vuol dire utilizzare le cose in maniera insensata.
Quando le nazioni urbanizzate si distruggeranno a vicenda con le armi di sterminio di massa di cui si sono dotate, forse si potrà parlare di nuovo di democrazia diretta, di esperienza umana e naturale del vivere quotidiano. A quel punto non sarà tanto importante che riescano a sopravvivere piccole comunità sparute, ma che queste comunità abbiano chiara la consapevolezza della provenienza di tutto ciò che ha guastato il nostro pianeta.
Socialismo contro autoconsumo
Certo è che se si guarda l'agricoltura dal punto di vista dell'industrializzazione e urbanizzazione di un intero Paese, parlare di economia di autosussistenza può apparire come una ridicola provocazione.
Chi proponesse l'autoconsumo verrebbe, come minimo, tacciato di oscurantismo, cioè di voler tornare al Medioevo. Ma sarebbe un'accusa in buona parte falsa, poiché nel Medioevo esisteva la rendita feudale da parte del latifondista, per cui il contadino era soggetto a molte corvées indesiderate, e l'autoconsumo gli veniva tanto più impedito quanto più il nobile possidente gli imponeva di produrre per il mercato.
Infatti il vero autoconsumo è antecedente a tutto, non solo al Medioevo, ma anche alle civiltà schiavistiche. Oggi è stato quasi completamente abbandonato. Lo si ritrova in qualche comunità oggetto di studio etnologico, oppure viene praticato a livello di orticoltura.
Non si troverà mai nessun socialista disposto a sponsorizzare l'idea di autoconsumo e di baratto delle eccedenze. Tutti vogliono degli Stati forti, capaci di commerciare col mondo intero, astutamente competitivi. Il profitto è il dio cui si sacrifica tutto il proprio tempo, e il mezzo per adorarlo è il lavoro, qualunque tipo di lavoro, incluso quello di costruire robot che sgobbino al nostro posto. Il denaro sembra offrire un potere immenso (o illusorio, a seconda dei casi), che poi, nel capitalismo, se è capace di autovalorizzarsi, si chiama "capitale".
Il lavoro non è finalizzato alla soddisfazione di bisogni primari, per i quali ci vorrebbero poche ore del nostro tempo, se fossimo davvero autonomi, ma è finalizzato al guadagno. Non ha un fine dettato dalla natura delle cose, ma ha un fine artificiale, imposto da circostanze umane (che di "umano" hanno solo il genere animale appartenente alle persone che hanno inventato quel fine).
Si devono accumulare quanti più soldi possibile, pur sapendo che vanno ben oltre l'esigenza di soddisfare dei bisogni personali, cioè pur sapendo che non si avrà mai il tempo di spenderli; anzi, pur sapendo che, lasciandoli in eredità a qualcuno, non si potrà avere alcuna certezza che verranno usati nella maniera migliore, cioè spesi per un fine di bene o, al contrario, incrementando il patrimonio acquisito.
Una società non basata sull'autoconsumo è sostanzialmente malata. Per riuscire a sopravvivere, sarà sempre più costretta a cercare nelle profondità della terra o degli oceani nuove risorse da sfruttare. Oggi addirittura si pensa di andarle a cercare nello spazio cosmico.
Sembra essere del tutto normale che l'uomo non debba mai accontentarsi di nulla, o che trovi una sua personale soddisfazione nel privare gli altri di una propria effettiva libertà. In queste condizioni è difficile dire che "noi stiamo bene": sentirsi realizzati solo a condizione di "sfruttare" senza limiti qualcosa o qualcuno, dovrebbe essere considerato un atteggiamento da psicanalizzare.
Sotto questo aspetto forse sarebbe meglio dire che autoconsumo vuol dire "primitivismo" non "socialismo", in quanto il moderno socialismo è troppo condizionato dallo stile di vita borghese. Il primitivismo non ha interesse a conoscere le leggi della natura sulla base delle scienze fisiche, chimiche, biologiche ecc. Come se per conoscere queste leggi ci volesse un laboratorio, un microscopio… e non bastasse la tradizione ancestrale degli antenati.
In realtà siamo noi gli ignoranti delle sapienze millenarie; noi, che con la nostra scienza tecnologica abbiamo distrutto la vera sapienza, la vera saggezza collettiva.
Il valore d'uso di Antonov
Nel 1988 un docente russo di Scienze tecniche e dirigente dell'Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali dell'Accademia delle Scienze, Mikhail Antonov, criticava quello che per lui era il fondamentale difetto della perestrojka di Gorbaciov, l'economicismo, dicendo delle cose che, per la loro originalità, mi lasciarono stupito.
Gli stalinisti lo strumentalizzarono, ma non colsero l'importanza delle sue parole, che avevano ben altra valenza. Lui infatti si chiedeva se davvero la scienza economica fosse lo strumento più idoneo per superare i limiti in cui si trovava, a quel tempo, la società sovietica. Anzi riteneva che la scienza in sé potesse fare ben poco di fronte a problemi di natura sociale, spirituale e morale.
Questo perché la scienza moderna, specie quella economica, impone una certa gerarchizzazione sociale del sapere, tra gli strati superiori che sanno e gli strati inferiori che non sanno. Chi sta in alto impartisce ordini di carattere generale, senza preoccuparsi delle esigenze e delle effettive capacità di chi sta in basso; e chi sta in basso non riesce assolutamente ad avere una visione d'insieme dell'intera società.
L'esito inevitabile di questa discrepanza tra direttive teoriche e realizzazioni pratiche era che, nel socialismo statale, ci si ingannava a vicenda. L'intellighenzia e la nomenklatura dipingevano di rosa il cosiddetto "socialismo reale", nella convinzione che le storture del particolare si sarebbero facilmente risolte col tempo. Invece quelle storture, sommandosi una sull'altra, avevano prodotto una situazione insostenibile.
Ma perché la scienza economica del socialismo statalizzato non riusciva a vedere i problemi reali della società civile? Il motivo principale - secondo Antonov - è che non si parlava mai del valore d'uso. Cosa che neanche faceva il principale economista della perestrojka, Abel Aganbeghjan.
La scienza economica, sia di tipo socialista o capitalista, si limita a vedere l'essere umano come un semplice lavoratore che produce e consuma. La differenza tra i due sistemi economici sta nel fatto che nel socialismo lo Stato si preoccupa di garantire al cittadino più diritti sociali (istruzione, sanità ecc.), mentre nel capitalismo la maggior parte dei beni sono privati.
Il cittadino non viene mai visto nella sua interezza, cioè come soggetto che ha bisogno di cose che nessuno Stato può dare, e che qualunque imprenditoria privata (tipica del capitalismo) offre in maniera sbagliata, semplicemente per acquisire un profitto.
Il valore d'uso implica invece l'autoproduzione e l'autoconsumo di una società che non ha bisogno né dello Stato paternalistico (che diventa autoritario quando le cose non procedono secondo uno schema precostituito), né del mercato borghese, in cui il produttore impone al consumatore le sue leggi arbitrarie e i suoi prodotti insindacabili.
Il valore d'uso (tipico delle società pre-schiavistiche) implica una comunità d'intenti, un sentire comune, che va ben oltre gli aspetti meramente economici. Infatti è un valore deciso dalle tradizioni, dalle esigenze effettive del collettivo che usa determinati beni. L'individuo non è un numero, un componente privo di personalità.
Nella comunità esiste un'etica che spiega all'economia come e cosa deve produrre. Non servono i piani quinquennali calati dall'alto. Né si ha il dovere di lasciarsi sballottare dalle fluttuazioni anarcoidi dei mercati internazionali. L'unica vera proprietà che uno deve curare è, insieme, quella personale e sociale del collettivo cui appartiene, non è quella statale (in senso astratto e impersonale), né quella privata (in senso edonistico e individualistico).
Gli uomini non hanno bisogno né di un'economia regolata dallo Stato, né di un'economia che, illusoriamente, si autoregola attraverso il mercato, dove le crisi, i fallimenti, la disoccupazione sono all'ordine del giorno.
Noi abbiamo bisogno di un'economia regolata dall'autogoverno della società, in cui le esigenze riproduttive della natura sono il primo aspetto da porre sotto osservazione con la massima attenzione.
La qualità della vita non può essere determinata dall'aumento quantitativo dei beni che assicurano un certo benessere materiale. La vita deve diventare un'esperienza in cui il bisogno viene condiviso: un bisogno insieme materiale e immateriale.
Libertà di parola e di autogoverno
Lenin diceva che le masse dovrebbero avere il diritto di controllare in ogni momento l'attività dei propri leader. Medvedev però, quando riporta questa frase, si limita a precisare che andava salvaguardata la libertà di parola e di stampa (p. 449, o.c.). Ma può bastare una libertà del genere? E in ogni caso quali sono le condizioni per garantirla? L'autore non lo spiega. Gli basta constatare l'aumento esponenziale della censura stalinista, che arriva fino a una sistematica mistificazione della realtà.
Come risolvere un problema così grave? Aveva senso mettersi a discutere con dei criminali come gli stalinisti? Chiunque, anche a quel tempo, doveva essere in grado di capire che la progressiva affermazione dello stalinismo non poteva essere risolta né sul piano giuridico, né su quello mediatico, né su quello puramente etico o ideologico. Occorreva una diversa impostazione della politica in generale, del sistema delle decisioni politiche.56
La rivoluzione comunista era stata in un certo senso "legittimata" dalle contraddizioni irrisolvibili all'interno dell'autocrazia zarista e del governo borghese di Kerensky. Ma questo non autorizzava, solo perché si era partiti da esigenze reali di liberazione e di emancipazione, a considerare la popolazione che le aveva manifestate come una somma di individui incapaci di gestire una società basata su presupposti alternativi.
Il popolo non può mai essere trattato dall'alto, proprio perché il primo a sacrificarsi contro un potere ostile è proprio il popolo nel suo insieme, o comunque nella sua grande maggioranza. Le rivoluzioni infatti vengono dette "popolari" quando si è in grado di distinguerle dai colpi di stato militari, compiuti da pochissime persone. Lenin ci teneva a far vedere che i bolscevichi non erano degli avventurieri, degli irresponsabili capaci soltanto di strumentalizzare lo spirito ribellistico di masse insofferenti.
Un popolo, fosse anche analfabeta, ha sempre il diritto di autogovernarsi: è un diritto che gli va riconosciuto dandogli facoltà di parlare là dove si prendono le decisioni più importanti per la sua attività lavorativa, per la sua stessa esistenza in vita.
In tal senso dov'erano finiti i soviet, quelle comunità locali composte da contadini, operai, militari e intellettuali? In quegli ambienti si sperimentava la democrazia diretta, tant'è che uno degli slogan più efficaci per vincere la rivoluzione fu lanciato da Lenin: "Tutto il potere ai soviet!".
Se il potere fosse stato davvero riconosciuto ai soviet in maniera permanente, non ci sarebbe stato bisogno di operare alcuna censura sugli organi di stampa, né si sarebbe dovuto tenere sotto controllo il diritto di parola e di associazione. Un Paese libero e democratico, autogestito dal popolo, non può aver paura di nulla.
Finché ci si limita alle parole, si può dire quel che si vuole, nei limiti ovviamente di qualunque codice civile e penale mondiale. Un popolo, anche se del tutto illetterato, deve sempre vincere le resistenze interne coi fatti.
In ogni caso non è scritto da nessuna parte che la concessione del diritto di stampa debba includere automaticamente quelli di parola e di associazione, al punto che questi ultimi non necessitano d'essere esplicitati. è un passo avanti che la popolazione sappia leggere e scrivere, ma la democrazia non la si misura sulla base di queste abilità. Democrazia vuol dire "autogoverno del popolo", sul piano sia economico che politico, a prescindere da qualunque altra caratteristica sovrastrutturale. Anzi, tale autogoverno non necessita neppure di alcuna delega o rappresentanza. Gli Stati come li vediamo oggi sono soltanto una costruzione artificiosa di mezzo millennio fa, e il concetto di rappresentanza parlamentare (relativa a una polis o città-stato, che in occidente esprime la prima forma storica di democrazia) non ha più di 2500 anni.
Lenin fece bene a impedire alla stampa borghese di esprimersi durante la guerra civile, ma, una volta vinta questa guerra, quella libertà andava assicurata a chiunque, inclusa la libertà di parola e di associazione. Infatti non può esistere alcun sistema sociale che vada esente da critiche. Per quale motivo scoppiano le rivoluzioni popolari? Proprio perché non ci si ascolta. Chi comanda vuol continuare a comandare. Al massimo è disposto a trattare su singoli aspetti marginali e non accetta l'idea che in una società democratica non possa esistere uno che comanda e l'altro che obbedisce.
è quindi evidente che lo stalinismo era un regime che aveva paura dei propri fallimenti e che il popolo gli si rivoltasse contro. La censura nacque già alla fine degli anni '20, quando la si volle imporre su tutto quanto riguardava gli affari di partito e di Stato. Dopodiché la si estese a qualunque cosa: in un certo senso era direttamente proporzionale ai fallimenti del sistema e alle persecuzioni di massa con cui mettere a tacere le critiche contro tali fallimenti. Al tempo di Stalin - scrive Volokogonov - "in nessun manuale di filosofia, in nessun libro si poteva più trovare un capitolo dedicato alla democrazia, alla libertà e ai diritti dell'uomo" (p. 559, o.c.).
Se ci si abitua a nascondere la verità, si finisce col dire menzogne sempre più grandi. La destalinizzazione di Krusciov rispose semplicemente all'esigenza di parlare. Peccato che non si abbia avuto il coraggio di dire tutto. D'altra parte anche chi viene abituato ad accettare le menzogne degli organi di potere, non può ammettere tanto facilmente d'essersi comportato in maniera ingenua, sprovveduta. Per smontare l'orgoglio di sé, occorre un ricambio generazionale.
è bene comunque che tutti (assassini della verità e vittime delle menzogne) si sottopongano a un esame autocritico, non foss'altro che per evitare di "mostrificare" i gestori del potere o di assumere atteggiamenti vittimistici, che poi diventano l'anticamera per giustificare la mancanza di responsabilità personale.
Il popolo ha bisogno di capire quali sono le condizioni oggettive per scongiurare la reiterazione di fatti molti spiacevoli.
Il monopartitismo non è obbligatorio
Il monopartitismo nella gestione del governo rivoluzionario non fu una scelta volontaria da parte dei bolscevichi ma obbligata.
Nel primo governo sovietico diretto da Lenin vi erano sette esponenti socialisti-rivoluzionari di sinistra, che riflettevano gli interessi dei contadini meno abbienti.
Il Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (organo superiore del potere statale) era costituito, nell'ottobre 1917, da 62 bolscevichi, 29 socialisti-rivoluzionari di sinistra, 6 menscevichi internazionalisti e altri partiti minori. Lo stesso organo, nel gennaio 1918, era composto da 160 bolscevichi, 125 socialisti-rivoluzionari di sinistra (con cui i bolscevichi governavano), 14 socialisti-rivoluzionari di destra e massimalisti57, 2 menscevichi, e altri. I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari di destra pretendevano che i bolscevichi uscissero dai soviet. Quando videro il loro rifiuto, preferirono allearsi con la borghesia (interna ed estera) per compiere la guerra civile.
Invece i socialisti-rivoluzionari di sinistra uscirono dal governo nel marzo 1918, poiché avevano rifiutato il trattato di Brest-Litovsk tra la Russia bolscevica e gli Imperi centrali, dopodiché scatenarono a Mosca una rivolta armata contro i bolscevichi.
Nonostante ciò i bolscevichi, per un certo periodo di tempo, non tolsero agli oppositori la possibilità di funzionare politicamente e mediaticamente. Non fu certo colpa dei bolscevichi se tutti i partiti piccolo-borghesi si misero, durante la guerra civile, dalla parte dei controrivoluzionari.
Questi partiti cessarono di esistere perché si erano completamente screditati da soli, privandosi di una propria base sociale, tant'è che nel marzo 1923 furono gli stessi socialisti-rivoluzionari di sinistra ad affermare che l'unico partito che esprimeva la volontà dei lavoratori era quello bolscevico. Gli ultimi a cessare di esistere furono i menscevichi nel 1924.
Questo per dire che il monopartitismo non fu affatto imposto con la forza; neppure ha senso sostenere ch'esso è un indice obbligatorio di una società socialista. Di per sé il monopartitismo non è indice di niente, né di dittatura né di democrazia. La democrazia la si deve dimostrare sia prima che dopo aver affermato il monopartitismo.
Al tempo del COMECON e del Patto di Varsavia il pluripartisimo esisteva in Bulgaria, nella Germania orientale, in Polonia e in Cecoslovacchia. Nessuno disse che questi Paesi non erano socialisti. Infatti anche il pluripartitismo in sé non vuol dire nulla. Può essere un segno di democrazia, ma se guardiamo com'è vissuto in occidente, dobbiamo dire che è solo un segno di interessi borghesi in lotta tra loro, che rendono molto difficile la governabilità di un Paese. Gli interessi si trovano d'accordo solo quando si vuole impedire una qualunque transizione al socialismo.
Fare progetti di lunga durata, pluridecennali, in presenza del pluripartitismo sarebbe possibile se tutti i partiti avessero a cuore anzitutto gli interessi nazionali. Ma di regola i partiti borghesi vengono finanziati anche da agenzie straniere. E in ogni caso tutti loro fanno coincidere gli interessi nazionali con quelli specifici di una classe particolare (o categoria socioeconomica). Si comportano così fingendo di non sapere che esiste solo una classe che, pur difendendo i propri interessi, difende quelli che ogni altra classe dovrebbe difendere per tutelare l'integrità territoriale di una nazione, la sovranità politica di uno Stato e la sicurezza militare di tutti i cittadini, evitando così di esporre questi ultimi al rischio di eventi eversivi (come colpi di stato, guerre civili, conflitti bellici con altre nazioni, ecc.).
Questa classe è quella più povera di tutte, quella che non possiede niente se non il proprio salario, quella che campa del proprio lavoro, quella che non vive sfruttando le risorse umane e naturali altrui, quella che non vive in maniera parassitaria o usuraria, quella che vive risparmiando, senza rischiare di perdere i propri soldi in investimenti azzardati, nel gioco borsistico o in una qualche forma di ludopatia, quella che non si guadagna da vivere agendo in maniera criminale, quella che paga tasse proporzionate al proprio reddito, per contribuire alle spese collettive, al bene comune.
Le persone che conducono una vita in cui la sofferenza, la fatica, la privazione, la sobrietà, la modestia, la moderazione sono pane quotidiano, rappresentano gli interessi generali di una nazione. Sono loro la maggioranza che andrebbe difesa da tutti i partiti, che al massimo dovrebbero differenziarsi nell'affronto di specifici settori economici. Dovrebbero fare a gara su chi tutela meglio la popolazione, la quale, essendo abituata ai sacrifici, non fuggirebbe di fronte all'esigenza di una difesa nazionale, né di fronte all'esigenza di lottare per affermare la giustizia sociale.
I partiti dovrebbero differenziarsi sulle proposte particolari per ricondurre tutto alla normalità. Tuttavia è proprio questo il punto: com'è possibile aspirare alla normalità quando ci si limita a dire che la democrazia è fondata sul lavoro, senza specificare che deve essere fondata anche sulla proprietà sociale, collettiva, pubblica dei principali mezzi produttivi? E senza specificare che nell'uso di tali mezzi bisogna salvaguardare le esigenze riproduttive della natura?
Democrazia e dittatura in un partito
Che cosa vuol dire gestione collettiva di un partito politico? Certamente, perché sia democratico, un partito non può dipendere al 100% dagli interessi economici: deve avere una propria idealità o ideologia o filosofia di vita, con cui andare oltre la contingenza del momento, anche se, beninteso, una politica che non tuteli determinati interessi economici, è una mera astrazione.
Qui è evidente che quando si parla di "interessi economici" prima di compiere una rivoluzione socialista, ci si riferisce a quelli di chi non possiede nulla e vuole riscattarsi. Quando però la rivoluzione è compiuta, gli interessi economici devono essere quelli dell'intera collettività.
Tuttavia non si può pensare che la politica debba "dominare" l'economia. Tra l'una e l'altra deve esserci un rapporto dialettico, poiché nella quotidianità si possono dare per scontati alcuni comportamenti che alla lunga possono risultare sbagliati. L'uso della ragione deve essere costante, come negli animali l'istinto. Probabilmente se fossimo soltanto animali non sbaglieremmo mai; ma siccome siamo esseri pensanti, il rischio c'è sempre, come sempre deve esserci la possibilità di correggersi. Questo vale non solo per l'economia ma anche per la politica, poiché un pensiero fissato una volta per tutte è solo un'aberrazione.
Nei Paesi capitalisti sono l'economia e la finanza che comandano su tutto. La politica è serva, e nei partiti la rotazione delle cariche è cosa del tutto naturale, proprio perché esiste la democrazia rappresentativa, parlamentare e nazionale, controllabile dagli elettori soltanto al momento delle elezioni: di qui il fatto che si parli di democrazia formale.
D'altra parte anche nell'economia borghese si formano continuamente nuovi poteri. Nel capitalismo è tutto in movimento, salvo il fatto che chi comanda, in ultima istanza, è sempre il capitale. Cioè a contare non è tanto la proprietà terriera (che garantisce ovviamente una rendita se la si affitta), quanto piuttosto è il denaro capace di valorizzare o incrementare se stesso. Cosa che si può fare in due modi: in maniera produttiva, sulla base di un profitto aziendale; oppure speculando tramite il credito o il gioco in borsa. Qui sta l'enorme differenza tra Medioevo e Modernità. La finanza, oggi, è parecchio prevalente sull'industria, poiché, anche se non è meno rischiosa, è più facile da gestire: è alla portata di tutti. L'interesse finanziario è una forma di democratizzazione del profitto industriale.
Sotto lo stalinismo la politica dominava nettamente l'economia (la finanza era vietata). Uno può pensare che fosse giusto farlo, in quanto l'intelligenza, la razionalità deve poter controllare la spontaneità dei processi economici, che si evolvono in maniera naturale, sulla base di certe tradizioni produttive, commerciali, tecniche ecc. La politica deve adeguarsi all'economia, ma deve anche dirigerla o, almeno, indirizzarla, per farla funzionare al meglio, in maniera equilibrata, riducendo l'impatto di certi processi istintivi, che possono, in talune condizioni, diventare anche irrazionali.
Diciamo che là dove esiste la proprietà comune dei principali mezzi produttivi, la politica può adeguarsi facilmente all'economia, e offrire consigli solo in momenti particolari, quando l'evidenza lo richiede, quando, senza volerlo, si possono assumere abitudini virtualmente pericolose.
Senonché la gestione politica dell'economia, per essere davvero sana ed equilibrata, va decentrata al massimo, cioè deve essere elaborata dalla stessa comunità socioeconomica che la deve applicare. Non può essere imposta dall'alto, come invece sempre avveniva nel socialismo statale. Non possono essere delle persone "esterne", inevitabilmente autoritarie, a dire alla comunità locale che cosa deve fare. Al massimo varie comunità locali possono decidere insieme un forum politico per affrontare problemi comuni, trasversali ai loro interessi: in tal caso le proposte risolutive andrebbero considerate, una volta ottenuta la maggioranza, vincolanti per tutti.
Torniamo ora alla domanda iniziale: quand'è che un partito politico può dirsi democratico? A questo punto la risposta è molto semplice: quando non può essere da solo a deciderlo. Ci vuole cioè un sottostante economico, un riferimento sociale facilmente identificabile per poter stabilire i criteri con cui dire: questo partito è democratico, quest'altro no; questo partito, in questo momento, è democratico, ma in quest'altro momento non lo è stato. Se una comunità è socialista nell'uso dei mezzi di produzione, sarà più facilmente democratica nella gestione politica del potere.
In condizioni del genere è necessaria la rotazione delle cariche? Può essere opportuna, ma non è indispensabile, proprio perché ogni carica va decisa dalla comunità locale, cui l'eletto deve costantemente rendere conto.
Ebbene, lo stalinismo non è mai stato democratico proprio perché il socialismo statale non aveva niente di socialistico: era solo un'esperienza basata sullo statalismo, imposta da un partito-stato. Se a questa evidenza si aggiunge il fatto che il Pcus non conosceva la rotazione periodica delle cariche, è facile spiegare il motivo per cui lo staff dirigenziale, in accordo col segretario generale, ha potuto scatenare, senza incontrare resistenze significative, un terrore di massa. Nessuno era in grado d'impedirlo, usando gli stessi strumenti del partito o dello Stato. Occorreva qualcosa di extraparlamentare e di extrapartitico.
Il primato della politica sull'economia
Quando si fanno affermazioni del genere, bisogna fare attenzione a quel che si dice: "Lo stalinismo portò all'assurdo il primato della politica sull'economia e dello Stato sulla società" (Volkogonov, o.c., p. 587).
In che senso "assurdo"? Secondo l'autore nel senso che avvenne "la trasformazione della dittatura del proletariato in dittatura del partito e poi in dittatura di un singolo" (p. 588). Cioè "chi si trova al vertice diviene il padrone della società. Anche l'economia si sviluppa non in base alle sue leggi interne, ma in base alle direttive del padrone" (p. 587).
Due cose meritano d'essere puntualizzate. La prima è che il primato della politica sull'economia può essere giustificato finché l'economia non impara a comportarsi secondo le regole del socialismo; ma che questo primato debba svolgersi in presenza di uno Stato che comanda o che gestisce la società, è falso.
Il socialismo vuole togliere all'economia capitalistica il primato sulla politica, in quanto la politica borghese si esprime in maniera puramente formale: infatti tutela sempre gli interessi delle classi più forti o di chi ha meno scrupoli nell'arricchirsi.
Tuttavia, se per togliere questo primato, si deve usare un ente astratto, burocratico, inevitabilmente oppressivo come lo Stato, allora il gioco non vale la candela. Passare da una dittatura di pochi proprietari di beni mobili o immobili a una dittatura dei tanti che non posseggono nulla e che difendono l'idea di socializzazione attraverso lo strumento dello Stato, e che tramite questo strumento controllano la gestione dei beni espropriati a capitalisti, agrari e speculatori, è un'operazione che, per forza di cose, finisce con l'assegnare allo Stato un potere immenso, mettendo così a rischio il potere stesso del popolo.
Se il proletariato domina attraverso lo Stato, crea necessariamente una dittatura, che non diventa migliore di quelle borghesi solo perché esiste un "proletariato". Bisogna smetterla con questa mitizzazione linguistica. Non si è migliori di altri solo perché non si possiede nulla. Il socialismo non è una gara a chi è più virtuoso.
Una volta fatta la rivoluzione politica, il socialismo deve trasformarsi in una semplice amministrazione condivisa della società in tutti i suoi aspetti, da quelli culturali a quelli sociali (e l'economico non è che un aspetto del sociale). Quando la società è in grado di autogestirsi, la politica, in un certo senso, scompare. Può riemergere quando vi sono problemi trasversali a due o più comunità locali, o quando vi sono problemi che minacciano l'esistenza o l'unità o la pacifica convivenza della singola comunità.
Quindi, in sostanza, se c'è una cosa assurda è proprio l'espressione "dittatura del proletariato", che può al massimo avere un senso in presenza di una guerra civile tra i proprietari dei mezzi produttivi e i nullatenenti o i salariati. In quel caso va intesa come una forma di "autodifesa", non come il potere di esercitare condanne a morte.
è giusto, gli espropriatori vanno espropriati, ma una volta fatto questo, non c'è bisogno di giustiziarli. Se non si antepone la giustizia alla vendetta sommaria, è inevitabile che la dittatura del proletariato si trasformi in dittatura del partito; che poi emerga, in tale partito, una figura singola o resti una direzione collegiale, sono le circostanze a deciderlo, ma non farà molta differenza nell'ambito del socialismo statale.
Rivoluzione proletaria e democrazia borghese
A pag. 438 del suo imponente volume Medvedev riporta le riflessioni sullo stalinismo fatte da un economista di cui non ha voluto svelare l'identità. Sicuramente era ancora vivo quando lo storico scriveva Lo stalinismo: lo si capisce quando viene detto che in Cina e in Albania si stava formando una sorta di "stalinismo" molto simile a quello sovietico.
Tuttavia non fa affermazioni di straordinaria rilevanza; sono solo meritevoli d'essere commentate. In sostanza sostiene la seguente tesi: la rivoluzione comunista fu prematura in uno Stato economicamente e culturalmente arretrato come la Russia (come se ci possa essere un momento preciso in cui un certo livello culturale ed economico autorizzi a compierla!); essa avrebbe potuto sussistere se ci fossero stati altri Paesi socialisti sviluppati in grado di aiutarla, ma non ve n'erano (una tesi, questa, tipicamente trockista, relativa all'idea di "rivoluzione permanente" da esportare all'estero); quindi, non avendo avuto una fase di democrazia borghese, e avendo distrutto prematuramente tutte le vecchie forme di vita sociale, era impossibile che il regime sovietico non si trasformasse in una dittatura come quella stalinista.
Tali riflessioni sono giustamente contestate da Medvedev. Infatti, se lo stalinismo era predeterminato, allora lo era anche la rivoluzione bolscevica, poiché lo zarismo era diventato mostruoso. In realtà lo stalinismo - afferma sempre lo storico - non può essere giustificato in alcuna maniera, neanche pensando alle influenze dell'epoca mongolica.
Cioè se da un lato vi sono condizioni oggettive che possono far sorgere una dittatura; dall'altro però si possono sempre sviluppare intelligenze soggettive in grado d'impedirla. Nella storia umana non ha senso parlare di fatalità. Anche lo zarismo, se avesse avuto ministri più intelligenti, avrebbe fatto apparire come insensate le rivoluzioni di febbraio e di ottobre.
Certi eventi diventano inevitabili quando viene rifiutata la possibilità di modificare in maniera decisiva le condizioni che potrebbero farli nascere. Quindi se Lenin fosse vissuto un'altra decina d'anni, lo stalinismo, molto probabilmente, non si sarebbe formato. Medvedev è in fondo un ottimista, com'è giusto che sia un idealista che crede nella buona volontà degli esseri umani. Chi avrebbe il coraggio di contestarlo?
Già Lenin aveva criticato asserzioni analoghe a quelle dell'anonimo economista. Sosteneva infatti che se la democrazia ha avuto bisogno della borghesia per svilupparsi, non c'è motivo per cui non dovrebbe aver bisogno del proletariato, che è un prodotto della stessa borghesia in cerca di una propria emancipazione radicale, che coinvolga non solo gli aspetti giuspolitici ma anche quelli socioeconomici. è proprio il socialismo che pretende di passare dalla democrazia formale della borghesia a quella sostanziale in virtù della proprietà sociale dei mezzi produttivi.
Tuttavia il vero problema in Russia era un altro. La domanda cui bisognava cercare di rispondere, nella maniera più precisa possibile, era la seguente: Cosa vuol dire "socializzare i mezzi produttivi"? Cioè chi deve decidere i criteri di tale socializzazione? Un ente esterno come lo Stato o gli stessi lavoratori che li usano?
Forse qualcuno può pensare che in presenza di una nazionalizzazione della proprietà dei principali mezzi produttivi, sia sbagliato definire lo Stato come un "ente esterno". Invece lo è da almeno mezzo millennio. Con ciò non si vuol sostenere che il periodo feudale si avvicini di più al concetto di democrazia. Certamente le comunità di villaggio, col loro autoconsumo e il loro baratto, erano più prossime alla democrazia che non l'urbanizzazione borghese, col suo mercato spersonalizzato e la sua burocrazia asfissiante. Senonché il feudalesimo fu profondamente caratterizzato da valori discriminanti e pratiche classiste, come la rendita terriera, il servaggio, la nascita nobiliare, i matrimoni d'interesse, il clero privilegiato e ideologico, ecc.
Fino ad oggi non c'è stata alcuna rivoluzione socialista che sia riuscita a porre le basi del progressivo superamento dello Stato. Anzi si è sempre ritenuto (salvo gli anarchici) che deve essere lo Stato a organizzare la resistenza contro le classi favorevoli all'antagonismo sociale. Il problema è, purtroppo, che questo Stato rimane in piedi anche dopo molti anni in cui quelle classi sono state sconfitte.
La vera domanda quindi diventa questa: Chi decide quando le classi privilegiate sono state sconfitte in maniera tale che la popolazione non abbia a temere una controrivoluzione? Chi deve essere messo nelle condizioni d'impedire che lo Stato, invece di estinguersi in maniera progressiva, si rafforzi in maniera sempre più pericolosa per la sicurezza dei cittadini? Stalin non voleva neanche sentir parlare di "estinzione" dello Stato.
Il fatto che nessuno fosse in grado di contestarlo non può essere attribuito alla mancanza in Russia di una democrazia borghese o di una cultura e di un'economia avanzate… Infatti nell'ambito del capitalismo tutto quanto vi è di sviluppato al massimo livello, viene usato contro il proletariato o a favore degli interessi privati del capitale.
In Russia non si parlò di "estinzione dello Stato" perché difettava, tra i bolscevichi, il senso della democrazia in generale, a prescindere ch'essi provenissero dal proletariato o dalla borghesia o dalla nobiltà. La rivoluzione non seppe porre con sicurezza le basi per evolvere verso forme di democrazia sociale. E non seppe farlo per una semplice ragione: guardò sempre con sufficienza e distacco la democrazia presente nelle comunità primitive della Russia asiatica.
Una diarchia di poteri
Si può capire che in un regime dittatoriale una dirigenza governativa elimini l'opposizione politica. Si può anche capire che non lo faccia solo "politicamente" ma addirittura "fisicamente", tramite durissime carcerazioni o esecuzioni capitali (benché, sul piano umano, sarebbe meglio ricorrere alla perdita della cittadinanza in forza di un'espulsione dal Paese, come avvenne per Trockij, ma anche Lenin ricorreva a questo metodo al tempo della dittatura del proletariato, subito dopo la rivoluzione). In fondo si tratta di una dittatura, e quella stalinista era indubbiamente spietata.
Tuttavia è più difficile spiegare il motivo per cui tale epurazione di massa sia avvenuta nella seconda metà degli anni '30, quando ormai nessuno metteva in discussione il progetto di costruire un socialismo statalizzato.
Le critiche che si rivolgevano all'industrializzazione accelerata (che privilegiava il settore "pesante", cioè la produzione di mezzi di produzione), nonché le critiche rivolte alla collettivizzazione forzata in agricoltura e alla subordinazione di tutte le nazionalità a quella russa, non mettevano mai in discussione che il socialismo dovesse essere gestito dagli organi centrali della capitale Mosca, il cui metodo principale erano i cosiddetti "piani quinquennali".
Certo, anche l'autoritarismo della direzione del partito e dello Stato poteva essere soggetto a contestazione, ma non si sviluppò mai un'opposizione davvero democratica, che potesse costituire una valida alternativa allo stalinismo. Stalin controllava gli apparati di polizia, i servizi segreti, ma l'opposizione non seppe mai avvalersi di una solida base sociale. Stalin e i suoi accoliti più fidati erano temuti da tutti e seppero approfittare anche di quel limitato consenso che i bolscevichi avevano presso la popolazione rurale.
Quello che si fa molta fatica a capire è la decimazione non solo dei dirigenti politici del partito (tutti favorevoli al socialismo statale), ma anche degli ufficiali delle forze armate, che non avevano in mente di fare alcun golpe. Medvedev arriva a dire che "nessun corpo ufficiali, di nessun esercito al mondo, subì mai così grandi perdite in tempo di guerra quali l'Armata Rossa in tempo di pace. Anni di addestramento e di preparazione furono gettati al macero" (p. 264, o.c.). Di qui la decisione di Hitler di invadere l'URSS su un fronte vastissimo. "La repressione dei migliori quadri dell'Armata Rossa… fu uno dei principali elementi di giudizio nella decisione hitleriana di attaccare l'URSS" (ib.).
E poi ancora: "Al processo di Norimberga il maresciallo Keitel testimoniò che molti generali tedeschi avevano messo in guardia Hitler dall'attaccare l'URSS, sostenendo che l'Armata Rossa avrebbe opposto una durissima difesa. Ma Hitler respinse la loro obiezione" (ib.). Infatti sapeva bene che Stalin, senza volerlo, gli aveva fatto un grande favore nell'eliminare lo Stato Maggiore. E tutti sanno che un esercito può essere grande quanto vuole, ma senza ottimi comandanti, non vale niente.
In effetti vien quasi da pensare che fossero d'accordo, cioè che Stalin sperasse di governare il suo Paese sulla base di una specie di diarchia, in cui uno, Hitler, si tenesse l'area europea della Russia, quella più intellettuale e occidentalizzata, mentre Stalin si sarebbe riservato l'area asiatica, più disposta a obbedire senza discutere, più rurale che urbanizzata. In fondo cos'era il Patto Molotov-Ribbentrop, se non un'alleanza tra due dittature, di cui quella staliniana ammirava quella hitleriana per la facilità dimostrata nell'imporsi?58
Naturalmente qui si esagera, ma resta fuor di dubbio che alle democrazie borghesi, prevalenti nel mondo occidentale (come quella francese, inglese e americana), Stalin preferisse la dittatura hitleriana, in quanto gli appariva più coerente, esente da ipocrisia, più storicamente motivata.
La guerra e il socialismo
In teoria è sbagliato sostenere che il socialismo può andare al potere solo attraverso una guerra civile o una guerra contro un nemico esterno. Se fosse così, in Medioriente, dai tempi del colonialismo anglo-francese ad oggi sarebbero dovuti nascere molti Paesi socialisti. La stessa rivoluzione cubana avvenne mentre il Paese non era impegnato in una guerra contro uno Stato confinante.
Indubbiamente il capitalismo è un sistema produttivo basato sul conflitto di classe. Le sue contraddizioni possono essere attenuate da una gestione parziale dell'economia da parte dello Stato. In effetti uno Stato sociale (come quello formatosi in Europa dopo il secondo conflitto mondiale) dovrebbe garantire i servizi essenziali per un'esistenza un minimo dignitosa a gran parte della sua popolazione.
Per fornire tali servizi (istruzione, sanità, assistenza, previdenza, ecc.) lo Stato può avvalersi di varie entrate: tasse, tributi, dazi…, oppure può gestire in proprio determinate aziende o banche. Finché le contraddizioni sono sostenibili, il passaggio al socialismo non viene ritenuto necessario, e chi ne parla non invoca l'esigenza di una guerra civile o tra nazioni.
Semmai i veri problemi cominciano a sorgere quando lo Stato sociale viene progressivamente smantellato a favore di una gestione privatistica di tutte le aziende (industriali e rurali) e di tutti i servizi. Ad un certo punto i cittadini si trovano a sostenere degli oneri insopportabili, a vantaggio sia dello Stato che dei privati, oppure si accorgono ben presto che i servizi gestiti dai privati sono più costosi di quelli gestiti dallo Stato. Avvertono cioè che le due idee con cui si giustifica sempre lo smantellamento dello Stato sociale (la gestione produttiva inefficiente e il calo dei prezzi dovuto alla concorrenza tra privati) erano semplicemente false.
In una gestione del capitalismo sempre più privatizzata, la povertà tende ad aumentare, la polarizzazione tra le classi sale a dismisura e l'importanza della finanziarizzazione uccide l'economia produttiva: questo perché è più facile realizzare introiti coi giochi in borsa, i prestiti finanziari, l'usura, gli investimenti in titoli statali e altre forme speculative.
Le guerre contro un nemico esterno vengono scatenate quando all'orizzonte si profila una guerra civile interna. In tal senso è vero che l'esigenza del socialismo è una conseguenza di una situazione altamente conflittuale. Chi detiene capitali o mezzi produttivi non è disposto a condividerli con chi ne è privo. Al massimo fa delle trattative con chi ha meno disponibilità, per potersi ingrandire ancora di più. Nel capitalismo privato il pesce più grande mangia sempre quello più piccolo, soprattutto se il piccolo non si trova in enormi branchi.
Le masse popolari tendono ad essere pazienti, a sopportare con rassegnazione, almeno finché la situazione non diventa catastrofica. I leader dei partiti e dei movimenti che si oppongono a questo stato di cose non possono mettersi a denunciare che una guerra civile è imminente: indurrebbero il governo a prendere drastici rimedi per scongiurarla.
La tattica deve essere più accorta: bisogna mettere il governo, con un'azione insistente, condotta in maniera legale, di fronte alle proprie responsabilità. L'opposizione deve acquisire un certo consenso popolare e, a tale scopo, deve poterlo fare utilizzando anche gli strumenti che le istituzioni mettono a disposizione.
Non esiste alcun antagonismo sociale che, per sopravvivere, non abbia bisogno di darsi una patente di democraticità. è in mezzo a queste forme di evidente incoerenza che l'opposizione deve incunearsi. Non è l'opposizione che deve prendersi la responsabilità di uno scoppio della guerra civile.
Quindi è sbagliato sostenere che il socialismo non può andare al governo pacificamente. Anche perché non tutte le guerre portano al socialismo. Per es. in Italia, dopo la prima guerra mondiale, andò al potere il fascismo, il quale, per far fronte all'opposizione socialista, creò una specie di Stato sociale, seppur togliendo di mezzo i due movimenti cooperativi di matrice socialista e cattolica. è invece il sistema che deve dimostrare che non può reggersi in piedi senza scatenare guerre contro dei nemici esterni (spesso puramente inventati), e senza aumentare, internamente, la propria dittatura.
Che tipo di socialismo realizzare?
Se è vero - come da tempo sosteniamo - che una rivoluzione socialista sarà tanto più democratica quanto più saprà recuperare lo stile di vita pre-borghese, o comunque un modo di produzione non antagonistico, allora il socialismo scientifico va emendato in molti suoi presupposti fondamentali.
Qui bisogna intendersi su un aspetto di cruciale importanza: non è il livello delle forze produttive che può decidere quando e come compiere la transizione al socialismo. è evidente che tale transizione sarà tanto più sentita dalla popolazione, quanto più le contraddizioni risulteranno esplosive. Tuttavia, se ci si basa unicamente su un'istanza di liberazione, senza poter fare riferimento ad alcuna esperienza di democrazia diretta e di socializzazione delle risorse e dei mezzi produttivi antecedenti alla formazione capitalistica, non vi sarà alcuna garanzia che la transizione al socialismo avverrà in forme sufficientemente corrette ed equilibrate.
Un metodo adeguato di risoluzione di problemi sociali non nasce dal desiderio, per quanto intenso possa essere. Un metodo corretto può nascere solo da un'esperienza consolidata. Questo significa che quanto più si permette al capitalismo di svilupparsi, tanto più difficile risulterà la transizione al socialismo. è pura utopia pensare che gli operai, siccome lavorano in maniera associata, uno a fianco dell'altro, nelle aziende industriali, sono la classe più idonea a realizzare il socialismo.
Come minimo, intanto, occorre un'intelligenza delle cose, che non può essere considerata appannaggio dell'operaio proprio in quanto operaio. Assai raramente i leader delle rivoluzioni socialiste nell'ambito del capitalismo provenivano da ambienti operai: generalmente erano piccolo-borghesi, o comunque soggetti che, in condizioni normali, avrebbero avuto una carriera professionale borghese. L'intelligenza delle cose si acquista in maniera autonoma, sulla base delle esperienze personali, e non è strettamente legata alla categoria sociale o sociologica cui si appartiene, anche perché una categoria del genere ci è data dalla nascita, pur potendo cambiare nel tempo, a seconda delle scelte di vita che uno compie.
Per realizzare il socialismo in maniera adeguata, occorrono esperienze pregresse di socialismo e di democrazia diretta, che vanno recuperate e valorizzate. Se una popolazione non è in grado di farlo, poiché il capitalismo ha spazzato via tutto quanto lo precedeva, ci vorranno altre popolazioni per realizzare tale obiettivo. Cioè la modalità per farlo dovrà essere fornita dall'esterno.
Da questo punto di vista tutte le critiche che venivano rivolte alla Russia, di essere troppo arretrata per realizzare il socialismo, non avevano alcun senso. Ma non l'avevano neppure le repliche di chi sosteneva che la Russia non aveva affatto un basso livello di sviluppo industriale.
Lenin aveva perfettamente ragione a dire che la Russia possedeva un grado di concentrazione della produzione più elevato rispetto a Paesi europei più sviluppati. Ma aveva torto a credere che ciò sarebbe stato motivo sufficiente per realizzare il socialismo, e che tutto il resto dipendeva dalla coscienza rivoluzionaria del proletariato e dalla sua capacità organizzativa.
Infatti è tutto da dimostrare che il socialismo più democratico debba avere un livello industriale (cioè di forze produttive) paragonabile a quello dei Paesi capitalistici più sviluppati. è tutto da dimostrare che il socialismo debba misurare il proprio benessere sulla base del benessere che può garantire uno sviluppo di tipo industriale. è tutto da dimostrare che una modifica rivoluzionaria dei rapporti produttivi possa essere fatta senza mettere in discussione la necessità di garantire determinati standard produttivi. Forze e rapporti produttivi non sono due entità separabili. Sono le esigenze riproduttive della natura che impediscono di tenerle divise.
Lenin fece bene a insistere che non vi era alcun bisogno di pensare al socialismo come a una logica conseguenza di un capitalismo sviluppato come quello europeo. Una volta compiuta la rivoluzione, si potevano convincere i tecnici e i professionisti di mentalità borghese a lavorare per il bene del socialismo industrializzato.
Ma il vero problema era un altro, come convincere l'intera popolazione che un socialismo non industrializzato non sarebbe stato un socialismo della miseria. L'equivalenza dei due termini era una solenne menzogna. Sotto questo aspetto, tutte le controversie ideologiche scoppiate in Russia su come realizzare un socialismo statale e industrializzato, lasciano il tempo che trovano. Non si riuscì neppure a sfiorare la vera essenza del problema. Lo stalinismo finì col compiere delle mostruosità per un obiettivo che in realtà non valeva niente.
Che cosa intendo per socialismo democratico?
Quando parlo di socialismo democratico non intendo affatto riferirmi alla socialdemocrazia borghese. Una volta chiarito che non esiste socialismo senza democrazia, e viceversa, bisogna ragionare sul significato dei singoli termini.
Non intendo mai mettere in discussione che un mercato debba esistere. Semplicemente nego che sia il mercato a stabilire che cosa sia o non sia democratico. Come d'altra parte nego che sia lo Stato a stabilire quando si possa o non si possa parlare di socialismo.
Stato e mercato, per come si sono sviluppati nel socialismo statale e nel capitalismo mercantile, sono due entità che vanno abolite. Quanto più o meno velocemente non sta a me dirlo: io posso solo dire che sono due fonti di alienazione, oltre che di devastazione ambientale.
La democrazia in cui non credo è quella rappresentativa parlamentare nazionale. Per me la democrazia vera è una sola: quella diretta e locale. è diretta proprio perché locale; è può essere rappresentativa solo a condizione che l'eletto venga votato da singoli elettori locali per un fine specifico, finché è necessario e con un vincolo di mandato.
Questa è l'unica democrazia che dovrebbe essere permanente, quella in cui non esiste alcuna differenza sostanziale tra eletto ed elettore, nel senso che l'elettore controlla sempre l'eletto. Al limite non è importante il numero dei mandati. L'importante è il controllo e quindi la possibilità di revocare il mandato in qualunque momento.
L'eletto è sempre responsabile della volontà dell'elettore, per cui deve rendicontare periodicamente ciò che fa. Deve giustificare sempre le proprie decisioni.
Se per una qualche ragione si è costretti a convocare un'assemblea che vada oltre il livello locale, deve essere preventivamente chiarito che si tratta di qualcosa di temporaneo. In tal caso l'eletto deve rappresentare direttamente, nel suo insieme, la volontà della comunità locale che gli ha conferito il mandato, cioè non può assumere alcuna iniziativa di carattere personale.
Quando non ci sarà più bisogno di una democrazia rappresentativa, e ci si baserà soltanto su una democrazia diretta, allora vorrà dire che la comunità locale sarà così piccola che tutti si sentiranno protagonisti in prima persona.
Per quanto riguarda il socialismo è tassativa la gestione comune dei fondamentali mezzi produttivi che garantiscono l'esistenza di una comunità locale. La proprietà privata di tali mezzi non ha senso. Al massimo può esistere una proprietà personale di mezzi accessori, integrativi, comunque non fondamentali.
Quindi socialismo vuol dire cogestione di attività comuni. Se non si vuole dipendere dal mercato per ciò che di sostanziale assicura la sopravvivenza della comunità locale, è inevitabile il ricorso all'autoconsumo, cioè all'autoproduzione di ciò che si consuma. Il mercato può servire per scambiare le eccedenze, o per acquistare prodotti ritenuti importanti ma non indispensabili. E lo scambio sarebbe bene che avvenisse tramite il baratto. Questo perché la moneta favorisce l'accumulazione indefinita, illimitata.
è mai esistito un socialismo del genere? Sì e per milioni di anni. Abbiamo cominciato a distruggerlo circa 6.000 anni fa, quando abbiamo fatto nascere le società schiavistiche, che, col tempo, sono diventate delle vere e proprie "civiltà". Da allora abbiamo soltanto configurato in varie forme lo schiavismo, sia esso di tipo privato o statale, ma, nella sostanza, l'abbiamo sempre riconfermato.
Sud Globale contro Occidente collettivo
Che lo stalinismo vada ben oltre lo stalinismo in sé, è dimostrato anche dal fatto che il maoismo, pur avendo privilegiato l'agricoltura sull'industria, non l'ha mai criticato, e non l'ha fatto sino alla morte di Mao. La destalinizzazione inaugurata da Krusciov fu considerata una forma di revisionismo.
Oggi il socialismo mercantile cinese non è che una riedizione all'ennesima potenza della NEP leniniana. Lo Stato, guidato sostanzialmente da un partito unico (che ha oltre il 70% dei seggi parlamentari), concede paternalisticamente ampi spazi di manovra all'imprenditoria privata; anzi, esso stesso si fa promotore di iniziative di tipo capitalistico. Ma poi, quando ritiene opportuno intervenire per garantire la sicurezza o la stabilità del Paese, non si fa scrupolo a usare la mano pesante. Non a caso tutta la terra è di proprietà statale: non ci vuol molto allo Stato espropriare dei beni privati per un interesse pubblico, sia esso reale o fittizio.
Praticamente il partito comunista ha stabilito questo compromesso con la società civile: in cambio della possibilità di arricchirsi, impedisce d'interferire nella gestione politica del Paese. Fino adesso la popolazione ha accettato, ma non è detto che la cosa durerà per molto. Infatti tale modus vivendi è già stato visto altrove, e si sa benissimo com'è andata a finire. Sarebbe molto ingenuo pensare che la borghesia, dopo aver acquisito un certo potere economico e finanziario, non arrivi a pretendere un corrispondente potere politico.
Non ci vuol molto a capire che presto sarà la Cina a sostituire gli USA nella guida del capitalismo mondiale. Ha tutte le carte in regola per farlo: le manca solo l'uso spregiudicato (propagandistico) dei media. Anzi, ne possiede una che gli USA non hanno mai avuto: il collettivismo. Le uniche esperienze collettive nell'America del nord sono state quelle dei nativi.
Guardando la Cina, infatti, è facile avere l'impressione di una trasformazione del capitalismo da privato a statale, in cui l'aspetto statale si confonde con quello sociale: sembra di avere a che fare con una sorta di "socio-capitalismo", di gran lunga superiore (sul piano soprattutto della realizzazione dei progetti) a quello privato dell'intero occidente (che la Russia chiama "occidente collettivo", per indicare che la cultura anti-russa, anti-cinese ecc. è la stessa).
In questa socializzazione del business, che in occidente abbiamo sperimentato al tempo del Welfare State, la Cina ha trovato nella Russia (ma anche negli altri Paesi aderenti ai BRICS) un alleato significativo, con cui può realizzare un'infinità di progetti.
In questo momento la Cina ha un vantaggio considerevole: è tecnologicamente avanzata in tutti i settori chiave del capitalismo contemporaneo; inoltre ha sviluppato un'industria leggera, i cui prodotti sono già presenti in tutto il mondo, che gli altri Paesi si limitano ad acquistare.
La Russia può anche aiutare militarmente i cinesi ad affrontare una guerra contro gli USA, ma non potrà far niente contro la penetrazione delle merci cinesi nel proprio territorio. Esattamente come non ha potuto far niente nessun Paese occidentale.
Per una serie di ragioni la Cina vince a mani basse: ha un costo del lavoro minimo, una quantità infinita di manodopera, una scarsa sindacalizzazione, un'incredibile capacità di copiare i progressi altrui, una tassazione molto favorevole all'imprenditoria, moltissime e importanti materie prime… Le stesse imprese occidentali, pur conservando il marchio dei loro prodotti, preferiscono produrli in Cina o in India o in altri Paesi del Sud Globale.
L'intero occidente tende a vivere, in casa propria, di terziario e di finanziarizzazione dell'economia, nel senso che l'industria produttiva vera e propria la delocalizza, mentre per sé si tiene il credito internazionale, la speculazione borsistica, la gestione dei risparmi della popolazione, le assicurazioni per i traffici mercantili e così via. L'industria più solida negli USA è quella militare (che però serve solo per distruggere), oltre a quella finanziaria (che ovviamente di produttivo non ha nulla, in quanto pretende di campare di rendita).
Nel passato il capitalismo privato in Asia ha potuto attecchire in forza del colonialismo occidentale, ma questa pretesa, dal secondo dopoguerra (cioè dalla rivoluzione cinese e dalla successiva guerra di Corea), viene sempre più messa in discussione. Ormai all'occidente restano pochi appigli: Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine... è destinato a essere surclassato.
L'aveva già dimostrato la Russia negli anni '90: se al proprio interno si afferma il capitalismo privato di derivazione occidentale, l'implosione è molto veloce, molto di più (una decina d'anni) di quella accaduta quando vigeva il socialismo statale (una settantina d'anni). La Russia ha avuto questo di caratteristico: ha anticipato il peggio che può accadere in altri Paesi economicamente non avanzati quando s'imboccano certe strade.
Quindi il "socio-capitalismo", a causa dell'elemento collettivo presente nel continente asiatico, deve per forza essere controllato dallo Stato, proprio perché abbiamo, sì, a che fare col "capitalismo", ma innestato in territori non esattamente "borghesi" come nella cultura occidentale, sommamente individualistica. è una legge che riguarda non solo tutti i Paesi asiatici, ma anche quelli sudamericani e africani che vogliono liberarsi della dipendenza neocoloniale nei confronti degli europei e degli statunitensi.
Il che ci porta a pensare che la prossima guerra mondiale si porrà come uno scontro decisivo tra Sud Globale e Occidente collettivo: uno scontro furibondo tra due forme di capitalismo, in cui il ruolo ideologico del socialismo non sarà rilevante. Tale ruolo forse lo diverrà solo dopo che le popolazioni insorgeranno contro i limiti del capitalismo statale, ma a una condizione: dovranno elaborare una forma di socialismo molto diversa da quella sovietica, cinese o da quella prodotta nello stesso occidente sul piano teorico e mai realizzata.
Individualismo occidentale e collettivismo asiatico
Chiunque si sforzi di guardare lo stalinismo nella maniera più obiettiva possibile, non può non stupirsi dell'incredibile numero di persone che vennero eliminate ingiustamente. Una cosa infatti furono i morti dovuti alla guerra civile e all'interventismo straniero; tutta un'altra quelli soppressi nel periodo di pace.
Un regime politico autoritario può anche eliminare o incarcerare, in tempo di pace, un certo numero di oppositori, oppure obbligarli a espatriare. Ma è difficile pensare che possa togliere di mezzo milioni di persone del tutto innocenti, senza che la popolazione si ribelli, o senza che avvenga una sorta di colpo di stato per mano dei militari. I russi erano forse un popolo di pecore o credevano profondamente, nella loro maggioranza, alle idee e alle promesse del grande Lenin?
Se lo stalinismo avesse eliminato milioni di persone al di fuori del territorio dell'URSS, lo si sarebbe potuto capire di più. Nella storia delle civiltà erano già esistiti casi del genere. Si pensi solo alle orde tataro-mongoliche o al colonialismo europeo. Ma un regime che arriva a sterminare la propria stessa popolazione, esponendo il Paese al rischio di una occupazione da parte di una forza nemica esterna, costituiva (almeno in quel momento) un caso senza precedenti (poi anche sotto il maoismo si verificò una tragedia analoga, per non parlare delle stragi compiute da Pol Pot in Cambogia, che non a caso fu protetto dal maoismo).
A dir il vero anche il giacobinismo conobbe un assurdo periodo di terrore all'interno della repubblica francese, ma durò pochissimo tempo. Viceversa con lo stalinismo abbiamo a che fare con un periodo almeno ventennale di persecuzioni durissime. Solo il maoismo può tenergli testa.
Per uno storico è incredibilmente difficile capire un fenomeno del genere. Infatti non è possibile attribuire tale mostruoso risultato alle sole abilità personali di un dittatore.
Stalin sfruttò due condizioni oggettive che non dipendevano da lui: 1) l'esistenza di una rivoluzione politica del tutto inedita nella storia, in cui una classe sfruttata (il proletariato industriale e agricolo) giungeva al potere grazie alla guida di una serie di leader eccezionali, di cui il principale era, senza dubbio, Lenin; 2) le forti tradizioni collettivistiche che caratterizzavano tutte le popolazioni residenti all'interno della Federazione plurinazionale della Russia, soprattutto quelle afferenti all'area asiatica.
Tale collettivismo asiatico, che in Europa occidentale si può riscontrare o nella fase pre-schiavistica o al massimo in quella feudale, presenta caratteristiche incredibilmente resilienti alle dittature che subisce. Può anche costituire una grande forza propulsiva che la dittatura può utilizzare per espandere i confini nazionali o imperiali del proprio Stato.
Se questa caratteristica di tipo collettivistico non fosse stata presente, sarebbe impossibile capire come la Russia abbia potuto, dopo aver subìto negli anni '30 una decimazione sistematica delle menti più illuminate e di una ingentissima popolazione, vincere la guerra contro il nazi-fascismo.
L'attuale occidente collettivo non riesce neppure a spiegarsi come abbia potuto la Russia riprendersi così in fretta, dopo la catastrofe economica degli anni '90. Non riesce a comprendere l'importanza del "fattore umano". è assurdo infatti pensare che la Russia si sia ripresa solo perché possiede riserve energetiche illimitate e tantissime materie prime. Ci voleva anche il putinismo, che seppe porre un freno all'individualismo senza scrupoli, tipicamente occidentale, degli oligarchi. La leadership perspicace e autorevole di Putin ha a cuore le sorti di un'intera popolazione, a prescindere dall'appartenenza etnico-linguistica, religiosa ecc.
Putin ha creduto sinceramente alle promesse di pacificazione e collaborazione dell'occidente. è stato per un certo tempo convinto che, se avesse offerto condizioni commerciali molto favorevoli all'occidente, sarebbe stato più facile garantire la propria sicurezza strategica o esistenziale.
Oggi invece il putinismo ha sconvolto le ambizioni egemoniche degli USA; ha fatto capire agli europei che non possono continuare a espandersi militarmente verso oriente senza subire delle conseguenze; ha posto le basi geopolitiche per un nuovo ordine mondiale, non più dipendente dal colonialismo occidentale; ha dato speranza e dignità al Sud Globale. Il putinismo dura da 25 anni e il suo carisma non accenna a diminuire. I libri di storia e di politica, soprattutto quelli pubblicati in occidente, dovranno essere riscritti in taluni loro capitoli.
La svolta mondiale del 1929
Col crack borsistico di Wall Street nel 1929, che ebbe ripercussioni su mezzo mondo per circa un decennio, apparve evidente che tutte le affermazioni staliniste relative all'accerchiamento dell'URSS da parte di un capitalismo bellicoso, che giustificava la necessità di avviare una forzata collettivizzazione agraria contro gli agricoltori agiati, e soprattutto un'industrializzazione accelerata (pesante), anche per far fronte a una solida difesa nazionale, erano semplicemente dei pretesti per sostenere una dittatura politica e amministrativa sempre più forte e per eliminare gli avversari politici, tra cui in primis tutti i buchariniani.
Ma questa conclusione ormai è pacifica. Piuttosto sarebbe meglio chiedersi come mai gli USA non scatenarono una guerra contro la Russia, usandola come valvola di sfogo per la loro crisi economico-finanziaria. In fondo l'URSS, essendo comunista, non era stata neppure riconosciuta dai governi americani.
Il motivo di questa riluttanza probabilmente va ricercato nel fatto che gli statisti americani non si sentivano abbastanza sicuri in politica interna. Indubbiamente negli anni '20 la società nordamericana si era molto sviluppata sul piano economico e finanziario, anche grazie al fatto che l'Europa occidentale si era così dissanguata a causa della prima guerra mondiale, che per riprendersi aveva assolutamente bisogno dell'aiuto statunitense. Ma questo non vuol dire che gli USA fossero pronti per compiere una nuova guerra, tanto meno con un gigante come quello russo, che peraltro suscitava molte simpatie nel movimento operaio internazionale. Non solo, ma proprio negli anni successivi al 1929 l'URSS, uscita indenne da quell'imponente crollo finanziario, assorbiva gran parte dell'export americano di macchine utensili e attrezzature tecnologicamente avanzate.
Parlare di "accerchiamento capitalistico" non aveva alcun senso; anzi la Russia fruiva di una certa collaborazione tecnica e produttiva con la Germania e altri Paesi europei. Caso mai era l'URSS che faceva fatica a ricambiare un sostegno del genere, poiché, oggettivamente, disponeva di uno sviluppo economico inferiore.
In occidente l'URSS veniva considerata un'alternativa al capitalismo non tanto perché si avesse un giudizio positivo dello stalinismo, o perché si era convinti che un minor sviluppo economico fosse comunque compensato in Russia da una maggiore giustizia sociale, quanto perché, letteralmente, non si sapeva in quale altra nazione cercare una via d'uscita agli antagonismi del capitalismo occidentale.
Cioè si era già capito che lo stalinismo era una forma di dittatura, non foss'altro perché non permetteva il pluralismo politico. Tuttavia, rispetto alla falsa democrazia borghese, si considerava la dittatura un difetto trascurabile, che col tempo, al cospetto di un maggior benessere per tutti, sarebbe stato risolto. Ovviamente i trockisti la pensavano diversamente, ma qualunque partito comunista o socialista in occidente giudicava il trockismo una forma di estremismo, per cui nessuno si sarebbe appoggiato a questa ideologia per contestare lo stalinismo.
Era invece considerata meno tollerabile la politica stalinista di scristianizzazione, che andava di pari passo con quella della collettivizzazione rurale forzata. Il regime la praticava perché aveva bisogno di derubare le ricchezze della propria popolazione, non certo perché aveva paura dell'influenza della religione sulle masse contadine.
Peraltro tutti in Europa sapevano benissimo che il papato non tuonava contro i bolscevichi per difendere la rivale confessione ortodossa, quanto perché voleva tutelare le proprietà cattoliche in Russia, e soprattutto perché voleva dimostrare che tutti i partiti comunisti erano ideologicamente molto pericolosi.
Senonché in occidente il socialcomunismo non è mai stato così fanatico come quello stalinista, e neppure così sprovveduto. Da un lato infatti faceva capire che la transizione al socialismo sarebbe avvenuta in virtù di un benessere superiore a quello sovietico; dall'altro ci teneva a ribadire che in ogni caso sarebbe stata rispettata la libertà di coscienza nelle questioni di tipo religioso.
Il socialismo impossibile in occidente
Certo è che oggi parlare in occidente di alleanza tra classe operaia e salariati agricoli fa un po' ridere.
Le ragioni sono più di una. Anzitutto l'occidente si sta de-industrializzando in maniera sempre più netta, nel senso che ha delocalizzato i propri asset aziendali in Paesi dove le condizioni per produrre sono assai più convenienti o meno onerose.
Inoltre il capitalismo occidentale preferisce campare di rendita in virtù del proprio potere finanziario e militare. Quello finanziario lo vediamo benissimo in Italia, le cui imprese più significative, pubbliche e private, hanno nei propri consigli di amministrazione gli esponenti dei grandi gruppi finanziari mondiali (in genere statunitensi), come BlackRock, Vanguard e StateStreet, i quali possono disporre liberamente anche delle varie Società di Rating.
Nelle società neoliberiste si vive soprattutto di terziario, di servizi di varia natura, di interessi speculativi, di investimenti borsistici, di gestione dei risparmi privati, di assicurazioni, ecc. La classe operaia è quindi ridotta di molto. Produrre costa troppo, e farlo rispettando le regole del gioco, ancora di più.
Non solo, ma, insieme agli imprenditori, gli operai partecipano allo sfruttamento dei Paesi più deboli del mondo, quelli che hanno bisogno di crediti finanziari o che non sono in grado di difendersi militarmente da soli. Quello occidentale è un proletariato colluso coi poteri dominanti, che lo voglia o no. I sindacati non chiederanno mai agli operai di fare scioperi e manifestazioni rischiando di fargli perdere il posto di lavoro. Anche perché il diritto al lavoro che i sindacati difendono a spada tratta sembra essersi trasformato in diritto ad avere buoni stipendi per gli stessi sindacalisti. Non si vedono mai gli operai protestare quando le loro aziende producono in condizioni gravose per l'ambiente, pericolose per la salute umana, o quando sfornano armi per i Paesi dittatoriali, spesso coinvolti in guerre ingiuste.
Gli stessi operai agricoli in occidente non esistono più, salvo i migranti provenienti dall'Africa. Da tempo il contadino è diventato un coltivatore diretto, padrone del proprio terreno, associato in cooperative che producono per un mercato (locale, nazionale o internazionale). è insomma un agrario capitalista, che, dotato di macchinari costosi, sceglie le monocolture più redditizie, che non ha tanti scrupoli a cambiare quando non lo sono più. è interessato a fare profitti non a soddisfare bisogni. Esattamente come gli imprenditori industriali.
Un agrario del genere non ha rivendicazioni di tipo socialista. Non sarà mai alleato con l'operaio di fabbrica, ma, semmai, in nome del capitale, con gli imprenditori aziendali. Ecco perché realizzare il socialismo con una classe operaia ridotta al minimo, facilmente ricattabile, che può apparire persino privilegiata agli occhi dei disoccupati, costretti a emigrare all'estero per trovare un lavoro, o rispetto ai lavoratori precari, disposti ad accettare qualunque condizione d'impiego, è cosa assolutamente impensabile.
Anzi, in occidente si cerca di smantellare le industrie anche per motivi ecologici, in quanto vengono ritenute le principali responsabili del disastro ambientale e del mutamento climatico. Poi che si cerchi di farlo per favorire le industrie cosiddette "green" al posto delle altre basate sugli idrocarburi, è un altro discorso. Associare la parola "green" a qualcosa di "industriale" è semplicemente un ossimoro. L'unica attività industriale davvero compatibile con l'ambiente era quella primitiva, connessa alla roccia, al legno, al fango, al bambù ecc.
Il socialismo non può più essere un'esigenza del mondo occidentale. Noi abbiamo perso il treno, non l'abbiamo preso al momento opportuno, e adesso il binario è morto. E se anche si dovessero chiamare alla rivoluzione i poveri, i disoccupati, i precari, gli emarginati cronici, gli operai in cassa integrazione, come si autofinanzierebbe la rivoluzione? Dove si troverebbero i soldi per tenere in piedi milioni di persone che vivono di carità? In occidente il socialismo può essere solo un metodo organizzativo del capitale, cioè un sistema di tipo borghese, affine, nel migliore dei casi, allo Stato sociale di tradizione socialdemocratica.
Senonché in questo momento il globalismo neoliberista è più favorevole alle privatizzazioni dei beni pubblici che non al Welfare State. Pertanto non bisogna farsi illusioni. In occidente abbiamo avuto lo Stato sociale al tempo del nazifascismo e, dopo la seconda guerra mondiale, sino alla fine degli anni '70. La borghesia l'aveva costruito perché temeva che il socialismo statale sovietico potesse costituire un modello per la classe operaia occidentale. Gli imprenditori han voluto far vedere che anche noi potevamo costruire qualcosa di "statalizzato" lontanissimo dal comunismo. Dopodiché è subentrato il suo progressivo smantellamento. Il crollo dell'URSS nel 1991 ci ha come rassicurato che il socialismo statale non sarebbe più stato un nostro nemico. E ci siamo illusi, per tutti gli anni '90, che al globalismo occidentale non ci sarebbe stata alcuna alternativa. Oggi invece l'alternativa al nostro capitalismo privato c'è: si chiama capitalismo di stato (in Russia) e socialismo mercantile (in Cina). E più in generale si chiama BRICS, anche se tale organizzazione non può certo essere definita un esempio eloquente di "socialismo democratico".
Quindi, in questo momento, per chi desidera realizzare il socialismo è già molto se a livello internazionale il capitalismo statale prevale su quello privato, nella speranza che ciò possa servire per influire sulle scelte o sulle motivazioni che giocano un ruolo significativo a livello di politica interna. Oggi è già molto se una nazione conserva la propria sovranità economico-finanziaria e politico-militare. Per il resto si può soltanto sperare che nuove idee a favore del socialismo democratico vengano fuori dai Paesi meno industrializzati del mondo, cioè da quei Paesi che non vogliono sentirsi obbligati a produrre per i mercati internazionali, e che se proprio vogliono dotarsi di strutture industriali, lo fanno soltanto per soddisfare esigenze locali o nazionali.
Per quanto riguarda l'occidente, sembra che sia destinato a parlare nuovamente di socialismo solo dopo aver sperimentato il peggio di sé.
Idea, esigenza e prassi del socialismo
Fino al 1941 (anno dell'Operazione Barbarossa scatenata da Hitler) lo stalinismo non considerò mai la Germania più pericolosa di Regno Unito, Francia, Stati Uniti e, in parte, Giappone.59
Fu questo un suo errore madornale: si sottovalutò l'esigenza imperialistica dei tedeschi, e soprattutto il fatto che i nazisti volevano soddisfare tale esigenza proprio ai danni dell'URSS. Si pensò che sarebbero bastati i rapporti di cordiale collaborazione inaugurati col Trattato di Rapallo del 1922, benché una decina d'anni dopo la violenza antioperaia dei nazisti fosse divenuta molto forte.
Quando Stalin cominciò a dire, al XV Congresso del partito, che il 1927 era paragonabile al 1914, intendeva riferirsi alle mire imperialistiche degli inglesi, che però nei confronti dei sovietici erano del tutto insignificanti, poiché in quel momento il Regno Unito non era assolutamente in grado di scatenare un conflitto contro nessuno, anche se aveva rotto le relazioni diplomatiche con l'URSS, in quanto quest'ultima aveva dato un appoggio significativo alla Cina in funzione anticolonialistica.
In realtà Stalin aveva bisogno di ingigantire ad arte un pericolo inesistente per imporre un'industrializzazione e una collettivizzazione agraria a passi forzati, a loro volta strumenti per affermare un dominio assoluto del partito-stato e quindi il culto della sua personalità.
I due aspetti (economico e politico) non vanno mai visti separati, tant'è che quando un decennio dopo lo stalinismo poté constatare il fallimento della sua politica economica, furono scatenate purghe colossali, proprio per impedire che venisse travolta l'intera sua leadership politica.
Da questo punto di vista sostenere che il comunismo è un'utopia irrealizzabile perché, quando comincia ad applicare le teorie marxiste-leniniste, crea solo delle mostruosità, è come sostenere che nelle suddette teorie non vi è nulla di oggettivo, nulla di scientifico. Il che è ridicolo. Persino le teorie nazifasciste contenevano aspetti oggettivamente giusti, come per es. la costruzione di uno Stato sociale (un'idea peraltro presa proprio dal socialismo).
Il fatto che una realizzazione pratica sia inadeguata non implica che la teoria di riferimento sia una mistificazione. Semmai bisognerebbe limitarsi a dire che il socialismo scientifico, sulla base delle sue varie applicazioni, attende delle rettifiche, delle precisazioni di capitale importanza.
L'idea o l'esigenza o la prassi di "comunismo" esiste da sempre, da quando è comparso l'essere umano sulla Terra. Se non vi è una teoria scientifica o specifica adeguata, vi è comunque un'esigenza, un'istanza popolare, che a volte si trasforma in un'esperienza concreta, non senza evidenti errori.
Il fallimento dello stalinismo è strettamente correlato al fallimento del socialismo statale, i cui errori non possono essere corretti. Ma questo non vuol dire che il socialismo democratico non debba attendere nuove realizzazioni pratiche, sulla base, eventualmente, di nuove teorie scientifiche o politiche. Si torna sempre a parlare di socialismo quando le condizioni di vita sono indegne per qualunque esistenza umana. Già adesso è impossibile parlare di socialismo trascurando la questione ambientale.
L'attacco al Comintern
"Chi non è con noi, è contro di noi". Se questa frase attribuita a Gesù Cristo è autentica (ipsissima verba), di sicuro non può essere stata pronunciata mentre il movimento nazareno cercava un consenso popolare o delle alleanze politiche per cacciare i Romani dalla Palestina; al massimo può essere stata detta quand'era in procinto di sferrare l'attacco decisivo con tutte le sue forze a disposizione. Per ogni cosa c'è il suo tempo.
Stalin invece propose quella frase o quell'atteggiamento estremista, in riferimento alla politica estera, durante il XV Congresso del partito, nel 1927, cioè dopo che si erano vinti da un pezzo i controrivoluzionari interni e gli interventisti stranieri.
Sulla base di eventi poco significativi, aveva prospettato un immaginario accerchiamento capitalistico del suo Paese e persino un imminente scoppio rivoluzionario nell'Europa occidentale a favore del socialismo, tali per cui non sarebbe stato necessario allearsi con forze borghesi di tipo socialdemocratico: tutti pretesti per giustificare la sua crescente dittatura.60
Senonché, siccome gli altri leader del Pcus si guardarono bene dal contestarlo, i dirigenti del Comintern furono costretti ad adottare una nuova politica internazionale, molto più ideologica e settaria; una politica che ruppe di netto con quella del "fronte unito", lanciata otto anni prima da Lenin.
A partire dallo stalinismo l'intera socialdemocrazia europea veniva fatta passare per un'espressione moderata del fascismo. I due termini diventavano intercambiabili, sovrapponibili. Un vero operaio di sinistra doveva dimostrare di esserlo iniziando a contestare apertamente i propri dirigenti aziendali. Qui - bisogna ammetterlo - ha ragione Boffa quando scrive che "L'avvento di Hitler al potere in Germania nel gennaio '33 fu la tragica prova dell'insuccesso di tutta la linea prevalsa nel Comintern fra il '28 e il '29" (Storia dell'Unione Sovietica, vol. II, 1928-41, p. 48, o.c.).
Contemporaneamente si arrivò a dire che chi in Russia non capiva questa situazione, era perché stava dalla parte del nemico. E qui il riferimento ai bucharinisti diventava evidente.
Molti importanti dirigenti del Comintern se ne andarono, non condividendo per nulla la svolta autoritaria di Stalin, che non era così astuto da fare molta differenza tra situazione interna ed esterna alla Russia. Probabilmente si rendeva conto che i suoi atteggiamenti dispotici potevano funzionare solo in un Paese culturalmente arretrato e non abituato alla dialettica democratica.
In un certo senso non gli interessava neppure stabilire relazioni diplomatiche con gli Stati capitalisti, a meno che non servissero per esigenze economiche o commerciali; né gli interessava stabilire relazioni politiche con la sinistra europea. Non voleva essere giudicato da nessuno, anche perché, rispetto agli intellettuali europei, si sentiva profondamente provinciale. Anzi la sua vera intenzione era quella di sciogliere il Comintern, o comunque di affidarlo a personalità di minor spicco, facenti capo direttamente a lui. Quanto al resto, doveva imporsi un olimpico isolazionismo.
Si poteva fare di più?
Nel libro citato di Medvedev vi è un aspetto interessante che meriterebbe molti approfondimenti. Ne parla alle pp. 307-16, riguardo all'influenza negativa ch'ebbe lo stalinismo sul movimento comunista internazionale.
La domanda cui ha cercato di rispondere è la seguente: perché il socialismo sparso nel mondo non sa approfittare di tutte le crisi del capitalismo? neppure di quelle più gravi? (Non dimentichiamo che il libro è stato scritto quando ancora esisteva un sistema socialista mondiale.)
Dopodiché fa varie constatazioni: "la crisi senza precedenti che colpì il mondo capitalistico nel 1929-32 non ha creato in alcun Paese una situazione rivoluzionaria" (p. 307). Non solo, ma "in quegli anni di crisi la piccola borghesia, i contadini, perfino una parte della classe operaia non hanno compiuto una svolta a sinistra, quanto piuttosto a destra, offrendo in taluni Paesi, e specialmente in Germania, una base di massa al fascismo" (ib.).
Se poi esaminiamo la guerra civile in Spagna, la riflessione si fa particolarmente amara. Infatti quanto contribuì lo stalinismo al fallimento della resistenza al franchismo nella guerra civile spagnola, non lo sapremo mai. "Con ogni probabilità - scrive l'autore - Stalin uccise assai più partecipanti sovietici alla guerra di Spagna di quanti ne fossero morti in territorio spagnolo sotto le pallottole fasciste" (p. 306). Di sicuro eliminò numerosi esponenti anarchici e socialisti che combattevano contro il franchismo durante la guerra civile.61
Per spiegare queste cose si possono dare più risposte di quelle formulate da Medvedev.
1- Per compiere una rivoluzione comunista non basta una crisi economica del sistema capitalistico. La crisi può essere anche vasta e profonda e di lunga durata, ma senza intelligenza delle cose, organizzazioni di massa, leadership riconosciuta, capacità tattica e strategica, non vi è alcuna certezza che dalla crisi possa sorgere un'alternativa. Anzi, potrebbe emergere una violenta dittatura, con cui il capitale, quando si sente in pericolo o minacciato, difende se stesso.
2- I movimenti comunisti internazionali provavano nei confronti dell'URSS (primo e fino a quel momento unico Paese socialista della storia) un atteggiamento quasi reverenziale, che fino alla destalinizzazione di Krusciov non verrà mai messo in discussione. In Russia lo stalinismo aveva alimentato il culto della personalità, ma all'estero, oltre a questo culto, vi era anche la convinzione che la nazione russa, nel suo insieme, sapeva tener testa, da sola, a tutti i Paesi capitalisti del mondo.
3- Il settarismo e il dogmatismo del Pcus, per non parlare del suo autoritarismo, impedivano ai vari movimenti comunisti di allacciare relazioni utili, sul piano dell'antifascismo, coi partiti che non si riconoscevano nelle organizzazioni comuniste internazionali. Non a caso tutta la socialdemocrazia veniva definita "socialfascista".
Quell'autonomia che il Pcus non riconosceva in politica interna, in quanto ogni cosa doveva essere sommamente centralizzata e quindi gerarchizzata, non poteva ovviamente essere tollerata all'estero. Ecco perché lo stalinismo va considerato co-responsabile dello scoppio della seconda guerra mondiale, benché la causa principale vada addebitata al nazi-fascismo europeo e al militarismo nipponico.
4- Il resoconto delle motivazioni con cui lo stalinismo spiegò le grandi epurazioni di massa e i clamorosi processi contro i dirigenti comunisti e statali, nonché le vastissime persecuzioni contro i contadini ricchi e le minoranze nazionali, non fu mai messo in dubbio dai movimenti o partiti comunisti internazionali. Cioè pur di non voler concedere nulla all'ideologia borghese, si preferì chiudere gli occhi alle violenze più tragiche dello stalinismo e del socialismo statalizzato.
Questo cinico e ipocrita atteggiamento determinò in gran parte il passaggio dalla socialdemocrazia e dal socialismo occidentale al fascismo e al nazismo. Le masse popolari, in non poche nazioni, desideravano un riscatto sociale e pensarono di trovarlo nell'estremismo di destra, che parlava - come si dice - alla "pancia" non alla testa.
Sono molti gli esempi, citati da Medvedev, in cui risulta chiaro che dello stalinismo non si era capito nulla o quasi. E non sono nomi da poco: Lion Feuchtwanger, Joseph E. Davies, Pietro Nenni, Romain Rolland, Bernard Shaw, Berltold Brecht, Hershel D. Meyer… Tutti erano convinti che non sarebbero state possibili in Russia quelle atrocità se dietro non ci fosse stato qualcosa di vero. D'altra parte chi sarebbe disposto ad ammettere che quelle nefandezze venivano compiute proprio in nome della stessa ideologia in cui si credeva? Ancora oggi molti sono convinti che esse facciano parte di una leggenda nera sullo stalinismo.
Cos'è il culto della personalità?
Esiste in occidente il culto della personalità? Diciamo che fino a quando non si sono imposte le idee del socialismo scientifico, è sempre esistito tale culto. La stessa storiografia veniva svolta come una successione di eventi determinati da figure di spicco. La storia era storia politica e militare, non sociale o economica.
Marx arrivò addirittura a dire nel Capitale che persino il capitalista e l'operaio sono soltanto rappresentazioni simboliche di processi strutturali di ben altra portata, incredibilmente complessi.
Sotto questo aspetto il culto della personalità non ha niente che possa risalire a una qualche esperienza socialista. Persino nel socialismo utopistico i veri protagonisti non erano affatto Owen, Fourier, Saint-Simon ecc., ma le comunità autogestite degli operai.
Il culto della personalità è una caratteristica che appartiene, con una differenza sostanziale nell'oggetto da venerare, al mondo schiavistico e borghese. Nel mondo feudale poteva riferirsi o al sovrano o al pontefice, certamente non alle comunità di villaggio o rurali.
Semmai potremmo dire che già nel basso Medioevo l'alleanza tra borghesia e papato era tutta rivolta contro gli imperatori e i feudatari. Il nuovo "dio" da adorare non era più per la borghesia una particolare figura di sovranità fisica o politica (laica o ecclesiastica che fosse), ma una figura astratta: il denaro, o meglio il capitale, cioè il denaro che si autovalorizza.
In oriente è esistito il culto della personalità? Certo, ma più che altro nei periodi bellici, quando si trattava di sconfiggere degli avversari. Si eleggeva un capo provvisorio, cui si prestava assoluta obbedienza; dopodiché, finite le esigenze militari, tornava a trionfare la democrazia tribale.
Solo là dove esistevano dinastie secolari tra i regnanti, e quindi società o imperi di tipo schiavistico, la situazione era diversa. In società del genere (che poi la storiografia ha circoscritto nel termine di "civiltà") il culto della personalità era persino associato alla convinzione che il sovrano regnasse per diritto divino (e il sacerdote era lì per confermarlo).
Naturalmente oggi in occidente, con l'affermazione della democrazia rappresentativa, la situazione è cambiata. Non ha senso il culto per una persona fisica, anche se in Europa le monarchie non sono poche, e le stesse repubbliche presidenziali non sono completamente contrarie a tale culto.
Diciamo che tutti i politici occidentali, e soprattutto gli statisti e i militari, vanno considerati come pedine al servizio del capitale, la cui natura finanziaria oggi tende a prevalere su quella economico-produttiva.
Una personalità specifica, cui rivolgere la propria sottomissione, non ha più senso. Tuttavia questo comporta che nessuno si sente più responsabile di niente. Chiunque può dire che dietro le sue decisioni vi sono interessi così grandi nei confronti dei quali si sente impotente.
Senonché con lo stalinismo la situazione era un po' più complicata. Infatti, essendo la politica a prevalere nettamente sull'economia, il culto della personalità poteva anche risultare effettivo.
L'economia veniva modificata dal governo, come se fosse sul letto di Procuste, e quando i risultati non corrispondevano alle aspettative, scattavano solenni punizioni.
Culto e repressione
A pagina 446 dello Stalinismo Medvedev fa un'osservazione molto importante, che merita d'essere chiosata. "Non è che il culto della personalità debba automaticamente condurre alla repressione di massa… Non tutti gli imperatori elevati alla gloria degli altari, e non tutti i faraoni si rivelarono despoti crudeli e assetati di sangue".
Secondo lui però questo dipende dalla loro "personalità", e qui sbaglia. In realtà è l'esigenza di compiere una repressione che fa nascere, in maniera contestuale e correlata, il culto della personalità. Qualcuno infatti deve assumersi una responsabilità soggettiva. Ma il processo in atto ha una drammaticità terribilmente oggettiva.
I fallimenti di tutti i piani quinquennali erano evidenti a chiunque, ancorché ampiamente mistificati dai dati ufficiali e dalle statistiche. Quasi si rischiava una nuova guerra civile, i cui principali protagonisti sarebbero stati non i possidenti agrari e i capitalisti, ma semplicemente i contadini. Una dura repressione era inevitabile. Qualcuno doveva teorizzarla e farla eseguire senza tanti scrupoli. Il culto pseudo-religioso serviva soltanto per rendere la repressione politicamente accettabile, anche se sul piano etico appariva una bestialità.
Preso in sé e per sé il culto della propria persona non era neppure nelle aspettative di Stalin, che visse sempre senza sfarzo, senza lusso, in maniera relativamente isolata in una qualche dacia non lontana da Mosca. Probabilmente disprezzava anche chi mostrava eccessiva piaggeria nei suoi confronti. Era troppo rozzo, troppo provinciale per usare il culto come una forma di vanità. Si sarebbe reso ridicolo. Sarebbe apparso subito troppo maldestro e impacciato. Lui doveva semplicemente incutere terrore in chi metteva in dubbio la giustezza delle direttive centrali del partito, del governo e dello Stato. Temeva una reazione a catena, se qualcuno avesse disobbedito, una reazione che non avrebbe saputo controllare.
Si circondava di persone mediocri solo perché sapeva bene di essere lui stesso una persona di scarso valore sul piano intellettuale, politico, economico, militare… Stalin eccelleva solo nelle questioni burocratico-amministrative e nella gestione dei servizi segreti. Sapeva tutto di tutti, e tutti potevano, in qualche modo, all'occorrenza, essere ricattati.
Quanto più una persona mostrava capacità o era a conoscenza di cose che, se fossero state rivelate, avrebbero potuto metterlo in cattiva luce, tanto più era nel suo interesse eliminarla, inclusi gli stessi che appartenevano ai servizi segreti. Non ne faceva una questione personale. Semplicemente sapeva che quando ci si immedesima in un ruolo, bisogna essere coerenti con tutto ciò che fa da supporto a quel ruolo.
In ogni caso è anche sbagliato dire che non è il culto della personalità che conduce automaticamente alle repressioni di massa. Non lo farà forse "automaticamente", ma alla bisogna lo farà di sicuro, altrimenti nessuna dittatura avrebbe senso. è vero, ci furono imperatori romani più indulgenti di altri o molto meno repressivi, ma solo perché il cosiddetto "lavoro sporco" era già stato fatto dagli imperatori precedenti. E comunque non c'era imperatore che non facesse qualcosa di molto sgradito per qualcuno. Traiano fu un ottimo imperatore sotto tutti i punti di vista, ma certamente non per i Daci, gli Armeni, gli Assiri ecc.
Se non si ha bisogno d'infierire sulla popolazione, non c'è motivo di farlo. Un dittatore non deve esprimersi in maniera sadica, ma come una sorta di autorevole padre di famiglia. Ogni imperatore sapeva bene che quando si usano le maniere forti, bisogna sempre stare sul chi va là, e non tanto perché una guerra civile può essere facilmente dietro l'angolo, quanto perché si può essere assassinati da qualcuno del proprio entourage che aspira alla medesima carica principesca, o che comunque ha interesse a eliminarlo. Il tasso di mortalità violenta per gli imperatori romani e bizantini nei circa 1.500 anni di storia dell'impero è stato del 62%! Sono quindi le necessità del momento che spingono i dittatori a circondarsi di un'aura sacrale.
In sostanza è anche sbagliato affermare - come fa Medvedev - che "la condotta del leader… dipende dal suo stesso arbitrario volere" (ib.). La grandezza di un duce, soprattutto la sua durata nel tempo, non dipende affatto dalla sua arbitrarietà, ma dalla capacità che ha di rendere "oggettivi" dei processi che non dovrebbero esserlo, in quanto impopolari, anti-democratici, o in linea soltanto con le esigenze di una ristretta minoranza di privilegiati.
Stalinismo e cristianesimo
Quando si esamina lo stalinismo vien voglia di paragonare Lenin a Cristo e Stalin a Pietro. Nel Nuovo Testamento è infatti evidente che Pietro viene presentato come il discepolo che meglio capì il suo maestro e che meglio ne proseguì l'opera.
In realtà l'ideologia petrina fu una grande falsificazione di quella gesuana (si pensi solo all'idea di "resurrezione" con cui si sostituì l'obiettivo dell'"insurrezione nazionale"). L'esegesi laica l'ha dimostrato a sufficienza, precisando anzi che la vera teologia mistificatrice fu quella petro-paolina. Paragonare tuttavia Stalin, così limitato intellettualmente, a quel genio di Paolo di Tarso potrebbe sembrare eccessivo. Basterà quindi dire che Stalin pretese di porsi come il discepolo migliore di Lenin, quello più fidato e concreto, come appunto Luca volle far apparire Pietro nella prima parte degli Atti degli apostoli.
Ci si può però chiedere: come mai l'ideologia staliniana fu smontata in un periodo relativamente breve, dopo la morte di chi l'aveva inventata, mentre quella petro-paolina fruisce ancora di larghissimo consenso?
I motivi non sono facili da individuare. Infatti se guardiamo la violenza esercitata, anche Pietro non ne fu immune (e neppure Paolo). Probabilmente fu lui a eliminare Giuda, e sicuramente fu sempre lui a eliminare Anania e Saffira. Non è da escludere che se Pietro avesse fatto una rivoluzione politica, sostituendosi a un imperatore romano, avrebbe tolto di mezzo molti eretici e dissidenti. Senonché il cristianesimo primitivo scelse di fare pre-politica, nella convinzione che sarebbe sì andato al potere, ma molto più lentamente.
Lo stalinismo invece ereditò una rivoluzione già compiuta, si sentì in dovere di tenerla in piedi secondo il proprio arbitrio, e quando, in nome di questo arbitrio, si accorgeva di ottenere risultati disastrosi, non si faceva scrupolo nell'eliminare fisicamente chi lo contestava.
Lo stalinismo non ha elaborato nessun nuovo concetto positivo, da aggiungere a quelli del leninismo. Semmai ha elaborato delle tesi del tutto negative, con cui ha voluto sconfessare il valore del leninismo. Per lui Lenin era troppo "buono", troppo "ingenuo".
Lo stalinismo fu un'autentica sciagura per l'umanità, proprio perché si era diffuso in un territorio immenso e aveva sotto di sé, intellettualmente plagiati, decine di milioni di persone. Anzi, considerando che fu il primo esempio "storico" di governo del "proletariato", lo stalinismo fu guardato come un vero modello dai partiti comunisti presenti nei Paesi capitalisti, nonché da tutti i Paesi colonizzati dall'occidente.
Per arrivare a livelli d'importanza mondiale, il cristianesimo ebbe bisogno della svolta costantiniana e soprattutto teodosiana. Il cattolicesimo-romano costruì poi lentamente la propria egemonia mondiale, affidandosi a vari imperatori occidentali, da Carlo Magno a Carlo V d'Asburgo.
Tale egemonia chiericale mondiale, basata sulla lentezza, fu sconosciuta allo stalinismo, che invece si compiaceva d'imbastire dei processi-farsa molto veloci, in cui: 1) l'elenco degli imputati veniva sottoscritto da Stalin con una semplice firma; 2) la violenza contro i detenuti per estorcere confessioni falsificate era la regola; 3) la sentenza veniva applicata subito dopo il verdetto.
Si dice che un giorno Stalin volle sapere quante divisioni aveva il Vaticano. Alla luce di come sono andate le cose, la storia ha dimostrato che ne aveva infinitamente di più, anche se in un senso molto diverso.
Religione e stalinismo
L'ultimo paragrafo del cap. IV (pp. 185-92) dello Stalinismo dedicato al culto di Stalin, è piuttosto impressionante. Medvedev non è da prendere sotto gamba. Basterebbe leggere quel capitolo per capire gran parte di un fenomeno non individuale ma collettivo.
L'autore appare convintissimo che l'ascesa dello stalinismo è straordinariamente somigliante a qualcosa di religioso, o meglio, di ecclesiastico. Il partito diventa come una specie di collegio cardinalizio, ove il pontefice ricopre il ruolo del segretario generale, mentre lo Stato è la nuova Chiesa, strutturato sulla base di un'obbedienza gerarchica.
La nuova ideologia si chiama marxismo-leninismo, ma per lo stalinismo era una formalità dovuta al prestigio di Lenin. In realtà avrebbe potuto avere un qualunque altro nome (Berija, per es., non sapeva nulla di marxismo, eppure aveva un potere immenso). L'ateismo scientifico serviva per espropriare tutte le confessioni religiose e controllare meglio la libertà di coscienza. Anche se si predicava la laicità dello Stato, di fatto si sosteneva la sua ateizzazione. E quando uno Stato è ateo, deve per forza esserlo anche la società. Ne sanno qualcosa gli albanesi, dove lo Stato veniva dichiarato ufficialmente ateo, e si finiva in carcere solo perché ci si dichiarava credenti. Bisognerà aspettare Gorbaciov perché in Russia si arrivi a riscrivere il diritto alla libertà di coscienza e di religione.
Con lo stalinismo l'ideologia dei classici del socialismo scientifico subisce una svolta interpretativa, che via via sarà codificata in vari dogmi, di cui il principale è senza dubbio il famigerato Breve corso, cioè Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS, pubblicato nel 1938, che si pretese diventasse la "bibbia" di tutti i comunisti del mondo.
Naturalmente, come nel cristianesimo sono esistiti vari falsi su cui si è costruito un determinato potere clericale (si pensi solo alla famosa Donazione di Costantino), così nello stalinismo sono stati prodotti un'enorme quantità di testi agiografici su Stalin, il cui valore storico è del tutto inesistente. L'idolatria per questo mostro sanguinario doveva avere il carattere di "politica ufficiale del partito".
In un certo lo stalinismo è paragonabile alla separazione del cattolicesimo-romano dall'ortodossia bizantina, in cui si è affermata, da parte del papato, la monarchia infallibile contro la direzione collegiale. In un altro senso è simile alla trasformazione del cristianesimo in religione di Stato, così come avvenne sotto l'impero Teodosio: cosa che determinò il sorgere di molteplici movimenti ereticali e di esperienze monastiche nei deserti del Medioriente.
Insomma Medvedev paragona lo stalinismo a una sorta di nuova ideologia cristiana, per la quale Stalin è il nuovo rappresentante di Dio in terra; anzi, lui è "il dio tuttopotente, che tutto sapeva, che tutto vedeva…", per il quale il socialismo scientifico doveva essere proclamato come "la più religiosa di tutte le religioni".
Quando lo stalinismo parla di "linea di partizione" più netta tra membri del partito e i senza partito, sembra di riascoltare il famoso detto attribuito al vescovo Cipriano: "nulla salus extra ecclesiam". L'obbedienza (che gli stalinisti chiamavano "fedeltà") diventa la prima virtù, nettamente superiore alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità.
Quando Medvedev parla del partito che, nella mentalità degli stalinisti, "non poteva commettere sbagli nel suo insieme", è come se facesse riferimento alle dottrine teologiche che parlano di "Chiesa infallibile" o "indefettibile", capace cioè di giudicare chi vuole e di non essere giudicata da nessuno, e che per questa ragione è destinata a durare sino alla fine dei tempi.
Quando afferma che per gli stalinisti "non dovevano esserci segreti per il partito", sta dicendo le stesse cose degli inquisitori medievali, i quali, infatti, si sentivano autorizzati a usare "ogni crudeltà" per il bene della Chiesa. Bucharin aveva detto chiaramente che gli stalinisti usavano metodi processuali che ricordavano l'inquisizione medievale.
Nei confronti dei fenomeni ereticali l'ordine degli ecclesiastici latini era perentorio: "colpite tutti, Dio riconoscerà i suoi". Anche se questa frase, in sé, può non essere mai stata pronunciata, la prassi era quella: tutte le crociate lo dimostrano. Questo perché la presunzione era quella di colpevolezza e la tortura era obbligatoria: non aveva senso fidarsi delle dichiarazioni spontanee di un eretico né delle sue promesse. Bisognava ricordargli concretamente che con la Chiesa era meglio non scherzare.
Medvedev conclude il capitolo dicendo che "il partito nell'insieme condivise una parte di responsabilità per la creazione del culto della personalità di Stalin" (p. 192). Noi però motiviamo questa definizione come un effetto inevitabile di una più grande distorsione sistemica dell'idea stessa di socialismo. Bisogna che questo giudizio critico nei confronti della statalizzazione dei mezzi produttivi sia chiaro, poiché in futuro non si potrà sperare che lo stalinismo non si ripeta confidando unicamente nella lungimiranza dei soggetti rivoluzionari. Lo stalinismo non è nato perché "qualcuno" l'ha voluto e non morirà solo perché "qualcuno" non lo vuole più.
Ortodossia e stalinismo
Scrive Medvedev: "Stalin sfruttò intelligentemente la passione rivoluzionaria delle masse, il loro odio per i nemici della rivoluzione e il loro basso livello di cultura. I semplicissimi slogan ch'egli lanciò negli anni Trenta - intensificazione della lotta di classe sotto il socialismo e distruzione dei ‘nemici del popolo' - conquistarono la psicologia delle masse, divennero una potente forza materiale in appoggio alla dittatura staliniana" (p. 520, o.c.).
Ora, come si può portare avanti una rivoluzione vittoriosa e la costruzione di un'intera società socialista basandosi sul sentimento dell'"odio"? Per di più in un Paese che da un millennio aveva ingentilito i propri costumi abbracciando la religione cristiano-ortodossa, sicuramente la meno bellicosa delle tre principali correnti cristiane; una religione che sul piano artistico e architettonico aveva offerto mirabili esempi, di rilevanza mondiale; una religione che aveva saputo tener testa, sul piano culturale, alle invasioni tataro-mongola, polacco-lituana, svedese e francese. Non è forse vero che un qualunque governo, per funzionare al meglio, ha bisogno di stabilità e non di odio di classe?
I russi sono sempre andati fieri della loro religione, che ambiva a porsi come strumento di pace e di amore, e che nell'ultimo periodo dello zarismo aveva prodotto grandissimi teologi, paragonabili a quelli del passato impero greco-bizantino.
Certo, la rivoluzione bolscevica non fu condotta in nomi di ideali religiosi. Per Lenin il vertice della cultura religiosa era rappresentato da Tolstoj, pur scomunicato dal patriarcato moscovita dopo la pubblicazione di Resurrezione. Ebbene lo stesso Lenin dimostrò che dopo la rivoluzione del 1905 il tolstoismo non aveva più nulla da dire al popolo russo.
Al massimo potremmo dire che i bolscevichi cercarono di applicare, in chiave laica, gli ideali di libertà e giustizia del cristianesimo primitivo, eliminando i privilegi dovuti allo Stato confessionale, stabilendo un'uguaglianza giuridica tra tutte le confessioni e una separazione tra Stato e Chiese e tra Chiese e scuola statale.
Il bolscevismo, di matrice laica e, per molti aspetti, ateistica, fu un fenomeno urbano appoggiato da contadini per lo più credenti, i quali avevano capito che il loro riscatto sociale poteva essere ottenuto solo in chiave rivoluzionaria, indipendentemente dalla posizione moralistica e paternalistica della Chiesa ortodossa (e di altre confessioni).
Tuttavia è assurdo pensare che i tanti militanti che parteciparono alla rivoluzione avessero una posizione laica del tutto estranea ai valori religiosi dell'ortodossia. Gli stessi stalinisti, nei momenti più critici in cui le armate naziste sembravano avere la meglio, dovettero appellarsi anche allo spirito religioso-nazionale pur di non soccombere. Era una vergognosa strumentalizzazione, è vero, ma sapevano che la stragrande maggioranza del mondo rurale non aveva abbandonato la propria fede religiosa, e che era sulla base di questa che sosteneva il proprio patriottismo, la difesa nazionale dei propri valori.
Tuttavia il problema da risolvere è proprio questo: come ci si può appellare all'odio nei confronti dei propri concittadini o compaesani che professano, nella loro stragrande maggioranza, una religione avente ideali tutt'altro che guerrafondai e violenti? Al massimo si potrebbe capire un odio del genere nei confronti di uno Stato estero. Si fa fatica a credere che nel mondo rurale l'invidia nei confronti dei contadini agiati (i kulaki) potesse trasformarsi in un tale odio da volerli tutti morti.
A ben guardare i contadini poveri e medi cominciarono a provare un odio del genere solo dopo aver subìto la forzata collettivizzazione e dopo aver sperimentato tutte le assurdità dei piani quinquennali. Fu un odio instillato dall'esterno, come rimedio fasullo agli errori macroscopici dello stalinismo, che nessuno al governo voleva ammettere.
Infatti, se c'è una classe incapace di odiare, proprio perché sa bene che è un sentimento del tutto inutile di fronte alle avversità della vita, è proprio quella rurale. L'odio viene provato dagli speculatori, dagli affaristi, dai carrieristi, da chi ambisce ad avere ruoli di comando, non da chi lavora faticosamente la terra, non da chi è abituato a vivere in una dimensione collettiva, in cui l'aiuto reciproco può essere di fondamentale importanza.
Sintomatico che lo stesso Medvedev si sia indotto a fare riferimento, in questo punto della sua analisi storiografica, ai sentimenti religiosi dei contadini, i quali, pur essendo stati convinti a credere che il loro riscatto sociale sarebbe dipeso più da Lenin che non da Gesù Cristo, non per questo erano diventati atei.
A tale proposito l'autore fa un'affermazione molto importante: "la credenza in Stalin può difficilmente venir considerata il risultato dei sentimenti religiosi insoddisfatti dei contadini" (p. 521). Impossibile infatti pensare che lo ritenessero una specie di "dio in terra"; semmai uno che, approfittando della grande popolarità di Lenin, voleva acquisire un potere personale.
Generalmente i contadini nutrono sentimenti di diffidenza verso tutto ciò che risulta esterno al loro ambiente, estraneo alle loro frequentazioni e conoscenze abituali. Questo perché han subìto per secoli soprusi d'ogni genere. La fede religiosa rientra in una tradizione culturale o simbolica che non hanno motivo di mettere seriamente in discussione. Anzi, è un elemento che li tiene aggregati, benché i loro antenati fossero stati costretti a passare dal paganesimo al cristianesimo, in quanto quest'ultima fede favoriva la centralizzazione dei poteri autocratici degli zar.
Medvedev puntualizza un processo storico inequivocabile: "il culto di Stalin non procedette dai villaggi alle città, ma dalle città ai villaggi" (ib.). Questo per dire che, nonostante tutta la loro arretratezza culturale, furono i contadini a opporsi di più al socialismo statale, proprio perché avevano una diversa esperienza del collettivismo rurale.
Erano i bolscevichi a qualificarli come individualisti piccolo-borghesi, e certamente una buona fetta di loro lo era. Ma non erano così fanatici da non capire che un qualsiasi culto della personalità sarebbe stata la loro rovina. Questo difetto molto grave del potere politico l'avevano già sperimentato, in maniera spesso drammatica, proprio sotto lo zarismo, soprattutto quando, parteggiando per gli agrari latifondisti, gli zar li ingannavano sull'abolizione del servaggio, o quando li privavano di braccia lavorative per esigenze militari o imperiali, e naturalmente quando li spogliavano delle loro risorse.
Il culto di Stalin - spiega bene Medvedev - "ebbe origine negli anni Trenta, quando le condizioni nei villaggi da poco collettivizzati erano veramente terribili. Milioni di famiglie contadine erano state deportate al nord e in Siberia" (ib.). Una tragedia, questa, di cui ancora oggi i russi faticano a parlare, tant'è che non hanno mai previsto di dedicare un giorno del calendario alla commemorazione delle vittime dello stalinismo.62
Purtroppo ancora oggi molti ritengono che la vittoria dello stalinismo sul nazismo sia un motivo sufficiente per soprassedere su tutti quegli orrori che vanno ben oltre il mero culto della personalità, denunciato dal rapporto segreto di Krusciov. La sensazione d'essere accerchiati da nazioni ostili, li porta, ancora oggi, a non guardare la realtà con sufficiente obiettività. E non si accorgono che anche questa visione parziale delle cose è un altro frutto della retorica stalinista, quella retorica che non permette loro di accettare che la vittoria sul nazifascismo non dipese affatto dallo stalinismo ma esclusivamente dal popolo sovietico.
Perinde ac cadaver
Supponiamo per un momento che lo stalinismo abbia davvero rappresentato la continuazione più fedele del pensiero di Marx, Engels e Lenin. In fondo lo stesso Stalin si vantava d'essere il quarto teorico del socialismo scientifico. Si fece stampare le opere complete prima ancora di morire, cercando di modificare tutto ciò che poteva apparire incoerente.
Bisogna dire che già questa pretesa di "continuazione" per filo e per segno non ha alcun senso. Se si leggono le opere dei classici del marxismo, ci si accorgerà facilmente che, se si esclude un certo parteggiamento per la causa degli oppressi, non vi è alcuna rigorosa coerenza nello svolgimento delle argomentazioni. Cioè la logica non sta in qualcosa di definito una volta per tutte. Il pensiero di questi classici è in continua evoluzione. Non si può neppure dire che quello della maturità fosse più convincente di quello giovanile. Dipende sempre dai punti di vista, cioè da quale angolo visuale si guarda una certa esposizione argomentativa.
La stessa parola "oppresso" viene estesa da Lenin alle masse contadine prive di proprietà, quando invece in Marx ed Engels rimane circoscritta alla sola classe operaia, in quanto i contadini venivano ritenuti troppo condizionati dai pregiudizi religiosi per poter compiere delle vere rivoluzioni anti-capitalistiche. Solo più tardi, studiando la riforma protestante, Engels capì che anche i contadini potevano essere rivoluzionari (beninteso sotto Thomas Müntzer).
Lenin non ha mai considerato la "coerenza teorica" una virtù, né avrebbe mai approvato che qualcuno smentisse il principio fondamentale del marxismo secondo cui "la prassi è il criterio della verità". Anzi lui stesso diceva che il marxismo era solo "una guida per l'azione", non un dogma.
Questi famosi princìpi non negano l'esistenza di una verità oggettiva; al massimo viene negata una verità "assoluta", in quanto si ritiene che tale verità possa essere solo il prodotto di una storia finita, in sé conclusa. Non esiste una verità valida in ogni tempo e luogo. La verità è sempre relativa a uno specifico contesto, altrimenti si fa una filosofia astratta, che sul piano pratico non serve a niente.
"La prassi è il criterio della verità" è un principio che vuol semplicemente porre una questione di metodo: la verità va cercata nel presente in cui si vive, rapportandosi in maniera concreta, intelligente, costruttiva alla realtà.
Lo stalinismo invece è lontanissimo da questo modo di ragionare: sembra cercare una verità assoluta, cui tutti devono attenersi, senza discutere. In questo atteggiamento sembra comportarsi come una religione.
A dir il vero qualunque posizione ideologica o scientifica che rifiuti di mettere in discussione se stessa, si trasforma, ipso facto, in una religione. In tal senso Stalin sembra rappresentare una sorta di papa laico infallibile, che parla "ex cathedra", le cui parole sono valide "ex sese", senza ulteriore conferma collegiale.
Ma vogliamo spingerci ancora più in là. Supponiamo ch'egli su qualunque cosa, teorica e pratica, avesse effettivamente ragione, magari perché era più informato di tutti gli altri leader. Supponiamo ch'egli avesse una lungimiranza tale da oscurare l'intelligenza di chiunque altro. Chiediamoci: non è una contraddizione in termini che chi ha ragione, sia autorizzato a eliminare tutti quelli che hanno torto? Una verità che s'imponesse in questa maniera, sconfesserebbe inevitabilmente se stessa, sarebbe automaticamente una menzogna.
Una prova eloquente della falsità dello stalinismo sta proprio nel suo modo di esprimersi, che è, nonostante la sua semplicità formale (stilistica), sommamente dogmatico e autoritario. Stalin era abituato a far passare per un incapace qualunque persona dissentisse da lui.
Come abbia potuto un soggetto del genere restare al potere sino alla sua morte è una cosa riscontrabile nell'Europa occidentale esclusivamente nel papato. Le altre monarchie infatti non hanno alcuna pretesa ideologica.
Dove, se non nella Chiesa romana il principio dell'obbedienza (e quindi della fedeltà al proprio superiore gerarchico) è la base fondamentale dell'intera costruzione autoritaria? La verità non è il frutto di una ricerca collegiale, che resta "oggettiva" finché non viene smentita o rettificata successivamente, ma è il frutto di un atteggiamento gesuitico ben noto, riassumibile nel motto iperbolico: perinde ac cadaver, cioè occorre sottomettersi alla volontà dei superiori, rinunciando del tutto alla propria personalità, come se si fosse appunto già morti.
Da notare che per questa Chiesa il fatto che, col passare del tempo, i dogmi finiscano col contraddirsi l'un l'altro, viene considerato del tutto irrilevante. Ciò che più conta, infatti, è la conservazione del potere, e in questo bisogna convenire che Stalin avesse una certa abilità.
Cultura, religione e socialismo
Non deve apparire strano che uno storico come Medvedev, che sicuramente ha moltissime qualità, a volte non colga sino in fondo la portata di talune affermazioni che cita. Anzi è normale che tanti intellettuali si comportino così. L'importante è che non usino le frasi altrui per sostenere il contrario delle intenzioni dei loro autori.
Prendiamo per es. questa affermazione di Lenin, citata a p. 523: "Se è necessario per la nascita del socialismo un certo livello culturale (per quanto nessuno possa dire esattamente di che tipo debba essere questo ‘livello culturale', vista la differenza esistente fra ogni paese dell'Europa occidentale), perché mai non potremmo cominciare dall'inizio, conquistando le precondizioni di questo livello attraverso la rivoluzione…?".
Medvedev usa questa citazione per sostenere la sua solita tesi, secondo cui lo stalinismo riuscì ad affermarsi a causa dell'ignoranza, della mancanza di educazione e cultura della popolazione russa, o meglio, sovietica. Non s'accorge che, così dicendo, smentisce proprio quanto sosteneva Lenin, il quale non aveva difficoltà ad ammettere che la cultura avrebbe potuto formarsi anche "dopo" la rivoluzione, togliendo il potere politico ed economico alle classi sfruttatrici.
In realtà Lenin non voleva dire solo questo. Da un lato, infatti, aveva fatto capire che non era possibile stabilire un livello "standard" di cultura, in quanto vi erano notevoli differenze tra gli Stati europei, per cui nessuno di loro, in definitiva, poteva essere preso come punto di riferimento per i militanti comunisti russi. Dall'altro era in grado di trarre, da tale constatazione, una conseguenza sconcertante (ma non per questo illogica) per l'intellighenzia socialista occidentale: una rivoluzione politica avrebbe potuto tranquillamente porre le "precondizioni" per un progresso culturale generalizzato, in grado di coinvolgere l'intera società.
In pratica era come se avesse sostenuto che un livello culturale elevato non è di per sé garanzia certa che una nazione capitalistica riesca a compiere una transizione politica al socialismo. Infatti nessuna riuscì a farla prima della Russia.
Tuttavia Lenin aveva dovuto fare una concessione a chi sosteneva che in Russia una rivoluzione politica, priva di basi culturali solide e ben diffuse, sarebbe durata poco. Di qui la frase: "è necessario per la nascita del socialismo un certo livello culturale". Altrove aveva però detto: se da noi è facile iniziare una rivoluzione e difficile conservarla, da voi è il contrario: difficile iniziarla (a causa della grande corruzione) e facile conservarla (a causa del livello culturale elevato). Ma queste erano considerazioni astratte, generiche e, in fondo, diplomatiche, utili per invogliare i socialisti europei a non disperare, a non avvilirsi se si erano limitati fino a quel punto alla sola Comune di Parigi.
In realtà oggi avrebbe dovuto dire un'altra cosa ancora, e cioè che per realizzare il socialismo democratico non è indispensabile alcun particolare livello culturale, e che è quanto meno arbitrario sostenere che il socialismo può reggersi in piedi solo grazie a una cultura solida e ben diffusa.
Certo, se uno pensa che nessun socialismo sia possibile senza la presenza di una robusta industrializzazione, senza una forte urbanizzazione, senza una rivoluzione tecnico-scientifica, allora il discorso è già chiuso, in quanto è evidente che a queste condizioni la cultura diventa indispensabile.
Ma qui bisogna intendersi sul significato della parola "cultura", che non può certo coincidere con quello di "istruzione scolastica o universitaria o enciclopedica" o di "conoscenza scientifica, specialistica, laboratoriale": anche una trasmissione orale della conoscenza ancestrale, sperimentata dall'esperienza delle generazioni, fa parte della cultura.
Non solo, ma bisogna intendersi anche sul significato della parola "socialismo": cosa che purtroppo Medvedev non è in grado di fare in maniera approfondita. Socialismo vuol dire ovviamente "collettivismo", ma il collettivismo non implica necessariamente l'industrializzazione, altrimenti dovremmo classificare come "utopistici" tutti i tentativi che nel passato preindustriale erano stati fatti per realizzare la giustizia sociale.
Il genere umano appartiene a un processo storico in cui, pur cambiando gli aspetti esteriori dell'esistenza, le esigenze di una vera emancipazione umana, sono fondamentalmente le stesse. Avremmo una bella pretesa a giudicare il passato solo perché viviamo nel presente!
Certo i bolscevichi - nessuno escluso - erano convinti che, senza una forte industrializzazione e urbanizzazione, il socialismo non sarebbe sopravvissuto. Oggi però bisogna pensarla diversamente, anche alla luce degli effetti sconvolgenti sull'ambiente da parte della moderna tecnologia. Non ha più senso tentare di costruire il socialismo temendo che, senza industrializzazione, si verrebbe sconfitti dal capitalismo. Se si pensa questo, se si vive con questa ansia, inevitabilmente si sarà disposti ad accettare qualunque prezzo pur di realizzare il nostro obiettivo politico. E questo è profondamente sbagliato, poiché si viene a negare al socialismo la sua fondamentale componente umana e democratica.
Il socialismo è sì un'alternativa al capitalismo, ma non a tutti i costi. Nel realizzarlo si può lottare strenuamente contro chi cerca di ostacolarlo con la forza, ma non si può farlo dimenticando che la democrazia è una componente centrale per la sua legittimazione. Non si può aver ragione à tout prix.
Le masse popolari devono essere chiaramente consapevoli che, se non restano "umane", qualunque obiettivo politico perde di significato, si snatura. Peraltro noi umani siamo figli dell'universo, siamo destinati a popolarlo, e dobbiamo cercare di farlo nel migliore dei modi, rispettando le nostre caratteristiche umane e naturali. Non possiamo pensare di vivere solo nella dimensione terrena, proprio perché questo ci potrebbe portare, per realizzare le nostre esigenze di libertà e giustizia, a fare delle cose di cui potremmo pentirci amaramente.
Culto della personalità e socialismo statale
Sul culto della personalità di Stalin Medvedev, a pag. 527 del suo libro, fa la seguente cronologia: cominciò verso la metà degli anni '20; raggiunse il livello di un culto para-religioso agli inizi dei '30; toccò la sua forma definitiva in seguito alle repressioni del 1936-38. Poi nell'ultimo capitolo del libro affronta gli ultimi 15 anni della dittatura staliniana (1939-53), in cui il culto non trovò nessunissimo ostacolo.
Stranamente però sostiene una tesi che non ha molto senso: "Il culto di Stalin e le sue conseguenze non furono parte essenziale della società socialista - al contrario, segnarono un momento di completa contraddizione coi suoi princìpi…" (ib.). Davvero un solo "momento"? Davvero "una completa contraddizione"?
In nota offre un'ulteriore spiegazione: "Se noi ci rifiutiamo di definire questo periodo [la fine degli anni '30] come quello del culto di Stalin, e parliamo soltanto del periodo di costruzione del socialismo, potrebbe sembrare che le repressioni di massa contro il popolo sovietico siano state uno degli elementi di successo di questo periodo di intensa costruzione del socialismo. In realtà le repressioni di massa furono soltanto di ostacolo alla costruzione del socialismo" (ib.).
Con ciò riporta una tesi comune a vari storici e filosofi sovietici degli anni '60, che però è una spiegazione che non spiega nulla.
La dura realtà purtroppo è un'altra: il culto di Stalin iniziò praticamente nel momento stesso in cui i bolscevichi, che avevano fatto la rivoluzione, rifiutarono di applicare alla lettera la richiesta di Lenin, espressa nel suo Testamento politico, di rimuovere Stalin dalla carica di segretario generale del partito. E finì con la morte dell'URSS nel 1991, cui seguì, con El'cin, la nascita del capitalismo privato, durato sino alla bancarotta del Paese e alle dimissioni dello stesso El'cin, che scelse come suo successore Putin, il quale inaugurò una forma di capitalismo controllato dallo Stato. Dal 1991 ad oggi non si è più parlato di stalinismo, ma neanche di socialismo statale né di socialismo in generale.
I due "momenti" in cui si cercò di togliere di mezzo lo stalinismo, salvaguardando, in qualche modo, l'idea di fondo del socialismo statale (la cui gestione andava comunque decentralizzata), furono quelli di Krusciov e di Gorbaciov, i quali però ebbero un periodo di governo durato troppo poco per segnare una svolta significativa.
Tuttavia la tesi più sbagliata di Medvedev è un'altra, quella che difficilmente uno storico arriverebbe ad accettare: lo stalinismo non fu un "intralcio" al socialismo statale, ma una delle sue inevitabili espressioni ideologiche e politiche, forse la più consona, la più coerente. Infatti socialismo statale e stalinismo sono un unico pacchetto inscindibile (almeno così è stato storicamente nell'ambito della società sovietica dell'URSS; in Cina al posto dello stalinismo vi fu il maoismo, ma ci si potrebbe riferire anche a qualunque Paese del Patto di Varsavia, alla Corea del Nord, e così via).
Medvedev vuole sostenere che, senza stalinismo, il socialismo statale si sarebbe espresso in forma democratica. In realtà l'esigenza di una dittatura era già insita in questo stesso sistema sociale. Anzi, considerando che nei confronti dello stalinismo non vi fu un'opposizione efficace (come quella nei confronti del trockismo, di cui peraltro lo stalinismo ereditò molte tesi), allora bisogna arrivare a dire che, a conti fatti, proprio lo stalinismo fu l'espressione ideologica e politica più adeguata alla costruzione del socialismo statale, sicché la rinuncia all'uno doveva comportare necessariamente la rinuncia all'altro, come una pentola col suo coperchio. Quindi, come dal socialismo statale non possiamo ricavare alcuna esperienza per realizzare il socialismo democratico, così neanche una parola dell'ideologia stalinista può essere utilizzata.
La gran parte della popolazione dell'attuale Federazione Russa, rinunciando al socialismo statale, ha smesso di riferirsi allo stalinismo. Purtroppo però, come non è riuscita a trovare un'alternativa al socialismo statale restando nell'ambito del socialismo (gli unici che tentarono di farlo furono Krusciov e Gorbaciov), così non è riuscita a trovare una vera alternativa allo stalinismo, se non tornando al nazionalismo religioso anteriore alla rivoluzione bolscevica. L'attuale capitalismo statale non ha nulla del socialismo statale né dello stalinismo, ma non può certo essere definito un'esperienza di socialismo democratico.
Se queste tesi sono vere, un qualunque libro sullo stalinismo va necessariamente riscritto, e non in alcune sue parti ma nell'insieme. Infatti deve partire dal ruolo dell'industrializzazione, la quale, per realizzare il socialismo, non era affatto indispensabile. Se fosse passato l'assunto della sua irrilevanza, non ci sarebbe stato uno stalinismo così come l'abbiamo conosciuto, né le repressioni di massa, e tanto meno la forzata collettivizzazione agricola e gli assurdi piani quinquennali. Al massimo avrebbe potuto crearsi un'industria da utilizzare per difendersi da eventuali nemici esterni alla nazione, intenzionati a occuparla e colonizzarla. Se avesse dovuto esserci una industrializzazione civile, sarebbe dovuta andare in parallelo alle richieste particolari, concrete, circostanziate della popolazione: non avrebbe dovuto avere la pretesa d'imporsi forzosamente su tutta la società.
Gli errori del bolscevismo stalinista furono così gravi che, quando El'cin mise fuorilegge il Pcus, pochi vi si opposero. L'affermazione di Medvedev, secondo cui al tempo di Stalin "il partito fu dissanguato ma non ucciso" (p. 528), diventa sommamente ambigua. Infatti con essa si rischia di giustificare, almeno in parte, lo stesso stalinismo, proprio in quanto si tende a considerare il socialismo statale una realtà più potente di quella stessa ideologia sanguinaria.
Tuttavia non vogliamo infierire su Medvedev, poiché ci è stato di grande aiuto nel capire un fenomeno dittatoriale così complesso. Ci limiteremo soltanto a dire che il libro è datato, anche perché scritto quando ancora il socialismo statale esisteva e si pensava che con la destalinizzazione Kruscioviana sarebbe potuto migliorare di molto.
Oggi il partito neo-comunista di Zjuganov non è che un ritrovo di nostalgici e di persone marginali, che contano, per sopravvivere, sull'assistenzialismo statale. Gli errori e gli orrori di un sistema dispotico non si risolvono cambiando le persone: lo diceva Lenin in riferimento allo zarismo; non si capisce perché non dovrebbe essere vero nei confronti del socialismo statale. Noi non abbiamo bisogno anzitutto di persone "normali", ma di un sistema in cui non sorgano persone "alienate".
La questione del tradimento politico
Il peggior tradimento del Cristo ateo e politico fu sicuramente quello del cristianesimo petro-paolino, come il peggior tradimento del socialismo leninista fu quello dello stalinismo.
Secondo l'economista sovietico L. El'konin, citato a pag. 665 da Medvedev, lo stalinismo "fu un servizio reso al capitalismo mondiale, quale nessun altro nemico del socialismo riuscì mai a condurre a termine". Chissà perché i peggiori nemici della verità si formano all'interno della stessa verità.
Lo stesso si potrebbe dire del cristianesimo nei confronti dello schiavismo. La condizione dello schiavo fu edulcorata assicurando da subito una grande libertà a livello di coscienza personale, in virtù della fede, mentre la libertà fisica o sociale veniva garantita definitivamente in una dimensione ultraterrena. Lo schiavo doveva solo avere un po' di pazienza, mentre allo schiavista si minacciavano le pene dell'inferno eterno se avesse infierito contro di lui.
Che poi il cattolicesimo e il protestantesimo fecero un grande "servizio" anche al sorgere del feudalesimo, l'uno, e del capitalismo, l'altro.
Diciamo che, mettendo sul piatto della bilancia i due tipi di tradimento che Gesù Cristo dovette subire, da vivo e da morto, probabilmente il più grave fu quello del cristianesimo. Infatti quello del giudaismo fu localizzato in maniera geografica (nazionalistica), nel senso che comportò la distruzione dello Stato d'Israele (che quella volta coincideva con Giudea e Galilea, in quanto la Samaria veniva considerata eretica); il quale Stato poté essere ricostituito solo nel 1948, cioè circa 1900 anni dopo. E poté essere fatto nella maniera più assurda possibile, espropriando pezzi di territorio sempre maggiori alla popolazione preesistente. Sicché oggi equiparare sionismo e giudaismo è impossibile, in quanto il sionismo è chiaramente una forma di fascismo religioso, che con l'ebraismo biblico (soprattutto quello profetico) non ha molto a che vedere.
Tuttavia col cristianesimo fu peggio, poiché la falsificazione etico-spiritualistica coinvolse il mondo intero e, prima di capire che il vangeli (canonici o apocrifi non fa molta differenza) sono pieni di tantissime mistificazioni, sono occorsi circa 17-18 secoli (il primo a rendersene conto fu, senza farlo sapere, H. S. Reimarus, che morì nel 1768). E questa scoperta fu acquisita soltanto dal ceto intellettuale più progressista e solo nei Paesi culturalmente più avanzati. Ancora oggi coloro che si definiscono "credenti" non capiscono assolutamente nulla del vero Cristo (il che non li rende, beninteso, peggiori degli atei).
Tale falsificazione etico-spiritualistica, ereditata dall'occidente collettivo in nome della democrazia rappresentativa e dei diritti umani, sembra in procinto di esplodere a livello mondiale. Ma in attesa che ciò avvenga, quale può essere il destino del socialismo? Sembrava che quello realizzato in Russia dovesse dimostrare come andava interpretato il Cristo ateo e sovversivo. Invece anche quella esperienza è stata totalmente fallimentare, proprio come quella del Cristo, tradito sia dagli ebrei che dai cristiani.
I fatti han dimostrato che la verità non riesce ad affermarsi se prima non viene tradita, e purtroppo questi tradimenti durano un tempo lunghissimo, limitandosi a cambiare pelle come un serpente. Su questa Terra chi ha subìto un tradimento non trova alcuna soddisfazione, alcun riscatto.
A rincuorarci sul destino del socialismo (e quindi sul recupero della vera identità del Cristo) possiamo pensare che, prima o poi, la verità viene sempre a galla. Certo, la verità storica non ha alcuna fretta. Tuttavia la storia che viviamo su questo pianeta va messa in relazione a una storia di ben altra portata o proporzione, una storia di tipo universale, una storia che in realtà è senza tempo, in quanto eterna.
è importante convincersi di questa infinità (una convinzione che avevano tutti gli uomini primitivi), poiché niente andrà perduto e tutto dovrà essere risolto.
Concludendo: lo stalinismo è stato una mistificazione del socialismo? Sì, senza dubbio. è in grado di ripresentarsi nelle stesse modalità? No. Semmai può riproporsi in forme e modi diversi. Nella storia non c'è nulla di esattamente uguale. Questo è normale, poiché siamo in perenne evoluzione. La figura geometrica con cui rappresentare la storia umana non è una retta né una circonferenza ma una spirale.
Ogni mistificazione è destinata, prima o poi, a essere smascherata? Indubbiamente sì: che sia su questo pianeta o altrove non ha alcuna importanza. Nessuno può sfuggire alla verità storica e ognuno dovrà rendere conto degli errori compiuti che hanno impedito di prendere piena consapevolezza di quella verità.
La fine
L'ultimo Stalin raggiunse un livello di paranoia spaventoso. Non si fidava più di nessuno e viveva nel massimo isolamento. Lui, ch'era stato un campione nel terrorizzare gli altri, temeva che lo facessero fuori.
O forse sarebbe meglio dire che la vittoria sul nazismo gli pesava più che non la sconfitta. Infatti se avesse perso la guerra, avrebbe avuto un motivo in più per continuare a infierire sulla sua popolazione. Invece, avendola vinta, tutti si aspettavano che la morsa dittatoriale si sarebbe allentata.
Tuttavia uno stalinista non può democratizzarsi, neanche quando le circostanze dovrebbero essergli favorevoli; e queste vennero solo dopo la sua morte, col rapporto di Krusciov al XX Congresso del Pcus nel 1956, che lo si volle tenere segreto proprio perché si sapeva che una qualunque critica del principale leader dello stalinismo avrebbe potuto comportare un effetto domino su tutti gli altri, anzi sull'intero sistema del cosiddetto "socialismo reale", che poi crollò non tanto per la denuncia del culto della personalità, ma semplicemente perché era insostenibile sul piano socio-economico.
Stalin morì odiando tutti, perché sapeva che la stragrande maggioranza degli abitanti del suo Paese avevano dei conti da regolare con lui, non foss'altro perché semplicemente imparentati con quelli che lui aveva eliminato nei gulag, nei processi o in guerra. Stalin poteva essere amato solo da chi, non possedendo materialmente nulla, era riuscito a ottenere qualcosa col sistema mostruoso che lo stalinismo aveva creato.
La paranoia aumentò non solo per motivi interni, ma anche esterni. Stalin si sentiva tradito dagli anglo-americani: non aveva ottenuto le riparazioni belliche che chiedeva; si era pentito d'aver concesso ai sionisti, nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU, la possibilità di edificare uno Stato autonomo in Palestina, poiché aveva capito che il riferimento dei sionisti al socialismo era puramente formale; era stato costretto a porre le basi di quello che nel 1961 verrà chiamato "Muro di Berlino", poiché i Paesi occidentali, che avevano vinto la guerra, volevano dimostrare di poter vincere anche la pace col consumismo (cosa che il socialismo statale non poteva assolutamente fare); temeva enormemente lo sviluppo delle armi nucleari da parte degli USA, tant'è che aveva capito che col discorso guerrafondaio di Churchill a Fulton nel 1946 una nuova guerra sarebbe potuta scoppiare in qualunque momento contro il suo Paese; si sentiva costretto a usare il pugno di ferro coi nuovi Paesi europei finiti sotto l'orbita sovietica, poiché sapeva bene di non avere gli strumenti economico-finanziari degli americani nel gestire la ricostruzione dei Paesi europei appena usciti dalla guerra: la stessa URSS avrebbe avuto bisogno di un "Piano Marshall"; e soprattutto Stalin non sopportava che Tito potesse costruire in Jugoslavia un'economia socialista in maniera diversa da quella statalizzata dell'URSS, tant'è che più volte cercò di farlo fuori.
Insomma, mentre l'ultimo Lenin era diventato quanto mai acuto e lungimirante, proprio perché aveva capito che fare una rivoluzione e costruire il socialismo erano due cose molto diverse; Stalin invece era la persona più abietta e spregevole, da frequentare il meno possibile. Lo stesso Medvedev lo dice nella conclusione del suo libro: "Discutere con Stalin, mettere in dubbio una qualsiasi delle sue idee, equivaleva al suicidio" (p. 671). Persino al suo funerale furono in molti a rimetterci la vita a causa di incidenti fortuiti, dovuti al fanatismo del culto "para-religioso" che gli tributavano. Disperati per la morte di un uomo che aveva costruito l'impero più dittatoriale della storia… Quanta ingenuità uccise i russi!
Questioni militari
Patti tra diavoli
Uno statista che, in quattro anni di guerra convenzionale (giugno 1941 - aprile 1945), condotta, più o meno, ad armi pari, con un numero equivalente di forze umane e materiali in campo, perde circa 27 milioni di propri concittadini (tra civili e militari), non può essere considerato un grande condottiero, uno stratega formidabile.
L'URSS non ha vinto il nazismo grazie a Stalin, ma nonostante lui, nonostante lo stalinismo e il socialismo statale. E se qualche generale ha scritto le sue memorie mentre lui era ancora vivo, o mentre era ancora in vigore il suo regime, di sicuro quelle memorie hanno subìto una qualche forma di autocensura.
Giuseppe Boffa, ch'era a favore del socialismo statale ma detestava lo stalinismo, scrisse che Stalin "ripose troppa fiducia nel suo trattato con Hitler" (p. 11, vol. 3, o.c.), quel trattato che gli aveva permesso di riprendersi i territori che la Polonia aveva strappato all'URSS nel 1921, e di ristabilire una propria presenza armata nei Paesi Baltici.
Il Patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939, della durata decennale) aveva anche dei protocolli annessi, destinati alla segretezza: furono resi noti dalla Russia solo al tempo di Gorbaciov.63 Ebbene, non solo il Patto in sé, ma anche gli stessi protocolli lasciano pensare che sarebbe stato meglio non firmare assolutamente nulla, proprio perché i contraenti s'impegnavano a non aggredirsi reciprocamente, a non appoggiare potenze terze in azioni offensive, e a non entrare in coalizioni rivolte contro uno dei contraenti. Praticamente i russi davano ai tedeschi carta bianca per occupare parte della Polonia e riprendersi il corridoio di Danzica per ricongiungersi alla Prussia orientale. Il che avrebbe inevitabilmente scatenato la guerra mondiale, anche perché il 16 marzo 1939 Hitler aveva già occupato l'intera Cecoslovacchia.
Va comunque detto che la Russia, pur avendo stanziato nel 1941 per la difesa ben il 43,4% del PIL - come afferma Volkogonov nel suo libro (p. 385) - era in quel momento debolissima, in quanto lo stalinismo, con le sue epurazioni sconvolgenti, aveva praticamente eliminato quasi tutto il proprio Stato Maggiore e i maggiori esponenti del Pcus e tutti quei dirigenti statali che avrebbero potuto dimostrare il fallimento dei piani quinquennali.
Il Patto fece apparire l'URSS come un'opportunista, come una nazione che aveva privilegiato anzitutto la propria sicurezza. Indubbiamente stabilire dei trattati militari con Francia, Inghilterra, Polonia e la stessa Cecoslovacchia si era rivelato praticamente impossibile, poiché l'anticomunismo prevaleva su tutto. Ma questo non vuol dire che la Russia dovesse sentirsi indotta a firmare un accordo con una potenza chiaramente antidemocratica e anticomunista come la Germania.
Se lo stalinismo, dopo aver sterminato il fior fiore del proprio Stato Maggiore e milioni di persone insofferenti alla collettivizzazione forzata in agricoltura e alla politica altamente discriminatoria e colonialistica praticata nei confronti delle tante etnie e nazionalità, si sentiva così debole da non poter affrontare alcun conflitto bellico, avrebbe dovuto trovare una soluzione all'interno di sé, senza far pesare sulla coscienza del movimento comunista mondiale una decisione difficilmente spiegabile.
Per evitare di essere trascinata in un conflitto europeo o per potersi dichiarare neutrale di fronte ai tentativi espansionistici della Germania nazista, già ben evidenti nei rapporti con Austria e Cecoslovacchia (senza trascurare gli intenti delineati nel Mein Kampf), la Russia non aveva bisogno di firmare un trattato che l'avrebbe fatta apparire, agli occhi del mondo, come una corresponsabile delle cause che scatenarono la guerra.64
Semmai era Hitler che, una volta occupata la Polonia, aveva bisogno della neutralità dell'URSS, in quanto sapeva bene che Francia e Inghilterra gli avrebbero dichiarato guerra, e per lui sostenere due fronti contemporaneamente (come nella prima guerra mondiale) sarebbe stata una follia.
Stalin non era tenuto a dare questa assicurazione a Hitler. Anzi, se la Polonia avesse chiesto aiuto all'URSS, questa avrebbe dovuto sentirsi in dovere d'intervenire, proprio perché avrebbe potuto legittimamente pensare che i nazisti volessero occupare anche i Paesi Baltici, quelli Scandinavi e, in fondo, Russia, Bielorussia e Ucraina. Firmando quel Patto è stato come se Stalin avesse pensato d'aver fatto un dispetto a Francia e Inghilterra. Cioè come se avesse voluto far vedere che credeva di più nelle rivendicazioni e nella parola dei nazisti che non nei trattati di Versailles (che indubbiamente erano stati iniqui nei confronti dei tedeschi).
Qui ci si può chiedere: Stalin ha davvero creduto che con quel Patto Hitler gli sarebbe stato così riconoscente da limitare i propri obiettivi nel cercare di spogliare Francia e Inghilterra dei loro imperi? Se queste erano le sue aspettative, doveva essere molto ingenuo, poiché la Germania non sarebbe mai stata in grado di realizzare un progetto così ambizioso: le sarebbe stato più facile occupare la Russia, che riteneva molto più debole. Come poteva Stalin pensare che un dittatore indiscusso come Hitler si potesse accordare con un dittatore come lui, che per restare al governo doveva sterminare milioni di persone del proprio stesso Paese? Quant'era a digiuno di democrazia per fidarsi di un mostro come Hitler e per guardarlo con ammirazione! Cosa pensava, che le due dittature avrebbero potuto andare d'accordo sulla base di una denuncia della formale democrazia borghese?
Il Patto Molotov-Ribbentrop
Sul Patto Molotov-Ribbentrop ha ragione Medvedev nel sostenere che Francia e Regno Unito conducevano i negoziati "in modo da farli fallire" (p. 534, o.c.). Ma che bisogno avevano quei due Paesi di fare un accordo con lo stalinismo? In quel momento agli occhi del capitalismo europeo sembrava molto più pericoloso il socialismo statale sovietico che non il capitalismo statale nazista.
Certo, Hitler poteva far paura perché si opponeva alle risoluzioni della Conferenza di Versailles, e anche perché aveva preteso di unificare l'Austria e i Sudeti cecoslovacchi al Reich tedesco, e forse anche perché cominciava a rivendicare la Prussia orientale. Ma cerchiamo d'essere obiettivi: in Austria molta parte della popolazione era favorevole all'Anschluss e tutta la minoranza tedesca dei Sudeti non vedeva l'ora di far parte della Germania. Quanto all'antisemitismo, a chi importava? Neanche al Vaticano, che fino al 1962 usava nelle sue funzioni religiose l'espressione "Oremus et pro perfidis Judaeis". Nessuno si opponeva all'idea sionista di costituire uno Stato ebraico in Palestina.
L'unica cosa che poteva risultare piuttosto preoccupante era la richiesta di Hitler di riavere la Prussia orientale, ch'era stata staccata dalla Germania in quella suddetta vergognosa Conferenza. Ciò evidentemente avrebbe comportato, di fronte all'inevitabile rifiuto della Polonia, che si sentiva protetta da Francia e Regno Unito, la fine del cosiddetto "corridoio di Danzica", che permetteva ai polacchi di affacciarsi sul mare. In pratica la Polonia era destinata a diventare una colonia di una potenza continentale, che, una volta riunificati tutti i tedeschi, sarebbe stata grande come la Prussia del secolo prima.
Certo, nel 1939 si poteva pensare che difficilmente Hitler avrebbe potuto dichiarare guerra alla Polonia, senza rischiare d'essere attaccato sia da oriente che da occidente. Qualunque Stato Maggiore sa benissimo che sostenere due fronti contemporaneamente è sempre altamente pericoloso. Ecco perché si rimase stupefatti nel vedere la stipulazione del Patto decennale di non aggressione tra Russia e Germania. Praticamente a quel Patto si fa risalire l'inizio della seconda guerra mondiale.
Tuttavia una guerra non scoppia mai all'improvviso. Indubbiamente lo stalinismo era visto come una dittatura pericolosa per l'occidente, anche se il suo estremismo ideologico e autoritarismo politico tornavano comodo ai circoli imperialisti per sostenere che il capitalismo, nonostante i suoi difetti, era mille volte meglio del socialismo. In fondo fu proprio per colpa dello stalinismo che in Europa non si riuscì a formare un fronte unico contro il nazifascismo.
A ciò si possono aggiungere altre due cose: anzitutto non si vedeva il fascismo così pericoloso per il capitalismo, benché il nazismo, con le sue teorie sulla razza pura e sullo spazio vitale, appariva come una fonte di destabilizzazione; in secondo luogo l'anticomunismo in Europa era così dilagante che si sperava in una direzione verso est delle armate germaniche, nel senso che nessuno si sarebbe opposto a che tali armate passassero per la Polonia per dirigersi verso la Russia. Altra cosa invece era vedere la Polonia "occupata" dai nazisti: in tal caso se non si fosse dichiarata guerra alla Germania, francesi e inglesi avrebbero perso la faccia.
Fu proprio quel Patto russo-tedesco di non aggressione a convincere Francia e Regno Unito che Hitler, finché non si fosse ben stabilizzato in Polonia e creato un imponente Stato imperialista in Europa centrale, l'avrebbe rispettato. Quindi pensare di chiedere aiuto all'URSS era diventato impossibile, anche perché i sovietici, con quel Patto, si erano assicurati mezza Polonia, Estonia, Lettonia e Bessarabia; inoltre avrebbero impedito alla Finlandia di nazificarsi.
Quel Patto, dunque, andava fatto o no? Era una necessità inderogabile o solo un'ipotesi scolastica? Il vero problema è che l'URSS non ebbe mai modo di dimostrare in maniera plateale che l'atteggiamento ostruzionistico degli statisti anglo-francesi la obbligava a fare un patto col diavolo. Lo scetticismo dei sovietici, anzi il loro disprezzo nei confronti delle maniere ambigue, contorte degli statisti occidentali rimase più che altro conosciuto nei soli ambienti diplomatici. Non si espresse mai in maniera esplicita attraverso i mezzi di comunicazione occidentali, anche perché, in ultima istanza, gli stalinisti sentivano di non dover rifiutare le rivendicazioni territoriali dei nazisti, che nel loro atteggiamento apparivano più sinceri, più diretti. Ai sovietici Hitler non faceva paura quando occupava Austria, Sudeti e Prussia orientale (rinunciò al Sud Tirolo solo perché aveva stipulato una stretta alleanza coi fascisti italiani). Al massimo poteva far paura quando occupò l'intera Cecoslovacchia, ma in tal caso gli stalinisti dicevano che la responsabilità andava attribuita alla Conferenza di Monaco (settembre 1938), in cui la Cecoslovacchia non era stata neppure invitata.
Certamente Stalin non poteva permettere che Hitler occupasse l'intera Polonia, poiché ciò avrebbe costituito una minaccia troppo forte per la sicurezza dell'URSS, a partire da quella di Ucraina e Bielorussia. Inoltre sapeva benissimo che i nazisti non odiavano a morte solo i socialcomunisti ma anche tutti i popoli slavi, considerati barbari, subumani, privi di storia…
è difficile però dire se a qualcuno importasse davvero che la vittima sacrificale di tutte queste paure fosse la Polonia. In fondo questo Stato aveva cessato di esistere per 123 anni, ed era stato ricostituito alla Conferenza di Versailles solo allo scopo di contenere l'espansionismo tedesco. A tutti era evidente che l'estensione territoriale del Paese era di molto sproporzionata rispetto alla sua importanza politica.
Così come a nessuna potenza imperialistica mondiale importò granché che Italia e Germania aiutassero il generale Franco a eliminare fisicamente i democratici, i repubblicani, gli anarchici e i socialcomunisti nella sanguinosa guerra civile.
Sicuramente più vergognosi del Patto di non aggressione furono i protocolli segreti, con cui le due parti s'impedivano di contestare l'ideologia dell'avversario. Nell'Unione Sovietica scomparve persino l'idea di poter fare una propaganda antifascista. Ci si era legati mani e piedi. Peraltro inutilmente, poiché sarebbe stato impossibile che Hitler, dopo aver occupato la Polonia per riprendersi la Prussia orientale, non venisse attaccato da Francia e Inghilterra.
Fu proprio a partire da quel momento che gli storici occidentali contemporanei cominciarono a pensare che la dittatura sovietica non era migliore di quella nazista, e che anzi il nazismo altro non era stato che una reazione al bolscevismo. Viceversa, gli storici orientati a sinistra arrivarono a dire che la dittatura stalinista era, in ultima istanza, migliore di quella nazista, in quando l'URSS aveva vinto il nazismo, dopo aver subìto immani distruzioni e 20 milioni di morti (poi arrivati a 27). Nessuno arrivò a dire che le dittature nazista e stalinista erano equivalenti a quelle esercitate dalle potenze anglo-francesi nei loro imperi coloniali.
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Tuttavia su quel Patto bisogna dire altre cose. Fu siglato il 23 agosto 1939. L'aveva voluto fortemente Hitler per non dover combattere su due fronti: nel 1939 la Wehrmacht disponeva soltanto di 80 divisioni. Ma Stalin l'aveva accettato volentieri, poiché, dopo aver distrutto gran parte del suo Stato Maggiore nelle purghe del 1937-38, non sarebbe stato in grado di vincere la guerra. Inoltre Stalin era convinto che i principali nemici della Russia fossero Giappone, Turchia e Polonia. Solo dopo che Hitler aveva occupato Austria e Cecoslovacchia si convinse che il prossimo obiettivo sarebbe stato la Polonia.
Hitler occupò la Polonia in poco più d'un mese (1 settembre 1939 - 6 ottobre 1939). Stalin non riuscì a capire che la dichiarazione di guerra anti-nazista e la finta resistenza da parte dei governi anglo-francesi era tutta una manovra al fine di permettere ai tedeschi di concentrarsi verso un nemico comune: i comunisti sovietici.
Hitler approvò l'"Operazione Barbarossa" il 18 dicembre 1940. A fine marzo 1941 ben 107 divisioni tedesche si trovavano stanziate in Polonia, Romania e Finlandia. Stalin era convinto che si trattasse semplicemente di una intimidazione psicologica.
La data dell'invasione dell'URSS era stata fissata per il 15 maggio 1941. A gennaio dello stesso anno Stalin conosceva già gli elementi base di quel piano, ma non prese provvedimenti militari significativi. Nell'aprile dello stesso anno firmò un trattato di non aggressione col Giappone.
Hitler fu costretto a spostare la data al 22 giugno perché dovette affrontare sviluppi imprevisti nei Balcani, in seguito alla richiesta d'aiuto da parte di Mussolini, le cui truppe non riuscivano a prevalere su quelle greche, appoggiate dagli inglesi.
Nella campagna balcanica la Germania ottenne l'alleanza di Romania, Ungheria, Bulgaria e Jugoslavia. In quest'ultima avvenne un colpo di stato in Serbia che portò al potere un governo filo-sovietico, che però i nazisti sbaragliarono abbastanza facilmente. Anche i greci si arresero. Alla fine le divisioni naziste erano arrivate a circa 119. Tra morti e feriti i nazisti ebbero circa 6.500 uomini e 350 aerei abbattuti, che sino al 1943 non riuscirono a rimpiazzare, ma gliene restavano 1.400 sul fronte orientale.
Stalin era convinto che dopo questa prova nei Balcani, e considerando che l'esercito tedesco non era attrezzato per sostenere guerre autunnali-invernali, né abituato ad affrontarle per un lungo periodo, al massimo i nazisti avrebbero potuto attaccare dopo un anno, per cui non mise in stato d'allerta le difese ai confini occidentali. Non riusciva ad accettare l'idea che Hitler avrebbe tradito il Patto: non era abituato a non essere obbedito e pensava che tra dittatori sarebbe stato più facile intendersi.
Tuttavia Hitler era convinto che dopo le stragi compiute da Stalin nei confronti del proprio Stato Maggiore, la guerra sarebbe stata vinta al massimo entro un paio di mesi, come tutte le altre precedenti fatte in Europa. Pertanto, sottovalutando il nemico, non si preoccupò né di avere un esercito molto grande, né di avere significative riserve. Infatti, rispetto alle capacità del 1939, l'industria bellica tedesca non era cresciuta granché, anche perché sfruttava le risorse dei Paesi europei occupati.
Tuttavia l'idea di una guerra-lampo con cui radere al suolo Leningrado e poi Mosca era fallita dopo le prime otto settimane dall'ingresso delle truppe in Ucraina e Bielorussia, nonostante che le divisioni fossero salite a circa 200 (296 erano in tutta Europa). Hitler era costretto a dirottarle da una sezione del fronte a un'altra. I sovietici si difendevano a spada tratta, nonostante la direzione strategica assolutamente incompetente di Stalin. Infatti, quando gli chiesero di trasferire più divisioni verso i confini occidentali, si oppose. In tutto l'URSS ne aveva 186, più 66 di riserva all'interno del Paese. In teoria le forze erano equivalenti, il che rende inspiegabile la morte di 27 milioni di persone.
Ancora controverso risulta l'atteggiamento di Stalin nei primi dieci giorni dell'invasione, soprattutto in riferimento agli avvisi dell'imminente attacco. Di sicuro sappiamo che Stalin approfittò della guerra per aumentare la sua dittatura personale. Praticamente l'importanza del C.C. del partito e anche quella del Politburo scemò completamente fino alla sua morte.
Ingenuità e miopia
Certo è che non capire che il nazismo era una forma di fascismo, e che il suo riferimento al socialismo era solo un paravento per realizzare un capitalismo statale, fu, da parte dello stalinismo, un'ingenuità piuttosto grossolana, imbarazzante, agli occhi di chi combatteva il fascismo europeo sin dagli anni '20.
Una posizione ideologica così miope poteva essere dettata solo da una totale incapacità di capire la politica estera, quella internazionale e la geopolitica. Lo stalinismo dava l'impressione di non voler essere giudicato dalle democrazie europee, per quanto false fossero, cioè tendeva a chiudersi a riccio, pensando unicamente agli interessi della propria nazione. Evidentemente sapeva che le persecuzioni di massa compiute contro la propria popolazione, se fossero venute a conoscenza nella loro interezza e crudeltà, avrebbero suscitato in occidente uno scandalo di proporzioni gigantesche: non si sarebbe più parlato di "socialismo" per almeno un secolo.
Tra il fascismo italiano, salito al potere nel 1922, e quello tedesco, affermatosi definitivamente nel 1933 e alleatosi coi sovietici nel 1939, era passato un periodo in cui in Europa vi erano state tutte le possibilità per capire che non si era di fronte a una democratizzazione della vecchia ideologia liberale, e neppure a una legittima rivendicazione nei confronti del capitalismo oligarchico delle tradizioni potenze imperialistiche. Il nazifascismo era piuttosto il tentativo di raggiungere gli stessi risultati di quelle suddette potenze usando mezzi e metodi più sbrigativi e autoritari, come se la preoccupazione fosse quella di recuperare in fretta il tempo perduto.
I fascismi sorti in varie parti d'Europa non erano che una forma di dittatura pretesa dalla piccola e media borghesia, frustrata dal fatto che la gran parte della ricchezza mondiale finiva nelle tasche delle due più grandi potenze mondiali: Francia e Regno Unito (la superiorità degli Stati Uniti si manifesterà solo dopo la fine della seconda guerra mondiale). Quei fascismi erano una forma di riscatto violento, aggressivo, appartenente a quei Paesi che, avendo fatto tardi l'unificazione nazionale, avevano bisogno di terre da colonizzare, per non soccombere alla penetrazione delle merci industriali delle potenze già affermate.
Naturalmente c'erano anche dei regimi fascisti (come per es. quello spagnolo, portoghese, ungherese ecc.) che avevano una borghesia molto debole e che non volevano rinunciare all'ideologia cattolica, ma non saranno questi che faranno la storia, anche perché accetteranno d'essere colonizzati dalle potenze industrializzate.
In generale si può dire che fu la grande borghesia, rurale, industriale e finanziaria, che indirizzò l'obiettivo del riscatto nazionale verso l'eliminazione delle idee social-comuniste e verso la guerra contro la Russia bolscevica, che influenzava gli operai occidentali. In secondo luogo vi era anche il tentativo di addossare a determinati gruppi sociali (in primis gli ebrei) la responsabilità del malessere sociale generalizzato. Era ovviamente un pretesto per privarli dei loro beni.
Paradossalmente, mentre nell'URSS il nemico veniva individuato in chi si opponeva all'industrializzazione accelerata; in Europa occidentale invece il nemico era colui che si opponeva alle conseguenze di tale industrializzazione, sia perché questa creava una forte polarizzazione sociale, sia perché, associata allo sfruttamento delle colonie, tornava a beneficio solo di poche nazioni imperialistiche.
Il nazifascismo trovava facili consensi popolari perché diceva di opporsi alle grandi potenze europee, soprattutto perché queste non amavano avere concorrenti nei mercati internazionali, non desideravano affatto spartire la torta delle colonie da sfruttare. Se proprio Italia e Germania volevano dei territori da conquistare, potevano rivolgersi a oriente, togliendo di mezzo la Russia di Stalin. A quel punto avrebbero anche potuto ottenere tutti gli appoggi che volevano, naturalmente in cambio di qualche vantaggio.
Oggi stiamo assistendo a un fenomeno analogo. Il capitalismo privato a guida americana non riesce più a dominare il mondo, poiché due nazioni lo stanno privando dei due necessari poteri per farlo: quello militare (la Russia) e quello economico (la Cina). è uno scontro titanico tra, da un lato, in forma alleata, capitalismo statale e socialismo mercantile, e, dall'altro, il capitalismo privato del cosiddetto "occidente collettivo". All'interno di quest'ultima area geopolitica si stanno formando nuove forme di "fascismo", che non sopportano più le farraginose democrazie borghesi (con la loro rappresentatività parlamentare), le burocrazie paralizzanti, i poteri occulti che condizionano la politica, le ideologie che scardinano i valori tradizionali, i tentativi di controllare le popolazioni attraverso minacce pandemiche o ambientalistiche.
I poteri costituiti pretendono di tenere sotto controllo tutto: dall'uso dei mezzi comunicativi a quello del denaro, dalle scelte energetiche a quelle della mobilità (soprattutto urbana). Si pretende che anche le onnipotenti oligarchie scendano a compromessi. Il potere vuol far vivere la propria popolazione in una sorta di bolla artefatta, così ben rappresentata nel film Truman show. Ci stanno preparando all'idea di dover per forza combattere dei nemici esterni (russi, cinesi…) o pericolosi per la stabilità interna (gli immigrati), pena il rischio di finire in una guerra civile.
Le categorie di "destra" e "sinistra" appaiono desuete, come quelle di "fascista" e "antifascista". Oggi è tutto più sfumato, più liquido e incolore. Si potrebbe parlare di una contrapposizione tra "privilegiati" e "arrabbiati". A livello geopolitico l'antagonismo più evidente è quello tra unipolaristi e multipolaristi o tra globalisti e sovranisti. Il "progressista" sembra essere diventato il conservatore delle "buone tradizioni", dei valori più autentici.
è un mondo in subbuglio, non sempre decifrabile, dove molte cose appaiono imprevedibili. Sicuramente è interessante il fatto che si rifiuti l'idea che determinate nazioni debbano sottostare alla volontà egemonica, neocoloniale, di altre nazioni, più potenti sul piano militare, economico, finanziario. Sembra di assistere alle prime avvisaglie di quei vulcani in procinto di esplodere in maniera rovinosa per gran parte degli abitanti di una città o di un'isola.
La situazione è diventata così incerta, ingarbugliata, minacciosa, semplicemente perché il sistema capitalistico sembra essere fuori controllo, e non s'intravvede all'orizzonte un'alternativa davvero praticabile. Questo perché un capitalismo privato è in mano alle oligarchie e ha degli aspetti anarcoidi che lo rendono poco controllabile. E quando questo tipo di capitalismo pretende di correggere i propri errori, servendosi dello Stato, diventa facilmente autoritario.
L'unica alternativa a qualunque forma di capitalismo è il socialismo democratico, ma fino adesso le uniche due forme di socialismo che, a livello mondiale, sono riuscite a imporsi, sono state quelle statalistiche e mercantilistiche. La seconda forma non è che un'attenuazione borghese dell'autoritarismo della prima, ch'era chiaramente una dittatura politica e ideologica. Questo socialismo mercantile, ben visibile in Cina, ha permesso alla società civile, seppur entro certo limiti, di imborghesirsi, di dedicarsi a quegli affari che sono tipici del sistema capitalistico.
Ormai la democrazia non viene più presa in considerazione: si dà per scontato che sia qualcosa di formale, come un rito periodico da delegare ad altri, o a cui dedicarsi controvoglia. Questo perché si è consapevoli che i veri poteri si gestiscono altrove.
Incompetenza e metodi terroristici
Lo stalinismo fu tutto un errore, di cui quelli degli ultimi 15 anni della vita di Stalin particolarmente gravi e dolorosi. Infatti, se prima la popolazione veniva sterminata per problemi di politica interna, dopo cominciò a esserlo, in maniera molto vistosa, per problemi di politica estera. Agli errori compiuti nel primo periodo si aggiunsero quelli del secondo, e il totale fu così tragico che il socialismo statale, pur di sopravvivere, dovette con Krusciov destalinizzarsi, almeno in parte. Non poté farlo del tutto, poiché si temeva una rivolta popolare generalizzata, ma la sua sorte restava comunque segnata. Prima o poi i sovietici non avrebbero più voluto sentir parlare né di stalinismo né di socialismo statale. La pazienza per il tanto dolore subìto, per le tante falsità sopportate, doveva finire.
Tuttavia il fatto che la Russia non sia stata capace di trovare un'alternativa convincente ai progetti mostruosi dello stalinismo, restando nell'ambito del socialismo, è la dimostrazione più eloquente che il socialismo statale non aveva niente di democratico: era solo un'assurda dittatura. Se anche avesse avuto degli aspetti positivi, di sicuro questi non hanno avuto la forza di rendere meno tragico l'insieme.
Vediamo ora gli errori più significativi sul piano militare.
La guerra contro la Finlandia (novembre 1939 - marzo 1940) fu condotta da Stalin nel peggiore dei modi. Fu la principale avvisaglia dell'atteggiamento disastroso che di lì a poco lo stalinismo avrebbe tenuto nei confronti delle armate naziste. La Finlandia aveva solo tre milioni di abitanti, era sotto l'influenza anglo-francese, ma non aveva nessun atteggiamento ostile nei confronti dell'URSS. Lo stalinismo voleva l'istmo di Carelia per rendere più sicura la città di Leningrado. In cambio offriva un territorio più grande ma meno popolato. I finnici rifiutarono l'offerta e la guerra scoppiò. Si pensava a una guerra di pochi giorni, e invece ci vollero quattro mesi e con ingenti perdite per vincerla. Le epurazioni compiute nello Stato Maggiore si erano fatte sentire molto presto e in maniera molto evidente. Non solo, ma, dopo aver vinto, lo stalinismo non fece nulla perché la Finlandia non si avvicinasse al nazismo. Nel giugno 1941 Hitler aveva già posizionato qui cinque divisioni.
Per imporsi Stalin usava metodi terroristici, quelli tipici dei militari golpisti. Eppure ha sempre temuto, anzi odiato, i militari, poiché sapeva che avrebbero potuto esser loro, con un colpo di stato, a farlo fuori. Non a caso durante la guerra patriottica pretendeva che i generali fossero controllati da dei commissari politici. Non solo temeva i generali ma li invidiava, poiché erano molto più competenti di lui, per cui, a guerra finita contro la Germania, li emarginò quasi tutti, affidando loro incarichi poco significativi.65
L'odio per gli alti ufficiali dell'Armata Rossa (e quindi per Trockij che la dirigeva) risale - secondo Medvedev - all'estate del 1918, quando, nella guerra contro i Bianchi a Tsaritsyn (poi chiamata Stalingrado), pretendeva che i comandanti supremi gli obbedissero senza discutere. Per colpa sua i bolscevichi persero 60.000 uomini. I suoi metodi terroristici, usati in quella città, furono poi estesi a tutta la Russia 20 anni dopo.
Quando nel 1937 lo stalinismo organizzò i processi contro i grandi generali (Tuchachevskij, Jakir e altri), tutti erano convinti ch'essi fossero in contatto con la Germania per attuare un colpo di stato, quando invece proprio loro avrebbero potuto fermare i nazisti. Il golpe reazionario era stato fatto in realtà dagli stalinisti, che sembravano essere, paradossalmente, in combutta coi nazisti, confermando il noto principio secondo cui gli estremi si toccano.
Lo sterminio di gran parte dello Stato Maggiore russo, compiuto da Stalin negli anni tragici delle epurazioni, fu determinato probabilmente dal fatto che non voleva che qualcuno potesse confermare che il suo "genio militare" era del tutto inconsistente, cioè inventato. Voleva che le principali vittorie della rivoluzione bolscevica e soprattutto della guerra civile fossero attribuite anche a lui. Per questo tutte le biografie di Stalin di quel periodo sono piene di falsificazioni. Comunque fu questo sterminio di eccezionale gravità che convinse Hitler a credere che il 1941 fosse l'anno migliore per attaccare la Russia, un Paese che entrò in guerra non solo senza un adeguato Stato Maggiore, ma anche senza aerei a reazione, razzi, radar ecc., in quanto gli inventori, i tecnici qualificati, gli ingegneri o erano stati arrestati o eliminati.
Stalin non solo non capiva niente di questioni militari, ma si vergognava anche di farlo vedere, poiché l'alta considerazione che aveva di se stesso non gli permetteva nessuna forma di umiltà. Questo lo portava a non ascoltare i pareri dei militari, se non dopo che i suoi eserciti avevano subito clamorose sconfitte. E in questi casi non mancava di attribuire tutte le responsabilità ai generali di turno. Basti pensare che per lui non esisteva il concetto di "ritirata", in quanto l'esercito doveva essere continuamente all'attacco. Arrendersi o farsi catturare vivi era per lui inconcepibile. I prigionieri di guerra, tornati in patria, furono considerati dei codardi, se non dei traditori. D'altra parte in Russia la vita ha sempre avuto un'importanza relativa. Ancora oggi non si sa quanti abitanti siano periti durante le "purghe staliniane". Persino il conto dei morti durante la guerra è sempre stato molto vago: solo di recente si è cominciato a parlare di 27 milioni di morti.
In pratica Stalin svolgeva la funzione involontaria di "quinta colonna" da parte del nazismo, tant'è che ammirava Hitler per la sua capacità di risolvere i problemi in maniera autoritaria. Condivideva l'insofferenza dei nazisti nei confronti della vergognosa pace di Versailles. Anzi, di tutti i fascismi europei lo stalinismo considerò quello tedesco legittimato a non rispettare il rapporto di sudditanza nei confronti degli anglo-francesi, che avevano vinto la prima guerra mondiale, umiliando con trattati iniqui la sconfitta Germania. Appoggiando tutte le rivendicazioni di Hitler e le sue conquiste territoriali, Stalin, fino all'ultimo momento, si rifiutò di credere che Hitler volesse tradire il patto di Molotov-Ribbentrop e attaccare anche l'URSS. Era così abituato a farsi obbedire che pensava che persino Hitler fosse un suo subordinato. Molto probabilmente se non ci fosse stata l'"Operazione Barbarossa", Stalin sarebbe stato tolto di mezzo con un colpo di stato o un omicidio politico o persino con una insurrezione popolare. Troppi crimini avevano commesso, lui e il suo entourage.
In politica estera fu questo il suo più grave errore, quello di credere che il principale nemico dell'URSS fosse non il nazional-socialismo tedesco ma il capitalismo privato dell'imperialismo anglo-francese. L'errore fu dovuto al fatto che lo stalinismo, per imporsi come dittatura, accelerando l'industrializzazione e forzando la collettivizzazione agraria, aveva voluto far credere che la Russia era circondata da due Stati intenzionati a colonizzarla: Francia e Regno Unito. Sulla base di questa convinzione (pur teoricamente non inverosimile), suffragata dal fatto che, effettivamente, quelle due potenze volevano che l'espansionismo tedesco si rivolgesse verso il comunismo russo, lo stalinismo si sentì indotto a realizzare col nazismo un patto decennale di ferro, con cui Hitler avrebbe potuto tranquillamente occupare mezza Europa e spartirsi con l'URSS mezza Polonia, promettendo che altri territori non sarebbero stati toccati (per es. i Baltici, la Finlandia ecc.).
Col senno del poi, per giustificare il suddetto accordo, gli storici sovietici dissero che con Francia e Inghilterra fu impossibile trovare una qualunque intesa, poiché entrambe, segretamente, speravano che la Germania rivolgesse contro l'URSS le sue pretese di espansione territoriale: in questa maniera i loro imperi coloniali non sarebbe stati toccati. Tuttavia la Russia di Stalin non era un Paese che si facesse "amare". L'estremismo fanatico esercitato in politica interna si rifletteva anche nel rapporto con tutti gli Stati capitalisti e persino con tutti i partiti non espressamente borghesi-conservatori ma riformisti, come quelli socialisti e socialdemocratici, che dallo stalinismo venivano considerati affini o collusi col fascismo. La diffusione veloce del nazifascismo in Europa e il crollo subitaneo di tutti gli Stati europei (ad eccezione del Regno Unito) di fronte alle armate tedesche, intenzionate a occuparli, fu anche una conseguenza del settarismo ideologico del comunismo sovietico, che influenzava enormemente, a causa della vittoriosa rivoluzione bolscevica, quello europeo.
"I crimini di Stalin erano di tale ampiezza che, se fossero stati conosciuti [dai russi], sarebbe stato impossibile difendere [Stalin] perfino facendo riferimento al pericolo fascista", scrive Medvedev a p. 458 (o.c.). Infatti uno degli errori capitali dei nazisti fu quello di voler dimostrare la propria superiorità razziale sui sovietici, confidando esclusivamente sulla forza militare. D'altronde una dittatura disumana come quella tedesca, così fortemente ideologizzata in senso razzistico, non poteva agire diversamente. Per i sovietici non fu difficile capire che se avessero lasciato vincere i nazisti, sarebbero passati dalla padella alla brace. Quello di Hitler fu un errore che gli americani (i nazisti dell'epoca contemporanea) si guardano bene dal ripetere.
I limiti personali e militari di Stalin
Stalin era così egocentrico, e il suo staff così servile, che non poteva ammettere a se stesso d'essere stato ingannato da Hitler. Per questo diedi ordini completamente sbagliati, o addirittura non ne diede alcuno nei giorni cruciali dal 24 giugno (due giorni dopo l'attacco nazista) al 2 luglio, quando pensava che nella sua dacia fossero venuti per arrestarlo. Medvedev arriva persino a scrivere che "per tutto il luglio e l'agosto del 1941 Stalin non riuscì a dominare la confusione che l'aveva preso" (p. 555, o.c.).
Era così burocratico che probabilmente si aspettava un'esplicita dichiarazione di guerra da parte di Hitler. Ma queste correttezze formali dal sapore aristocratico erano finite con la prima guerra mondiale: il nazismo non le aveva mai usate; anzi la sua tattica, chiamata blitzkrieg, non le prevedeva neppure. I tedeschi attaccavano senza nessun preavviso, usando semplicemente un pretesto da loro stessi creato, e lo facevano con tutta l'artiglieria pesante, i carri armati, le autoblindo, gli aerei, e solo dopo mandavano avanti la fanteria, ben attrezzata con lanciafiamme, mitragliatrici, bombe a mano...
L'effetto più sconvolgente era provocato dagli aerei, che, per infondere più panico possibile, bombardavano i civili nei centri abitati, nei villaggi, che in genere venivano rasi al suolo; erano questi mezzi che mettevano fuori uso, in tempi molto veloci, le infrastrutture militari del nemico (porti, aeroporti, caserme, depositi di munizioni, bunker…).
Hitler era entrato in Russia con la stessa furia devastatrice dei successori di Gengis Khan nel Medioevo, con la differenza, puramente casuale, che l'uno proveniva da ovest, mentre gli altri da est. Ma la vittoria repentina dei tatari-mongoli dimostrò che il tallone d'Achille dei russi non è l'area occidentale, che pur Hitler occupò in pochi mesi; è invece la Siberia, poiché, una volta conquistata questa, alla Russia non restano riserve sufficienti, né umane né materiali, per reagire.
La Siberia ha risorse naturali praticamente illimitate, e le persone che vi abitano, essendo il clima molto rigido, sono fisicamente più forti di quelle urbanizzate nell'area europea. La Siberia dimostrò che, nonostante la russificazione subita al tempo degli zar e nonostante lo stalinismo, costituiva per i sovietici l'unica speranza di successo, che Hitler, non chiedendo ai giapponesi di attaccare contemporaneamente a est, aveva sottovalutato completamente.
Sino all'ultimo Hitler rimase fermo nella convinzione che la guerra si sarebbe risolta occupando Mosca, Leningrado e Stalingrado, le quali però, grazie agli aiuti che provenivano dalla Siberia, si seppero difendere con grande determinazione, obbligando i nazisti, impreparati a una guerra di lunga durata e in pieno inverno, ad arretrare su tutto il fronte. I sovietici impararono dai propri errori, i nazisti no.
Avendo sempre vinto con grande facilità, Hitler era convinto che il popolo slavo, da lui giudicato "subumano" (o sottosviluppato), non avrebbe potuto resistere più di quelli "civilizzati" incontrati in Europa occidentale. In effetti nessuno avrebbe potuto pensare che al di là degli Urali i sovietici potessero produrre, nel corso di pochi mesi, dei carri armati, degli aerei e un'artiglieria all'altezza di quella tedesca e, per molti versi, anche superiore: si pensi al tank T-34, ai lanciarazzi Katjuša e agli aerei Šturmovik.
Quella guerra fu l'ennesima dimostrazione che la Russia non è un Paese che si può facilmente sconfiggere, a meno che non sia destabilizzata da un nemico interno, e siccome in quel momento il nemico era lo stalinismo, bisogna dire che i sovietici hanno rischiato moltissimo d'essere colonizzati dai tedeschi (cui inevitabilmente si sarebbero aggiunte altre popolazioni occidentali, oltre ovviamente ai giapponesi).
Se oggi capitasse di nuovo una situazione del genere, cioè se la Russia venisse attaccata per la terza volta dalla Germania, è molto difficile pensare che a Mosca si troverebbero completamente impreparati o che la difesa avrebbe tempi così lunghi prima di reagire. Siccome è inevitabile pensare che una terza guerra mondiale sarebbe condotta con armi nucleari, il contrattacco deve essere condotto entro pochi minuti. Le armi sono diventate così devastanti che praticamente lo stato di allerta è una costante quotidiana. Radar, antenne, satelliti devono ogni giorno monitorare ciò che fa l'avversario.
In queste condizioni di altissima tensione si possono compiere tragici errori di valutazione, cui è impossibile porvi rimedio. Con armi del genere, qualunque cosa si faccia andrebbe ponderata mille volte; il problema però è che proprio quelle armi non offrono il tempo per farlo, tant'è che gli americani si sono sempre rifiutati di accettare la dottrina sovietica secondo cui un Paese deve impegnarsi per iscritto a non sparare mai il primo colpo nucleare. Oggi anche i russi purtroppo han rinunciato a questa idea.
Ciò dimostra in maniera eloquente che la sicurezza reciproca non può essere determinata dalle armi ma solo dal disarmo. Tuttavia solo con Gorbaciov passò l'idea che il disarmo doveva partire smantellando progressivamente le armi più pericolose. Infatti non ha alcun senso uccidere un nemico con mille testate atomiche quando ne basta una sola; senza poi pensare che occupare un territorio contaminato da una guerra nucleare è pura follia. La sicurezza illusoria che si può ottenere dall'uso di certe armi letali, può trasformarsi in una tragica insicurezza per un tempo indefinito.
Arroganza sconfinata
Sino alla seconda metà del 1943, cioè per due anni consecutivi, Stalin diede ordini militari del tutto assurdi, che comportarono milioni di soldati morti e prigionieri, oltre ai civili naturalmente. La sua ignoranza nelle questioni militari era pari solo alla sua arroganza.
Tuttavia Medvedev cita delle fonti che indicano questa assurda protervia come un fenomeno generalizzato tra l'entourage di Stalin e i suoi rappresentanti inviati sul campo di battaglia. Gli stalinisti erano convinti di poter usare nei confronti dei tedeschi la stessa alterigia che usavano nei confronti della loro popolazione. Ma subivano sconfitte clamorose, devastanti, che gli storici sovietici, in genere, non riportano nella loro entità effettiva, preferendo dire ch'erano state determinate da fattori oggettivi, imponderabili, come per es. l'attacco tedesco improvviso (in violazione del trattato di non belligeranza firmato nel 1939), l'inferiorità dei mezzi militari dell'Armata Rossa in un primo momento, e cose del genere, e che, nonostante tutto, Hitler aveva fallito con la sua idea di "guerra lampo". In questa maniera risparmiano alla dirigenza stalinista gran parte delle responsabilità negative effettivamente dimostrate.
Lo stesso Medvedev ha un po' di ritegno ad accusare completamente lo stalinismo della tragedia colossale di quel momento, che superava ogni immaginazione. Lo si capisce quando ad un certo punto scrive: "Non fu la NKVD [principale organo di sicurezza], ma il partito che organizzò la resistenza popolare contro il fascismo" (p. 561, o.c.). Cioè praticamente sta dicendo che l'URSS poté vincere quando un organo collegiale riuscì a prevalere sull'autocrazia di Stalin, che Medvedev considerava principale causa della disfatta iniziale. Solo in nota scrive esplicitamente: "l'importanza della vittoria risultò semmai sminuita durante l'era di Stalin, allorché i motivi del successo venivano tutti attribuiti a lui, anziché al popolo" (ib.).
Medvedev, col suo libro, prodotto sulla scia della destalinizzazione di Krusciov (così come quello di Volkogonov, figlio della glasnost di Gorbaciov), temeva d'essere espulso dal partito, cosa che poi puntualmente avvenne. L'autore tende ad attribuire lo sfacelo militare dell'Armata Rossa alla sola dirigenza del partito, ma, così facendo, non s'accorge che se un partito non riesce a porre un argine alla propria degenerazione, deve per forza avere al proprio interno degli elementi che lo rendono impotente. I limiti non stavano solo nella dirigenza, ma anche nella struttura in sé del partito.
Lo stalinismo si diede una calmata soltanto quando Leningrado fu circondata dalla Wehrmacht, Mosca fu attaccata in maniera frontale a più riprese, e Stalingrado fu quasi rasa al suolo, obbligando a combattere tra i muri rimasti in piedi. Lo stesso generale Žukov è costretto a scrivere nel suo diario (in maniera abbastanza soft), riferendosi a Stalin: "i movimenti di un'unità militare più piccola di un'armata gli restavano oscuri" (ib.), e tutto il suo talento organizzativo si basava su "paura e repressione" (ib.). Lo dimostra il fatto che anche durante la guerra continuava a fucilare i propri generali: D. G. Pavlov, V. E. Klimovskij, N. A. Klich, S. I. Oborin, ecc., usati come capri espiatori di direttive militari insensate. Persino "i soldati che sfuggivano all'accerchiamento" venivano arrestati (p. 563), perché giudicati "vigliacchi". Stalin disprezzava anche "i soldati sovietici caduti prigionieri di guerra" (p. 564). Quando rientrarono in patria, furono trattati come "traditori". Non solo, ma tutti i generali che conseguirono la vittoria sui nazisti furono successivamente emarginati, oscurati da Stalin, poiché non voleva spartire con loro la sua "gloria militare" (p. 566).
D'altra parte Stalin "non si recò mai fra i soldati, non li vide mai in azione" (p. 562). Le sue idee non collimavano quasi mai con quelle degli ufficiali dello Stato Maggiore. Quando i comandanti prendevano decisioni in autonomia, se i risultati ottenuti erano positivi, il merito, nei mass-media, veniva attribuito solo a lui.
Insomma, secondo Medvedev, Stalin "ebbe molta più responsabilità nelle sconfitte dei primi mesi di guerra [in realtà nel primo biennio] che non nelle vittorie che caratterizzarono la fine" (ib.). Da notare che l'autore ancora non sapeva che i morti del suo Paese erano stati non 20 ma 27 milioni (al tempo di Stalin si diceva fossero stati la metà). Deve per forza convenire che una cifra così pazzesca sarebbe stata impossibile con qualunque altra leadership politica. Ma - si sa - i russi, col loro autoritarismo, sono degli specialisti nel fare del male a se stessi.
Stalin e Hitler
Perché una persona così sospettosa come Stalin nei confronti dei propri concittadini, fu così ingenua nei confronti di Hitler?
A partire dalla stipulazione del trattato di non belligeranza, Stalin ebbe tutto il tempo per rafforzare le difese del proprio Paese; tuttavia non fece nulla, neppure dopo aver visto che i nazisti avevano occupato mezza Europa. Come poté non capire che la Germania, approfittando proprio di quel patto, si stava rafforzando enormemente e che quindi, almeno ipoteticamente, avrebbe anche potuto attaccare la Russia? E che se avesse deciso di farlo, era abbastanza chiaro che avrebbe beneficiato del sostegno dell'industria bellica degli Stati europei già sottomessi e di quelli degli alleati?
Medvedev attribuisce soprattutto a Stalin la suddetta ingenuità, ma è dubbio che non fosse condivisa dal suo staff. Nessuno in quel momento pensava che l'URSS sarebbe stata attaccata dalla Germania. Si riteneva che fra Stalin e Hitler vi fosse un solido rispetto reciproco. Il conclamato antislavismo dei nazisti si poteva pensare che fosse più che altro un argomento da campagna elettorale, non paragonabile a quello dell'antisemitismo o a quello dell'odio verso gli anglo-francesi.
In effetti questa mancanza di senso della realtà è tipica di tutte le dittature politiche, i cui statisti, ad un certo punto, arrivano a isolarsi dal mondo, oltre che dal sentire delle proprie popolazioni. Per questo è giusto affermare che lo stalinismo fu una forma di cieco individualismo, indotto a sopravvalutare le proprie forze e a sottovalutare quelle del nemico (che peraltro venne percepito come tale solo nel giugno del 1941).
Lo stesso errore lo commise Hitler, quando, entrando in Russia, divise in tre tronconi le sue armate, convinto che l'attacco improvviso si sarebbe concluso vittoriosamente in pochi mesi. Non è da escludere che se si fosse fermato in Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Paesi Baltici gli stalinisti non avrebbero alzato un dito per difendere questi territori, pretendendo soltanto un nuovo trattato di non belligeranza. Stalin in persona avrebbe sempre potuto dire: "Visto che siete così ostili al socialismo sovietico, vi lasciamo nelle mani del capitalismo germanico".
L'URSS - su questo ha ragione Medvedev - avrebbe dovuto denunciare il patto di Molotov-Ribbentrop subito dopo aver visto che la Germania non si limitava a recuperare i territori che le erano stati sottratti durante la Conferenza di Versailles, ma voleva conquistare tutti i Paesi europei che non erano dichiaratamente fascisti. Con tutti gli altri infatti sarebbe bastato stipulare dei trattati di alleanza, di reciproco aiuto ecc.
Quando la Germania occupò la Francia, l'URSS si trovò improvvisamente e completamente isolata. Ma lo stalinismo, invece di preoccuparsene, esultò, sulla base di un semplice sillogismo: "Poiché io sono alleato con la Germania, e la Germania mostra di avere molti nemici, i suoi nemici sono anche i miei".
In pratica Stalin, che aveva sempre odiato a morte Francia e Regno Unito, riteneva che le vittorie di Hitler fossero le sue stesse vittorie: gli sembrava di condurre, tramite il nazismo, una guerra per procura. Medvedev scrive che Stalin "diede perfino il suo assenso a trattative riguardanti un'adesione dell'URSS al patto Tripartito (o anti-Comintern) [quello dell'asse Roma-Berlino-Tokyo]" (p. 538). Tali negoziati furono interrotti dalla cosiddetta "Operazione Barbarossa".
Stalin preferiva trattare con un dittatore anticomunista piuttosto che coi comunisti europei, preoccupati del fascismo dilagante e desiderosi di democrazia. Le repressioni di massa degli anni '30 l'avevano portato a odiare il suo stesso popolo. In ogni caso pensava che la definizione più adeguata di "comunismo" potesse darla solo il suo partito, il quale, per questo motivo, si sentiva in diritto di comportarsi come meglio credeva.
Purtroppo questa miopia politica, questa arroganza ideologica è andata avanti ancora per molto tempo dopo la fine di Krusciov. In ogni caso è giusto affermare che la seconda guerra mondiale non fu solo lo scontro tra potenze europee giunte sulla via del capitalismo industriale in tempi molto diversi, ma fu anche lo scontro tra due diverse forme di dittatura, di cui quella stalinista non era affatto migliore di quella nazista. Il fatto che lo stalinismo abbia vinto non sta di per sé a indicare che fosse più democratico o meno oppressivo, o che avesse più ragioni o che fosse meglio organizzato. La vittoria non dipese affatto dallo stalinismo ma unicamente dal popolo sovietico, che in quegli anni altamente tragici dovette affrontare due dittature in contemporanea: una interna e l'altra esterna. Come sia riuscito a sopravvivere, nessuno può saperlo.
Fiancheggiatore consapevole o involontario?
Può apparire paradossale che si consideri Stalin un fiancheggiatore di Hitler, ma i fatti riportati da Medvedev lo lasciano pensare.
è davvero inspiegabile che lui abbia sabotato o trascurato tutti i preallarmi che gli erano arrivati da più parti. "Il trasferimento massiccio di truppe tedesche alla frontiera sovietica cominciò nel 1940" (p. 540, o.c.). Poco prima dell'invasione vi erano lì collocate 190 divisioni, 3.500 carri armati e autoblindo, circa 4.000 aerei e 50.000 cannoni e mortai. Era impossibile non vedere queste cose. Anzi, vien da chiedersi come abbia potuto pensare Hitler a schierare delle forze armate così cospicue senza che i russi reagissero.
Numerosi rapporti molto allarmati giunsero a Mosca da vari canali, persino anglo-americani, ma nessuno di essi suscitò la benché minima preoccupazione in Stalin. Non mosse un ciglio neppure quando i nazisti entrarono, in un modo o nell'altro, in Ungheria, Bulgaria, Romania, Jugoslavia e Grecia. Rifiutò espressamente di porre il proprio esercito in stato di allerta, con la scusa che non bisognava far la parte dei provocatori. Non esisteva neppure "un piano definito di operazioni in caso di attacco tedesco" (p. 544). E Stalin non poteva essere contraddetto da nessuno, poiché aveva preso tutti "gli affari militari sotto il suo personale controllo" (ib.).
Non è possibile credere che gli stalinisti fossero così ingenui da credere alla fake news divulgata dai nazisti, secondo cui il concentramento di quattro milioni di militari ai confini sovietici non era altro che un'operazione di camuffamento per non far capire che in realtà Hitler aveva intenzione di attaccare l'Inghilterra.
Che Stalin sia stato un fiancheggiatore di Hitler in maniera consapevole o involontaria non fa nessuna differenza. Di fatto stava tradendo il suo Paese. Come poteva pensare che la sua autorità sarebbe stata indiscussa anche all'estero? O voleva forse consegnare solo una parte della grande Russia, perché aveva bisogno di dimostrare che senza di lui sarebbe stato impossibile liberarsi di questo nemico straniero? Cioè in sostanza stava usando il nazismo come valvola di sfogo per i fallimenti del suo socialismo statale? Aveva forse bisogno di un nemico terribile per dimostrare che lui era il padre della patria? il liberatore delle classi più indigenti e meno acculturate?
Quando uno statista sa di essere uno sconfitto in casa propria, al punto d'aver bisogno di eliminare i migliori esponenti del suo partito e i migliori ufficiali del suo Stato Maggiore, non può che vedere in maniera positiva, come una gigantesca distrazione di massa, l'intenzione di qualche Stato straniero di attaccare la propria nazione.
Qui Medvedev è molto eloquente quando scrive che Stalin fece eliminare anche tutti gli ufficiali che avevano cominciato a organizzare unità partigiane nei distretti di frontiera, prevedendo la possibilità di una ritirata temporanea (p. 551-2). Questo perché, secondo lui, stavano mettendo in discussione la forza del potere sovietico!
Insomma "il contrasto tra la realtà e l'atteggiamento di Stalin è così enorme" che ancora oggi se ne cercano le ragioni, scrive Medvedev (p. 547). Tuttavia è generoso quando lo definisce "un mediocre capo militare" (p. 551). In realtà fu così scarso da risultare pericoloso. Questo perché non ammetteva i suoi limiti e voleva comandare su tutto e tutti.
Secondo Medvedev i suoi dogmi fondamentali furono due: "Non abbandonare al nemico nemmeno un palmo di terreno" e "Portare la guerra nel territorio avversario". A motivo di ciò rifiutò "la difesa in profondità" (ib.).
I 27 milioni di morti si spiegano con questa strategia suicida, che poteva, al massimo, avere una qualche possibilità di successo con un nemico molto debole o poco preparato: cosa che quello tedesco di sicuro non era, visti gli incredibili successi che otteneva ogni volta che si muoveva.
Stalin non accettava l'idea di ritirata perché la giudicava una sconfitta irreversibile, che avrebbe peggiorato inevitabilmente la situazione. Sicuramente sarebbe stato un pessimo giocatore di scacchi. Secondo lui il soldato, qualunque fosse la situazione, o vinceva o doveva morire sul campo. Non c'era una terza possibilità, anche perché questo, nella sua concezione rozza e schematica della vita, era il modo principale per far capire al nemico che non si aveva paura di affrontarlo. E soprattutto doveva morire quello di origine contadina (il grosso dell'esercito sovietico), che aveva accettato controvoglia la collettivizzazione forzata e che conosceva bene il fallimento dei piani quinquennali in agricoltura.
Il secondo dogma era ancora più assurdo: far vedere al nemico che si era più furbi di lui, attaccandolo nel suo stesso territorio. Una cosa del tutto impossibile quando il nemico è di fronte in grandissime forze e minaccia di accerchiare le proprie. Il dogma serviva per illudere che l'esercito sovietico fosse invincibile, e che quando non riusciva a dimostrarlo, la colpa era dei disfattisti, dei vigliacchi, dei disertori…, mai dello Stato Maggiore, il cui capo era infallibile.
Tristezza e irritazione
Quando si leggono le pagine che Medvedev ha dedicato alla guerra russo-germanica, sale una grande tristezza e, insieme, una forte irritazione. Si resta molto meravigliati nel vedere l'incredibile disprezzo che Stalin provava per il proprio popolo e per la vita degli altri in generale. Ai suoi occhi i sovietici (civili o militari che fossero) parevano come carne da macello da buttare in pasto al nemico, come se volesse far credere che, potendo permettersi il lusso di sacrificare milioni di persone, non aveva paura di perdere.
In tal senso si resta piuttosto allibiti nel vedere l'incredibile piaggeria e acquiescenza dei suoi più stretti collaboratori nei suoi confronti. Davvero si ha l'impressione che lo stalinismo sia stato un'ideologia condivisa in maniera collettiva, secondo le motivazioni più varie. Tra l'élite al potere tutti temevano che se, con un colpo di mano, avessero esautorato Stalin dai suoi poteri, la guerra sarebbe stata persa. Si era assolutamente convinti che la popolazione era troppo variegata e numerosa e troppo primitiva per non aver bisogno di un dittatore.
Gli storici spesso si dimenticano di sommare i 27 milioni di morti ai tanti milioni fatti fuori dallo stalinismo negli anni precedenti. In realtà lo stalinismo fu una specie di meteorite per la Russia. Probabilmente scomparve una popolazione equivalente a quella dell'Italia di allora. Neppure i nazisti avrebbero mai pensato di poter realizzare un'ecatombe del genere. Anzi vien da chiedersi che cosa sarebbe successo alla Russia se Hitler avesse vinto a Mosca, Leningrado e Stalingrado. Quanto sarebbe durata la dittatura nazista? Al massimo 30-40 anni, come quella spagnola. Poi sarebbe per forza nata la democrazia formale, poiché il capitalismo è fondamentalmente individualistico, anarcoide, anche quando è sostenuto dallo Stato. Sopporta la dittatura solo nei casi di emergenza, come appunto le guerre. è difficile pensare che i tedeschi, finita la guerra a loro vantaggio, si sarebbero messi a occupare la Cina, l'India o a togliere l'impero coloniale agli inglesi. Non avevano forze sufficienti. Probabilmente non avrebbero neppure oltrepassato gli Urali, perché non abituati ai climi rigidi della Siberia. La Russia sarebbe tornata ad essere un Paese capitalistico, come ai tempi degli ultimi zar e del governo provvisorio di Kerensky, e poi chissà, forse un giorno avrebbe lottato di nuovo per il socialismo, come al tempo di Lenin.
Vien da chiedersi cos'abbiano fatto i russi per meritarsi un destino così drammatico, che rischiò persino di eguagliare quello dei nativi nordamericani. Furono infatti costretti a sopportare le orde barbariche dei Mongoli, i tentativi di occupazione dei Teutonici al tempo delle crociate baltiche, ma anche quelli dei polacco-lituani, degli svedesi, dei francesi di Napoleone, degli europei nella guerra di Crimea, dei giapponesi agli inizi del XX sec. Per non parlare della guerra civile subito dopo la rivoluzione bolscevica, i cui reazionari erano sostenuti dai principali Paesi dell'Intesa (Inghilterra, Francia, Italia, Stati Uniti e Giappone), che si prefiggevano non solo di abbattere il governo, ma anche di spartirsi le risorse naturali di quell'immenso territorio.
I russi, poi sovietici, sono quasi sempre stati in guerra. Non hanno mai potuto sviluppare la loro società in maniera sicura ed equilibrata. Sono sempre passati da un estremo all'altro (si pensi anche alla lotta interna tra slavofili e occidentalisti). La sofferenza è la loro vera costante. All'apparenza sembrano una popolazione tranquilla, ma solo perché le distanze che li separano sono così grandi che essere aggressivi non avrebbe senso. In realtà i periodi di pace che han conosciuto sono stati relativamente pochi e sempre di breve durata.
Prendiamo per es. gli attuali 25 anni della presidenza di Putin, preceduti dal tragico decennio di El'cin. L'occidente a guida americana ha attaccato il suo Stato continuamente, sotto mentite spoglie: praticamente un conflitto ogni 18 mesi. Dalla seconda guerra cecena (1999-2009) alla guerra in Georgia per garantire l'autonomia ai russofoni di Abkhazia e Ossezia del Sud (2008) fino all'Ucraina (2022-25). Putin è dovuto intervenire anche in Kazakistan per impedire un golpe (2022), e ha aiutato Lukashenko a restare al potere in Bielorussia. Ha sostenuto la Siria contro i terroristi islamici nel 2015, che hanno compiuto stragi anche in Russia (scuola di Beslan, teatro di Mosca, Crocus City Hall…).
Essendo sempre in guerra, i russi non possono conoscere la democrazia, poiché quando si è in condizioni così particolari, i poteri politici devono essere forti. Anche gli Stati Uniti sono sempre in guerra, ma perché sono loro a provocarle.
Questa continua tensione ha prodotto in Russia uno dei migliori eserciti del mondo. I 27 milioni di morti possono essere spiegati non tanto pensando alla forza dei nazisti, quanto piuttosto all'arroganza e all'incompetenza degli stalinisti, che non si facevano alcuno scrupolo di obbligare la loro popolazione di sacrificarsi sull'altare di una patria che, a causa delle tante repressioni precedenti, non poteva certo essere avvertita come tale. Quindi, se l'hanno fatto, è stato esclusivamente per motivazioni interne alla loro coscienza.
I popoli della Federazione Russa vanno guardati con ammirazione, poiché hanno insegnato al mondo intero a sopportare i nemici interni e a non arrendersi a quelli esterni.
Chi ha davvero vinto?
Una domanda risulta spontanea: come avrebbe potuto l'URSS fronteggiare l'attacco nazista del 1941 se lo stalinismo non avesse sviluppato l'industria pesante?
- Diciamo anzitutto che la Russia realizzò la rivoluzione popolare, vinse la guerra civile e l'interventismo straniero con le stesse armi con cui lo zarismo intraprese la guerra mondiale. Questo per dire che più che di armi più potenti o più sofisticate, occorre parlare di popolazione più motivata. Quando è un intero popolo che si muove, non c'è nemico che tenga. Anche i vietnamiti o i cubani non avevano le stesse armi degli americani. I 500 spagnoli di Cortés sconfissero i 20 milioni di Aztechi perché avevano le armi da fuoco? No, perché quell'impero era schiavistico e la popolazione non ne poteva più.
- In secondo luogo l'URSS, nel momento in cui Hitler decise di attaccare, non aveva un esercito inferiore a quello nazista, eppure questo non impedì alle armate hitleriane di raggiungere Mosca e Leningrado in pochi mesi. Questa catastrofica débâcle si spiega in tre modi: 1) lo stalinismo aveva distrutto il proprio Stato Maggiore durante il periodo delle grandi purghe, cioè poco prima del 1941; 2) Stalin e il suo entourage, in forza del Trattato di Molotov-Ribbentrop, erano convinti che i nazisti non avrebbero mai attaccato l'URSS, per cui sino all'ultimo non fecero nulla per impedire l'invasione; 3) nessuno dello staff di Stalin aveva competenze militari significative, anche perché non si fidavano degli ufficiali dello Stato Maggiore, per cui si dovettero aspettare alcuni mesi prima che qualche generale di qualità emergesse (in sostanza Zukov, Rokossovskij e Cujkov).
- In terzo luogo le armi con cui i sovietici ebbero la meglio sui nazisti vennero costruite dopo l'invasione tedesca e in Siberia, non nell'area europea industrializzata dell'URSS, ch'era quasi interamente occupata dai nazisti. Tant'è che la guerra poté essere vinta solo due anni dopo, e senza l'apporto umano, naturale e materiale della Siberia di sicuro sarebbe stata persa.
- In quarto luogo bisogna dire che l'esigenza di armarsi in maniera moderna non implicava affatto, per la Russia d'allora, la necessità di farlo sulla base di un'industrializzazione accelerata e pesante, e tanto meno sulla base di una collettivizzazione forzata in agricoltura. Cioè si sarebbe potuta sviluppare un'industria bellica sufficiente a garantire la difesa del Paese. Sono i Paesi che attaccano ad aver bisogno di un quantitativo superiore di armi e uomini. Difendersi è più facile che attaccare, soprattutto se lo si fa nel proprio territorio.
- In quinto luogo il fatto stesso che l'URSS perse nella guerra 27 milioni di cittadini, dimostra in maniera molto eloquente che i piani quinquennali dello stalinismo non erano serviti a garantire una difesa adeguata. Nella sostanza non fu lo stalinismo a vincere la guerra, ma il popolo sovietico, e lo fece dovendo combattere due nemici contemporaneamente: uno esterno, i nazisti e l'altro interno, gli stalinisti.
Ordini pratici e disordini mentali
L'atteggiamento sconsiderato di Stalin, che coi suoi ordini visibilmente assurdi mandava a morire centinaia di migliaia di soldati, non dipendeva da una mancanza di informazioni su ciò che realmente succedeva al fronte, ma dal fatto che, essendo abituato a comportarsi in maniera autoritaria, si rifiutava di guardare la realtà per quello che era. Per lui tutti erano potenzialmente "sabotatori" o "traditori".
L'incapacità di dare valutazioni obiettive non era un difetto caratteriale, ma una conseguenza inevitabile del ruolo dispotico che aveva deciso di assumere strada facendo. E in ciò purtroppo non trovava nessuno, tra il suo entourage, disposto a contraddirlo.
Quando dava ordini che oggettivamente, per qualche ragione, non potevano essere eseguiti, non lo faceva perché soffriva di un disturbo psichiatrico, ma semplicemente perché sapeva che in quella maniera poteva scaricare su qualcuno i fallimenti dei suoi progetti politici.
Una persona con un briciolo di coscienza o di responsabilità, quando vede che, a causa di suoi determinati comportamenti, molte persone (o anche una sola) ci rimettono la vita, tende a ridimensionarsi: un politico o un militare dovrebbe sentirsi in dovere di dimettersi, anche perché sarebbe del tutto naturale che temesse per la propria vita. A volte si vedono degli statisti fuggire dal loro Paese e rifugiarsi in un altro disposto a garantire la loro immunità (di regola portano con sé molti beni per poter vivere senza problemi il resto dei loro giorni). Pol Pot, per es., si rifugiò in Thailandia dopo aver sterminato quasi tutti gli intellettuali del suo Paese, la Cambogia. Per non parlare dei tanti nazisti che si nascosero in varie parti del mondo, senza poter essere estradati e processati per i loro crimini.
Quando si ha a che fare con soggetti di alto livello, che, con l'ammissione dei loro crimini, potrebbero coinvolgere molte altre persone o scardinare un sistema collaudato, il tribunale della storia non funziona quasi mai. Al massimo qualche storico, dopo molti anni, potendo accedere agli archivi, ha la possibilità di acquisire una parte di verità. Ma nella stragrande maggioranza dei casi è difficile dire che la giustizia sia un obiettivo perseguibile in questo mondo. Ancora oggi libri come quelli di Medvedev e di Volkogonov vengono considerati da molte persone come "pura propaganda borghese". Alla fine sono proprio questi atteggiamenti di cecità ideologica a creare nuove forme di dittatura.
Probabilmente l'incapacità di non voler ammettere l'evidenza non dipende da quanto l'evidenza sia vasta e profonda, ma da qualcosa che riguarda la personalità, condizionata da fattori esterni, come per es. il ruolo che ricopre, gli interessi che deve difendere, ecc. In tal senso non è da escludere che alla modifica di tali condizionamenti corrisponda una modifica significativa della stessa personalità. L'essere umano è un animale sociale che interagisce in maniera proattiva con l'ambiente, fino al punto in cui non si è più in grado di distinguere la causa dall'effetto.
Certo è che quando si ha sulla coscienza la scomparsa di milioni di persone, non è su questo pianeta che si può pensare che la vittima possa trovare giustizia e il carnefice una pace interiore. è per questo che si deve necessariamente credere in una qualche forma di esistenza extra-terrena. Non avrebbe alcun senso che su questo pianeta una particolare specie animale, dotata di livelli di intelligenza e di coscienza impensabili per ogni altra specie, sia destinata a non trovare né verità né giustizia. Non è possibile pensare che l'esistenza su questo pianeta sia determinata da una casualità di circostanze puramente fortuite o immotivate, in forza delle quali si è destinati a vivere in maniera cieca e irrazionale (come invece pensava Schopenhauer).
Se è vero che la verità e la giustizia non sono cose che si possono constatare come un'evidenza al di fuori di noi (vedasi per es. le idee platoniche o le divinità religiose), è anche vero che la loro ricerca è un obiettivo che deve riguardare l'intero universo, in quanto nulla di ciò che può essere definito "umano", può andare perduto. La memoria dell'essere umano, che sia conscia o inconscia, tende a ricordare tutto, o comunque può riemergere in qualunque momento, anche per cause inaspettate, come Freud insegna. E perché il ricordo non faccia male, la coscienza deve trovare pace con se stessa.
Non a caso quanto più ci si invecchia, tanto meglio si ricordano cose del proprio passato più remoto. Probabilmente perché dentro di noi vi è il desiderio di trovare una certa soddisfazione di sé. Siamo esseri che non sopportano di restare inappagati, a cui piace dare un senso non solo alle singole cose ma anche al loro insieme.
La Siberia fece la differenza
Con il proprio Stato Maggiore quasi completamente annientato dallo stalinismo poco prima dell'"Operazione Barbarossa", l'URSS avrebbe dovuto perdere la guerra piuttosto velocemente. Gli ultimi, pochissimi, generali rimasti erano sicuramente di ottimo livello, ma non avrebbero potuto essere sufficienti per vincere le imponenti divisioni tedesche, così ben armate ed equipaggiate, così ben addestrate a sottomettere in poco tempo gli eserciti di quasi tutte le altre nazioni europee. Nella sua capacità offensiva Hitler somigliava molto a Napoleone: era veloce e non dava tregua.
Se si escludono gli alleati e il nemico inglese, tutti gli altri popoli europei furono occupati senza che i tedeschi incontrassero particolare resistenza. Probabilmente se Hitler non avesse deciso di attaccare l'URSS, anche il Regno Unito sarebbe stato sconfitto, benché i nazisti, con questo immenso impero, si sarebbero accontentati di un compromesso.
Come poteva Hitler sapere che avrebbe potuto vincere facilmente tutti gli altri eserciti europei? Semplicemente perché quello che aveva speso la Germania per diventare una potenza militare mondiale, non l'aveva speso nessuno nello stesso periodo di tempo. Francia e Inghilterra pensavano di poter vivere di rendita, dopo il trionfo acquisito nella prima guerra mondiale.
Le forze armate tedesche venivano addestrate non solo per conquistare territori altrui e per uccidere i soldati avversari, ma anche per terrorizzare i civili, e questo nella prima guerra mondiale, ch'era stata prevalentemente di trincea, cioè di posizione, non si era fatto. La prova generale della loro spietatezza i nazisti la fecero a Guernica (durante la guerra civile spagnola) e a Coventry; e quando cominciarono a sterminare gli ebrei, Hitler disse: "Gli europei hanno tollerato tranquillamente il genocidio turco degli armeni: perché dovrebbero dire qualcosa a noi?".
L'esercito nazista era vocato anzitutto per l'attacco, e Hitler non aveva soltanto in mente di prendersi una rivincita sui francesi o di unire in un'unica nazione le regioni europee abitate dai tedeschi: voleva anche creare uno "spazio vitale" che avesse la fisionomia di un vero e proprio impero, paragonabile a quello inglese.
A Hitler bastò un decennio per scatenare il finimondo. Seppe soprattutto farsi valere esibendo tra fondamentali caratteristiche nel suo modo di fare politica: 1) la repentinità e l'imprevedibilità delle azioni, che non rispettavano nessun regolamento internazionale e rendevano lui piuttosto inviso alle nazioni europee, a meno che non assicurasse, privatamente, che il suo obiettivo finale era la distruzione del comunismo russo; 2) la determinazione a realizzare quanto dichiarato, dimostrando che un governo dittatoriale è più efficiente di uno democratico; 3) la ferrea disciplina nella formazione dei militari, che dovevano eseguire ordini senza discutere (come poi i gerarchi nazisti dissero al processo di Norimberga per giustificare i loro crimini).
I nazisti potevano dichiararsi tranquillamente "razzisti" non solo perché in questa maniera erano in grado di spaventare tutte le popolazioni "non ariane" (naturalmente secondo i loro criteri scientifici insensati), ma anche perché la loro superiorità militare era evidente: chi vince, può dire di sé quel che vuole.
La lezione che avevano appreso dalla prima guerra mondiale era una sola ma di capitale importanza: mai fare logoranti guerre di posizione, soprattutto quando, attaccando, non si hanno molti più militari del nemico. Decisamente meglio era fare guerre-lampo con eserciti e mezzi imponenti. Le perdite saranno minime ed enormi i vantaggi immediati.
In fondo i tedeschi non avevano affatto perso la prima guerra mondiale combattendo contro gli anglo-francesi. Coi russi addirittura la vinsero, anche se aprire due fronti contemporaneamente fu una follia. La persero però sul fronte occidentale dopo l'arrivo degli americani nel maggio 1917. La persero per sfinimento, per mancanze di riserve strategiche.
Hitler, che partecipò come volontario a quella guerra, aveva capito che, prima di sferrare l'attacco all'URSS, doveva sottomettere, in un modo o nell'altro, l'Europa occidentale, sfruttandone tutte le possibili risorse umane e materiali. Da questo punto di vista bisogna dire che la guerra contro l'URSS fu condotta da tutti i popoli dell'Europa, ad eccezione degli inglesi, che pur non vollero mai fare un preventivo trattato di aiuto reciproco militare coi sovietici. Gli Stati sottomessi o alleati contribuirono con l'invio di truppe, la fabbricazione di armi, munizioni, equipaggiamenti, la propaganda ideologica ecc.
Anche supponendo che l'esercito nazista abbia potuto compiere degli errori tattici invadendo l'URSS nel 1941, di sicuro le forze erano sufficienti per vincere la guerra in poco tempo. La strategia di Hitler non era sbagliata. Sapeva benissimo che i mezzi militari dell'avversario erano inferiori ai suoi. Sapeva anche che un esercito privo di ufficiali esperti, si demoralizza facilmente, si arrende dopo le prime sconfitte. Sapeva anche che il regime di Stalin non era affatto popolare, in quanto aveva compiuto eccidi di massa ingiustificati tra la propria popolazione.
Praticamente le armate naziste non incontrarono significative resistenze se non al cospetto delle tre grandi città: Mosca, Leningrado e Stalingrado. Nessuna di queste città sarebbe riuscita a sopravvivere contando esclusivamente su una controffensiva organizzata al proprio interno. Tutte e tre ebbero bisogno di un sostanziale aiuto proveniente dall'esterno, e questo venne loro dato dalla Russia asiatica, cioè dalla Siberia.
Furono le popolazioni siberiane a obbligare Hitler a rivivere una guerra di logoramento, che lui avrebbe voluto assolutamente evitare. La sua idea non era quella di conquistare tutta l'URSS (impresa assurda per qualunque singola potenza mondiale), ma di arrivare vittoriosi agli Urali. Semmai la conquista dell'area asiatica sarebbe avvenuta successivamente, dopo aver popolato di tedeschi l'area europea, ma a quel punto non ci sarebbe stato più bisogno di un dittatore come lui. Probabilmente gli stessi stalinisti, ch'erano una manica di incapaci sul piano militare, e di corrotti su quello morale, e di fanatici e insieme di opportunisti su quello politico, avrebbero preferito patteggiare coi tedeschi.
Qualcosa d'imprevisto andò storto. Gli stessi stalinisti ne rimasero sorpresi. Le forze nuove, combattenti, che arrivarono dalla Siberia, erano migliori di quelle naziste. L'ambiente durissimo di tutta l'area asiatica del Paese aveva saputo forgiare dei militari che non avevano paura di niente e, soprattutto, ch'erano disposti a sopportare qualunque sacrificio. Fu questo che fece la differenza. La vera "razza superiore", se vogliamo usare un linguaggio nazista, erano loro. La guerra patriottica fu vinta da una popolazione superiore a quella tedesca sotto ogni punto di vista. La durezza del vivere quotidiano aveva prodotto soldati d'acciaio, in grado di marciare fino a Berlino, conseguendo una vittoria dopo l'altra.
La politica estera dello stalinismo
I
Che Stalin e gli stalinisti fossero incapaci nel gestire la guerra contro i nazisti, è assodato. Ma perché lo furono anche nel promuovere o sostenere i tentativi insurrezionali dei partiti socialcomunisti o persino le guerre civili in corso in varie parti del mondo contro il capitalismo o l'imperialismo occidentale?
Dopo la seconda guerra mondiale la situazione era chiaramente favorevole a una transizione verso il socialismo, anche in Europa occidentale. Anzi in Spagna lo era stata già nel 1936-39, durante la guerra civile, quando il nazifascismo italo-tedesco protesse enormemente l'esercito di Franco, mentre l'URSS di Stalin non seppe fare altrettanto con le forze democratico-repubblicane, che peraltro erano già al potere. I sovietici stalinisti all'estero erano fatti così: o accentravano tutte le operazioni (di qualsivoglia natura) sotto il loro controllo, oppure se ne andavano. Non avevano vie di mezzo, nessuna forma di diplomazia. Non a caso disprezzarono sempre i Paesi non allineati.
In alcuni Stati est-europei s'imposero al governo i partiti comunisti semplicemente perché quei Paesi erano stati liberati dall'Armata Rossa. Stessa cosa accadde in Manciuria e nel nord della Corea. Viceversa, là dove gli stalinisti non erano presenti in maniera militare o dove non avevano una chiara preponderanza in chiave politica, lasciavano perdere. Per es. non credettero nella rivoluzione maoista se non quando ormai era impossibile non farlo. Né fecero nulla per favorire quella greca, solo perché Stalin aveva promesso agli inglesi (che pur aveva sempre odiato) che le sue armate non sarebbero entrate in Grecia: un grave errore geostrategico per la presenza militare e commerciale dell'URSS nel Mediterraneo.
Stalin chiese a Togliatti di disarmare la Resistenza, per non scontentare gli americani. Francia, Italia, la gran parte della Germania venivano considerate non occupabili. Persino all'Austria, liberata dall'Armata Rossa, venne data la possibilità di rientrare nell'ambito della sfera capitalistica.
Gli stalinisti sovietici ragionavano in termini di pura forza. Non erano capaci di usare i mass-media per appoggiare le forze socialcomuniste di resistenza al capitalismo angloamericano, che voleva sottomettere l'intera Europa occidentale e costruire la cosiddetta "cortina di ferro", proposta da Churchill.
In particolare gli americani erano bravissimi a ingannare le popolazioni coi loro mezzi artificiosi, con cui riuscivano a favorire libertà fittizie, individualismo sfrenato, culto del corpo, consumismo di massa e soprattutto democrazia formale. Strumento ideologico privilegiato per diffondere il loro stile di vita la cinematografia. La parte visibile della loro società era dedicata prevalentemente alla comunicazione propagandistica. E poi con gli aiuti finanziari del "piano Marshall" erano in grado di ricattare qualunque Paese ne beneficiasse. I loro massicci bombardamenti sulle città italiane non erano diretti né contro i nazisti né contro i fascisti, ma proprio contro la popolazione italiana, che, finita la guerra, si sarebbe trovata completamente prostrata e bisognosa di assistenza: l'Italia ha finito col chiedere aiuto alla stessa potenza che l'aveva bombardata.
Gli stalinisti si sentivano a loro agio là dove il livello culturale delle nazioni era molto basso: in questa maniera i loro metodi autoritari non sarebbero stati contestati. Tuttavia l'esperienza del socialismo statale fu completamente fallimentare in quelle nazioni africane che vollero liberarsi dei loro colonizzatori europei. Lo fu persino in Cina, dove i sovietici non riuscirono a capire che il socialismo statale dei maoisti voleva avere caratteristiche più rurali che industriali.
Lo stesso Medvedev lo scrive molto chiaramente: Stalin "guardò ai leader dei nuovi paesi socialisti come a dei propri vassalli… Vide l'allargamento del campo socialista come una sorta di ampliamento del suo potere personale" (p. 573, o.c.). Non considerava minimamente le specificità di ogni singolo Paese, né voleva concedere alcuna autonomia decisionale.
Il caso più emblematico dell'ottusità degli stalinisti in politica estera fu quello jugoslavo. Tito era favorevole al socialismo statale, ma non era disposto ad accettare le ingerenze di Mosca, anche perché voleva dare alla gestione economica delle industrie una veste più democratica di quella sovietica, dove tutto era centralizzato coi piani quinquennali. Tito preferiva una sorta di socialismo cooperativistico e autogestito, in grado di rispecchiare le esigenze di una società molto composita sul piano etnico-culturale.
Stalin invece approfittò della rottura con Tito per accelerare la costruzione autoritaria del socialismo statale di marca sovietica in tutti i Paesi del COMECON. Quando la cosa non veniva accettata così supinamente come in Unione Sovietica, si imbastivano processi politico-giudiziari a non finire, simili a quelli della fine degli anni '30, che dai comunisti occidentali venivano accettati solo perché l'URSS aveva vinto il nazifascismo.
Agli occhi delle forze politiche democratiche e dei socialisti o socialdemocratici gli stalinisti persero ogni credibilità. Il socialismo statale cominciò a essere visto come un'insopportabile dittatura. Lo stalinismo aveva posto le basi non solo per il proprio superamento, ma anche per la rinuncia a qualunque forma di socialismo. In tutti i Paesi del blocco sovietico si formò col tempo una specie di rozzo sillogismo, secondo cui se la rivoluzione comunista porta al socialismo statale, e se questo porta allo stalinismo, è meglio, visto che entrambi sono una forma di dittatura, rinunciare a qualunque idea comunista. Di qui il fallimento di tutte le esperienze "comuniste" realizzate nel mondo e in Europa in particolare.
Si fece di tutta l'erba un fascio. Non si riuscì mai a realizzare un'esperienza di socialismo autenticamente democratica. Qualunque tentativo di opporsi ai meccanismi perversi del socialismo statale finiva sempre col favorire il ritorno alle priorità del capitalismo, al massimo impedendo a quest'ultimo una radicale privatizzazione del bene comune. Alla fine i sostenitori del socialismo statale diventarono le classi o i gruppi sociali più marginali e deprivati, incluse talune personalità intellettuali non disposte ad ammettere l'evidenza delle cose.
II
Sotto Stalin vennero gettate le basi della politica estera sovietica, inclusa quella verso gli USA. L'eco di questa politica si è sentita, praticamente, sino a quando non s'impose la svolta di Gorbaciov, coi suoi temi sullo Stato di diritto, sulla separazione fra ideologia e Stato, sull'interdipendenza degli interessi mondiali, sulla sicurezza universale, sulla "casa comune europea" ecc.
Ovviamente è impossibile ricostruire la politica estera di Stalin solo sulla base dei discorsi, interviste e articoli che gli appartengono. Occorrerebbe esaminare anche le pubblicazioni occidentali relative a "memorie", rapporti diplomatici ecc., nonché gli archivi del Pcus, del Ministero della Difesa e del KGB, gli archivi di L. Trockij ad Harward e quelli dei Paesi ex-comunisti dell'Europa orientale, senza dimenticare che ai tempi di Krusciov e di Brežnev furono distrutti tutti i documenti che potevano compromettere la figura di Stalin.
La visione sovietica della politica estera ruotava attorno a due pilastri fondamentali: il rivoluzionarismo (altrimenti detto "romanticismo rivoluzionario") e l'idea di una Russia come grande potenza. Il romanticismo rivoluzionario risaliva alla rivoluzione francese, la quale aveva proclamato la Francia "alleata naturale" di tutte le nazioni libere, disposta a sostituire alle relazioni diplomatiche una guerra rivoluzionaria per la liberazione dell'Europa. Il Manifesto di Marx ed Engels si fondava appunto, col suo appello all'unificazione del proletariato mondiale, sulle tradizioni della solidarietà rivoluzionaria. Quelle tradizioni che da più di mezzo secolo avevano visto intellettuali radicali europei disposti a partecipare a qualunque tipo di insurrezione per la libertà, fosse essa in Polonia, Francia, Italia, Grecia o Germania.
Secondo il Manifesto gli operai non hanno patria, e nel sec. XIX in effetti sembrava così. Anche alla vigilia della prima guerra mondiale, i partiti socialdemocratici al potere ritenevano impossibile che i socialdemocratici tedeschi potessero sparare sui loro compagni francesi, belgi e russi (25 anni dopo gli operai sovietici pensarono che gli operai tedeschi non avrebbero sparato su di loro).
Insomma si voleva la rivoluzione mondiale. Si può immaginare con quale stato d'animo i bolscevichi firmarono il trattato di pace di Brest-Litovsk con la Germania. La stessa Internazionale Comunista, sin dal suo nascere, aveva assunto il ruolo di "quartier generale" della rivoluzione mondiale.
Naturalmente la rivoluzione mondiale non era per Stalin la stessa cosa che per L. Trockij o G. Dimitrov. Stalin non la considerava come un aiuto disinteressato ai lavoratori d'altri Paesi in lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione, ma come un'espansione illimitata della rivoluzione russa, che avrebbe dovuto portare a un impero rivoluzionario.
Questo romanticismo rivoluzionario preoccupava alquanto l'America, che già nel lontano 1793 aveva espulso il rappresentante francese E. C. Genét che, a nome della Convenzione, aveva cercato di coinvolgere gli USA nel movimento rivoluzionario.
Non a caso F. D. Roosevelt, nello stabilire relazioni diplomatiche con l'URSS, pretese che la seguente complicata garanzia fosse prevista nel messaggio di M. Litvinov, ambasciatore sovietico negli USA: "Il governo sovietico s'impegna a non permettere la formazione o la presenza, nel suo territorio, di alcuna organizzazione o gruppo, o comunque ad adottare misure preventive contro l'attività di organizzazioni, gruppi o loro singoli rappresentanti, ovvero funzionari di qualunque apparato o associazione, che perseguano l'obiettivo, nei confronti degli USA o di una qualunque loro parte (territori o domini), di rovesciare o modificare con la forza il regime politico o sociale esistente".
Verso la metà degli anni '30, Stalin, tentando di uscire dall'isolamento diplomatico, ogniqualvolta incontrava i rappresentanti ufficiali del mondo occidentale, preferiva dissociarsi dall'idea della rivoluzione mondiale. La sue dichiarazioni, tuttavia, non suscitavano mai piena fiducia.66
Questo perché per Stalin doveva essere il Comintern lo stato maggiore della rivoluzione mondiale. Di qui le violente controversie sulle vie di sviluppo della rivoluzione di questo o quel Paese, la formazione dei quadri per queste rivoluzioni, l'invio di consiglieri per organizzare la lotta armata, la regolamentazione della politica dei partiti comunisti degli altri Paesi, ecc.
Nel 1939 Stalin commise un tragico errore. Egli credette che il nemico n. 1 dell'URSS fossero le democrazie occidentali (Inghilterra, Francia e USA), che - a suo giudizio - volevano spingere la Germania e il Giappone contro l'URSS. Questa visione delle cose dipendeva probabilmente dal fatto che Stalin nutriva ancora un forte odio per l'Intesa, da lui considerata come responsabile principale dell'intervento contro la Russia rivoluzionaria. Paradossalmente, egli riusciva meno a dimenticare la presenza di piccoli distaccamenti americani ad Arkhangelsk e a Vladivostok, che non il fatto che la Germania stesse occupando l'Ucraina, la Bielorussia e i Paesi Baltici, mentre il Giappone cercava d'invadere l'Estremo Oriente. (Questo paradosso si spiega evidentemente col fatto che l'Intesa aveva appoggiato la guerra civile).
Inoltre la logica imperiale doveva fare di Stalin l'erede della germanofilia tipica della dinastia Romanov, rafforzata, nel suo caso, sia dalla buona cooperazione dell'URSS con la Repubblica di Weimar, sia da una loro certa solidarietà contro gli accordi di Versailles, sia infine dal ruolo negativo giocato dal rivale Trockij nella pace di Brest-Litovsk, che - come noto - era stato molto ostile al governo tedesco allora in carica. Infine Stalin ha sempre provato molta più ostilità verso gli "eretici", come i socialdemocratici o i democratici in genere, che non verso i fascisti.
Al XVIII Congresso del partito, Stalin affermò che il "clamore sospetto" sollevato dalla stampa anglo-francese e nord-americana, secondo cui il Reich tedesco voleva annettersi l'Ucraina sovietica, unificandola con l'Ucraina carpatica, aveva come scopo d'invelenire i rapporti tra URSS e Germania, portandole alla guerra: ciò che poi avvenne tre anni dopo. Stalin era convinto che il principale nemico dell'URSS fosse l'Inghilterra e per molto tempo non considerò gli americani come alleati potenziali contro l'aggressione nazista.
Già all'inizio degli anni '20 i bolscevichi avevano capito che il centro dello sviluppo economico (produttivo, commerciale e finanziario) s'era spostato dall'Europa occidentale agli Stati Uniti. Con quest'ultimi, infatti, Stalin intendeva far competere l'URSS. Al XVIII Congresso del partito (1939) alcuni commissari del popolo chiesero addirittura di acquisire i metodi americani relativamente all'uso delle macchine utensili, per poterli superare nella produttività del lavoro.
A quel tempo la società sovietica, nel suo complesso, aveva un'immagine piuttosto positiva degli USA. Basti pensare al poema di Mayakovsky, Il ponte di Brooklyn, che esalta il genio dell'industria americana. Lo stesso Stalin, nel 1931, pur con le sue solite riserve ideologiche, si era sentito indotto ad ammettere l'importanza del dinamismo americano, la sana attitudine verso il lavoro, il senso dell'efficienza e della praticità, il clima democratico che si respirava nell'industria e nelle produzioni tecnologiche, in netto contrasto - egli rilevava - con lo spirito aristocratico-feudale che ancora regnava nei Paesi capitalistici della vecchia Europa.
Stalin considerava Roosevelt un politico coraggioso e determinato, un realista. Egli inoltre apprezzava il poeta Whitman e nelle sue conversazioni col repubblicano Harold Stassen, affermò, non senza invidia, che l'America era una nazione fortunata, non solo perché protetta da due oceani e confinante con due Paesi deboli (Canada e Messico), che certo non potevano impensierirla, ma anche perché dopo la guerra d'Indipendenza essa aveva vissuto in pace per almeno 60 anni, potendo così svilupparsi rapidamente, senza poi considerare che la popolazione americana da tempo s'era affrancata dal giogo dei re e dell'aristocrazia feudale.
Stalin fece anche notare a Stassen che Germania e Giappone non erano in grado di competere con gli USA, che i mercati europeo, cinese e nipponico erano aperti ai prodotti americani e che delle condizioni così favorevoli gli USA non le avevano mai avute. Si stupì molto però quando apprese da Stassen che l'export americano non superava il 15%.
Durante la seconda guerra mondiale gli USA e l'Inghilterra non solo si allearono con l'URSS, ma - contro ogni aspettativa - riconobbero in Stalin uno degli artefici dei destini del mondo post-bellico. Esse praticamente compresero che senza l'appoggio dell'URSS non avrebbero potuto vincere il nazifascismo. E così, dalla periferia della politica mondiale, Stalin si trovò improvvisamente al centro, insieme a Roosevelt e a Churchill, avendo come obiettivo non più quello della rivoluzione mondiale, ma quello della ripartizione delle sfere d'influenza.67
Ad un certo punto egli prese a considerare gli USA come suo partner principale e formulò la proposta di ripartire il mondo sulla base del principio della "coesistenza pacifica". "Si potrebbero forse evitare delle catastrofi belliche se ci fosse la possibilità di distribuire periodicamente le materie prime e i mercati di sbocco fra i diversi Paesi, in rapporto al loro peso economico, attraverso la ricerca di soluzioni pacifiche concertate". Così disse il 9 febbraio 1946, in un meeting con i suoi "elettori" al distretto elettorale di Mosca.
In via di principio, Stalin non era contrario alla idea leniniana di favorire la cooperazione fra due sistemi economici opposti. Egli anzi riconosceva che il capitalismo mondiale era entrato in una fase di relativa stabilità, ovvero ch'esso si stava sviluppando più velocemente che nel passato. Ammetteva addirittura che il sistema americano si reggeva sul consenso popolare. Esortava a rinunciare alla guerra di propaganda, a non qualificare il sistema sovietico di "totalitarismo" o quello americano di "capitalismo monopolistico". Egli stesso si definiva, per piacere agli americani, un businessman.
Questo suo atteggiamento sortì l'effetto sperato solo su Roosevelt, che, pur in presenza della guerra fredda, disse al suo amico e biografo J. Daniels, nel 1949: "Stalin mi piace, assomiglia a Tom Pendergast" (un leader del partito democratico degli anni '20 nello Stato del Missouri: un tipo energico e carismatico, ma caduto in disgrazia a causa di uno scandalo e di un'accusa per corruzione). Roosevelt era convinto che Stalin fosse come "prigioniero del Politburo".
Al di là delle simpatie di Roosevelt, il piano di Stalin di spartire pacificamente il mondo, fallì del tutto: sia perché l'occidente interpretò il suo discorso del 9 febbraio come una dichiarazione di "guerra fredda"; sia perché lo stesso Stalin non fece nulla per incontrare l'occidente a metà strada. Egli infatti era convinto, ideologicamente, che il sistema capitalistico fosse prossimo a crollare e che i suoi momentanei miglioramenti non facessero che accelerare la venuta del giorno fatidico.
A tale proposito Harold E. Stassen gli aveva fatto notare, nel 1947, che nelle condizioni del capitalismo regolamentato, le crisi che portano alla morte erano praticamente impossibili. Al che Stalin rispose che ciò avrebbe implicato la necessità di un governo molto forte e risoluto.
Dalle conversazioni fra Churchill e Stalin risulta chiaramente che quest'ultimo considerava il pluripartitismo un'aberrazione. Egli inoltre era convinto che il popolo stimasse solo una cosa: la forza, e che, per questa ragione, in Inghilterra esso avrebbe votato, durante le elezioni del '45, per i conservatori. Cosa che invece non avvenne, poiché proprio con quelle elezioni furono i laburisti ad acquistare una solida maggioranza.
Stalin s'era indignato nel vedere che gli USA non avevano apprezzato la sua iniziativa di ripartire pacificamente il mondo. Proprio in nome di essa, egli aveva rinunciato, in un primo momento, sia all'idea d'impiantare subito dei regimi comunisti in Europa orientale, sia a quella di appoggiare il partito comunista cinese. Il ripensamento ebbe luogo nel 1948, con la decisione di far scendere gli eserciti comunisti sulle strade della Cecoslovacchia, dopodiché venne edificato il muro di Berlino e si ruppero le relazioni con Tito.
L'influenza postuma di Stalin sulla società sovietica dimostrò ancora di più la vitalità degli stereotipi ch'egli aveva imposto, quegli stereotipi che s'erano formati negli anni '20 e consolidati definitivamente negli anni 1948-52. Dopo il 1948 Stalin cominciò a propagandare l'idea che gli USA fossero governati da un misterioso club di ricchi e che le istituzioni della democrazia borghese non servissero a nulla. In queste condizioni gli USA avrebbero scatenato la terza guerra mondiale, servendosi dello strumento dell'ONU, dove - a giudizio di Stalin - dominavano i 10 Paesi-membri del Patto Nord-Atlantico. Tutte le nazioni che appoggiavano gli USA erano considerate da Stalin "nemiche dell'URSS". In sostanza i due "blocchi" dovevano restare separati.
Pur di far credere che gli USA erano in procinto di crollare, Stalin, nel 1952, dichiarò che dopo la fine della seconda guerra mondiale, due tesi avevano perso la loro forza: la sua propria, sulla relativa stabilità dei mercati nell'epoca della crisi generale dell'imperialismo; e quella di Lenin, secondo cui, nonostante tale crisi globale, il capitalismo si sviluppava in modo più rapido che nel passato.
Al XIX Congresso del partito Stalin riprese i vecchi slogan sulla rivoluzione mondiale e sul crollo definitivo degli USA in virtù di tale rivoluzione. Gli USA furono accusati di continua ingerenza negli affari dell'URSS. Essendo sempre bisognoso di un "nemico", Stalin arrivò addirittura a sperare che scoppiassero nuove guerre mondiali imperialiste, all'interno delle quali Inghilterra e Francia da un lato, Germania e Giappone dall'altro, formassero due blocchi antiamericani.
Egli criticava quei compagni che ritenevano più forti le contraddizioni tra socialismo e capitalismo che non quelle interimperialistiche. E criticava anche quanti sostenevano che gli USA erano già in grado d'impedire che gli altri Paesi capitalisti si combattessero tra di loro, indebolendosi a vicenda. A suo parere la tesi sull'inevitabilità delle guerre tra Paesi capitalisti restava in vigore, tant'è che non considerava affatto la guerra il peggiore dei mali possibili. Anzi deplorava che il movimento contemporaneo per la pace non avesse avuto alcuna intenzione di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, come durante la prima guerra mondiale, anche se non per questo escludeva che la lotta per la pace potesse trasformarsi, poste talune circostanze, in lotta per il socialismo.
Questo modo di vedere le cose non è morto con la morte di Stalin, ma è proseguito - seppure in forme ideologicamente più sfumate - con l'intervento armato in Ungheria nel 1956, durante la crisi caraibica del 1962, con le forme paranoiche di ostilità nei confronti della Cina, con l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e, per finire, durante la guerra d'Afghanistan. La nuova mentalità politica è nata solo nell'aprile 1985, con l'entrata in scena dell'umanesimo globale di Gorbaciov, ma è durata poco. Con El'cin la subordinazione agli Stati Uniti fu totale, mentre con Putin si è iniziato a parlare di superamento dell'ideologia globalista unipolare dell'"occidente collettivo".
Anche dopo la guerra mondiale
Lo stalinismo continuò a perseguitare la popolazione sovietica anche dopo la fine della seconda guerra mondiale. Medvedev ne parla negli ultimi tre capitoli del suo libro monumentale, nettamente superiore a quello, non meno corposo, di Volkogonov, che a volte appare romanzato.
Negli ultimi 15 anni di vita di Stalin furono molto più attivi alcuni leader appartenenti al suo stretto entourage, come Berija, Malenkov, Kaganovich, Zdanov, ecc. Costoro sembrava volessero far capire alla popolazione che, non per aver vinto la guerra, lo stalinismo si sarebbe democratizzato. Non ci sarebbero stati premi per nessuno.
Gli ultimi capitoli di quel libro sono riepilogativi di una tragedia durata tutta la vita di Stalin, e anche dopo la sua morte e dopo la destalinizzazione avviata da Krusciov, e persino al tempo di Gorbaciov, visto che questi si sentiva ancora in dovere di precisare che la tesi secondo cui quanto più aumenta il socialismo, tanto più aumentano i suoi avversari, era arbitraria.68
La tragedia raggiunse il culmine durante la guerra contro il nazismo, in cui i morti, arrivati a cifre pazzesche, dal regime venivano attribuiti esclusivamente alle armate hitleriane, per cui solo dopo la destalinizzazione si riuscì a capire che, almeno in gran parte, andavano addebitati allo stesso stalinismo.
In tal senso sbaglia Medvedev a parlare di repressioni precedenti e successive alla guerra patriottica. Infatti la stessa guerra fu usata dallo stalinismo come strumento di sterminio del popolo sovietico, nei cui confronti gli stalinisti al potere non provavano alcuna pietà, alcuna considerazione positiva.
Le persecuzioni staliniste del dopoguerra, anche se non raggiunsero l'intensità di quelle degli anni '30, furono le meno comprensibili. Infatti, mentre nei Paesi occidentali si festeggiava la fine della guerra, nello stesso periodo gli stalinisti si preoccupavano soltanto di trovare altri pretesti per continuare a decimare la propria popolazione, peggiorando ulteriormente le già difficili condizioni di vita.
Probabilmente la popolazione pensava che, a fronte di una riduzione enorme della forza-lavoro dovuta alla guerra, la direzione totalitaria avrebbe attenuato la sua presa, ma ciò avvenne solo al tempo del governo di Krusciov. Paradossalmente neppure il fatto d'essere un dirigente locale o nazionale o un funzionario amministrativo dichiaratamente "stalinista" non assicurava a se stessi una vera incolumità. Il potere era completamente scollegato dalla realtà, per cui faceva cose disumane che, in una logica normale, non avevano alcun senso.
D'altra parte quando uno statista è abituato a comportarsi come un dittatore, e il suo entourage lo lascia fare, è evidente che, di fronte alle situazioni critiche sul piano socioeconomico, s'irrigidisce ancora di più. Questo è successo a Stalin fino all'ultimo giorno in cui è vissuto (5 marzo 1953).
L'URSS era uscita completamente devastata dalla guerra. Inutile qui riportare i dati della tragedia, poiché si possono trovare in tutti i libri di storia scritti da sovietici o da comunisti, anche se soltanto al tempo del governo di Gorbaciov si venne a sapere che i morti, in totale, non erano stati né 15, né 20 e neppure 25, bensì 27 milioni, cioè 20 milioni in più di quelli dichiarati da Stalin, che non voleva far vedere d'aver avuto molti più morti di Hitler, e che quindi era stato un pessimo "condottiero". Ci vorranno 20 anni prima di raggiungere il livello pre-bellico della popolazione.69
Dunque a partire dal 1946 qualunque confronto tra USA e URSS diventava improponibile, come quello tra USA e un qualunque Paese europeo. Tutti avevano bisogno del sostegno finanziario americano: è stato questo che li ha fatti diventare la nazione più importante del pianeta.
Grazie allo spionaggio (e agli scienziati rinchiusi nei gulag) i sovietici potranno costruire la bomba atomica quattro anni dopo gli Stati Uniti; e, per far vedere che nelle scienze esatte non erano inferiori a nessuno, furono i primi a inviare un astronauta nello spazio (aprile 1961). Ma gli USA non si fecero impressionare: nel luglio 1969 sbarcarono sulla Luna.
Nella vita quotidiana la situazione economica era catastrofica, e lo resterà ancora per molto tempo. Se non fosse stato così, lo stalinismo non avrebbe avuto bisogno d'inventarsi nuovi nemici, né avrebbero avuto successo i maneggi del più cinico e spietato tra gli stretti collaboratori di Stalin: Berija.70
Paradossalmente lo stalinismo poté continuare tranquillamente la sua opera di repressione interna grazie al fatto che all'estero i Paesi capitalisti consideravano Stalin il principale fautore del crollo nazi-fascista. Fino al discorso di Churchill a Fulton nel marzo 1946, che aprì la strada alla guerra fredda, nessuno mise in discussione il valore militare di Stalin. Anzi, probabilmente quel discorso fu dettato proprio dalla paura che questo valore potesse indurre i partiti comunisti presenti in Europa a compiere analoghe rivoluzioni operaie. A partire da quel discorso si cominciò a dire che Stalin era un dittatore, per cui l'URSS e tutti i Paesi del COMECON andavano isolati.
La prima conseguenza di tale discorso fu la guerra in Corea, nei primi anni '50, che si risolse in parità: al 38° parallelo si divise la penisola in due, come lo fu la Germania nel 1949, ma senza spargimento di sangue. La seconda conseguenza fu che lo stalinismo cominciò a esercitare una pressione nefasta sugli stessi Paesi del blocco sovietico.
La delusione più grande dei sovietici si ebbe quando, finita la guerra, speravano in una maggiore tolleranza e democrazia da parte del governo e delle istituzioni, e anche in un certo benessere materiale, ma dallo stalinismo non ottennero assolutamente nulla. Anzi, per certi versi la situazione peggiorò: la burocrazia raggiunse l'apice, così come il culto della personalità, alcuni enti (per es. le ferrovie) vennero militarizzati, fu tolto il passaporto interno ai contadini per poterli incatenare ai colcos, particolarmente repressi furono gli studiosi e ricercatori di scienze sociali, ma anche i movimenti nazionalisti sorti in Ucraina, nei Paesi Baltici e altrove.
Volkogonov lo dice chiaramente: Stalin "aveva sempre pensato che senza molte vittime non è possibile edificare il socialismo, sbaragliare il fascismo e risollevare la nazione" (p. 535, o.c.). Cioè la popolazione andava tenuta in costante tensione, colpevolizzata, come se la guerra civile non dovesse mai finire. Era questo il modo migliore per non risolvere i problemi che con la propria politica lo stalinismo continuamente si creava.
*
Diciamo dunque che dall'inizio del secondo dopoguerra sino alla morte di Stalin, lo stalinismo, unico responsabile di enormi danni umani e materiali al proprio Paese, aveva di fronte a sé due alternative: o ammettere in tutta sincerità che si era presa una strada sbagliata, oppure continuare a percorrerla.
Nel primo caso Stalin e qualcuno del suo entourage si dovevano dimettere, prendendo a pretesto una qualche malattia, e naturalmente chiedendo in cambio la propria incolumità. Viceversa, nel secondo caso si dovevano trovare nuovi motivi per rinfocolare le repressioni.
Tuttavia la disumanizzazione della società aveva raggiunto livelli così elevati che la popolazione non si sarebbe accontentata di semplici dimissioni: avrebbe preteso processi giudiziari, sentenze di morte, com'era accaduto a Norimberga per i nazisti catturati.
Probabilmente se gli stalinisti avessero scelto la prima alternativa, la destalinizzazione di Krusciov non avrebbe avuto una natura minimalistica, ma sarebbe stata a 360 gradi. Krusciov fu uno dei pochi stalinisti a rendersi conto che la misura era colma e che, se si fosse continuato a gestire il Paese coi tradizionali metodi dittatoriali, il divario dai Paesi capitalisti, dopo le devastazioni causate dalla guerra mondiale, sarebbe stato incolmabile, e non meno forte sarebbe stato il rischio di una destabilizzazione politica causata dagli elementi sociali più scontenti del sistema.
La guerra, infatti, era stata sì vinta, ma, per colpa dello stalinismo, sembrava essere stata persa. Con 27 milioni di morti non si poteva sperare che le cose potessero continuare a funzionare. Peraltro non funzionavano neppure prima, se non usando il pugno di ferro. Ora lo stalinismo doveva cercare nuovi pretesti con cui giustificare il regime oppressivo. Questo spiega il motivo per cui quello stalinismo che va dalla fine della guerra all'eliminazione di Berija presenta forme del tutto irrazionali, non tanto per il numero di vittime che creò, quanto per le sue giustificazioni, che si possono leggere nel libro di Medvedev al capitolo intitolato "La politica interna" (pp. 581-601): vanno dal cosiddetto "Affare di Leningrado" agli interventi faraonici e del tutto inutili, sul piano edilizio, dell'ultimo Stalin, che, vivendo in una sua bolla autoreferenziale, ignorava totalmente le vere esigenze del Paese. In mezzo sta l'ondata repressiva contro gli intellettuali (artisti, scienziati, scrittori, critici, attori...), gli ebrei, le minoranze, le nazionalità, i contadini, gli operai, i detenuti, gli ex-prigionieri dei nazisti, ecc. Anche Volkogonov ne parla nei capitoli X e XI (pp. 523-621). Inutile qui darne un riassunto. Questo non vuole essere un libro storiografico.
Le zone d'ombra e le alternative storiche
La storiografia marxista è stata alle prese, negli anni della perestrojka di Gorbaciov, con problemi legati all'autenticità dei fatti storici, alla loro completezza e verità, nonché alla revisione di talune interpretazioni schematiche e decisamente superate. Vi era un grande desiderio di conoscere tutto il proprio passato e soprattutto quelle "zone" tenute in ombra dallo stalinismo e dai governi della stagnazione. A ciò si collegava la discussione sul valore delle "alternative storiche", cioè delle diverse opzioni che si potevano seguire nel momento in cui andavano risolte questioni d'importanza vitale.
Vi sono state alcune "rivelazioni" che hanno per così dire dato il via a molti ripensamenti storiografici. Si pensi alla scoperta di un patto segreto fra URSS e Germania che affiancava quello ufficiale di Ribbentrop-Molotov, o alla responsabilità accertata di Stalin nell'esecuzione degli ufficiali polacchi a Katyn, o anche al fatto che i sovietici morti nel corso della seconda guerra mondiale sono stati non 20 ma 27 milioni.
Soltanto oggi si può tranquillamente ammettere che molti fatti storici erano completamente o parzialmente ignorati non solo dai manuali scolastici, ma anche dalle pubblicazioni scientifiche. Il che per molti decenni ha contribuito a fare della storiografia un compito riservato a pochi specialisti rigidamente allineati. Anche quando, per es., si cominciò ad accennare alle violazioni della legalità durante gli anni dello stalinismo, si continuò a tacere sulle milioni di vittime innocenti, nonché sulle responsabilità dei delatori, dei calunniatori e dei seguaci di Stalin, favorevoli allo sterminio di massa.
Il giudizio sulla seconda guerra mondiale
Molti storici sovietici, anche nel periodo della stagnazione, attribuivano la scarsa preparazione dell'URSS, per una guerra contro la Germania nazista, al fatto ch'essa non ebbe tempo sufficiente per riorganizzare e riarmare l'Armata Rossa: il che spiegherebbe - a loro giudizio - le sue sconfitte durante le prime tappe della guerra. Oggi invece gli storici sono del parere che l'URSS avesse sin dall'inizio capacità adeguate a respingere l'aggressore, in quanto i carri armati e i corpi corazzati non avevano nulla da invidiare a quelli tedeschi. Furono anzi proprio i sovietici a saggiare per primi le possibilità, teorico-pratiche, dei ponte-aerei, dei missili e dei razzi.
Il fatto è purtroppo che il genio di esperti militari come M. Tuchachevskij e V. Triandafillov, o di esperti scienziati come S. Korolev e V. Glushko, non venne capito, sino al punto che essi stessi furono considerati dei sabotatori e dei "nemici del popolo". E così, in luogo della produzione e dell'uso massiccio dei carri armati e dei corpi corazzati, si preferì rilanciare i mezzi e i metodi con cui si era vinta la guerra civile. I piani per creare le divisioni dei paracadutisti furono smantellati, e P. Grokhovsky, uno dei loro principali ideatori, venne declassato a un compito amministrativo. I progettisti dei razzi, Korolev e Glushko, furono spediti nei campi di prigionia di Kolyma. Y. Alksnis e Y. Smuskevich, loro collaboratori e specialisti teorico-pratici nell'uso degli aeroplani da guerra, caddero sotto le repressioni staliniane. Molti generali dell'Armata Rossa e tantissimi ufficiali di valore furono uccisi o finirono nei gulag.
Oggi ci si chiede quanti storici russi abbiano davvero studiato a fondo gli inizi della Grande Guerra Patriottica. Quando la Germania attaccò l'URSS, il 22 giugno 1941, ci fu un notevole ritardo nell'allertare le truppe sovietiche nei distretti militari occidentali. Solo durante il primo giorno di guerra, l'aviazione sovietica perse circa 1.200 aerei: questo perché l'intelligence del nemico aveva informazioni dettagliate sullo spiegamento delle forze sovietiche e sulle linee di rifornimento e di comunicazione dislocate per almeno 300 chilometri.
Questi e molti altri errori di valutazione dello staff di Stalin comportarono il tracollo quasi immediato del fronte occidentale. S'impedì addirittura alle truppe di terra di attraversare i confini con la Germania e alle forze aree di oltrepassare i limiti al di là di 100-150 chilometri.
Stalin decise di reagire soltanto quando il nemico era giunto nei territori sud-occidentali. Nel settembre del 1941, invece di acconsentire al ritiro delle 600.000 truppe sud-occidentali, al fine di preparare la difesa lungo il fiume Psel, favorì il loro accerchiamento nella battaglia di Kiev. Nel maggio 1942, invece di ascoltare il generale A. Vasilevsky che gli aveva suggerito di fermare l'offensiva su Kharkov, Stalin (e con lui Tymošenko) la pretese ad ogni costo, determinando così l'accerchiamento delle truppe sovietiche nel saliente di Barvenkovsky.
Milioni di soldati sovietici furono fatti prigionieri durante il primo periodo della guerra. Milioni di loro morirono nei lager nazisti. E milioni furono uccisi nei territori sovietici occupati. Ciononostante, nei confronti di chi riusciva a sopravvivere e a tornare in patria, lo stalinismo spesso riservò una particolare accoglienza: il sospetto di tradimento!
Il giudizio sulla democrazia
Ovviamente qui sarebbe ingiusto attribuire al solo Stalin ciò di cui furono responsabili anche gruppi sociali e leaders politici amanti dei metodi dirigistico-amministrativi. Questo poi senza considerare che in parte vanno responsabilizzati anche tutti coloro che provavano indifferenza per la gestione politica della vita sociale. Lo stesso culto della personalità non può essere ritenuto come un prodotto esclusivo del carattere autoritario di Stalin. Se così fosse, si dovrebbe anche ammettere che la società socialista non può mai garantirsi contro l'apparizione di tale fenomeno, in quanto può solo sperare che a un leader autoritario faccia seguito, casualmente, uno democratico.
D'altra parte non ha neppure senso giustificare quel culto appellandosi a fattori storico-oggettivi, come p.es. lo stato arretrato del Paese, l'assenza di esperienze democratiche, la necessità della centralizzazione, ecc. Se così fosse il culto andrebbe visto come una necessità storica cui la società di allora non poteva opporsi. Questi due punti di vista portano - come si può notare - a uno stesso risultato: prevenire il culto o sopprimerlo, dopo che si era formato, era allora impossibile.
Oggi finalmente si sono acquisiti dei criteri fondamentali grazie ai quali si può scongiurare la riedizione (magari riveduta e corretta) di quel culto: il principio della elettività, l'obbligo di rendere conto del proprio operato, il controllo di tutto l'apparato gestionale, la rotazione delle cariche, la trasparenza, la partecipazione collettiva all'elaborazione ed applicazione delle leggi, ecc. Non esistono fattori oggettivi o soggettivi che di per sé possano impedire il formarsi del culto della personalità: occorre il contributo della democrazia a tutti i livelli.
Gli storici si sono per es. chiesti se l'esigenza della centralizzazione, manifestatasi subito dopo la rivoluzione d'Ottobre, doveva per forza di cose realizzarsi sulla base del centralismo burocratico. Ora, il fatto stesso che Lenin e altri bolscevichi avessero prospettato l'eventualità di democratizzare tale centralizzazione, non sta forse a indicare che né la mancanza di esperienze democratiche, né il basso livello culturale del popolo, avrebbero potuto impedire lo svolgimento burocratico e autoritario della rivoluzione? Disgraziatamente Lenin morì troppo presto per continuare la lotta in questa direzione, e dopo la sua morte nessun altro dirigente fu in grado di farlo in maniera convincente: anche sui motivi di questa sconfitta della democrazia gli studi sono ancora insufficienti per offrire risposte esaurienti.
Tuttavia, non ogni interpretazione sulle vicende del passato va rivista. Alcuni storici non-marxisti hanno rispolverato la tesi secondo cui la riforma agraria di Stolypin avrebbe potuto costituire un'alternativa alla rivoluzione d'Ottobre, se la guerra mondiale non l'avesse impedita. In realtà, quella riforma, di tipo prussiano, era fallita ancor prima del 1914, proprio a motivo del fatto che l'autocrazia non era riuscita a superare né l'attaccamento dei contadini alle tendenze egualitaristiche delle comuni (obscine), né il bisogno di protezione sociale tipico di quest'ultime, nonostante le loro caratteristiche limitate. Anche da questo si comprende come la rivoluzione d'Ottobre non fu una semplice alternativa al capitalismo, ma una necessità storica vera e propria.
La teoria dell'alternativa storica
Durante il governo di Gorbaciov i maggiori storici sovietici mettevano in forte discussione la classica tesi secondo cui la storia ignora il condizionale, per cui è tempo perso chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere se al momento della scelta si fossero prese strade diverse.
La tesi è stata sottoposta a critica perché ci si è accorti, in virtù della perestrojka, che la teoria delle formazioni sociali che si succedono in maniera regolare nell'evoluzione storica, è stata per troppo tempo interpretata dagli storici sovietici come una fatale pre-determinazione, incapace di lasciare spazio a diverse varianti di sviluppo, ovvero a delle alternative storiche, virtuali o potenziali, ma non per questo meno reali.
Oggi si è giunti alla conclusione che, per realizzare una maggiore obiettività, occorre che il ricercatore mostri il motivo per cui in un certo periodo storico si è scelta una via e non un'altra, ed è necessario ch'egli faccia questo evidenziando accuratamente tutte le varianti possibili dell'evoluzione sociale presenti al momento della scelta. In altre parole, egli deve bilanciare l'importanza della "lotta dei contrari", con l'altro aspetto della dialettica storica: "l'unità degli opposti". Ovviamente di ciò trarrà beneficio non solo la conoscenza del passato, ma anche quella del presente e la stessa capacità di progettare il futuro.
Sebbene tutto ciò che appartiene al passato sia invariabile, univoco e irrevocabile, è anche vero che tutto ciò che è accaduto (la realtà del passato) è stato l'esito della realizzazione pratica di una fra varie possibilità contenute nel passato immediatamente precedente alla scelta. Nel senso cioè che la realtà avrebbe potuto essere diversa da come poi concretamente si è costituita. Non solo, ma il fatto che nell'evoluzione storica si sia imposta una determinata soluzione su altre, non sta affatto a significare che la soluzione sconfitta vada considerata come la peggiore, né ch'essa non abbia alcuna possibilità, in futuro, di realizzarsi (ovviamente in forme diverse).
Oltre a ciò, gli storici cominciano a chiedersi se abbia davvero senso affermare l'esistenza di diverse possibili soluzioni (a un determinato problema), a prescindere dalla consapevolezza che di esse potevano avere i protagonisti coevi; o, viceversa, se si possa parlare di vera alternativa a prescindere non dalla consapevolezza soggettiva dei protagonisti ma, questa volta, dalle possibilità oggettive di realizzazione che il contesto poteva offrire. I più convinti sostenitori della teoria delle alternative storiche (ad es. Vladimir V. Sogrin, Aleksandr Chubaryan) ritengono che si possa parlarne solo in presenza dell'unità dei due fattori della dialettica, soggettivo e oggettivo, precisando che il primo va riferito alla realtà delle forze sociali e non tanto a quella dei singoli individui, mentre il secondo implica non solo gli aspetti politici ma anche quelli socio-economici.
Naturalmente per "alternativa storica" si deve intendere non qualcosa in grado di opporsi, in futuro, al presente, ma qualcosa che, nel presente, lotta contro il suo opposto. Senza questa lotta, che può anche essere accanita, non è neanche il caso di parlare di "alternative". Un'alternativa è reale se ha un certo margine di probabilità di successo. Essa deve risultare come una delle forme di manifestazione della necessità storica, altrimenti non è credibile. Ad es. la perestrojka in tutti i campi della vita sociale, culturale e politica dell'ex-URSS non poteva essere considerata come un'alternativa dovuta al caso o alla volontà "anticomunista" di qualche politico. Essa piuttosto fu l'esito di una necessità storica, venuta a maturità, che implicava mutamenti radicali. Semmai è stato sul modo di condurla o di gestirla che si scontravano diverse possibilità.
In ogni caso pensare di contestare la perestrojka solo perché essa fu strumentalizzata da El'cin e dal suo neoliberismo economico, cioè pensare di contestarla col senno del poi, guardando il modo in cui l'occidente ne ha approfittato, espandendo notevolmente la NATO verso est, pur avendo espressamente promesso di non farlo mai, è semplicemente un atteggiamento infantile.
Qui si può esser certi solo di una cosa: la vittoria di un'alternativa antidemocratica o antiumanistica non può essere destinata a durare per più di un certo periodo di tempo.
La lotta e l'unità degli opposti
Non c'è dialettica laddove la lotta degli opposti esclude la loro unità. Nello staliniano Breve corso di storia del Pc(b)r, il processo storico era raffigurato come il frutto di un irriducibile antagonismo di opposte formazioni socio-economiche, e il progresso storico come la sostituzione radicale, violenta, di ogni formazione da parte di quella che doveva succederle. Praticamente non si teneva in alcuna considerazione che il progresso storico non è mai così lineare e monodimensionale, in quanto, oltre al conflitto, esso comporta anche l'interazione, l'interpenetrazione e, su questa base, la coesistenza durevole e l'arricchimento reciproco delle formazioni.
In questo senso purtroppo la storiografia sovietica non ha mai approfondito a sufficienza la storia dell'influenza vicendevole delle civiltà o delle società tra loro opposte. Lo studio delle formazioni sociali (che resta senza dubbio più preciso di quello della storiografia non marxista) deve essere integrato dallo studio delle civiltà. Anche perché furono gli stessi classici del marxismo a sostenere per primi l'idea che le società socialiste avrebbero dovuto integrare e assimilare con spirito critico le migliori conquiste delle società borghesi.
Non ha senso disprezzare, bollandole col marchio di "democrazia formale", le realizzazioni più avanzate delle grandi rivoluzioni borghesi dei secoli XVII e XVIII, conseguite a prezzo di enormi sacrifici: si pensi alla separazione dei poteri, al pluralismo politico, allo Stato di diritto, alla libertà di coscienza e di opinione. Certo, la borghesia non ha elaborato una compiuta "democrazia economica", ma ha reso universali i princìpi della democrazia politica. Tenere in opposizione l'interesse umano universale con l'interesse di classe del proletariato non può che screditare quest'ultimo, facendolo apparire come un interesse particolare.
Gli stessi studi sulla storia del capitalismo risentono di questi limiti. Generalmente nella storiografia sovietica il capitalismo veniva diviso in due grandi periodi: dalla rivoluzione inglese del XVII sec. alla rivoluzione d'Ottobre e da questa fino ai nostri giorni. Nel quadro del primo periodo si distinguevano poi due tappe: una anteriore e l'altra posteriore alla Comune di Parigi del 1871, sostenendo, in particolare, che le possibilità progressive della borghesia erano esistite soltanto fino alla Comune, dopodiché il proletariato aveva assunto il monopolio dell'espressione del progresso storico.
Questo modo di vedere le cose è troppo semplicistico per essere vero. è stato un errore l'aver interpretato la crisi del capitalismo come permanente, totale (inglobante tutte le sfere, dall'economia all'etica), destinata ad approfondirsi dal 1917 ad oggi. Si è per es. ignorato il fatto che la seconda guerra mondiale è stata seguita da un rilancio notevole dello sviluppo economico da parte dei principali Stati capitalisti; oppure il fatto che gli stessi sistemi democratico-borghesi hanno contribuito a smantellare le dittature fasciste; o anche il fatto che la disgregazione del sistema coloniale ha indotto il capitalismo a perfezionare i meccanismi interni di sviluppo, soprattutto quelli economico-finanziari e tecnico-scientifici, al fine di realizzare col Terzo Mondo un rapporto di tipo neocoloniale.
Non solo, ma la storiografia sovietica, grande maestra nel delineare i tratti generali della storia delle masse popolari, è rimasta in ritardo circa lo studio della fisionomia e mentalità dei diversi gruppi e strati della società. L'uomo semplice, ordinario, dai tempi dell'antichità all'epoca contemporanea, non è mai stato oggetto di una vera psicologia storica, di una vera demografia: sono ancora troppo scarse le storie della famiglia, delle donne, dei giovani, degli uomini nella loro vita quotidiana, nella loro mentalità.
Occorre cambiare atteggiamento anche nei confronti della storiografia non marxista (si pensi soprattutto alle "Annales" e a F. Braudel). L'approccio interdisciplinare di questa storiografia (che si serve degli studi demografici, antropologici, psico-sociologici) può aver generato degli inconvenienti, ma ha sicuramente allargato gli orizzonti della conoscenza storica. Questa storiografia s'è messa perfino a studiare i campi della storia socio-economica, tradizionale patrimonio della scienza marxista; senza poi considerare che gli studi sociali della storiografia borghese relativamente ai gruppi etnici e religiosi, alle comunità rurali e urbane, alle donne e al movimento femminista, alla coscienza comune, ecc., possono essere di grandissimo aiuto alla storia sociale marxista, che prende in esame le classi e la coscienza di classe.
La storiografia sovietica era anche supponente nei confronti della storiografia marxista dei Paesi occidentali, spesso frettolosamente giudicata d'essere "revisionista" (si pensi alle opere degli inglesi G. Rude e C. Hill, E. Hobsbawn).
Cosa salvare del materialismo storico-dialettico?
Si possono muovere tutte le accuse che si vogliono a quello sciagurato di El'cin, ma una cosa resta certa: tutto quanto è stato scritto in difesa del socialismo statale è spazzatura. Non ci serve per costruire un socialismo democratico né la democrazia diretta. Al massimo possiamo conservare qualcosa del materialismo storico-dialettico, ma a determinate condizioni: 1) considerare reciprocamente influenzabili cultura ed economia, in quanto non esiste un primato della struttura sulla sovrastruttura, neanche in ultima istanza; esiste solo un rapporto dialettico, che muta continuamente e che va continuamente reinterpretato; 2) non fare della morte la fine di tutto, ma solo un momento di passaggio da una condizione a un'altra di esistenza, sulla base della legge della perenne trasformazione della materia, che dipende dall'eternità e universalità dell'energia; 3) considerare l'essenza umana divisa per genere qualcosa di eterno e universale, indipendente da qualunque evoluzione genetica (l'essere umano, terreno, dipende da questa essenza umana universale).
L'energia è eterna, non è stata creata da nessuno, e quindi ha le proprie leggi universali e necessarie, e la materia è un suo prodotto, in perenne evoluzione e trasformazione (e la trasformazione dipende dal fatto che gli opposti si attraggono e si respingono senza sosta).
Dopodiché si può anche confermare l'inesistenza di un dio creatore, onnipotente e onnisciente. Se esiste, è umano come noi, diviso per genere, impossibilitato a violare la libertà di coscienza e di pensiero. Infatti la libertà di coscienza è una caratteristica specifica dell'essere umano, che non si trova in alcun altro ente dell'universo. E siccome la coscienza è insondabile, l'universo che la contiene è illimitato. Fine dell'universo è vivere in maniera umana e naturale, secondo forme e modi di nostra scelta, compatibilmente alle scelte altrui.
Sulla Terra si sono sperimentate le forme positive della libertà fino a quando non sono nate le società schiavistiche. Da allora, nonostante tutti gli sforzi compiuti, non siamo più riusciti a superare in maniera risolutiva o definitiva questa negatività. Il nostro pianeta sta diventando il luogo in cui sperimentare tutte le forme possibili della libertà negativa. Anche queste esperienze possono servirci, poiché avremo il compito di non ripeterle nell'universo.
Scenario futuro
Ufficialmente il socialismo statale in Russia è durato circa 74 anni (1917-91). Quasi lo stesso periodo di tempo dell'attuale socialismo cinese (1949-2024), il quale però va suddiviso in due grandi momenti molto diversi tra loro: quello del maoismo (1949-76), ch'era un socialismo statale prevalentemente agrario, e quello odierno, che è un socialismo mercantile nato con Deng Xiaoping, fondamentalmente statale sul piano politico-amministrativo e capitalistico su quello sociale.
In un certo senso sono tutti periodi abbastanza insignificanti rispetto a quello della civiltà borghese, sorta in Italia circa mille anni fa, con la nascita dei Comuni democratico-borghesi, che segnarono una svolta di capitale importanza dal basso all'alto Medioevo.
In Russia il socialismo statale è durato di più che in Cina semplicemente perché la rivoluzione comunista era stata fatta 30 anni prima. Inoltre la Russia non aveva mai subìto una colonizzazione occidentale analoga a quella cinese.
Tuttavia in Cina si parla ancora di ideologia socialista incarnata nel partito comunista che governa il Paese. In Russia si è smesso di farlo nel 1991, quando al potere andò El'cin. è vero che il partito comunista esiste ancora, ma al momento non ha alcuna possibilità di governare.
In Cina il Pc ha potuto continuare a parlare di socialismo perché in realtà si è imborghesito. Cioè il partito ha accettato d'introdurre nella società elementi del capitalismo, chiedendo in cambio di non essere contestato sul piano politico-istituzionale. La Cina sta sperimentando una sorta di NEP leniniana all'ennesima potenza. Si potrebbe dire che questo Paese è stato fondamentalmente "ideologico" sino alla morte di Mao, dopodiché è diventato prevalentemente pragmatico. Si richiama a un socialismo che per molti aspetti somiglia alle socialdemocrazie occidentali, salvo il fatto che tutta la terra resta di proprietà statale e i comunisti aderiscono a una sorta di "partito-stato".
Non è possibile affermare che sia la Cina sia la Russia vivono due forme di capitalismo statale, poiché in Cina l'elemento ideologico del socialismo scientifico è ancora dominante, benché mescolato con filosofie antiche (confucianesimo, buddismo, taoismo…).
In Russia il presidente si richiama alla confessione ortodossa, la religione prevalente nel Paese, avente oltre un millennio di storia. Quindi manifesta un certo tradizionalismo religioso, tenuto ovviamente a rispettare altre confessioni presenti nella Federazione. In un certo senso questo "culto" che hanno russi e cinesi per i capi carismatici fa un po' paura, poiché lo ritengono indispensabile per difendere tradizioni ancestrali, quando in realtà nelle loro migliori tradizioni, quelle pre-schiavistiche, non vi era alcun "capo carismatico", ma solo democrazia diretta, autoconsumo delle comunità di villaggio, ecc.
Sul piano sociale entrambi i Paesi hanno puntato a potenziare i settori industriali, energetici, minerari, commerciali, agricoli e naturalmente militari. Al momento non hanno le capacità finanziarie degli Stati Uniti, ma neppure un debito pubblico minimamente paragonabile al loro, che è astronomico. Non hanno capacità egemoniche a livello mondiale, ma sono in procinto di aumentarle, mentre quelle americane vanno diminuendo. Non hanno 800 basi militari all'estero, né controllano tutti gli stretti marittimi più importanti per il commercio internazionale. E anche a livello di controllo dello spazio cosmico non reggono il confronto. Ciò benché negli ultimi anni Cina e Russia abbiano dimostrato d'essere in grado di pretendere, a livello geopolitico, un multipolarismo di tutto rispetto, in luogo del globalismo unipolare dell'occidente collettivo.
Siamo in procinto di vedere uno scontro apocalittico dei colossi dell'umanità: da un lato il capitalismo gestito dai privati, sempre più finanziarizzato; dall'altro un capitalismo dove il ruolo dello Stato è centrale. La sconfitta dell'occidente pare inevitabile, ma è impossibile che ciò non abbia ripercussioni catastrofiche su buona parte del pianeta (o forse su tutto), poiché è evidente che chi detiene il potere mondiale lo difenderà in ogni modo e con ogni mezzo, al punto che una possibile guerra mondiale non sarà solo tra Stati, come nel passato, ma anche tra Popoli.
In questo momento la guerra è tra Occidente collettivo e Federazione Russa, ma nei prossimi anni potrebbe essere anche tra Occidente e Cina e forse anche, in Medioriente, tra Paesi islamici e Israele. Non sarà solo la grandezza geografica o demografica degli Stati ad avere la meglio, o la migliore potenza militare e propagandistica. Molto dipenderà anche dall'organizzazione sul campo di battaglia, in una guerra sempre più ibrida, condotta con qualunque mezzo. Il che vuol dire saper affrontare guerre logoranti (convenzionali) di lunga durata, ma anche guerre devastanti (nucleari) di breve durata.
La distruzione reciproca dei grandi colossi dell'umanità può darsi che, ai superstiti, apra la mente verso qualcosa che ci faccia recuperare una condizione di vita che pensavamo irrimediabilmente perduta.
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L'inizio del progressivo crollo del sistema capitalistico occidentale si può far risalire, simbolicamente, all'abbattimento delle Torri Gemelle nel 2001, cui il Deep State americano non fu certo estraneo.
Beninteso non sta crollando il capitalismo in sé, ma solo la sua forma occidentale, quella dell'anglosfera, sommamente individualistica.
Nell'occidente collettivo il ruolo dello Stato è incidentale, tant'è che i tanti statisti (spesso privi di vere competenze) vanno e vengono con molta disinvoltura. D'altra parte la politica deve considerarsi al servizio dell'economia (e oggi soprattutto della finanza), per cui i veri "signori del mondo" sono altrove.
Le ultime crisi del capitalismo occidentale sono tutte finanziarie: quella più significativa è esplosa nel 2008, coi subprime americani, che ha coinvolto tanti Paesi occidentali, le cui banche, ancora oggi, sono piene di titoli tossici, inesigibili.
A questa crisi, durata un decennio, gli USA hanno risposto in due modi: internamente, indebitandosi all'estremo, cioè stampando dollari a volontà, come se nulla fosse; esternamente, provocando la pandemia da Covid, attraverso i loro biolaboratori: in tal modo veniva colpito il mondo intero.
Il capitalismo è entrato in crisi sul piano industriale, poiché non è più competitivo con l'economia cinese, che pur lo stesso occidente ha contribuito a creare, nella convinzione, rivelatasi illusoria, di poter tenere la Cina economicamente sottomessa per almeno un secolo. Ora invece produce qualunque cosa a prezzi imbattibili, avendo un costo del lavoro di molto inferiore al nostro e molte più materie prime.
In questo momento sono gli USA a trovarsi in gravi difficoltà: il debito pubblico è altissimo; lo Stato sociale quasi non esiste; non vi è abitudine al risparmio, ma, al contrario, a spendere al di sopra delle proprie capacità; il petrodollaro è in fase di smantellamento grazie ai BRICS+; la perdita di fiducia nella loro solidità obbliga a tenere i tassi d'interesse molto alti (il che non fa che aumentare il debito); si stampano continuamente banconote che valgono sempre meno; ci s'illude di potersi reindustrializzare velocemente imponendo dazi anacronistici (e autolesionistici) al resto del mondo; per dimostrare che si è ancora la prima economia del mondo, si ricorre a sanzioni, embarghi, minacce d'ogni genere, destabilizzando i commerci mondiali; e naturalmente si fomentano guerre ovunque sia possibile.
L'URSS implose per l'assenza del benessere capitalistico; l'occidente sta crollando per averne avuto troppo, usando mezzi e metodi violenti, illegali, cui oggi tutti gli altri vogliono opporsi.
Dopo essere finita in bancarotta, per aver adottato il capitalismo privato occidentale, oggi la Russia, col capitalismo statale di Putin, è in netta ripresa.
Piuttosto è l'occidente a essere privo di una qualche alternativa al proprio declino. Il socialismo statale di Russia e Cina era imploso senza causare guerre a potenze straniere. Invece l'occidente collettivo sta facendo proprio il contrario, forse perché, in definitiva, non può fare a meno del colonialismo, né di scaricare all'esterno il peso dei propri fallimenti. Ha bisogno assolutamente di crearsi dei nemici. In Medio oriente sono i palestinesi (fino a ieri erano gli islamici in senso lato); in Ucraina sono i russi; in Asia sono i cinesi; in Africa i Paesi che si ribellano al vecchio e nuovo imperialismo europeo.
Con un occidente così la guerra sembra essere alle porte. Ma sarebbe un errore pensare che la soluzione ai nostri problemi possa venire dall'esterno. L'occidente deve trovare in se stesso la forza per cambiare, ma deve farlo in maniera significativa per poter garantire libertà e sicurezza al resto del mondo, cioè per non costituire una minaccia per nessuno.
Obiettivi minimi e massimi
Un socialismo statale come quello sovietico-stalinista (industrializzato) e cinese-maoista (agricolo), o un socialismo mercantile (come quello attuale della Cina) sono autentiche contraddizioni in termini. Questo perché un socialismo davvero democratico deve superare le due principali entità oggi dominanti: lo Stato e il Mercato. Nel capitalismo attuale dell'occidente collettivo le multinazionali e i centri del potere finanziario vanno addirittura al di là degli Stati e delle organizzazioni del diritto internazionale, nel senso che non vogliono essere controllati da niente e da nessuno.
Il socialismo, di cui oggi dobbiamo porre le basi, dovrà essere autogestito dalle collettività locali, basato sulla proprietà comune dei mezzi produttivi e sulla democrazia diretta.
Il socialismo statale è fallito a causa delle proprie contraddizioni interne; quello odierno cinese fallirà in futuro, come fallirà il capitalismo statale, che in questo momento, in Russia, si oppone a quello privato di marca occidentale.
Perché diciamo questo? Siamo forse massimalisti? Pretendiamo solo il meglio? Diciamo anzitutto una cosa: gli esseri umani non sono così stupidi da non vedere i problemi che loro stessi creano. Il fatto è purtroppo che occorrono secoli prima di trovare qualche soluzione. E quando si pensa d'averla trovata, ci si accorge che è molto relativa, temporanea, una specie di toppa su un vestito vecchio.
Lottiamo per migliorare le cose solo dopo averle devastate: non siamo capaci di prevenzione. E siccome interveniamo con la cura dopo aver lasciato trascorrere molto tempo, i risultati che otteniamo sono soltanto provvisori, anche se, nel momento in cui profondiamo il massimo impegno, ci sembrano definitivi, anzi "salvifici".
Siamo sempre affetti da visioni di tipo "mistico", anche quando siamo atei. Si pensi solo al culto della personalità attribuito a Stalin e a Mao, e agli orrori che abbiamo tollerato in nome di questo culto assurdo; per non parlare di quelli permessi in nome del culto idolatrico del denaro.
Siamo degli illusi cronici. Tuttavia, siccome bisogna evitare il nichilismo, che ci porterebbe sicuramente a peggiorare la qualità della vita, dobbiamo perorare anche quelle cause che ci appaiono minimaliste. Un proverbio dice: Piuttosto che niente è meglio piuttosto.
E così, in questo momento dobbiamo preferire il capitalismo asiatico di stato a quello privato occidentale; il socialismo mercantile al capitalismo statale. Dobbiamo preferire, nell'ambito del capitalismo, quello multipolare a quello unipolare. Al globalismo neoliberista dobbiamo preferire il sovranismo nazionale, poiché garantisce maggiore autonomia ai singoli Stati. Personalmente preferisco anche a uno Stato centralizzato uno federato, poiché sono favorevole al decentramento delle responsabilità e delle funzioni, e sarei disposto a dare molti più poteri agli Enti Locali Territoriali. Così smetteremmo di dar sempre la colpa allo Stato per ogni cosa che non sappiamo fare.
è forse questo il massimo che si può ottenere? No, è il minimo. Ma chi ragiona con l'aut-aut categorico: o tutto o niente, per me è un soggetto infantile, chiuso in se stesso, un astratto idealista che dalla vita non otterrà mai nulla di utile.
Lenin diceva che, pur di abbattere il capitalismo nel suo Paese, sarebbe stato disposto ad allearsi persino con la monarchia. Prendiamo esempio da lui, ch'era lontanissimo dall'assumere posizioni dogmatiche, tant'è che dopo aver compiuto la rivoluzione e vinto i controrivoluzionari, introdusse elementi parziali di capitalismo con la Nuova Politica Economica: quella NEP che lo stalinismo autoritario eliminò col pretesto che non garantiva una industrializzata accelerata.
Socialismo e longue durée
Per realizzare il socialismo democratico occorrono periodi storici lunghissimi, come quelli di cui parlava Fernand Braudel nei suoi libri storico-borghesi.
Nell'ambito del Medioevo un primo, timido, stile di vita borghese ha potuto imporsi solo a partire dalla nascita dei Comuni medievali, mille anni fa.
è vero, il mondo romano passò dallo schiavismo al servaggio in modo molto più veloce, ma solo perché ci furono le invasioni di popolazioni che non praticavano lo schiavismo come sistema economico. E comunque i romani, non potendo più allargare i confini per motivi militari, avevano già trasformato gran parte degli schiavi in coloni. Erano state le sconfitte belliche o gli ambienti naturali difficoltosi, intorno ai grandi fiumi (Reno, Danubio, Tigri ed Eufrate, Nilo), a obbligare i romani a una trasformazione progressiva dello sfruttamento economico della forza-lavoro, che mai comunque prevedeva la "libertà giuridica", elemento fondamentale di qualunque società borghese.
Nel mondo moderno le idee del socialismo s'impongono quando le contraddizioni del capitalismo diventano macroscopiche. Ad esse la borghesia cerca di trovare soluzioni con le guerre, le imprese coloniali, finalizzate a indebolire gli Stati avversari e a occupare quanti più territori possibili, da sfruttare senza tanti scrupoli.
Tutte le realizzazioni del socialismo sono state fallimentari, proprio perché il capitalismo ha dimostrato d'essere in grado di riprendersi dalle proprie sconfitte. Le ultime due guerre mondiali hanno soltanto trasferito il centro di gravità dell'egemonia mondiale dall'Europa occidentale agli Stati Uniti.
Se anche ci fosse una terza guerra mondiale in cui collassa il ruolo degli Stati Uniti, non è detto che s'imporrà un socialismo autenticamente democratico. Infatti in questo momento le due alternative prevalenti, che si ritengono "praticabili", al capitalismo privato dell'occidente collettivo, sono il capitalismo statale della Russia e il socialismo mercantile della Cina: due esperienze che non possono certo essere definite come "socialismo democratico". Quindi la strada resta ancora lunga.
Le condizioni economiche per ottenere un socialismo democratico non sono difficili da capire: non può esserci un mercato basato sul profitto (quindi sostanzialmente sul furto), né un sistema monetario basato sull'interesse (quindi sostanzialmente sull'estorsione), né uno sfruttamento della manodopera basato su salario o stipendio (quindi sostanzialmente su pluslavoro e plusvalore), né proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi (quindi sostanzialmente sul privilegio). Una comunità locale deve anzitutto garantire la propria sopravvivenza e riproduzione: non ha bisogno che dei privati s'interfaccino coi mercati nazionali e internazionali per accumulare profitti.
Non può esserci la presenza di uno Stato separato dalla società civile, anzi ad essa sovrapposto, che usa un potere burocratico-amministrativo per controllare la popolazione. Non può esserci un esercito composto da volontari o professionisti o mercenari, ma solo dall'intero popolo in armi, disposto a morire piuttosto che diventare schiavo o servo di qualcuno.
La democrazia non può essere rappresentativa (salvo eccezioni molto particolari) ma solo diretta, meno che mai se la rappresentatività principale è quella nazionale o sovranazionale, che nessuna comunità locale è in grado di controllare.
Un socialismo autenticamente umano deve essere democratico anche rispetto alle esigenze riproduttive della natura (quindi tutte le forme di progresso tecnico-scientifico vanno ripensate); deve garantire una piena uguaglianza di genere (quindi vanno abolite tutte le forme di maschilismo e di patriarcato); e naturalmente deve rispettare tutte le etnie, lingue, usi e costumi. Le regole comuni tra le varie comunità non possono essere imposte ma solo condivise, liberamente accettate, pattuite.
Bisogna esser chiari su questo: le uniche forme di socialismo democratico vanno ricercate nelle esperienze precedenti alla nascita dello schiavismo. Il pianeta era predisposto per ospitare delle comunità locali basate sull'autoconsumo. Invece ci siamo comportati come se avessimo colonizzato l'universo.
Le forme del socialismo
Fino ad oggi le forme moderne di socialismo che si sono realizzate sono state quattro: le due statalizzate dello stalinismo e del maoismo, quella della socialdemocrazia occidentale e quella mercantile dell'odierna Cina. L'ultima non ha ancora avuto il tempo per porsi come ecatombe per milioni di persone.
Le prime due sono fallite perché erano dittature esplicite: l'una dando maggior peso all'industria, l'altra preferendo l'agricoltura.
La socialdemocrazia borghese, così come il neoliberismo o globalismo unipolare, è una forma di dittatura implicita, in quanto avvolta dalla retorica della democrazia e dei diritti umani. Il capitalismo, privato o statale, esercita la sua dittatura esplicita (militare, economica o finanziaria) in quello che oggi si chiama Sud Globale (quando si chiamava Terzo Mondo, si parlava di neocolonialismo e/o imperialismo occidentale). Ma questa dipendenza è destinata a essere superata.
La socialdemocrazia ha favorito lo sviluppo dello Stato sociale, ma, volendo restare sempre nell'ambito del capitalismo, non ha mai avuto intenzione di trasformarsi in socialismo statalizzato, e tantomeno in socialismo democratico, poiché, nel migliore dei casi, si configura come un socialismo della piccola borghesia. Il massimo obiettivo cui può tendere è il capitalismo di stato, cioè quella forma di capitalismo che statalizza alcuni beni comuni, come istruzione, sanità, previdenza, assistenza, ecc.
Di regola quanto più il capitalismo privato si sviluppa, tanto più viene eroso il capitalismo statale. In fondo in Europa occidentale il capitalismo statale si è sviluppato soltanto per impedire che si realizzasse una rivoluzione comunista come quella in Russia e nei Paesi est-europei.
Il declino del capitalismo statale in occidente ha avuto due momenti cruciali: la fine dell'ondata rivoluzionaria riguardante il decennio 1968-78; e la fine progressiva del comunismo sovietico, che ha avuto i due momenti eclatanti nel crollo del muro di Berlino nel 1989 e nel crollo repentino dell'URSS nel 1991, che ha comportato il passaggio al capitalismo privato degli oligarchi sotto il governo filo-occidentale di El'cin.
Dopo la morte di Mao la Cina ha cercato di non ripetere, alla fine degli anni '70, uno svolgimento analogo a quello sovietico. Politicamente e ideologicamente è rimasta comunista (nazionalizzazione della terra, monopartitismo, molte importanti industrie statalizzate, socialismo scientifico). Però sul piano sociale viene concesso ampio spazio al capitalismo privato, interno ed estero.
In Russia, con la salita al potere del governo di Putin, si è capito che un capitalismo meramente privato sarebbe stato disastroso per le sorti del Paese, per cui si optò per il capitalismo statale, nel senso che gli oligarchi devono collaborare con lo Stato, altrimenti subiscono gravi conseguenze.
Laddove si è imposta la rivoluzione industriale (conseguente a quella scientifica del XVII sec.), non è mai esistito un socialismo autenticamente democratico. Nel migliore dei casi si deve parlare di "economia mista".
Attualmente, nell'ambito del cosiddetto "occidente collettivo", la forma prevalente di capitalismo è quella privata (multinazionali, corporazioni, trust, cartelli, banche centrali e commerciali, fondi d'investimento, istituti finanziari…). I principali fautori di questa forma sono gli Stati Uniti, che pretendono d'imporla a tutti i loro alleati e agli Stati che possono controllare sul piano militare o finanziario.
Nello scontro epocale cui oggi stiamo assistendo tra, da un lato, capitalismo statale e socialismo mercantile, e, dall'altro, capitalismo privato, quest'ultimo sembra essere piuttosto in difficoltà. Questo perché le migliori realizzazioni sul piano tecnico-scientifico sono più performanti, veloci da acquisire e meno costose se gestite con la partecipazione strategica dello Stato. Inoltre nel capitalismo privato la polarizzazione delle classi sociali è molto più accentuata. Il tentativo che sta conducendo Trump di porre l'economia sotto la politica, è destinato a fallire.
Se si dovesse verificare uno scontro diretto, di tipo militare, tra i due suddetti blocchi, il capitalismo privato avrebbe la peggio, poiché appare più debole e meno organizzato. Non può più pretendere alcuna egemonia mondiale, anche perché le colonie che un tempo dominava esigono un'effettiva sovranità politica ed economica. Già adesso la guerra indiretta tra NATO e Russia in Ucraina, dimostra la superiorità del capitalismo statale russo. D'altra parte la debolezza militare dell'occidente collettivo era palese anche prima, nelle guerre contro l'Iraq e l'Afghanistan. La NATO non è in grado di gestire ciò che distrugge e gli Stati capitalisti non hanno mai una strategia di pace convincente. Oggi gli Stati Uniti vivono una forte crisi sistemica a un duplice livello: economico (si sono progressivamente de-industrializzati a vantaggio della finanza) e monetario (sta finendo in maniera irreversibile l'egemonia mondiale del petro-dollaro). Una veloce reindustrializzazione, con cui fronteggiare la rivale Cina, è impensabile.
è bene comunque rendersi conto che non può esistere socialismo democratico là dove la città domina la campagna, là dove l'industria della città e della campagna dominano l'ambiente naturale, là dove il mercato e la circolazione del denaro dominano l'autoconsumo e il baratto delle eccedenze, là dove la democrazia rappresentativa domina quella diretta, e lo Stato domina la società civile, e così via. L'intero pianeta, salvo poche esperienze di comunità primitive, è lontanissimo da qualunque idea di socialismo democratico.
è bene inoltre precisare che il pianeta, nella sua interezza, non è in grado di sopportare un'industrializzazione e una urbanizzazione globalizzata. Questo a prescindere dai regimi politici che le gestiscono.
In un regime di socialismo democratico si è se stessi, e quindi conformi a natura, solo in rapporto a un gruppo di appartenenza. Parlare di diritti "individuali" non ha alcun senso. Lo stesso concetto di "persona", che prescinda da una comunità locale, è alquanto relativo.
I veri diritti hanno senso solo se sono collettivi, e un collettivo, per essere concreto, deve essere locale, per cui lo Stato o qualunque altra istituzione permanente che si sovrappone all'ambito locale, risulta inevitabilmente impersonale. è paradossale che la borghesia abbia, da un lato, promosso i diritti individuali, e, dall'altro, la nascita dello Stato. Qualunque presenza statuale nega, di per sé, qualunque diritto individuale.
La borghesia ha rivendicato i diritti individuali contro gli usi e i costumi delle comunità medievali di villaggio, e ha preteso lo Stato contro l'autonomia dei signori feudali. Fece bene? Fece male? Non è questo il problema. Il vero problema è che quando non si risolvono, per secoli, gli antagonismi sociali (nella fattispecie quelli determinati dal servaggio, preceduti da quelli dello schiavismo), le alternative che si riescono a creare, possono non essere quelle giuste, quelle più adeguate. Può capitare tranquillamente che una medicina guarisca una malattia e ne procuri un'altra, soprattutto se contiene qualcosa di artificioso.
La fine immeritata di Gorbaciov
Nel 2021 Rossano Pancaldi diede sulla rivista "Slavia" (n. 3) una sintesi impeccabile della Russia post-stalinista.
Confermò che la vera novità, dopo il periodo di stagnazione di Brežnev, Andropov e Cernenko, fu costituita dalla dirigenza di Gorbaciov. Fu lui a capire che lo scollamento tra istituzioni e società stava portando il Paese al baratro e che i metodi stalinisti, nella sostanza, non erano mai stati superati.
Gorbaciov dovette affrontare problemi enormi, che il potere politico nascondeva in nome del proprio autoritarismo. Fu il primo ad avviare una vera democratizzazione del sistema politico, permettendo libere elezioni e il multipartitismo, sganciando le funzioni del Pcus da quelle dello Stato e dell'economia. Favorì ciò che i russi avevano conosciuto solo nel breve periodo di Lenin: la libertà del dissenso e la Nuova Politica Economica, che lo stalinismo aveva eliminato con molta fretta.
Gorbaciov non voleva affatto ripristinare il capitalismo, ma dare al socialismo una veste chiaramente democratica, autogestita dalla società, capace di rendere il sistema efficiente e trasparente.
Voleva una struttura economica mista, in cui la gestione pianificata dall'alto si misurasse con una gestione privata di taluni mezzi produttivi. Il libero mercato non doveva essere completamente abolito.
Per tenere questo suo progetto sociale nella giusta direzione, dovette combattere sia il vecchio conservatorismo (e successivamente si dispiacque di non averlo fatto con la dovuta autorevolezza), sia il nuovo radicalismo ultraliberistico. Gli stalinisti lo giudicavano troppo democratico; gli altri troppo poco.
Pose fine alla minaccia nucleare e alla guerra fredda, lasciando sconcertati gli americani, abituati ad avere dei nemici da combattere. Ritirò i soldati dall'Afghanistan, dall'Africa e da Cuba. Ridusse unilateralmente gli armamenti della Russia, le forze armate dei Paesi est-europei. Eliminò le armi chimiche. Chiuse i contenziosi ideologici con Cina e Jugoslavia. Permise la riunificazione delle due Germanie, chiedendo solo che la NATO non si espandesse a est (una promessa che al tempo di El'cin non fu mantenuta).
Si fidava più dei nemici esterni che di quelli interni. Sciolse persino il Patto di Varsavia, sperando che la NATO facesse altrettanto. Era un idealista molto ingenuo, ma il mondo intero lo vide come un potente faro ad alta luminosità. Chi non capì l'importanza storica della perestrojka e della glasnost, non capiva nulla di democrazia.
Permise il rientro dei dissidenti, aprì gli archivi storici e favorì la pubblicazione di opere un tempo vietate. Concesse le prime elezioni libere a suffragio universale per la carica della Presidenza dell'URSS, che furono vinte dal radicale El'cin, che da allora divenne il suo più acceso rivale.
A questo punto furono i neostalinisti a organizzare il golpe per potersi liberare di lui. Il pretesto era che l'URSS aveva smesso d'essere una grande potenza. Ben otto collaboratori molto vicini a lui lo tradirono.
Il colpo di stato militare fu sventato dalla resistenza dei democratici e dei radicali guidati da El'cin, il quale però, a partire da quel momento, cominciò a togliere a Gorbaciov tutti i poteri. Non solo, ma dichiarò illegale il Pcus e proibì i finanziamenti a tutti i partiti comunisti del mondo.
El'cin iniziò un processo di distacco delle Repubbliche dal potere centrale. Più di 20 milioni di russi si trovarono improvvisamente al di fuori dei confini della nuova Federazione Russa. E oggi sappiamo questo cosa può comportare quando i Paesi che li ospitano cominciano a perseguitarli.
L'URSS era morta proprio per colpa di chi voleva conservarla con la forza. E di questo collasso approfittarono i radicali liberisti, cioè gli elementi peggiori del Paese, quelli più vicini alla nuova "dittatura borghese" di El'cin, quelli che permisero all'occidente d'impadronirsi di una inaspettata manna piovuta dal cielo.
In fondo succede spesso così: quando non si riesce a ottenere qualcosa in maniera democratica, gli estremisti sfruttano le istanze popolari per volgerle a favore di gruppi che ambiscono ad avere tutti i privilegi e che non si preoccupano minimamente di mandare in miseria milioni di persone.
Il popolo ex-sovietico però fece un errore clamoroso: cominciò ad accusare del fallimento dell'URSS non solo El'cin ma anche Gorbaciov. E da allora non ha più smesso di farlo.71
Una democrazia forte viene decisa dalla popolazione
Nell'immaginario collettivo del popolo russo ancora oggi domina una narrativa che, per certi aspetti, è mitologica.
1) Prima di Gorbaciov esisteva un Paese stabile, sviluppato e potente;
2) gli oligarchi, appoggiati da agenti dei servizi segreti stranieri hanno iniziato un percorso di riforme economiche e politiche che hanno portato il Paese alla catastrofe;
3) nel 1999-2000 sono salite al potere delle persone (la prima delle quali è Putin) che hanno riportato le cose alla normalità.
Quando si è abituati a obbedire, le idee vedono solo una parte dei problemi. Per es. l'agricoltura è sempre stata inefficiente nell'URSS stalinista e post-stalinista. La veloce urbanizzazione pretesa da uno stalinismo che sul piano industriale voleva competere coi Paesi avanzati del capitalismo, per dimostrare che non aveva paura di nessuno, non poteva essere soddisfatta da una agricoltura dove milioni di contadini, contrari alla forzata collettivizzazione, erano stati sterminati (per non parlare di quelli che avevano abbandonato la terra, preferendo trasformarsi in operai).
Agli inizi degli anni '60 l'URSS era economicamente isolata dal mondo, priva di un'industria leggera e con la popolazione che stava ore in attesa davanti ai negozi alimentari.
Nel 1965 e nel 1973, con le riforme Kosygin, si cercò di dare una maggiore indipendenza economica alle imprese, favorendo gli incentivi materiali, e una maggiore autonomia agli enti locali e regionali, ma, in definitiva, il regime preferì la stagnazione.
Quando arrivò al potere Gorbaciov, la situazione economica era già disperata. Tuttavia il vero problema è che non gli si diede il tempo di varare alcuna vera riforma economica. A differenza di El'cin, Gorbaciov non ebbe mai l'idea di stravolgere le basi collettivistiche del socialismo.
Solo dopo il 1991, con l'implosione dell'URSS, si avviò un processo accelerato di privatizzazione neoliberista che portò il Paese alla bancarotta: pochi oligarchi ultraricchi a fronte di milioni di persone alla fame.
Quando arrivò Putin a sistemare le cose, la popolazione finì col considerare El'cin una conseguenza inevitabile di Gorbaciov.
I russi non sono abituati alla democrazia. Han sempre bisogno di un leader autoritario, anche perché, non avendo mai avuto tradizioni di imprenditoria privata, non possono fare a meno di una certa protezione statale. Cosa che El'cin non era assolutamente in grado di garantire.
La liberalizzazione incontrollata dei prezzi, la privatizzazione selvaggia di tutto il settore industriale, svenduto a prezzi ridicoli, la corruzione dei governatori delle varie regioni, la crescente criminalità organizzata, il collasso del sistema finanziario federale, la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi imprenditori e la crisi finanziaria che colpì il Paese nel 1998 non furono una conseguenza della perestrojka, ma delle riforme di quello sciagurato di El'cin e del suo entourage, ostaggi in mano alla nascente oligarchia del settore energetico.
La Federazione Russa dovrebbe chiedersi sin da adesso quale sarà il suo destino dopo la fine del putinismo. In fondo il pragmatico Putin è riuscito a conciliare magistralmente le esigenze statali con quelle private, e in politica estera ha mostrato molto buon senso e accortezza.
Tuttavia l'economia di un grande Stato come la Russia non può dipendere dalle qualità soggettive del proprio Presidente, né può basarsi sull'enorme abbondanza delle risorse energetiche. Prima o poi gli abitanti di questo gigantesco Paese dovranno tornare a capire che non c'è futuro senza socialismo, e che il vero socialismo, quello democratico, non può certo essere imposto dall'alto.
Gorbaciov era un debole? Forse, ma era anche la popolazione a non essere pronta per una democrazia forte.
La democrazia diretta è sacra e inviolabile
Nel cap. XV del libro Lo stalinismo, "Socialismo e pseudosocialismo", Medvedev parla della democrazia diretta, rimpiangendo il tempo che fu.
Ricorda, per es., quando Lenin disse che i sindacati avrebbero dovuto avere un ruolo centrale nella gestione dell'economia, al fine di evitare la burocratizzazione della società. Tuttavia sotto lo stalinismo i sindacati divennero mere appendici ("cinghie di trasmissione") del partito, semplici esecutori della sua volontà.
Poi parla dei soviet e scrive parole decisamente importanti. "I Soviet erano nati come organi di democrazia, strumenti diretti del governo popolare" (p. 644). Senonché anche loro fecero la fine dei sindacati. "Prima, i deputati ai Soviet locali erano eletti nel corso di votazioni pubbliche nelle fabbriche e in altre consimili istituzioni. Ora venivano invece eletti in seggi elettorali sparsi per tutti i distretti del paese. L'intera popolazione adulta fu educata al voto segreto" (ib.). Era il partito che decideva chi votare, e "i votati non avevano scelta, visto che un solo nome veniva presentato per ogni carica" (ib.).
"Le fabbriche e le altre istituzioni persero ogni possibilità d'influenzare i Soviet" (ib.). "Divenne più difficile per l'elettorato seguire l'attività di un determinato deputato o chiederne la sostituzione" (ib.).
Medvedev è, come al solito, un po' indulgente: non dice che il controllo dal basso verso l'alto era diventato "impossibile", ma solo "più difficile". La stessa indulgenza la dimostra nella seguente affermazione: "tutto ciò ridusse il senso di responsabilità dei deputati verso il loro collegio elettorale" (ib.). In realtà lo annullò completamente, se è vero, com'è vero, che gli stessi "votanti persero anch'essi ogni senso di responsabilità" (ib.).
Infatti la loro responsabilità politica fu come paralizzata, vanificata, tant'è che "molti dimenticarono persino per chi avevano votato nelle ultime elezioni" (ib.). Questo perché lo stalinismo, nel migliore dei casi, scimmiottava la prassi delle formali democrazie borghesi, dove la volontà popolare non conta quasi nulla, ma solo quella delle classi proprietarie di ingenti beni. In fondo la differenza più rilevante tra capitalismo privato e socialismo statale sta nel fatto che nel primo sistema si dev'essere proprietari di beni materiali, che lo Stato deve tutelare, mentre nel secondo tutti i beni appartengono allo Stato, e lo Stato (sommamente burocratico e autoritario) appartiene a un partito ideologizzato.
L'autore prosegue dicendo che "declinò anche l'interdipendenza dei Soviet ai vari livelli" (ib.), nel senso ch'era finito il tempo in cui, "quando un Soviet locale ne eleggeva uno superiore, aveva poi una certa pretesa di controllarlo. Ora il controllo passava soltanto dall'alto in basso" (ib.). Questo perché i soviet si erano trasformati in organi periferici dello Stato centrale, come nel capitalismo succede con gli enti locali.
Il disastro della democrazia a livello locale si rifletteva anche a livello statale. Infatti "il potere legislativo finì col riposare tra le braccia dell'esecutivo, o più spesso del Comitato Centrale" del partito (p. 645). Anzi, "tutti i problemi venivano decisi all'interno del Politburo, o dal primo segretario assieme coi funzionari dell'apparato" (ib.). Gli eletti si sentivano responsabili solo nei confronti di chi stava al di sopra di loro, diventando dei "semplici esecutori di ordini" (ib.). Alla fine "emerse una gerarchia del culto" (ib.): un grande culto e un piccolo culto; "solo Stalin aveva diritto al titolo di ‘dio'" (p. 646).
Parole potenti queste, ma com'è stata possibile un'involuzione del genere dalla democrazia leniniana a una sorta di monarchia neozarista, senza che nessuno riuscisse a porvi rimedio? Davvero ci si può limitare a dire - come fa Medvedev - che "Stalin ingannò il popolo" (p. 647)? Come si può incolpare un singolo uomo di questa degenerazione, visto che lui stesso arrivò a dire che "il concetto di critica e quello di autorità erano cose compatibili" (ib.)? Nel senso cioè che, sotto il socialismo, chiunque deve poter essere giudicato per ciò che fa e dice.
Dunque, cosa si poteva fare per evitare che un dirigente politico dicesse una cosa e ne facesse un'altra, come se fosse una sorta di schizofrenico? Davvero sarebbero bastati "il diritto a libere e democratiche elezioni, così come il continuo avvicendamento di tutti i dirigenti e un livello salariale per la categoria funzionale non superiore alle paghe operaie" (p. 648)?72
Suvvia, cerchiamo di non fare i paternalisti, di non ridurre la serietà della democrazia diretta a una questione moralistica o di deontologia professionale. La democrazia diretta - detto fuori dai denti - è incompatibile con la presenza di qualunque Stato (socialista o capitalista che sia), così come la responsabilità personale e collettiva è la chiave per impedire che la democrazia rappresentativa si trasformi nella dittatura di pochi su molti.
La democrazia diretta può essere esercitata solo a livello di comunità locale: non ci sono altri livelli. Tutti gli organi superiori a questo livello non possono avere una propria autonomia. Lo Stato non può essere superiore alle Regioni, queste alle Province, queste ai Comuni e questi ai Consigli di quartiere. Il processo non va solo capovolto, ma tutto ciò che è superiore alla comunità locale va considerato provvisorio, finalizzato a un obiettivo specifico; e gli eletti di questi livelli superiori non possono far nulla che gli elettori non vogliano. L'eletto può solo avere la funzione di "portavoce" o di "ambasciatore". Nel momento stesso in cui il deputato non si sente vincolato al mandato ricevuto, va immediatamente sostituito con un altro più affidabile, altrimenti la democrazia diretta viene messa in discussione.
In presenza di uno Stato (centralizzato o federato è indifferente) e di un parlamento nazionale, non ha alcun senso parlare di democrazia diretta. Qualunque istituto rappresentativo della volontà popolare (per es. il referendum) è, in ultima istanza, una finzione, una formalità, una messa in scena di una democrazia che nella realtà dei fatti non esiste.
Su queste cose non si possono fare discorsi astratti, generici, di tipo etico o filosofico. Non si può tergiversare. La politica democratica può essere solo locale, e a livello locale non può esserci proprietà privata dei principali (fondamentali) mezzi produttivi, quelli che garantiscono la sopravvivenza autonoma della stessa comunità.
Ognuno deve considerarsi responsabile di se stesso, della propria famiglia, del proprio parentado e soprattutto della comunità di appartenenza, che è l'istituzione più importante di tutte. Infatti è a livello di comunità locale che si decide tutto: cosa e come produrre e consumare, quali valori darsi, come vivere la vita. Se le rivoluzioni politiche vengono fatte da persone sradicate dai propri territori d'origine, bisogna fare attenzione che non ne approfittino per riscattarsi in maniera sbagliata, cioè che non facciano pagare ad altri le loro personali frustrazioni.
Nessuno Stato è riformabile
è evidente che quanto più potenti saranno gli Stati antidemocratici (quelli democratici non esistono), tanto più rovinosa sarà la loro dissoluzione. Loro lo sanno e si opporranno in tutte le maniere e con tutti i mezzi a questo destino. Essendo abituati, in nome di interessi di parte, a comandare le loro popolazioni e aree più o meno grandi del pianeta, non accetteranno alcuna pacifica transizione verso ciò che si presenta come una radicale alternativa.
Non ci può essere alcun compromesso tra il bene radicale e il male radicale. Il socialismo scientifico voleva che i proletari occupassero le leve dello Stato per vincere la resistenza della borghesia. Si diceva che bisognasse farlo in maniera coordinata, centralizzata. Può darsi che questa possa essere considerata una soluzione giusta, ma va precisato, in via preliminare, che si tratta di una soluzione provvisoria, contingente alla sua necessità momentanea.
Infatti lo Stato non è una struttura riformabile. La sua antidemocraticità è sistemica, non dipende dalle persone che lo gestiscono sul piano amministrativo o lo governano su quello politico. Lo Stato è di per sé fonte di estraneazione. La democrazia può essere garantita solo da una popolazione che si autogestisce.
Meno che mai si può pensare di conservare le funzioni statali, pensando di conservare i modi e le tecniche di produzione industriale che tutti gli Stati generalmente tutelano. Ogni cosa va rimessa in discussione, soprattutto ciò che minaccia l'autonomia personale, la facoltà di decidere. Ciò che oggi diamo per scontato (denaro, mercato, città, eserciti professionali, burocrazia, mezzi di comunicazione, mezzi di trasporto, e così via) potrebbe non esistere più.
Una comunità locale sarà necessariamente un'aggregazione di poche persone in grado di sopravvivere usando proprie risorse naturali, propri mezzi di lavoro. Dovrà anzitutto garantire a se stessa gli elementi naturali fondamentali che le permettono di esistere e di riprodursi, come acqua, aria, energia, alimentazione, abitazione, abbigliamento… Il rapporto tra le varie comunità servirà per affrontare problemi comuni, per barattare le eccedenze, per favorire l'esogamia, ecc.
Dovrà essere forte la consapevolezza che qualunque scelta arbitraria, qualunque azione individualistica, non concordata col resto della comunità, va considerata come una minaccia esistenziale. Parlare di diritti individuali a prescindere dalle necessità comuni, andrà considerato un puro e semplice non senso.
Qualunque violazione a una legalità prestabilita andrà in qualche modo sanzionata, ovviamente non fino al punto da togliere la vita alla persona. La vita va considerata sacra e inviolabile, almeno fino a quando non costituisce un pericolo per la vita altrui. Il colpevole va rieducato e reinserito nei meccanismi comunitari. Tolleranza ci vuole nei confronti di chi sbaglia, poiché nessuno è infallibile, nessuno può essere esentato da critiche, nessuno può considerarsi insostituibile, nessuno può pretendere di possedere conoscenze esclusive, nessuno può avanzare dei diritti particolari o dei particolari privilegi. Solo la natura può decidere le esigenze di ognuno.
Tutte le regole della comunità non potranno essere messe per iscritto, poiché il loro rispetto andrà deciso dalle circostanze. Ci si dovrà affidare alla trasmissione orale basata su tradizioni ancestrali, collaudate.
I figli non apparterranno alla coppia che li genera più di quando non appartengano alla comunità che li educa. L'uguaglianza di genere è parte costitutiva dell'uguaglianza sociale.
Basta con le nostalgie per ciò che va superato
Rita di Leo (storica ed economista) non la capisco. è ancora nostalgica della vecchia URSS. L'ha scritto in una miriade di pubblicazioni. Non esclude la buona fede di Gorbaciov, ma lo riteneva totalmente incapace, in quanto delegittimò il potere del Pcus. Ma questo è un errore.
L'URSS era uno Stato gestito da un monopartitismo, col pensiero unico dell'ideologia marx-leninista (usata secondo criteri stalinistici) e con istituzioni talmente intrecciate tra Pcus e Stato che l'indebolimento dell'uno provocava automaticamente quello dell'altro.
Non può esserci democrazia senza pluralismo. La verità non può mai essere imposta. E poi non è assolutamente vero che senza una verità ufficiale si finisce nel relativismo dei valori, e si fa un favore al capitalismo.
Qui bisogna convincersi di una cosa di fondamentale importanza, e che la di Leo non ha capito: il popolo è più importante dello Stato. Concetti come Stato nazionale, Stato politico, integrità territoriale gestita dallo Stato non dovrebbero contare nulla rispetto al diritto all'autodeterminazione che possono rivendicare le varie popolazioni (etnie, nazionalità, realtà regionali…) che costituiscono la nazione nel suo insieme.
Se nel mondo intero, e nello stesso ONU, fosse chiaro che i popoli sono superiori agli Stati, non sarebbero mai scoppiate guerre come quella in Ucraina, in Cecenia, in Georgia e così via. Quando una determinata fetta di popolazione rivendica, in maniera ragionata, una propria autonomia, gliela si deve concedere senza tante discussioni.
Lo Stato è uno strumento potente ma senza volto. Chiunque si impadronisce delle sue istituzioni, può compiere abusi eccezionali e farla franca. Ufficialmente è responsabile di tutto, ma non è mai colpevole di nulla.
I classici del marxismo erano stati molto chiari su questo: lo Stato può servire contro l'inevitabile controrivoluzione interna e l'interventismo bellicista degli Stati esteri, ma, una volta consolidata la situazione, ha il compito di estinguersi progressivamente, permettendo alla società civile di autoamministrarsi.
La polemica che, a più riprese, i comunisti han condotto con l'anarchismo pescava nel vero: una società non può aspirare all'autogestione se prima non si è fatta la rivoluzione, e questa non è possibile senza una direzione centralizzata delle operazioni e senza occupare i gangli vitali dello Stato. Tuttavia, una volta conseguito con successo l'obiettivo, bisogna iniziare a smantellare ciò che deresponsabilizza la popolazione, ciò che la fa dipendere da decisioni che piovono dall'alto.
Uno Stato democratico è una contraddizione in termini, come lo è lo Stato di diritto o lo Stato di tutto il popolo. Qualunque forma di Stato (monarchica o repubblicana, ereditaria o costituzionale, presidenziale o parlamentare) va considerata come un prodotto storico dell'ultimo mezzo millennio. Non ha niente di "naturale".
L'essere umano non è fatto per sottostare al potere dei grandi Moloch o Leviatani. Fa soltanto ridere che un Paese imperialista come gli USA, fondato sul genocidio dei nativi, accusi la Russia di volersi espandere in Europa. Questo perché, da quando è nata (mille anni fa), la Russia non ha mai avuto intenzione di farlo. Il che non vuol dire che non sia uno Stato "imperiale", ma semplicemente che nessun Paese occidentale è in grado a dare lezioni di democrazia.
Questa mania imperiale fa parte di una "storia delle civiltà" che va decisamente superata. Il concetto stesso di "civiltà" è un obbrobrio. Con esso infatti gli storici si riferiscono, con convinzione, già ai primi imperi schiavistici, bollando di "primitivismo" tutto il pregresso.
Su questo voglio essere sincero ma categorico: la democrazia (quella sociale, non soltanto quella politica) non sta nel multipolarismo in sé, e neppure nel multipartitismo. La democrazia sta nella possibilità che una comunità locale ha di gestire in maniera condivisa e integrale le risorse del territorio in cui vive. Il che non esclude la democrazia delegata, ma la subordina nettamente a quella diretta.
Se lo Stato favorisce questo decentramento delle funzioni, merita d'essere rispettato, altrimenti è inutile farsi illusioni: si passerà da una forma di dittatura a un'altra.
Il fallimento del bolscevismo
Perché la rivoluzione bolscevica è fallita? Perché se poteva avere tutte le ragioni di questo mondo là dove si era affermata, cioè nelle grandi città della Russia europea, i leader di quella rivoluzione non avevano il diritto d'imporla in quelle aree geografiche in cui la sua esigenza era meno sentita o non era maturata con la stessa intensità o con la stessa consapevolezza.
La stessa classe operaia, composta in gran parte da ex contadini, non aveva il diritto di subordinare le esigenze dell'agricoltura a quelle dell'industria. Anzi, una volta sottratta la terra ai signori feudali e ai capitalisti agrari, la si doveva distribuire a chiunque volesse lavorarla, e quindi anche agli stessi operai, che non andavano considerati dal partito più importanti degli agricoltori.
A tutti doveva essere dato un pezzo di terra da lavorare, anche a chi viveva in città. Tutti dovevano praticare, su larga scala, la pratica dell'autoconsumo. Il mercato doveva limitarsi al baratto delle eccedenze. Poteva tranquillamente svilupparsi uno scambio tra beni materiali e servizi intellettuali, o tra agricoltura e artigianato, senza porre primati ingiustificati.
Lo sfruttamento della manodopera salariata doveva restare vietato, anche se poteva essere concesso in via provvisoria, al momento del bisogno, nei periodi stagionali, quando i prodotti agricoli maturano. L'importante era che lo sfruttamento della manodopera non diventasse una pratica abituale, sistemica. Doveva porsi, più che altro, come uno scambio di favori: quindi più che di "sfruttamento" bisognerebbe parlare di semplice "utilizzo".
Una popolazione è libera solo quando è consapevole che il proprio sostentamento dipende dal proprio lavoro, e questo lavoro non può essere vissuto come se fosse una condanna, una maledizione. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare, e si vuole vivere soddisfatti di sé, senza dover per forza vedere gli altri come potenziali nemici o concorrenti. Anche i beni artigianali o artistici andavano promossi, poiché, essendo pezzi unici, sono sempre più preziosi di quelli fatti in serie dalle catene di montaggio.
L'industria era da evitare? No, ma era da limitare alle necessità. L'industria poteva servire per trasformare le materie prime, i minerali, i prodotti agricoli... (certamente non per produrre dei fertilizzanti chimici o per inquinare l'ambiente). Tuttavia non avrebbe dovuto avere alcun senso imporre agli agricoltori l'uso di macchinari per ottenere una maggiore produzione sul piano quantitativo. Queste sono richieste tipiche del mondo capitalistico, che produce anzitutto per "vendere", non tanto per consumare.
Il consumo deve porsi anzitutto come "autoconsumo", che dipende da una "autoproduzione" per una "autosussistenza". Libertà vuol dire autonomia in tutto e per tutto. Senza questa autonomia, si è lontanissimi dal realizzare la democrazia diretta. Se la città non è in grado di autoalimentarsi, va progressivamente smantellata. In città si perde piuttosto facilmente il contatto con la realtà.
Una nazione composta da persone soddisfatte della propria vita, perché padrona dei propri mezzi di sostentamento, è invincibile, è destinata a durare un tempo indefinito, anche perché non sarà ostacolata dai processi naturali, non avrà mai la natura come "nemica". I grandissimi territori desertificati del nostro pianeta non sono frutto di cambiamenti climatici spontanei o naturali, ma l'esito di un rapporto sbagliato con le risorse ambientali. Questa forma di arroganza che l'uomo ha nei confronti della natura è nata con lo schiavismo e, a tutt'oggi, non è ancora finita.
è assurdo pensare a una tecnologia ecologica quando il prodotto industriale per realizzare tale tecnologia è ricavato da una diversa violenza nei confronti della natura. Estrarre gas e idrocarburi oppure i materiali delle terre rare per la transizione ambientale, non cambierà la sostanza delle cose, come non è cambiata, se non in peggio, nel passaggio dal carbone al petrolio.
Il problema è a monte, nello stile di vita che si vuole realizzare, e questo stile di sicuro non deve essere incompatibile con le esigenze riproduttive della natura. Il vero scontro epocale non sarà tra capitalismo e socialismo, ma, in ultima istanza, tra uomo e natura.
Una popolazione soddisfatta di sé, se mai dovesse essere attaccata da una popolazione straniera, saprebbe come difendersi. Le esigenze della difesa sono molto meno onerose di quelle dell'attacco. E con queste esigenze meramente difensive è più facile trovare degli alleati.
Una popolazione è militarmente forte quando è unita, quando ha un motivo comune per combattere, quando non vuole rinunciare all'esistenza che conduce, quando non si fa illusioni sulla propaganda di chi vorrebbe imporle un diverso stile di vita. Qualunque tipo di rapporto con popolazioni straniere non può prescindere dall'esigenza di salvaguardare i propri usi e costumi. Se o quando avvengono cambiamenti significativi, ci vuole libertà per accettarli: non possono mai essere imposti con la forza.
Insomma l'idea di dover raggiungere i livelli produttivi dei Paesi capitalistici più avanzati, nel timore di poter diventare un giorno una loro colonia, è stata la principale idea che ha fatto fallire la rivoluzione bolscevica. Da questo punto di vista lo scontro tra le due opposte idee: rivoluzione permanente e socialismo in un solo Paese, era uno scontro del tutto inutile, in quanto in nessun caso si affrontava il cuore del problema.
Una popolazione deve costruire un socialismo democratico anzitutto per se stessa, in maniera tale che nessuno abbia a lamentarsi delle scelte che si compiono per sopravvivere in maniera dignitosa. Solo in questa maniera potrà costituire un esempio convincente per altre popolazioni.
Il termidoro era inevitabile?
Scrive Volkogonov: "Tutte le rivoluzioni, senza eccezioni, corrono il rischio di arrivare al loro termidoro" (p. 586, o.c.).
Questa è un'affermazione che andrebbe spiegata, altrimenti diventa una forma di qualunquismo. Se tutte le rivoluzioni, "senza eccezioni", corrono questo rischio, è inutile impegnarsi a fare i rivoluzionari, rischiando peraltro di rimetterci la vita. Meglio affidarsi a lente transizioni.
Semmai la domanda da porsi è un'altra: che cosa si deve fare perché una rivoluzione non corra il rischio di trasformarsi nel suo contrario? Cioè non sto dicendo che bisogna trovare qualcosa di "oggettivo" o, peggio, di "assoluto", che non dipenda dalla volontà umana, ma non bisogna neppure affidarsi soltanto a questa volontà. Non è certo con l'etica che si risolvono i problemi della politica. Non perché non ci voglia "etica" nella politica, ma perché un'etica senza politica è astratta, è filosofica.
Bisognerebbe partire da un presupposto così elementare che nessuno possa metterlo in discussione. Come per es. questo: l'essere umano è un animale sociale. Detto questo, bisognerebbe chiedersi cosa rende piacevole tale socialità, che, beninteso, va ben oltre la semplice "socievolezza".
Detto altrimenti: una rivoluzione non ha lo scopo di far vivere un'esistenza senza problemi, ma quello di far capire come affrontarli in maniera collegiale, in modo che tutti possano contribuire a risolverli e che quindi la loro soluzione possa avere una ricaduta positiva su tutti.
Sentirsi parte di un insieme o di un tutto vuole appunto dire che, se anche uno, individualmente, scopre qualcosa di utile, tutti ne trarranno beneficio. Non dimentichiamo che per scoprire qualcosa di innovativo ci vuole un certo sforzo, un impegno particolare; in caso contrario ci si affida a soluzioni condivise, tradizionali, che offrono sicuramente una certa stabilità.
In una situazione di condivisione reciproca delle risorse umane e materiali, la gerarchia non ha senso. Certo, quando si compie un'insurrezione contro un nemico, è importante restare uniti, anche in maniera gerarchica. Ma quando si costruisce la democrazia, tutti obbediscono e tutti comandano. Sono le specifiche situazioni che decidono chi fa cosa. Il sapere e il saper fare è reticolare, è interdipendente, frutto di interconnessioni; se parte dall'alto per arrivare in basso, deve poter essere previsto anche il percorso inverso.
Non a caso democrazia vuol dire "governo del popolo". Quando si aggiunge "nei limiti della Costituzione", si dice una cosa insensata. Infatti, se è davvero il popolo a governare, non c'è Costituzione che tenga. Non può esistere una Legge fondamentale che stabilisca diritti e doveri in forma aprioristica, precostituita. La democrazia non può essere burocratizzata.
Il popolo deve già conoscere per conto proprio i diritti e i doveri, e finché non li avverte come esigenza spontanea, non ha senso parlare di democrazia. Anzi, quando li sente come cosa naturale, non li considera più dei "diritti" o dei "doveri". Il giuridicismo non appartiene alla democrazia. Assumersi un dovere in più non può essere avvertito con disagio in presenza di una democrazia reale, sostanziale, anche perché a nessuno verrebbe in mente di trasformare un proprio bisogno o una propria risorsa o un proprio vantaggio come un proprio diritto. Quando in una democrazia si cominciano a rivendicare dei diritti, pretendendo dei doveri da parte degli altri, ecco che i diritti si sono già trasformati in privilegi, e i privilegi van sempre combattuti, altrimenti la democrazia è irrealizzabile.
Il popolo (che poi, in sostanza, è la comunità locale) decide di volta in volta cosa è bene e cosa è male. E lo decide sulla base delle esigenze che vanno soddisfatte, tra cui quella fondamentale è la riproduzione della natura. Oggi siamo arrivati alla conclusione che se la natura non è in grado di riprodursi, non è possibile parlare di democrazia.
La democrazia è quindi la cosa più seria di questo mondo e, per sua natura, non può essere né delegata né codificata. La democrazia può essere solo diretta e autogestita.
Forme di paternalismo
La riabilitazione dei tanti condannati sotto lo stalinismo ebbe un valore soltanto etico non politico. Tant'è che Krusciov venne rimosso dagli stalinisti, così come al tempo di Gorbaciov sempre loro organizzarono il colpo di stato.
I russi non hanno mai vissuto la democrazia, né hanno mai fatto i conti sino in fondo col loro passato. Continuano a vivere di miti. Uno è il più evidente di tutti: lo stalinismo vinse il nazismo perché era migliore. Sottovalutano se stessi come popolo. è stato il popolo a vincere il nazismo, non lo stalinismo. Anzi, se fosse dipeso dagli stalinisti, di sicuro la guerra l'avrebbero persa.
Oggi stravedono per Putin, che considerano come un capo carismatico, ma in questa maniera negano il valore della democrazia. Alla fine tra stalinismo e putinismo le differenze diventano soltanto quelle che impone lo scorrere del tempo.
I russi temono la democrazia, poiché sono convinti che, una volta introdotta nel loro Paese, si finisce con l'accettare tutti gli aspetti negativi dell'occidente. Fanno bene a dire che la democrazia occidentale è solo formale, una finzione che maschera intenti egemonici a livello mondiale. Ma questo non vuol dire che la democrazia non sia un obiettivo da realizzare.
Ha senso che uno statista governi un Paese da 25 anni? La Cina ha lo stesso difetto. Il fatto che si permetta alla società di arricchirsi non sta di per sé a significare che vi sia democrazia. Anzi, in Cina è anche peggio, in quanto la popolazione è costantemente monitorata dall'intelligenza artificiale. Questo per dire che le riabilitazioni e la concessione di pratiche borghesi a livello di società civile, non sono altro che forme di paternalismo.
La popolazione va responsabilizzata, va abituata a credere che se a livello locale non funzionano determinate cose, occorre cercare in se stessi le motivazioni, e pretendere dal potere centrale che lo Stato riduca progressivamente le proprie funzioni.
Mostrare i denti serve?
Faccio alquanto fatica ad accettare i discorsi di chi sostiene che siamo precipitati nell'attuale caos mondiale a causa dell'implosione dell'URSS, che avrebbe ancor più alimentato le proiezioni di potenza degli USA e dell'occidente in generale.
Indubbiamente è vero che nel decennio degli anni '90 la NATO si è scatenata nell'allargarsi verso l'Europa dell'est. è anche vero che in quel periodo il dominio internazionale del petrodollaro ha conosciuto le vette più alte; e che il Terzo Mondo si è sentito destabilizzato, dopo aver confidato nella potenza dell'URSS ai fini della propria decolonizzazione.
Ma ci siamo dimenticati che la guerra fredda era una specie di guerra mondiale e che non sono stati pochi i casi in cui avrebbe potuto scoppiare per davvero: il più grave fu quello di Cuba al tempo di Kennedy e Krusciov, ma anche quello dei missili Cruise e Pershing 2 in Europa non fu da meno.
Possiamo forse dire con certezza che una guerra mondiale vera e propria non avvenne solo perché dominava l'equilibrio del terrore? Che sicurezza ci può essere quando si vive nella paura quotidiana? E in ogni caso era giusto che l'umanità vivesse nell'angoscia di pensare che il filo della spada di Damocle poteva spezzarsi da un momento all'altro?
Non abbiamo forse tratto un sospiro di sollievo quando Gorbaciov indusse gli USA a firmare dei trattati a favore della pace nel mondo? quei trattati che poi gli stessi USA hanno rinnegato uno dopo l'altro?
Certo, Gorbaciov fece delle concessioni militari unilaterali. Permise l'abbattimento del muro di Berlino; ritirò il contingente armato dall'Afghanistan, lasciando il Paese nelle mani dei talebani… Forse queste e altre cose potevano apparire eccessive, tipiche di un ingenuo idealista, di un visionario della politica. Ma diedero speranza. Fecero capire che la pace nel mondo era possibile.
Ora invece dobbiamo sentire qualcuno che rivendica i tempi in cui l'URSS faceva paura agli USA. è questo che vogliamo? Illuderci di avere più sicurezza assumendo atteggiamenti da bulli?
L'URSS non è implosa per colpa di una guerra nucleare contro l'occidente, ma in forza delle proprie contraddizioni interne. Non è crollata perché Gorbaciov voleva rendere più democratico il socialismo. Questa è una tesi filo-stalinista.
Col suo pacifismo a oltranza Gorbaciov dava fastidio all'occidente bellicista. L'URSS sarebbe stata comunque attaccata, poiché è nella natura del capitalismo espandersi a spese altrui. E quando non vi riesce, diventa sommamente aggressivo. A chi vogliamo dar la colpa di questa aggressività? Forse a chi lotta a favore della pace e della democrazia? Cioè a chi non esibisce i denti con fare minaccioso?
Noi non dobbiamo volere più democrazia che porti più capitalismo, ma perché porti più socialismo. Non ci basta un capitalismo di stato, e neppure un socialismo mercantile. Lo Stato deve essere gestito dai lavoratori e i lavoratori devono arrivare ad essere così democratici da poter fare a meno di qualunque Stato.
Anche per noi una lezione utile?
A volte mi chiedo cosa potrebbe accadere a un gigantesco Paese come la Russia, la cui esistenza è legata a una enorme disponibilità di risorse energetiche, se il resto del mondo accettasse una transizione green, in cui gli idrocarburi fossero destinati progressivamente a scomparire.
La Russia non ha un'industria leggera (manifatturiera) come quella cinese. Se prescindesse dall'export del fossile, cosa le resterebbe? Il legname proveniente dalle foreste? Le sconfinate distese di terra da coltivare a cereali? Qualche prodotto metallurgico? Non lo sanno i russi che chi produce materie prime è sempre più debole di chi le trasforma? Inoltre chi ha voglia di sopportare le gelide temperature siberiane? Se fosse così facile, a quest'ora la Russia, visto le grandi risorse che ha, sarebbe il Paese più popolato del mondo.
In ogni caso la Russia non deve illudersi d'essere un Paese militarmente invincibile. Semmai deve contare sul fatto che ad ogni sconfitta bellica, è stata capace di riprendersi magnificamente.
Per es. la dura invasione tataro-mongola (1237-1480) le ha insegnato che, restando divisi, si perde sempre.
La Guerra del Nord (1700-21) contro la Svezia segnò l'ascesa della Russia come grande potenza europea, ma i russi non dimenticarono che un piccolo Paese come quello era stato capace di invaderli.
L'invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812 portò alla distruzione totale di Mosca, anche se la ritirata francese fu assolutamente disastrosa per la loro armata, tanto da segnare la fine dello stesso imperatore.
Durante la Guerra di Crimea (1853-56) la Russia fu invasa da un'alleanza di potenze europee, tra cui Francia, Gran Bretagna, Impero Ottomano e Regno sabaudo di Sardegna. L'accesso al Mediterraneo le fu precluso. Tuttavia lo zarismo capì che doveva concedere la fine del servaggio.
La sconfitta col Giappone nel 1905 indusse la popolazione, con la rivoluzione dello stesso anno, a dare una prima spallata allo zarismo.
Si potrebbe andare avanti per un bel po'. Ma qui ci si vuole limitare a porre una semplice domanda: tutte le sconfitte della Russia sono forse un indizio della sua intrinseca debolezza? Questo per dire che, pur essendosi ripresa bene dopo ogni sconfitta, nulla lascia pensare che non possa essere vinta un'altra volta.
Tuttavia mi chiedo: chi siamo noi europei per considerarci migliori dei russi? Per caso non è che anche noi abbiamo bisogno di una lezione coi fiocchi per ripensare alla radice la nostra esistenza così misera sul piano dei valori?
Quale giustizia rivoluzionaria?
Una guerra civile è sempre un evento di incredibile gravità, i cui effetti possono essere incalcolabili, soprattutto con le armi di oggi. Ma non si può cercare di evitarla a tutti i costi.
Succede come quando due Stati litigano: per riconciliarsi occorre uno sforzo congiunto. Il ricorso alla violenza va sempre considerato come una extrema ratio. Diventa inevitabile solo quando la controparte non vuol sentire ragioni.
Tuttavia il vero problema è un altro: quello di come impedire che un organo repressivo (per es. la polizia politica) non agisca in maniera brutale. Un problema che lo stalinismo neppure si poneva, anzi, non voleva che vi si trovasse una soluzione. Quando Stalin s'accorgeva che la violenza dei servizi segreti raggiungeva livelli inusitati o così evidenti da non poterli celare, eliminava qualche dirigente o qualche esecutore degli stessi servizi, e poi ricominciava peggio di prima. Se Stalin fosse sopravvissuto all'ischemia che lo colpì, avrebbe fatto giustiziare tutti i medici che l'avevano in cura. Per fortuna furono solo incarcerati.
Diciamo che in primo luogo andrebbero abolite, quando si è in guerra (interna o esterna non fa differenza), sia la pena di morte che la tortura. Giustiziare una persona, con o senza processo, andrebbe considerato sempre inammissibile, a prescindere dalla gravità del reato. Costringere una persona a confessare il proprio reato o a denunciare i propri complici è semplicemente vergognoso. Non serve a niente fare una rivoluzione contro un sistema di potere iniquo e disumano, adottando gli stessi suoi mezzi o metodi di giudizio.
Quando si parla di "transizione", la si deve intendere sotto tutti gli aspetti: etici, politici, culturali… Non ha alcun senso usare la politica (strumento fondamentale per risolvere i conflitti di classe o di casta o di ceto o tribali), negando valore all'etica.
Se durante una guerra civile non si ha tempo per imbastire un processo regolare, ci si può limitare alla detenzione dell'accusato; finita la guerra si avvierà una regolare istruttoria. Per giudicare le azioni di qualcuno, bisogna avere prove, testimonianze, riscontri oggettivi… Se ci si lascia condizionare dai pregiudizi o anche solo dai sentimenti, si sarà portati, inevitabilmente, a dare prevalenza alle aggravanti piuttosto che alle attenuanti.
Il recupero del colpevole è la cosa più importante cui possa aspirare una società. Ma perché ciò avvenga, occorre che qualcuno si assuma parte della responsabilità dell'azione criminale (o anche solo criminogena, come si usa in sociologia).
Nessuno vive completamente isolato. Siamo animali sociali, chi più chi meno. Siamo tutti corresponsabili, in forme e gradi diversi, di ciò che succede intorno a noi. Anzi, considerando che viviamo in una sorta di "villaggio globale", dove tutto è interconnesso a livello planetario, dobbiamo considerarci responsabili, in maniera diretta o indiretta, di qualunque cosa avvenga nel mondo. "Il battito d'ali di una farfalla può provocare un uragano dall'altra parte del mondo", sentenzia un famoso detto.
Esiste però un'altra verità che ci deve entrare nella testa. è illusorio pensare che si possa ottenere piena giustizia in tribunale. I giudici sono tenuti, per motivi professionali, a basarsi su codici scritti, soggetti a continue rettifiche, spesso in contrasto tra loro. Se agiscono soltanto secondo coscienza, lo fanno a loro rischio e pericolo, e qualcuno potrebbe sindacare sul loro operato.
Eppure, non potendo tener conto della complessità della vita reale, non c'è articolo, di nessun codice civile o penale, che non sia fondamentalmente astratto. Un furto o un omicidio non sono mai quello che appaiono. è difficile che in tribunale vengano fuori le motivazioni etiche o psicologiche sottese a determinati reati o crimini. Anzi, è proprio in tribunale che spesso, quando non si riesce a spiegare o ad accettare un determinato movente, si finisce col "mostrificare" l'indagato. Sono tipiche certe definizioni giudiziarie: "era fuori di sé", "è stato un atto inconsulto", "non c'era l'intenzionalità"… Tutte espressioni generiche che non spiegano niente e che non aiutano a migliorarsi, né chi è destinato a subire una condanna né chi si limita a eseguirla o ad assistervi passivamente.
Il mondo non ha bisogno di condanne esemplari, né di processi formalmente corretti, ma di non reiterazione della colpa. Tutti devono sentirsi responsabili di tutto, e questo non è possibile che avvenga in presenza di una mera democrazia rappresentativa. La democrazia deve per forza essere locale e diretta: solo in questa maniera il peso della colpa, in virtù di una reciproca conoscenza, può essere equamente distribuito.
Autocritica e sicurezza
è evidente che mentre sta per scoppiare una rivoluzione politica o è in corso una guerra civile o una contro uno Stato estero, la distinzione tra "noi" e "loro" si semplifica al massimo.
Anche nei vangeli vi è l'espressione "chi non è con me, è contro di me" (Mt 12,30), che pur viene attenuata da un'altra espressione, più morbida: "chi non è contro di voi, è per voi" (Lc 9,50). Naturalmente con la prima espressione i redattori pretendevano che i lettori credessero, senza discutere (come stalinisti ante-litteram), nella divinità del Cristo; mentre con la seconda volevano far vedere che l'approccio politico degli apostoli alle contraddizioni sociali era completamente sbagliato, in quanto il migliore era quello religioso.
Le semplificazioni schematiche, gli schieramenti unilaterali diventano, a un certo punto, inevitabili. Ecco perché bisogna, prima che il conflitto scoppi, trovare col proprio avversario degli accordi ragionevoli, dei compromessi reciprocamente vantaggiosi. Cioè bisogna far in modo che sia l'avversario a non accettarli o a ricorrere alla forza per non rispettarli. Non ci si può mettere dalla parte del torto quando si ha ragione. Meglio subire un'ingiustizia che commetterla, anche se a tutto vi è un limite, oltre il quale non ha senso andare.
Quando in Russia scoppiò la guerra civile, le carceri erano piene di oppositori. Ma quando finì, esse furono svuotate. Viceversa sotto lo stalinismo i lager non fecero che aumentare: erano gli stessi detenuti obbligati a costruirli.
Lenin aveva capito che ci voleva "pedagogia", "rieducazione". Stalin invece preferiva reprimere chiunque mettesse in discussione l'industrializzazione accelerata, la collettivizzazione forzata e i risultati dei piani quinquennali. Ogni pretesto era buono per scatenare il terrore. La differenza tra i due leader stava nei tempi di realizzazione degli obiettivi e nel concetto di "sicurezza".
Ci sono persone che si sentono più sicure quando danno ordini e pretendono che vengano rispettati senza discussioni. Si comportano come militari anche senza esserlo. Anzi Stalin sul piano militare era letteralmente un disastro. Quando scoppiò il conflitto coi nazisti, invece di dire al proprio Stato Maggiore: "Pensateci voi, non me ne intendo", fece in modo che le perdite russe arrivassero a 27 milioni di persone! Se non avesse fatto niente, sarebbero state sicuramente di meno, molto meno.
Insomma, se la pretesa di comandare è facile riscontrarla nel rapporto "genitori-figli" o "insegnanti-allievi", bisogna anche dire che questi sono rapporti asimmetrici, ove è difficile sperimentare sino in fondo la democrazia o la pariteticità, tant'è che è piuttosto raro che chi comanda eserciti l'autocritica. Viene considerata una forma di debolezza, soprattutto nelle società patriarcali o maschiliste. Le stesse donne, quando in queste società dispongono di un certo potere, si comportano come gli uomini, e vengono apprezzate per questa loro emancipazione al negativo.
L'aspetto più vergognoso delle repressioni staliniste è che non ci si accontentava mai di infierire su chi veniva accusato di qualcosa. Si pretendevano, con l'uso della forza e della minaccia, la confessione di reati o crimini mai commessi, e persino la denuncia di forme di complicità da parte di amici, parenti o conoscenti che non avevano fatto assolutamente nulla.
Quanto più la popolazione era terrorizzata, tanto più gli stalinisti si sentivano sicuri. Stalin ci mise una decina d'anni per poter organizzare i processi politici contro i propri colleghi di partito, ma prima d'allora erano già state terrorizzate le masse rurali (soprattutto quelle più abbienti), e in questo atteggiamento gli stalinisti non avevano incontrato significative resistenze all'interno del Pcus.
I politici imputati nei processi-farsa avrebbero dovuto confessare di non essersi opposti con la dovuta fermezza alla deriva autoritaria del partito, del governo e dello Stato. Invece si limitavano a ripetere quanto veniva chiesto dagli organi inquirenti, che non lesinavano certo i mezzi coercitivi.
Una sana diffidenza
Quando gli aspetti intellettuali prevalgono su quelli manuali, la democrazia è finita. Si crea per forza una discriminazione.
Quando una massa di persone comuni, semplici, si fa dominare o anche solo dirigere da una ristretta cerchia di persone intellettualmente dotate, capaci di eloquenza, sofismi, dialettica, usando la memoria solo per fare dotte citazioni, collegamenti astrusi tra presente, passato e futuro; quando si prendono esempi dalla vita quotidiana e li si stravolgono nel loro significato consueto, il raggiro diventa molto facile, è dietro l'angolo.
Ora, quali sono gli strumenti per trovare l'inganno nelle parole che si ascoltano, nei fatti che si osservano? Quando si dice che le cose vanno interpretate sempre alla rovescia da come si vedono o si ascoltano, bisogna fare attenzione che anche l'avverbio "sempre" è falso.
Forse quindi sarebbe meglio porsi un'altra domanda: quali sono gli inganni che pesano di più sui destini di una comunità locale o, più in generale, delle masse popolari? Ecco, forse si potrebbe rispondere così: promettere cose che non si possono mantenere; dire delle cose e farne delle altre; usare la legge per ingannare… Chi si comporta così, è perché vuole un potere, o lo vuole conservare, oppure aumentare. Non è necessario conoscere i dettagli di un imbroglio, per sospettare che lo è o che il rischio che vi sia è realistico. In fondo la potenza del linguaggio umano sta proprio nella sua ambiguità.
Chi tende a camuffare le proprie intenzioni, a travisare la realtà dei fatti dovrebbe essere visto, dalla comunità cui si rivolge, come un elemento estraneo, esogeno, di cui diffidare per partito preso, con sano pregiudizio. è soltanto un ingenuo chi si fida di uno sradicato che presenta delle proposte che non appaiono in linea con gli usi e costumi tradizionali. E l'ingenuità - lo si sa bene - può essere pagata anche molto duramente. A volte gli inganni subiti portano alla follia o alla disperazione, e possono indurre a compiere azioni che, in situazioni normali, non si farebbero mai.
In via del tutto generale e astratta non ci si dovrebbe fidare delle persone che non appartengono al proprio ambiente vitale. Il solo fatto che uno provenga dall'esterno dovrebbe insospettire. Certo, si può essere traditi anche dai propri parenti o congiunti, ma il rischio è minore.
I rapporti umani sono fondamentalmente basati sulla fiducia reciproca, e per ottenerla ci vuole tempo, la si deve avvertire come essenziale alla propria sopravvivenza.
L'iniziale diffidenza per il forestiero, per l'ultimo arrivato, dovrebbe essere considerata la regola di base di ogni comportamento umano, soprattutto in un mondo violento come il nostro, dove chi possiede scienza, tecnica, industria, capitali ambisce a dominare tutti gli altri.
La fiducia può essere guadagnata solo dimostrando coerenza tra il dire e il fare. Non c'è bisogno di essere degli intellettuali per capire dove stanno i raggiri, gli inganni, gli imbrogli. è sufficiente l'esperienza, il legame organico, strutturale con una determinata collettività.
Una proposta è vera quando non scardina abitudini consolidate, quando non pone l'uomo contro la donna, il giovane contro l'anziano, gli esseri umani contro quelli naturali e animali. Si può non sapere che la terra è tonda e non piatta o che non sta ferma ma gira attorno al sole, ma non sarà certo questa ignoranza a impedire di vivere secondo natura.
Quanto più si è umani e naturali (e lo si può essere solo in un contesto locale, appartenendo a una comunità specifica), tanto più si è capaci di scoprire il lato artificioso delle cose, la truffa con cui ci vengono imposte.
Bisogna che ad un certo punto una persona arrivi a dire di un'altra persona: "Ecco, ora sei dei nostri". Ci si conquista un ruolo non quando lo si pretende, ma quando gli altri ce lo riconoscono. è questa la democrazia. Ed è sempre in nome della democrazia che il ruolo può essere revocato. Infatti essere appartenente a un collettivo è una cosa; avere l'esercizio di un potere specifico è una cosa molto diversa. Questo potere va riconosciuto di volta in volta e non può appartenere a un'unica persona: deve per forza essere intercambiabile.
Non può esistere uno che comanda e gli altri che obbediscono. In democrazia i ruoli non sono mai fissi. Quando necessario uno deve saper fare qualunque cosa, in rapporto alle sue capacità. Le donne primitive non andavano a caccia? E chi l'ha detto? Animali come cervi, caprioli, lepri o conigli, scoiattoli, uccelli, pesci e frutti di mare, insetti (cavallette e grilli), erano alla loro portata e spesso con esiti più fruttuosi per l'alimentazione quotidiana. Per questo in tutte le società pre-schiavistiche l'uguaglianza di genere veniva data per scontata; anzi, alle donne venivano riconosciuti più diritti, proprio per il ruolo speciale finalizzato alla procreazione.
"Non offendere mai le persone che mostrano d'aver meno capacità delle tue. Se lo fai, è perché sei un incapace". Ci dovrebbero essere regole come queste, cui attenersi in maniera scrupolosa. I gesti di umiltà, di riconoscenza, per essere veri, dovrebbero essere quotidiani, poiché sono quelli che danno sicurezza.
La cosa più dolorosa che possa capitare a una persona che ha riposto fiducia in un'altra persona, è quella di essere tradita. è anche lo stato d'animo più difficile da superare, poiché rischia di far emergere un sentimento o un atteggiamento che di umano non ha nulla: la vendetta, la ritorsione violenta.
Il traditore va indubbiamente punito, in rapporto alla colpa compiuta e con la finalità di recuperarlo a una vita normale, ma il vendicatore non deve neppure nascere. "è meglio subire un'ingiustizia che farla": anche questa dovrebbe essere una massima da acquisire con convinzione.
In ogni caso quando si viene traditi, bisogna sempre chiedersi se vi sono delle attenuanti. Spesso si compiono cose sulla cui gravità non si hanno le idee chiare. Le stesse persone che non le compiono, difficilmente riescono ad ammettere l'idea che potrebbero essere in qualche maniera corresponsabili.
Dal vero al falso
Quando si parte da una convinzione sbagliata, e si pretende che sia vera, al punto che si ricostruisce un qualche percorso storico che l'ha generata, è evidente che non si vuole che nessuno sia in grado di sostenere una visione opposta delle cose.
Ora, immaginiamo che questa deformazione della realtà sia stata operata dallo stalinismo, e che l'oggetto da travisare fosse il leninismo, una corrente politica capace di compiere una grande rivoluzione popolare nel 1917. è evidente che tutti i testimoni del leninismo andavano messi a tacere: che fossero imprigionati o eliminati non faceva molta differenza. L'unico errore di Stalin fu quello di esiliare Trockij (1929), che all'estero ebbe modo di parlare per molto tempo contro Stalin, finché non si riuscì ad assassinarlo (1940). Fu la vera spina nel fianco di Stalin, poiché tutti gli altri, quando fu scritto il Breve Corso, erano stati tolti di mezzo (1938).
Praticamente dovette scomparire un'intera generazione di militanti leninisti. Cioè nelle purghe staliniste degli anni '30 non ci finirono solo gli oppositori economici alla collettivizzazione forzata e ai piani quinquennali, ma anche gli elementi politici più consapevoli, quelli che capivano che lo stalinismo non era una prosecuzione del leninismo, ma una sua deformazione.
Questa falsificazione della realtà, che strumentalizzò qualcosa di vero (il leninismo), trasformandolo in qualcosa di falso (lo stalinismo), iniziò subito dopo la morte di Lenin (1924) e proseguì, pur in mezzo a due tentativi di democratizzazione del socialismo statale (quelli di Krusciov e di Gorbaciov) fino al crollo dell'URSS nel 1991.
Fu una falsificazione così potente che quando col capitalismo privato, voluto da El'cin, la si volle definitivamente eliminare, Putin, con la sua idea di capitalismo statale, in opposizione a quello privato di El'cin, non volle ripristinare alcun riferimento al socialismo, neppure sul piano teorico. Anzi Putin fece addirittura due passi indietro, andando a recuperare il nazionalismo religioso dell'ortodossia zarista. Cioè praticamente ha riportato le cose, sul piano ideologico, a com'erano prima della rivoluzione bolscevica, fatto salvo il fatto che la prassi di tipo capitalistico non è libera di comportarsi come meglio crede, essendo tenuta sotto controllo, in ultima istanza, da un certo autoritarismo statale.
Nei suoi attuali 25 anni di governo, Putin ha avuto la fortuna di avere a che fare con un Paese quasi completamente distrutto dal capitalismo privato di El'cin, che non costruì mai una vera alternativa né al socialismo statale degli stalinisti, né al tentativo di democratizzarlo di Gorbaciov. Pertanto tutto quello che Putin avrebbe potuto fare per togliere dalla miseria milioni di persone, sarebbe stato ben accolto (tanto che oggi la maggioranza dei russi annovera tra gli statisti "traditori" del loro Paese sia Gorbaciov che El'cin).
La seconda cosa che ha permesso a Putin di restare al potere sono state le guerre a favore dei russi o russofoni o filorussi residenti all'estero come comunità significative. Putin ha dimostrato di essere, in politica estera, un ottimo stratega sia come diplomatico che come militare. I russi hanno la netta convinzione, anche quando vivono all'estero come minoranza etnico-linguistica, che con lui possono stare sicuri: se i loro diritti non verranno rispettati, lui interverrà, prima sul piano giuspolitico, poi, se sarà necessario, su quello militare. E fino adesso ha vinto. La storia lo ricorderà come uno statista dotato di ottime capacità, in grado di non temere la grande ostilità del cosiddetto "occidente collettivo", anzi, in grado di avviare un processo di ristrutturazione geopolitica del mondo intero, che oggi passa sotto i nomi di BRICS+, multipolarismo e Sud Globale.
I punti di debolezza dell'attuale Russia sono collegati al fatto che la principale risorsa economica del Paese è quella energetica, che non potrà certo durare all'infinito e che non può costituire un'alternativa alla transizione ecologica del pianeta. La Russia, con l'estrazione del gas, degli idrocarburi e del materiale fissile per le centrali nucleari è assai poco adatta a promuovere l'ambientalismo. Peraltro se i mutamenti climatici vanno avanti di questo passo (che è molto sostenuto), la Russia avrà grandi difficoltà ad affrontare i problemi connessi allo scioglimento del permafrost e dei ghiacci polari.
L'altro punto di debolezza è che la Russia deve costruire una democrazia politica matura, e questo può farlo solo se recupera le idee migliori del socialismo.
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L'aspetto meno convincente del putinismo è, paradossalmente, ciò di cui questa ideologia va più fiera: il richiamo all'ortodossia religiosa. Si badi, con questo non si vuol dire che la classica contrapposizione tra un occidente razionale, democratico, tecnologicamente evoluto e un oriente dispotico e oscurantista abbia una qualche ragion d'essere. Anzi, se dovessimo guardare le cose da una prospettiva meramente "teologica", dovremmo dire che l'ortodossia è molto più vicina al cristianesimo primitivo di quanto non lo siano cattolicesimo e protestantesimo (pur essendo tutte e tre le confessioni un tradimento del Cristo ateo e sovversivo).
Il punto, tuttavia, è proprio questo, che se, da un lato, non hanno senso i pregiudizi russofobici degli occidentali, dall'altro non ha neppure senso far valere una battaglia di civiltà che si rifà a tradizioni religiose. Chi in Russia volesse ancora farlo, si troverebbe su posizioni nettamente anacronistiche, di molto più arretrate di quelle del miglior bolscevismo.
Qualunque idea di mettere in rapporto la Russia con l'eredità bizantina (per es. quella della "terza Roma" o dell'autocrazia) oggi va considerata superatissima. La Russia deve semplicemente limitarsi a costruire un socialismo la cui democrazia preveda la piena liberà di coscienza in merito all'atteggiamento da tenere sulle questioni religiose, nell'ovvio rispetto delle convinzioni altrui e della sicurezza di tutti i cittadini.
Non aver paura del nichilismo
Quanto più una dittatura politica è pervasiva, tanto più l'attività del ceto intellettuale è conformista, a meno che uno scrittore non riesca a far pubblicare all'estero la sua opera. Ma in tal caso dovrebbe chiamarsi con un altro nome, poiché sicuramente in patria ne pagherebbe le conseguenze (o le pagherebbero i suoi familiari o parenti). Sotto lo stalinismo non si cacciava dalla Russia nessun dissenziente: lo si imprigionava o lo si eliminava o lo si internava in qualche manicomio. Anche quando uno riusciva a fuggire all'estero, temeva sempre che prima o poi l'avrebbero assassinato, per cui viveva senza esporsi.
Ciò vuol dire che tutto quanto è rimasto dello stalinismo, si può tranquillamente buttare via. Non si può recuperare niente di utile alla costruzione di un socialismo democratico. Sono stati anni perduti. Non serve a niente neanche un'analisi critica dello stalinismo. Per costruire un socialismo democratico si ha bisogno anzitutto della democrazia, della proprietà sociale dei mezzi produttivi e dell'ambientalismo. Non si ha bisogno di "sapere" nel dettaglio cosa non si deve fare. Se non è l'istinto o il buon senso a farci capire che tipo di democrazia ci vuole per costruire il socialismo, allora vuol dire che, in un modo o nell'altro, siamo ancora schiavi del nostro presente. Infatti per molti di noi il vero problema non è "sapere" le cose giuste, ma metterle in pratica.
Che la schiavitù dipenda da statalismo o liberismo, individualismo o collettivismo forzato, non fa alcuna differenza. Noi dobbiamo liberarci di tutto, fare una specie di "bagno purificatore" e ricominciare a vivere, risorgere: un po' come faceva il Battista col suo "battesimo di penitenza", in previsione di dover iniziare una vita migliore della precedente. Dobbiamo pentirci di tutto e renderci disponibili a costruire qualcosa di nuovo, che magari è qualcosa di vecchio, ma deve essere qualcosa di così remoto che ci è rimasto solo nell'inconscio.
Dobbiamo abituarci a vivere un'esistenza assolutamente naturale, priva di sostanze artificiali, incompatibili coi processi naturali di assimilazione e rigenerazione. L'essere umano è un ente di natura dotato di libertà di coscienza. Può interagire con la natura, ma senza stravolgerla. Si deve rieducare a questo stile di vita, e non gli sarà facile, poiché tutto quello che viviamo è sbagliato, anzi falso, in quanto pretende di prevaricare sui processi naturali. Pretende di dirci, in maniera artificiale, che cos'è "naturale".
Se ci pensiamo bene, niente di ciò che abbiamo realizzato negli ultimi 6000 anni, merita d'essere conservato. Tutto ciò che abbiamo costruito a partire dalle prime società schiavistiche, ci serve solo per capire che nulla di quanto abbiamo detto o fatto nel passato e che continuiamo a dire o fare nel presente, avrà un senso per il futuro.
Da questo punto di vista non servirà a nulla neppure la ricerca della verità nei confronti di ciò che è avvenuto nel passato. La verità può riguardare soltanto ciò che ci attende. Verso il passato dobbiamo assumere un atteggiamento nichilista. L'impegno che dobbiamo assumere nei confronti del futuro è molto semplice, e si può riassumere in queste parole: "Voglio tornare a vivere un'esistenza secondo natura, come facevano gli uomini primitivi. Voglio che sia la natura a dirmi come devo essere umano".
Stante queste convinzioni, se qualcuno vuole eliminarci, per far valere la sua dittatura, la sua artificiosità, non può che farci un favore. L'universo, che fino adesso non abbiamo potuto inquinare con la nostra tossicità, ci attende nella sua purezza ancestrale. Le sue leggi devono diventare le nostre leggi. Se non torneremo a essere "bambini", non andremo da nessuna parte, resteremo prigionieri dei nostri incubi.
Educarsi al socialismo democratico
Considerando che nella Russia stalinista, a partire dalla seconda metà degli anni '30, gli stipendi e i privilegi dei dipendenti dei servizi segreti o della polizia politica erano i più alti di tutti, vien subito da pensare che l'idea di ritenere il "proletario", cioè colui che non possiede altro che i propri figli, come la persona più titolata, non avendo nulla da perdere, a compiere una rivoluzione politica in piena regola, capace di creare una vera alternativa al sistema dominante, basato sulle differenze di classe, sia stata un'idea completamente sbagliata. Infatti è un'idea che non può giustificarsi in sé e per sé, in quanto la sua attendibilità va dimostrata di volta in volta.
Non esistono verità basate sull'evidenza. Lo stalinismo, abituato a far calare dall'alto le proprie direttive, aveva bisogno di funzionari senza scrupoli, di esecutori cinici e crudeli. Tutta questa gente, disposta a non porsi domande sull'opportunità o liceità o legittimità di certe direttive, che a volte non erano neppure scritte ma trasmesse oralmente, dove poteva essere trovata se non in quegli ambienti di più basso livello sociale? Non era forse qui che, per ottenere un proprio riscatto economico, una sorta di emancipazione dal proprio triste passato, si era disposti a compiere qualunque reato o qualunque crimine? Come si fa, guardando la diffusione capillare dello stalinismo in tutta la società sovietica, a non mettere in dubbio il valore del socialismo in sé?
Queste forme di illegalità ovviamente accadono anche sotto il capitalismo, ma in questo sistema si dà per scontato l'egoismo dell'individuo che si sente in antagonismo con altri individui.
Negli Stati Uniti l'individualismo è così forte che per ottenere qualcosa di etico, occorrono situazioni disperate, che obbligano moralmente la gente alla solidarietà. Dopodiché, quando viene salvato qualcuno da qualcosa, si parla di "eroismo", e ci fanno subito un film ad hoc. In questo Paese l'individualismo è estremo proprio perché, avendo origini calvinistiche (o puritane), non ha avuto bisogno di confrontarsi col collettivismo autoritario, e quindi gerarchico, della Chiesa cattolico-romana. L'unico collettivismo contro cui ha dovuto lottare, per spazzarlo via dai territori che di mano in mano occupava, è stato quello tribale dei nativi, i quali, essendo troppo indietro sul piano tecnico-scientifico, rispetto ai canoni occidentali, non hanno mai costituito un modello da imitare, un'alternativa al sistema borghese. Solo col tempo si è capito che il loro rispetto della natura aveva aspetti condivisibili. Tuttavia, di fronte all'esigenza di fare profitti, non c'è comunità indigena che tenga. Finché il capitalismo privato americano non sperimenterà su di sé, in maniera molto seria e generalizzata, l'insensatezza del proprio stile di vita, non ci sarà alcuna "sapienza indigena" in grado di incidere significativamente sui meccanismi sociali.
Ora, chi crede nel socialismo, crede in una giustizia superiore, pretende di avere un certo senso etico dell'esistenza. Pensiamoci bene, quindi, quando, in nome di certe idee socialiste, si vuole compiere una rivoluzione politica o una guerra civile. Non è affatto detto che gli elementi sociali più declassati o marginali siano anche quelli più sani sul piano morale.
Quando uno non possiede nulla, può essere disposto a tutto, nel bene o nel male. Può addirittura accadere che per realizzare determinati obiettivi, che sul piano politico appaiono sacrosanti, come per es. la giustizia sociale, si sia disposti a comportarsi senza princìpi morali, senza umanità. Subordinare l'umano al politico non è sicuramente la via migliore per costruire un socialismo autenticamente democratico.
Ecco perché il compito di educarsi ai valori umani e politici del socialismo e della democrazia è di fondamentale importanza. In tal senso le esperienze del cosiddetto "socialismo utopistico" andrebbero recuperate. Non ha davvero avuto alcun senso considerarle col termine spregiativo di "utopistiche" (cioè irrealizzabili), in contrapposizione al socialismo scientifico e rivoluzionario. Certo, può apparire ingenuo costruire delle isole di socialismo all'interno di un dominante, perché generalizzato, modo di produzione capitalistico. Ma erano comunque esperienze di vita vera, resiliente, in cui la solidarietà reciproca rappresentava un valore condiviso. In fondo lo Stato sociale borghese nasce anche da queste forme di cooperazione.
In ogni caso, affinché tale educazione sociale sia davvero efficace, non può essere imposta dall'alto. L'educazione dev'essere reciproca, tra adulti che si riconoscono facilmente perché si frequentano, più o meno quotidianamente, a livello locale.
I genitori possono educare i figli, ma non possono avere come modello qualcosa che va al di là della cerchia di persone che abitualmente frequentano. Oltre questa cerchia vi può essere una suggestione, un suggerimento, un esempio interessante, ma un riferimento costante, quotidiano, deve per forza essere circoscritto. Noi abbiamo bisogno di essere noi stessi in una comunità di vita, di cui vediamo i confini logistici, esperienziali, all'interno della quale i valori che si vivono non ci fanno sentire prigionieri o limitati. Una comunità del genere è disposta a incontrare la diversità senza temere di perdere la propria identità, proprio perché lo fa come "comunità", col bagaglio dei propri usi e costumi, di tutte le esperienze pregresse.
In una comunità del genere tutti devono avere consapevolezza che le risorse comuni non possono essere sprecate e che le esigenze individuali vanno messe in rapporto a quelle degli altri.
Ecco, forse lo stalinismo è riuscito a trionfare anche per questa ragione: di fronte ai voli pindarici dei teorici del socialismo ha imposto una malvagità semplice nelle sue espressioni ideologiche, nelle sue volgarizzazioni schematiche, ha imposto una spietatezza molto concreta nella sua determinazione criminale, servendosi di persone poco acculturate, abituate più che altro a eseguire ordini. Sotto questo aspetto è bene fare tesoro dell'esigenza di riflettere soltanto su esperienze in atto.
Una nuova concezione di socialismo
Giustamente Volkogonov sostiene, alla fine del suo libro, che "è necessaria una nuova concezione di socialismo…", che dipenderà dalla "creatività sociale del popolo" (p. 623, o.c.).
Tuttavia deve ammettere che negli anni in cui ha scritto il libro, pubblicato nel 1989, il popolo sovietico aveva "meditato ancora poco sulla propria esperienza storica" (ib.). E questo, nonostante che "con l'aiuto della memoria siamo in grado di arrivare alla purificazione attraverso il pentimento" (ib.).
Sinceramente parlando mi chiedo se possa bastare un atteggiamento meramente etico per riscattarsi dagli orrori dello stalinismo, per quanto ammirevole esso sia, e con cui sicuramente si farebbe fatica ad accettare uno stalinista che si vanta di avere sicurezze granitiche. Infatti lui stesso lo scrive: "non abbiamo ancora fatto abbastanza per scuotere dalla nostra anima le catene staliniane" (ib.). Come possa essere fatto senza una presa di posizione pubblica o politica, non si sa. Certamente una cosa così impegnativa non può essere lasciata alla libera iniziativa privata.
Forse l'autore lo diceva pensando che le riforme strutturali di Gorbaciov incontravano una straordinaria resistenza da parte degli stalinisti, o, se vogliamo, un appoggio poco convincente da parte dei democratici. In fondo è mille volte più facile fare il dittatore che impegnarsi per la democrazia.
Tuttavia il problema non lo si risolve come auspica l'autore, quando scrive: "La politica più abile, se non è congiunta alla moralità, è come una pietra falsa" (p. 624).
Secondo noi infatti non è la moralità personale che garantisce alla politica una corretta visione delle cose. Questo perché il socialismo non può dipendere solo dalla "coscienza" dei suoi protagonisti. è impensabile credere che lo stalinismo in Russia sia trionfato perché i leader del partito bolscevico possedevano un livello di coscienza morale molto basso. Il livello si era abbassato col tempo, man mano che si edificava un socialismo statalizzato, che, tramite l'istituto della delega, riduceva a un nulla la responsabilità personale. Il partito, il governo, lo Stato han preteso l'acquiescenza e l'hanno progressivamente ottenuta, salvo episodi di resistenza non decisivi.
Se è davvero democratico, il socialismo non ha bisogno di una politica "abile", cioè scaltra, astuta…, ma ha bisogno di una semplice oggettività, connessa alla natura, in cui la gestione quotidiana delle cose non debba essere soggetta a un continuo scontro politico.
Si possono uccidere 10 milioni di persone, ma se non cambia la cultura, l'ideologia, la mentalità, e ci si limita a un semplice pentimento morale, la prossima volta se ne uccideranno 100 milioni, poiché nel frattempo le armi saranno diventate più potenti e sofisticate. Non l'etica e nemmeno la politica sono in grado di cambiare le cose in positivo e alla radice. Occorre una nuova visione della realtà.
Socialismo e guerra mondiale
Forse il socialismo democratico sarà possibile costruirlo dopo una guerra mondiale nucleare, cioè dopo che gran parte della popolazione sarà scomparsa e gran parte dei territori saranno divenuti inabitabili. Dico "forse" perché la mentalità individualistica e quindi antagonistica potrebbe sussistere anche dopo, quando si penserà che le risorse a disposizione non saranno sufficienti per i sopravvissuti.
Ecco perché bisogna allenarsi prima al collettivismo, proprio per non trovarsi impreparati quando lo si dovrà mettere in pratica come una legge tassativa, oltre la quale non c'è sopravvivenza.
Abituati come siamo a odiarci o a vederci come potenziali nemici, potremmo non riuscire a capire che, per non estinguerci del tutto, le poche risorse rimaste non contaminate andranno gestite in maniera razionale e collegiale.
Certi film americani di fantascienza sono terribili: a fronte di un disastro epocale che ha coinvolto quasi l'intera umanità, vi sono ancora delle persone che usano la tecnologia per distinguersi dalle altre, anzi, per dominarle o eliminarle, in quanto ritenute ostili, rivali, pericolose. La polarizzazione sociale è assoluta. La difesa di taluni privilegi è il criterio vitale per andare avanti. Contro la brutalità del sistema dominante si pone un singolo eroe, aiutato da figure minori. Nei confronti di presenze extraterrestri non c'è alcuna possibilità d'intesa. Chi ha subìto dei torti, è giusto che si vendichi. Gli androidi possono anche diventare pericolosi per gli umani.
Sono tutte sceneggiature assurde, soprattutto quelle che s'immaginano un futuro strettamente legato a una sofisticata tecnologia. Gli autori addirittura pensano che, in virtù di tale tecnologia, l'essere umano potrà tranquillamente vivere nell'universo, conquistando nuovi pianeti.
Non si riesce a comprendere che, per come siamo fatti, l'unico pianeta che possiamo abitare è la Terra. Per popolare l'universo, dovremo avere una diversa conformazione esistenziale, più energetica che materiale, con cui poter compiere cose impossibili su questo pianeta o comunque molto complicate, come per es. viaggiare alla velocità della luce, non avere gravità, non essere soggetti a malattie, invecchiamento, morte, non produrre rifiuti, smaterializzarci e ricomparire altrove, oltrepassare ostacoli fisici, ecc.
Il problema centrale resterà sempre quello di come costruire un tipo di società dal volto umano e naturale, e se non riusciamo a comprenderlo bene su questo pianeta, in relazione ai suoi limiti spazio-temporali, non riusciremo a farlo neanche su altri pianeti.
Il moralismo di Medvedev
Il paragrafo 5 dell'ultimo capitolo del libro di Medvedev, prima della conclusione, riassume tutto il suo moralismo. Se il testo l'avesse scritto negli anni '90, avrebbe evitato illusioni così evidenti.
In un certo senso però spiace doverlo contestare, poiché l'autore ha avuto il coraggio di dire cose molto scomode a chi ancora oggi si professa "comunista". Tuttavia un riepilogo può far bene a chi ci legge, proprio perché non serve a nulla credere che l'umanità non abbia bisogno di socialismo per risolvere i problemi di fondo che l'attanagliano da quando è nato lo schiavismo. Il capitalismo, oggi dominante ovunque, non è altro che uno schiavismo salariato (salariato perché lo schiavo è giuridicamente, cioè formalmente, libero).73
Il socialismo non corrisponde unicamente a quella ideologia formatasi dopo la nascita del capitalismo. Il socialismo è una categoria dell'anima, riscontrabile in ogni periodo storico. è una forma di collettivismo che combatte varie forme d'individualismo, quelle dove la volontà di uno o di pochi vuole prevaricare sulle volontà di molti, di tanti.
La stessa democrazia è una forma di socialismo; poi però bisogna vedere quanto reale o formale. Una democrazia non può essere solo "politica", deve essere anche "sociale" (l'economico fa parte del sociale, così come lingua, usi e costumi fanno parte del culturale).
D'altra parte anche quando si parla di socialismo, bisogna sempre chiedersi quale sia la forma in cui lo si vuole realizzare. Un socialismo che coincide con una gestione statale dell'economia è un'aberrazione che va accuratamente evitata. è un socialismo da caserma, burocratico, dispotico, autoritario, poliziesco e soprattutto ideologico. Così come va evitata una collettivizzazione imposta dall'alto, cioè senza un libero consenso.
Medvedev sa benissimo queste cose, ma non vuole buttar via il bambino con l'acqua sporca: invece bisogna farlo. Le ferite sono state così profonde che se anche ci fosse stato un intervento chirurgico tecnicamente perfetto, il paziente sarebbe morto lo stesso. Come quando Pilato decise di flagellare il Cristo così pesantemente che se anche fosse stato costretto a liberarlo durante il processo, di sicuro quel sovversivo, ricercato da molto tempo, non sarebbe stato in grado di condurre un'insurrezione nazionale.
Non è vero che il socialismo sovietico avrebbe trionfato con un diverso gruppo dirigente; al massimo ci avrebbe messo più tempo a morire. Infatti il rapporto tra socialismo statale e stalinismo non era unilaterale ma biunivoco: si influenzavano a vicenda. Lo stalinismo è stato il punto di partenza, ma poi il mostro è cresciuto da solo, si è autorigenerato, non conservando niente del meglio che esisteva prima. Lo stesso Stalin diceva che il culto della personalità era disdicevole, fingendo di non sapere che si stava autoalimentando, a prescindere dalle sue affermazioni o intenzioni.
è comodo dire - come faceva Althusser - che "la storia è un processo senza soggetto". In quella sovietica i soggetti erano ben identificabili, anche quelli che avrebbero potuto, anzi dovuto, fare una contro-storia, e non la fecero. Semmai si potrebbe dire che sotto lo stalinismo iniziò a formarsi un processo che di dialettico non aveva nulla. Era un processo amorfo, dettato da menti perverse, che avrebbero temuto uno sviluppo equilibrato della società.
Il socialismo sovietico era come uno di quei mostri mitologici che han bisogno di mangiare ogni giorno uno o più esseri umani. Un mostro del genere non può che essere ucciso, come fece Teseo nel labirinto del Minotauro, con l'aiuto di Arianna, che però fu tradita dallo stesso Teseo, a testimonianza che là dove vige lo schiavismo è sempre bene agire con molta prudenza.
I) Dunque vediamo la prima ingenuità di Medvedev: "le conseguenze del culto di Stalin non sono irreversibili. Le riforme cominciarono subito dopo la sua morte. Gli effetti del culto… non distrussero i tratti principali di un'epoca di transizione dal capitalismo al socialismo, e di crisi dell'imperialismo" (p. 667).
Perché l'autore fa questa affermazione? è lui stesso a dirlo: "l'influenza indubbia che taluni individui esercitano sul corso della storia, non ne cancella il disegno generale" (ib.).
Il tono provvidenzialistico di tale affermazione, dal sapore evangelico o hegeliano, è evidente. Noi in realtà non possiamo affatto dare per scontato che sul nostro pianeta si debba prima o poi realizzare un socialismo autenticamente democratico. Non esiste una garanzia di tipo mistico; anzi il cristianesimo stesso ritiene che la vera liberazione sarà possibile solo in una dimensione ultraterrena. E per quanto tale convinzione sia deleteria ai fini di una lotta di liberazione contro gli antagonismi sociali, è bene non sottovalutare il fatto che tutte le rivoluzioni fino ad oggi non hanno conseguito dei risultati definitivi, irreversibili, di cui andare fieri. I tradimenti, le involuzioni, le mistificazioni sono sempre stati una costante dietro l'angolo.
Ora, se mettessimo su due piatti della bilancia lo stalinismo e il socialismo statale, quale risulterebbe più pesante e quindi più pericoloso? Per noi indubbiamente il socialismo statale, di cui lo stalinismo fu anzitutto la versione ideologizzata. Attenzione che con questo non vogliamo dire che lo stalinismo non sia stato responsabile della nascita del socialismo statale. Vogliamo semplicemente dire che, in ultima istanza, è il sistema che conta, e tale sistema non fu affatto modificato, nei suoi presupposti di fondo, dalla destalinizzazione di Krusciov, tant'è che lo stesso Krusciov si limitò a circoscrivere i danni del socialismo statale entro il perimetro del culto della personalità costruito da Stalin.
Si noti che Medvedev, per dire che il socialismo conteneva degli aspetti democratici grazie all'impegno di tanti leader comunisti, si sente autorizzato a scrivere: "Stalin non era il solo leader del Paese" (ib.). Tuttavia Krusciov, se si esclude Berija, che venne eliminato, non toccò nessun altro leader di prestigio, pur sapendo ch'erano stati criminali come Stalin e Berija. Al massimo li estromise dal potere, ma non sottopose nessuno a processo. La riabilitazione non riguardò affatto i principali oppositori politici protagonisti dei processi degli anni '30.
Di conseguenza il socialismo statale trionfò anche sotto Krusciov, seppure in forma riveduta e corretta; e quando Krusciov, con le sue riforme, si spinse troppo oltre o non realizzò ciò che aveva promesso, gli stalinisti fecero presto a rimuoverlo. La stessa cosa avvenne con Gorbaciov, che si pentì di non essere stato abbastanza energico nei confronti degli stalinisti e di aver concesso troppa fiducia al loro buon senso.
Gli stalinisti rappresentano il fanatismo ideologico e quindi l'autoritarismo politico. è il popolo che deve toglierli di mezzo, ma questo può essere fatto solo se il socialismo si trasforma da statalizzato a democratico.
Da notare che quando Medvedev scrive che lo stalinismo non poté impedire la crisi dell'imperialismo, sta dicendo una cosa completamente inesatta. Infatti fu proprio lo stalinismo che, in maniera indiretta, favorì la sopravvivenza dell'imperialismo occidentale. Quando mai un'esperienza come quella avrebbe potuto costituire un'alternativa alla logica del capitale? Anzi il boom dell'imperialismo (a guida americana) si ebbe proprio negli anni '90 del secolo scorso, quando finì la guerra fredda. Per porre un argine a questo cammino vittorioso (chiamato coi termini di "globalismo" o "unipolarismo" o "neoliberismo"), è stato necessario un confronto militare tra Russia e NATO in Ucraina. Solo a partire dal 2022 si è iniziato a parlare di "multipolarismo", di "dedollarizzazione" e di "Sud Globale" che si emancipa dal neocolonialismo occidentale.
Tuttavia si è cominciato a parlare in termini così innovativi solo dopo che in Russia si era smesso, a partire dal 1991, di parlare di socialismo statale: infatti dal 1991 al 1999 si favorì, con El'cin, il capitalismo privato, mentre dal 1999 ad oggi, con Putin, il capitalismo statale. L'idea di socialismo sembra essere morta sia in senso autoritario che in senso democratico. Sopravvive in Cina come una reminiscenza politica del passato maoismo, ma l'enorme sviluppo economico del Paese è dipeso dall'aver adottato metodi capitalistici, che pur lo Stato pretende di controllare in ultima istanza, cioè quando si creano storture o scompensi che potrebbero danneggiare il sistema del socialismo mercantile.
Quindi, in realtà, il capitalismo non ha subìto alcuna vera crisi: diciamo soltanto che stiamo assistendo a un passaggio di testimone, da quello privato di tipo anglo-americano a quello statalistico o collettivistico di tipo asiatico. Il socialismo democratico resta ancora tutta un'altra cosa.
II) Ora vediamo la seconda ingenuità di Medvedev: "Stalin cercò di ridurre l'influenza di Lenin, ma il leninismo non fu distrutto" (ib.).
Marx diceva (e subito dopo di lui, sul versante borghese, Max Weber) che il protestantesimo era l'ideologia più consona allo sviluppo del capitalismo. Ma oggi chi avrebbe il coraggio di dire che il capitalismo dipende dallo sviluppo del protestantesimo? Semplicemente ci si limita a dire che il capitalismo dipende dalla ricerca di un profitto industriale e soprattutto di un interesse finanziario. La religione poteva andar bene molti secoli fa; oggi la si considera un fenomeno assai poco rilevante, nel migliore dei casi una mera formalità, come quando gli americani continuano a scrivere sulle loro banconote da un dollaro "In God We Trust".
Stessa cosa si potrebbe dire del leninismo. Scrivendo un libro negli anni della destalinizzazione, quando ancora si pensava che il socialismo statale potesse essere riformato, è evidente che Medvedev non poteva accettare l'idea che lo stalinismo avesse completamente stravolto il leninismo. Invece è avvenuto esattamente così, e proprio mentre lo stalinismo pretendeva di porsi come unico vero erede del leninismo. Questo dato di fatto è così vero che, dopo l'implosione dell'URSS, nessun partito è stato capace di riprendere le migliori idee del leninismo in funzione anti-stalinista.
Infatti le migliori idee di Lenin sono state quelle espresse a partire dal libro Stato e rivoluzione, rimasto incompiuto, sino agli ultimi articoli scritti poco prima di morire: tutte riflessioni dedicate al tema di come democratizzare il socialismo, spogliando progressivamente lo Stato delle sue funzioni. Si è riusciti a far questo in Russia? No, anzi con Putin lo Stato ha riacquistato un ruolo decisivo.
Con questo si vuol forse sostenere che il leninismo sia morto e sepolto? Al contrario: siamo assolutamente convinti che, finché non si sarà realizzato il socialismo democratico, le idee di Lenin (soprattutto quelle del suo ultimo periodo) non perderanno mai di attualità.
III) Ora cambiamo argomento. Una frase di Medvedev che rischia di apparire molto ambigua è la seguente: "Stalin causò un enorme danno alla capacità difensiva dell'URSS, ma il popolo sovietico superò ogni difficoltà per difendere la patria e sconfisse il fascismo" (ib.).
Diciamo quattro cose in merito:
1) dovendo combattere contro due nemici, uno interno e l'altro esterno, il popolo sovietico non avrebbe potuto farcela in alcuna maniera. Anzi, poiché il nemico interno lo conosceva da molto tempo, avrebbe anche potuto pensare che quello esterno fosse migliore, visto che lo stesso stalinismo, dopo il patto di non belligeranza del 1939, aveva vietato di criticare i nazisti, anche perché condivideva le rimostranze di Hitler nei confronti dei trattati di Versailles, alquanto punitivi nei confronti della Germania.
2) In tal senso è da escludere che il popolo sovietico abbia vinto il nazismo perché aveva conservato ampie tracce di socialismo, nonostante le aberrazioni dello stalinismo. Bisognerebbe anzi dire che, nonostante lo stalinismo, il popolo sovietico, che aveva già superato la tragedia della guerra civile e dell'interventismo straniero circa 20 anni prima, aveva capito come difendersi dai Paesi stranieri che volevano occuparlo. Sapeva bene che il suo enorme territorio faceva gola al capitalismo mondiale.
3) L'URSS ebbe la meglio sulla Germania solo dopo che gli stalinisti al potere, vedendo il disastro assoluto delle loro decisioni militari, si convinsero che sarebbe stato meglio affidarsi all'esperienza dello Stato Maggiore. Nonostante lo sterminio di tantissimi ufficiali di rango, causato dalle purghe staliniste di soli pochi anni prima dell'invasione nazista, i pochi sopravvissuti dimostrarono che sul piano militare l'URSS non era una potenza inferiore alla Germania. Anzi, proprio nel corso della guerra, riuscì a dimostrare d'esserle superiore nella potenza o nell'efficacia di alcuni mezzi bellici.
4) Non dimentichiamo che lo stesso nazismo commise errori clamorosi nella sua "Operazione Barbarossa", essendo convinto che l'URSS fosse molto debole sul piano militare (come già, in effetti, aveva dimostrato contro la Finlandia) e che quindi non avrebbe potuto resistere per più di pochi mesi. Di qui l'idea di dividere le forze armate in tre tronconi separati, invece di puntare esclusivamente su Mosca; l'idea di non aver bisogno di coordinare coi giapponesi un attacco su due fronti, sottovalutando così la resistenza delle popolazioni siberiane, molto più adatte a combattere in una guerra di logoramento nel rigido clima invernale; l'idea, totalmente sbagliata, che la guerra avrebbe potuto essere facilmente vinta non dichiarandola (tramite un blitzkrieg), evitando di anticiparla con una campagna mediatica con cui dimostrare la superiorità del capitalismo rispetto al socialismo sovietico.
IV) Altra frase che Medvedev si sarebbe potuto risparmiare: "Lo stalinismo influenzò grandemente la psicologia e la moralità sovietiche, ma non riuscì ad arrestare la diffusione di una vera moralità socialista e di una nuova coscienza sociale" (ib.).
Diciamo tre cose: 1) finché lo stalinismo rimase in vigore, tutta la moralità e la legalità del Paese vennero completamente stravolte; 2) solo con l'avvio della destalinizzazione voluta da Krusciov il popolo poté iniziare a riprendersi dalla sciagura che l'aveva colpito, e che probabilmente ritenne di pari livello a quella dell'invasione nazista; 3) se al popolo sovietico rimase un minimo di autentica moralità, nonostante il supremo cinismo dello stalinismo, il motivo di ciò va cercato o nelle ultime tracce di leninismo, che covavano sotto la cenere, oppure in quelle culture pre-rivoluzionarie e persino pre-borghesi che caratterizzavano buona parte di quell'immenso Paese.
Che lo stalinismo non avesse nulla di umano, lo dimostrò anche dopo la fine della guerra, nell'atteggiamento che tenne verso i rimpatriati sovietici, fatti prigionieri dai nazisti, accusati di non essere stati abbastanza coraggiosi nel combattere il nemico; ma anche nell'atteggiamento che tenne nei confronti del proprio Stato Maggiore, destinato all'emarginazione per timore che potesse rivendicare maggiore democrazia o che potesse rivelare verità militari che il potere costituito avrebbe potuto considerare umilianti, sconvenienti.
Che lo stalinismo non avesse alcuna moralità è dimostrato anche dal fatto che affossò la destalinizzazione di Krusciov e la glasnost di Gorbaciov, e soprattutto dal fatto che al tempo del capitalismo privato promosso da El'cin, gli oligarchi delle risorse energetiche tennero un comportamento altamente lesivo degli interessi nazionali della Federazione.
V) Quanto all'affermazione di Medvedev, secondo cui "l'amicizia fra i popoli e le Repubbliche dell'URSS", nonostante lo stalinismo, "continuò a guadagnare terreno" (ib.), meglio stendere un velo pietoso, poiché, se ci fu una cosa che già al tempo di Gorbaciov si sfaldò, fu proprio l'unità federale delle varie nazionalità.
Sotto la Federazione Russa odierna sono rimaste le etnie, che non avevano sufficiente forza per rendersi autonome e che oggi vengono considerate "repubbliche autonome"74, ma tra le nazionalità più significative solo la Bielorussia, probabilmente, ha accettato di avere rapporti pacifici o regolari con Mosca (anche perché la cosiddetta "rivoluzione colorata", manovrata dall'occidente, è fallita). Le altre nazionalità, chi più chi meno, hanno assunto atteggiamenti aggressivi o comunque filo-occidentali. Tutti gli "stan" dell'Asia centrale, essendo prevalentemente islamici, si sentono molto vicini alla Turchia. I Paesi Baltici, la Moldavia, l'Ucraina sono piuttosto russofobici. Con quest'ultima è attualmente in corso una guerra iniziata tre anni fa. Con la Georgia e la Cecenia ci sono state varie guerre.
Tutto ciò è successo perché gli stalinisti, a partire dagli anni '30, vollero imporre la russificazione a tutte le altre identità etniche e nazionali. Era un vero imperialismo politico, ideologico e culturale all'interno dell'URSS.
Ci vorrà molto tempo prima di ricomporre una vera "amicizia". A favore della Russia gioca il fatto che quando questi nuovi Stati allacciano rapporti con l'occidente (Stati Uniti o Unione Europea), le condizioni che subiscono sono subito di tipo coloniale, per cui cercano di stare abbastanza attenti alle cosiddette "rivoluzioni colorate" o alle ingerenze straniere attraverso le ONG.
Gli atteggiamenti apparentemente magnanimi, le offerte visibilmente generose di aiuti finanziari e militari da parte dell'occidente, hanno sempre un retrogusto amaro, nascondono sempre un fine che tende a minare la sovranità dei Paesi che vogliono staccarsi dalla Russia in maniera definitiva.
VI) Altra affermazione che Medvedev si sarebbe potuto risparmiare: lo stalinismo "non riuscì a distruggere alle basi l'alleanza fra operai e contadini" (pp. 667-8). Invece ci riuscì perfettamente. Infatti la collettivizzazione forzata fu strumentale all'industrializzazione accelerata. Gli stalinisti odiavano i contadini e fecero degli operai un ingranaggio silenzioso di una macchina infernale. Tutti i lavoratori erano semplicemente degli schiavi al servizio dello Stato, ma quelli della terra lo erano ancora di più, in quanto non solo non avevano alcun diritto, ma avevano anche tutti i doveri: da quello di morire di fame per nutrire gli operai e il resto della popolazione, fino a quello di morire sul campo di battaglia contro i nazisti, per permettere agli operai di produrre le armi nelle fabbriche.
Tutti i contadini agiati furono tolti di mezzo, e anche una buona parte di quelli medi, che, rinchiusi nei gulag, costruirono imponenti infrastrutture nell'area asiatica della Russia. Quando avevano la possibilità di farlo, i contadini fuggivano dalle loro fattorie e andavano a fare gli operai in città o si arruolavano tra le forze armate.
Non è affatto vero che Stalin "fu obbligato a tener conto delle opinioni e della volontà del popolo" (p. 668). Semmai è vero il contrario: con lo stalinismo sparì completamente la democrazia in tutta la Russia. Scomparve così tanto che ancora oggi, a distanza di oltre 70 anni dalla morte di Stalin, i russi non riescono a rinunciare a un presidente della Repubblica che mostri di possedere ampi poteri, che pretenda di essere rieletto più volte, che agisca come se il parlamento, il premier e il Consiglio dei Ministri fossero organi o figure istituzionali di scarsa importanza.
VII) Dunque, davvero Stalin "non riuscì a reprimere del tutto lo sviluppo della rivoluzione socialista mondiale" (ib.)? E invece anche qui vi riuscì perfettamente, a meno che non si voglia considerare la Corea del Nord un modello da seguire come alternativa al capitalismo occidentale.
A tutt'oggi non ha più senso parlare di socialismo statale. Non solo, ma nessun leader mondiale riesce a formulare un concetto democratico di socialismo, né si può pensare che il socialismo mercantile cinese possa costituire un'alternativa convincente al capitalismo privato occidentale. Alla lunga magari vincerà il confronto, ma non sarà certo la Cina che, sulla base di ciò che è adesso, riuscirà a offrire le linee di fondo per una realizzazione democratica del socialismo.
VIII) Medvedev sostiene che "Stalin introdusse molte distorsioni burocratiche nel sistema di dittatura proletaria, ma non gli fu possibile distruggere completamente il sistema" (ib.) Una frase, questa, particolarmente ambigua. Infatti l'autore si riferisce esplicitamente alla "dittatura proletaria" come a qualcosa di "democratico", che Stalin, con la sua dittatura bonapartistica, non riuscì a stravolgere completamente. In realtà, se quella dittatura proletaria fosse stata davvero democratica, di sicuro lo stalinismo l'avrebbe fatta a pezzi. Ma Medvedev è fortunato. Infatti quella dittatura, anche se non fosse esistito lo stalinismo, avrebbe prima o poi mostrato i suoi limiti in fatto di democrazia, in quanto, finché esiste una "dittatura", è difficile pensare che si possa formare contemporaneamente una "democrazia". Sicché l'affermazione di Medvedev, alla luce di ciò che avvenne dopo la morte di Stalin, può soltanto essere letta nel modo seguente: la dittatura "personalistica" di Stalin non pregiudicò del tutto la dittatura "collegiale" degli stalinisti, nel senso che dopo la morte di Stalin lo stalinismo poté continuare a sussistere in forme meno estreme, meno esasperate ed egocentriche, meno patologiche e meno violente. Quindi siamo costretti a dar ragione allo storico, anche se ci piace aggiungere che per "distruggere completamente il sistema" sarebbe occorsa una nuova rivoluzione, in cui la dittatura del proletariato avrebbe dovuto essere esercitata contro gli stalinisti, presenti tanto nella sfera politica quanto nell'amministrazione statale.
Medvedev semmai avrebbe dovuto chiedersi: che cosa ha favorito la nascita di una dittatura bonapartistica come quella di Stalin? Se è stato il fatto che il partito cominciava a gestire lo Stato in maniera dittatoriale, che cosa avrebbe potuto impedire un'involuzione del genere?
Questa domanda è fondamentale, poiché se è uno sviluppo statalizzato del socialismo che tende a favorire una gestione "stalinistica" del potere, allora il fatto che questa gestione si esprima in forma personalistica o collettivistica non cambia molto la natura dittatoriale del sistema o della rivoluzione che lo genera. Cioè non è da escludere che il passaggio da una dittatura personalistica a una collettivistica fosse stato favorito proprio dal fatto che l'oppressione era stata così forte e violenta che non c'era più bisogno di praticare un culto della personalità. Il popolo si era così rassegnato a soffrire che non aveva più bisogno di uno specifico persecutore: gli bastava il partito nella sua interezza, nella sua burocratica collegialità.
I fatti hanno comunque dimostrato, contro le buone intenzioni di Medvedev, che quando si elimina una forma statalizzata di socialismo, al popolo non importa molto che la dittatura politica sia incentrata su una figura singola o su un gruppo di persone. Purtroppo però il popolo sovietico è stato soltanto capace di distruggere una mostruosa falsità, ma non di costruire una nuova, luminosa, verità.
Conclusione
La semplificazione che lo stalinismo fece del leninismo contribuì a creare una sorta di monismo ideologico di Stato, che servì da supporto per la dittatura del partito unico sulla società (che fu poi la dittatura degli intellettuali, dei funzionari di partito e dei burocrati dell'amministrazione statale, formatisi in ambienti urbani).
Questa semplificazione fu un atto non solo d'imperio, reso possibile dall'arretratezza di un Paese con una percentuale altissima di analfabeti e di cittadini abituati da secoli all'obbedienza passiva. Fu anche un atto ingenuo, in quanto si credeva di poter contribuire, con gli strumenti dell'ideologia, a tenere la società più unita.
Il capitalismo non crede in queste forme di idealismo, se non in misura molto limitata, in quanto basa la propria sopravvivenza su fattori più prosaici, come il profitto, la rendita, l'evasione fiscale, un salario per acquistare beni superflui o comunque per consumare quelle forme utili a far dimenticare i problemi sociali o almeno a nascondere la causa che li genera. Anzi, ogni richiamo a ideali che non siano religiosi o di derivazione religiosa, viene definito, sprezzantemente, come una forma di "ideologia". L'occidente non ama mettere in discussione la propria ideologia (formale) con altre ideologie (sostanziali), non ama gente che pensa e che non compra.
Ma c'è un altro aspetto da considerare. Lo stalinismo fu anche l'incapacità di capire che le esigenze del mondo contadino dovevano prevalere su quelle industriali, non solo perché il Paese era basato su un'economia prevalentemente rurale, ma anche perché un'applicazione forzata di quella stessa rivoluzione industriale compiuta in Europa occidentale e negli Stati Uniti, non avrebbe fatto altro che portare alla rovina un Paese privo di colonie, le quali appunto erano servite ai Paesi capitalisti per scaricare il peso dei guasti causati da quella rivoluzione.
La Russia europea trasformò la Russia asiatica in una gigantesca colonia interna, come in Italia l'area del centro-nord fece con quella meridionale. Quanto più la classe contadina opponeva resistenza alle priorità assolute dell'industria e della città, che il partito voleva imporre a tutti i costi, temendo di perdere il confronto con l'occidente, tanto più la politica tendeva ad assumere forme di spiccato autoritarismo, giustificato col pretesto che nel mondo rurale s'andavano diffondendo tentativi di ripristinare il capitalismo (vedi la questione dei kulaki).
In sostanza non ci si rendeva conto che proprio l'industrializzazione forzata, fatta pagare soprattutto alla classe rurale, costituiva l'elemento principale di una penetrazione nelle campagne e in tutto il Paese di una sorta di capitalismo di stato, gestito da un unico imprenditore nazionale, burocratico e poliziesco, una sorta di manager amministrativo preposto a far funzionare un'economia di cui il partito politico, in forza dell'Ottobre, si sentiva unico legittimo proprietario. Tutto ciò per dire che nel 1991 è fallito in URSS non tanto il leninismo, quanto piuttosto il sistema amministrativo-dirigista inaugurato da Stalin e proseguito dai suoi successori nel periodo della stagnazione.
A differenza di Lenin, Stalin non riuscì mai a tollerare il pluralismo degli orientamenti ideali, nonché una loro organizzazione autonoma, né mai riuscì ad accettare l'idea che lo Stato dovesse progressivamente estinguersi in rapporto alla crescita del socialismo. Anzi, egli teorizzò proprio il contrario, e cioè che lo sviluppo del socialismo avrebbe comportato un aumento del burocratismo e del militarismo, proprio per difendersi dalla inevitabile accresciuta ostilità delle potenze capitalistiche. I poteri forti delle organizzazioni statali andavano difesi ad oltranza per tutelare le conquiste della rivoluzione.
La società civile, sotto lo stalinismo, era stata come inghiottita dallo Stato, il cui compito principale era quello di organizzare e di indottrinare le masse. Dopo aver abolito ogni forma di proprietà privata, lo Stato pretendeva di coincidere col popolo tout-court. E mentre sotto lo stalinismo gli oppositori venivano eliminati fisicamente, sotto la fase della stagnazione l'eliminazione era politica, morale e persino psicologica (con l'internamento nei manicomi). La maggiore illusione è stata proprio quella di credere d'aver costruito il socialismo dal punto di vista della proprietà statalizzata, in cui la dittatura politica del partito unico si serviva degli organi statali per imporsi sulla società.
La stragrande maggioranza dei cittadini era "salariata statale". Il che aveva portato all'indifferenza per le sorti del "bene pubblico", all'apatia, alla rassegnazione per i destini del Paese, in quanto non può esservi interesse là dove la cosa "pubblica" non viene avvertita come "propria". Solo nell'ambito della società civile, in un processo spontaneo, autocosciente, di appropriazione collettiva del bene pubblico, in modo che tutti abbiano da riconoscersi come persone "libere", è possibile parlare di "socialismo reale". Qualunque "socialismo di stato" è un "socialismo da caserma".
Il problema è, purtroppo, che in Russia non si è sviluppato un socialismo dal punto di vista della società civile, in opposizione a quello "statalista", ma si sono sviluppate correnti borghesi che stanno utilizzando lo Stato per potersi meglio affermare. è d'altra parte inevitabile veder sorgere una reazione borghese, istintiva, individualistica alla massificazione obbligata di 70 anni di dittatura. Si è approfittato del fallimento del socialismo burocratico per sostenere uno sviluppo che prima o poi porterà a contraddizioni così acute da riproporre il tema di un loro superamento anticapitalistico.
Non si può cancellare il leninismo con un colpo di spugna. Non si può cancellarlo col pretesto che la prosecuzione del leninismo è stata, storicamente, lo stalinismo. Lo stalinismo, come d'altra parte il trockismo, nella loro versione codificata, consegnata alla storia, non hanno nulla a che fare col leninismo. Lenin fu ostile sia a Stalin che a Trockij in più occasioni, non apprezzava i loro metodi "amministrativi", cioè autoritari, anche se questo non gli impedì di lavorare con loro. La stessa ideologia "leninista" non ha nulla a che vedere col metodo dialettico di Lenin, che mal sopportava gli "ismi" di qualsivoglia genere. Lo stesso Marx - come noto - rifiutava di definirsi "marxista". Ogni forma di fossilizzazione, di cristallizzazione di una teoria, è una forma di tradimento nei confronti degli autori che l'hanno elaborata.
Non c'è un solo libro di Lenin che non abbia rettificato delle tesi espresse in un libro precedente. Per es. dopo il fallimento della prima rivoluzione russa, Lenin dovette rendersi conto che lo sviluppo del capitalismo nelle campagne era stato sopravvalutato. La stessa realizzazione della NEP era in sostanza l'ammissione che il socialismo non poteva essere imposto dall'alto. Nelle opere del 1922-23 egli offre una visione del socialismo come società di cooperatori civilizzati, in cui il ruolo delle cooperative (fino ad allora criticato) sarebbe stato fondamentale. Lui stesso più volte aveva detto ch'era impossibile non commettere errori e che il problema vero stava nel saperli correggere in tempo, senza aspettare che si correggessero da soli. Il marxismo dell'ultimo Lenin era molto più pragmatico e realista di quello del periodo precedente.
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Spesso si pensa che siccome lo stalinismo in Russia è durato molto di più del nazifascismo di vari Paesi europei, ciò sta a dimostrare che, nonostante tutte le sue aberrazioni, qualcosa di positivo sia stato costruito sotto la sua egemonia.
è falso. Se davvero fosse stato così, non si sarebbe impedita la destalinizzazione di Krusciov, né la perestrojka di Gorbaciov. Oggi avremmo un socialismo molto più democratico di quello stalinista, che di democratico non aveva nulla. Cioè per avere un semplice capitalismo statale come quello attuale, non c'era bisogno di fare alcuna rivoluzione, alcuna guerra civile.
Si potrebbe anzi dire che lo stalinismo non ha fatto danni colossali solo in Russia, ma anche in quei Paesi dove sono esistiti dei partiti politici che hanno creduto nel valore del socialismo. Lo stalinismo ha fatto credere d'essere migliore del nazifascismo solo perché lo sconfisse sul piano militare durante la seconda guerra mondiale. Tuttavia la vittoria fu opera del popolo sovietico, non dello stalinismo, che anzi lo ostacolò in tutte le maniere, facendo salire il numero dei morti alla stratosferica cifra di 27 milioni.
Lo stalinismo ha preteso di far credere al mondo intero che la statalizzazione dei mezzi produttivi fosse migliore della loro privatizzazione, che caratterizza l'occidente collettivo. In realtà anche questa pretesa si è rivelata completamente falsa. Privatizzazione e statalizzazione sono due facce della stessa orribile medaglia dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e del genere umano sulla natura.
Da quando in epoca moderna sono nate le idee del socialismo, prima in forma utopistica, poi scientifica (o, se si preferisce, prima in forma riformista, poi rivoluzionaria), l'umanità non si è avvicinata neanche di un pollice al modo come dovrebbe essere vissuto un socialismo autenticamente democratico. Abbiamo soltanto capito ciò che non dobbiamo fare. Soprattutto abbiamo capito che se il socialismo statale è una mostruosità da non ripetere, il capitalismo privato o statale rappresenta un male ancora più grande, in quanto coinvolge l'intera umanità.
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Se mi capitasse, in un'altra dimensione, di poter incontrare Lenin, gli farei una domanda per me fondamentale: "Saresti stato disposto, sul piano umano, a sacrificare la tua vita, pur sapendo d'aver ragione su quello politico, o avresti fatto di tutto pur di realizzare i tuoi ideali politici, condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione del tuo Paese?". Ebbene, se alla prima alternativa mi rispondesse affermativamente, allora mi sentirei in dovere, inevitabilmente, di chiedergli a quali condizioni avrebbe accettato, giusto per avere una conferma della sua grandezza anche come persona.
Nei vangeli, a una domanda del genere, si risponde: "Alla condizione di salvare la vita dei propri compagni". Ma i vangeli sono falsi. La risposta giusta dovrebbe essere un'altra: "I leader di una rivoluzione devono sempre mettere in conto la possibilità di morire, anche se non hanno il dovere di morire a causa del comportamento sbagliato di qualcuno dei propri compagni di lotta. Diciamo quindi che una condizione accettabile per il proprio sacrificio può essere dettata dal rischio che, se il sacrificio di sé venisse rifiutato, si potrebbe procurare al popolo un danno maggiore della sofferenza che già subisce. Starebbe quindi al popolo trasformare quel sacrificio personale in qualcosa di utile per se stesso".
Ecco, io ho sempre pensato, in generale, che gli aspetti politici non possono mai avere delle ragioni così grandi da non poter essere condivise sul piano umano. Lenin non era solo intelligente sul piano politico, ma anche sensibile su quello umano, e molto probabilmente i due piani in lui s'influenzavano a vicenda.
Viceversa quando guardo Stalin ho l'impressione che gli facessero difetto entrambe le virtù. Umanamente Stalin era un cinico, uno spietato, una persona molto intollerante, mentre sul piano politico era un dogmatico, uno schematico, una persona particolarmente ottusa, anche se dotata di una indubbia furbizia.
La cosa più strana però è che l'abbiano lasciato governare sino alla morte e che la sua ideologia abbia continuato a far fuori i suoi avversari anche molto tempo dopo la sua morte. è questo che fa pensare che alla fin fine gli individui siano solo espressione di qualcos'altro, di cui loro stessi non si rendono pienamente conto.
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Ribaltare i miti: miti e fiabe destrutturati
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Maledetto capitale
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Etica ed economia. Per una teoria dell'umanesimo laico
Le teorie economiche di Giuseppe Mazzini
Politica:
Kontrol. Stalinismo e socialismo statale
Lenin e la guerra imperialista
L'idealista Gorbaciov. Le forme del socialismo democratico
Il grande Lenin
Cinico Engels. Oltre l'Anti-Duhring
L'aquila Rosa. Critica della Luxemburg
Società ecologica e democrazia diretta
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La dittatura della democrazia. Come uscire dal sistema
Dialogo a distanza sui massimi sistemi
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Le diatribe del Cristo. Veri e falsi problemi nei vangeli
Ateo e sovversivo. I lati oscuri della mistificazione cristologica
Risorto o Scomparso? Dal giudizio di fatto a quello di valore
Cristianesimo primitivo. Dalle origini alla svolta costantiniana
Guarigioni e Parabole: fatti improbabili e parole ambigue
Gli apostoli traditori. Sviluppi del Cristo impolitico
Indice
L'inutilità delle fonti storiche 13
I classici del marxismo e la Russia 20
Il Testamento politico di Lenin 27
Dal capitalismo statale al socialismo 31
Perché si preferì Stalin a Trockij? 45
L'inizio della stalinizzazione 53
Industria e agricoltura: quale primato? 58
La battaglia contro le idee 60
In parte o in tutto responsabili? 82
Trionfo e tragedia di Stalin 83
Nobiltà, borghesia e proletariato 105
Inutili definizioni sociologiche 107
Idealismo hegeliano e stalinismo 109
Caratteristiche della Russia 113
Lo Stato in sé va superato 117
La questione delle nazionalità 118
Socialismo e regioni non russe 122
Socializzazione o statalizzazione? 130
Statalizzazione o nazionalizzazione? 131
La questione della burocrazia 133
Statalismo e collettivismo 135
Esperienza di apparati statali 137
Teoria e prassi rivoluzionarie oggi 142
Chi deve fare la rivoluzione? 144
Temere per sé o per la rivoluzione? 146
Che cos'è una rivoluzione? 147
Il fallimento della sovietizzazione 156
Dittatura, privilegio e miseria 158
Fallimento sistemico e repressioni massive 160
Errori di metodo e di merito 162
Stalinismo e sviluppo economico 164
Le origini del piano opposto al mercato 166
Il disastro del primo piano quinquennale 169
Non è solo una questione di armamenti 175
Quali tipi-ideali burocratici 179
Classi sociali e costrizioni statali 181
Sintesi sulla collettivizzazione forzata 183
Tutti possono essere criminali 187
I contadini vanno rispettati 188
Ogni pretesto è buono contro i contadini 190
La definizione di "piccolo borghese" 195
La definizione di "comunista" 196
La definizione di "proletariato" 198
Incentivare il socialismo agrario 199
Il tradimento del socialismo 204
Davvero un "socialismo incompiuto"? 210
Davvero una "specifica alienazione"? 211
è possibile rivalutare qualcosa dello stalinismo? 219
Rivoluzione politica e rapporti personali 220
Fare i conti sino in fondo 221
Tragiche epurazioni di massa 233
La percentuale della sofferenza 235
Natura degli eccidi di massa 241
Struttura e sovrastruttura 247
Le leggi e la loro applicazione 249
Limiti oggettivi e soggettivi 250
I sovietici e la sofferenza 251
Particolarità del terrore stalinista 255
Fiducia cieca nell'ideologia 256
Non è sempre bene accontentarsi 260
Perché non ci fu un'opposizione significativa? 262
La giustificazione del fallimento è una sola 266
Tanto meglio, tanto peggio 267
Davvero lo stalinismo aveva una base marxista? 269
Fino a che punto si può parlare solo di errori? 273
Guardare le cose con più obiettività 278
Due generazioni a confronto 279
La questione della genialità 282
L'inizio della destalinizzazione 283
Proporzionale o maggioritario? 290
Centralismo e sovranità popolare 293
In che senso controlli dal basso? 297
Non facciamo del moralismo 301
Un potere locale e diretto 303
Socialismo contro autoconsumo 307
Il valore d'uso di Antonov 308
Libertà di parola e di autogoverno 310
Il monopartitismo non è obbligatorio 313
Democrazia e dittatura in un partito 315
Il primato della politica sull'economia 317
Rivoluzione proletaria e democrazia borghese 318
Che tipo di socialismo realizzare? 323
Che cosa intendo per socialismo democratico? 325
Sud Globale contro Occidente collettivo 326
Individualismo occidentale e collettivismo asiatico 329
La svolta mondiale del 1929 330
Il socialismo impossibile in occidente 332
Idea, esigenza e prassi del socialismo 334
Cos'è il culto della personalità? 340
Stalinismo e cristianesimo 343
Cultura, religione e socialismo 350
Culto della personalità e socialismo statale 353
La questione del tradimento politico 355
Il Patto Molotov-Ribbentrop 361
Incompetenza e metodi terroristici 368
I limiti personali e militari di Stalin 372
Fiancheggiatore consapevole o involontario? 377
Ordini pratici e disordini mentali 382
La Siberia fece la differenza 384
La politica estera dello stalinismo 386
Anche dopo la guerra mondiale 394
Le zone d'ombra e le alternative storiche 399
Il giudizio sulla seconda guerra mondiale 399
Il giudizio sulla democrazia 400
La teoria dell'alternativa storica 402
La lotta e l'unità degli opposti 403
Cosa salvare del materialismo storico-dialettico? 405
Obiettivi minimi e massimi 409
La fine immeritata di Gorbaciov 415
Una democrazia forte viene decisa dalla popolazione 417
La democrazia diretta è sacra e inviolabile 418
Nessuno Stato è riformabile 421
Basta con le nostalgie per ciò che va superato 422
Il fallimento del bolscevismo 424
Il termidoro era inevitabile? 426
Anche per noi una lezione utile? 429
Quale giustizia rivoluzionaria? 430
Non aver paura del nichilismo 438
Educarsi al socialismo democratico 440
Una nuova concezione di socialismo 442
1 Solo la carestia e la fame provocate dalla collettivizzazione forzata tra l'autunno del 1932 e l'estate del 1933 causarono almeno 4 milioni di morti. E Stalin il 28 gennaio 1934, nel suo rapporto al XVII Congresso del partito, aveva affermato con sicurezza che gli abitanti erano cresciuti dai 160,5 milioni del 1930 ai 168 milioni del 1933. Tuttavia il governo fu costretto nel giugno 1936 a stimolare con vari mezzi la crescita demografica per rimediare al tragico spopolamento in alcuni territori.
2 è nota la critica di Hosea Jaffe all'idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo: per lui questa era un'idea non "socialista" ma "imperialista", frutto di un'interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico. (cfr Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, ed. Jaca Book, Milano 2007).
3 Impossibile qui non ricordare la opere di James O'Connor e di Serge Latouche. Più recenti quelle di Kohei Saito, L'ecosocialismo di Karl Marx, ed. Castelvecchi 2023; e Il capitale nell'Antropocene, ed. Einaudi 2024.
4 Malinovskij si rese sospetto agli inizi del 1914, quando, per ordine della polizia zarista, si dimise dal suo seggio parlamentare, dopodiché decise di recarsi da Lenin, che si trovava a Cracovia. Gli altri cinque parlamentari bolscevichi furono invece arrestati con l'accusa di "tradimento della patria", in quanto Lenin chiedeva di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile e di non votare i crediti di guerra: furono gli unici a sostenere una posizione del genere. Durante la guerra Malinovskij aveva fatto propaganda a favore dei bolscevichi tra i prigionieri russi in Germania. Dopo la rivoluzione d'Ottobre ritornò volontariamente in Russia, ma fu processato e fucilato in quanto spia.
5 Si badi che le Tesi sulla questione nazionale, scritte da Lenin nel 1913, e Il diritto delle nazioni all'autodeterminazione (1914), sono più che sufficienti per capire come impostare la questione delle minoranze nazionali.
6 Non meno grave fu la decisione di Stalin di appoggiare Bucharin e Sokol'nikov nella loro idea di abolire il monopolio statale del commercio estero.
7 Da notare che Vorošilov firmò personalmente 185 liste di condannati a morte. Dopo la destalinizzazione di Krusciov, che ovviamente colpì anche Vorošilov, Brežnev lo rivalutò.
8 Stalin fu eletto nell'aprile 1922 alla carica di segretario generale del C.C. (in quel momento non così significativa come quella di membro dell'Ufficio politico), nonostante tutti i suoi grossolani errori politico-strategici e atteggiamenti inqualificabili sul piano umano.
9 Medvedev sostiene che l'eccessiva indulgenza mostrata dal partito nei confronti di Stalin, può essere spiegata solo da due fattori: 1) l'esasperazione della tensione causata dalla controrivoluzione interna e dall'interventismo straniero; 2) il bisogno di avere quanti più leader possibili per fronteggiare il pericolo di un insuccesso rivoluzionario.
10 Da notare, peraltro, che sparirono non solo tutti i carteggi tra Kirov e Stalin ma anche quelli tra Kirov e Ordzhonikidze (altro leader morto in circostanze misteriose).
11 Dall'inizio del terrore sino al 1940 il 90% delle chiese e delle moschee venne chiuso al culto.
12 Al XX Congresso del Pcus Krusciov affermò che l'uccisione di Kirov era stata organizzata da Jagoda insieme ad alcuni funzionari dell'apparato centrale del Nkvd di Leningrado, su incarico personale di Stalin. Al tempo di questo Congresso, dei 12 funzionari del Nkvd di Leningrado, solo tre erano ancora vivi: Fomin, Lobov e Petrov, che però non parlarono mai. Alcuni di quelli fucilati vennero riabilitati.
13 Il primo a scrivere che Stalin aveva fatto assassinare Kirov fu Aleksandr Orlov, ex dirigente dei servizi segreti sovietici nella prima metà degli anni '30. Siccome per un certo periodo si trovava in Spagna, decise di non rientrare più in patria e di trasferirsi negli Stati Uniti. Temendo enormemente lo stalinismo, rimase in silenzio fino a quando Stalin non morì. Poi nel 1954 pubblicò a New York The Secret History of Stalin's Crimes. Fu sempre lui a ritenere Stalin il principale autore delle repressioni di massa.
14 Vyšinskij era l'espressione più eloquente di come il diritto sovietico fosse totalmente subordinato alla politica stalinista. Era stato scelto personalmente da Stalin proprio perché, pur presentandosi come persona colta, altamente autoritaria, eseguiva alla lettera gli ordini che riceveva. Pur avendo mandato a morte molti politici di spicco, senza uno straccio di prova dei loro crimini, non fu mai sottoposto a processo, probabilmente perché sapeva troppe cose.
15 Op. cit., p. 18. Forse sarebbe stato meglio tradurre "condivide".
16 Non è da escludere che Stalin sapesse qualcosa di spiacevole su Lenin, per es. la sua relazione con Inessa Armand.
17 Gulag è acronimo di "Campo di lavoro correzionale con domicilio coatto". Furono istituiti il 10 luglio 1934. Nel dicembre dello stesso anno fu ucciso Kirov. La repressione che ne seguì ora sapeva dove mandare i tanti detenuti.
18 Thälmann verrà fucilato dalle SS, nel 1944, nel campo di concentramento di Buchenwald, in gran segreto. A Krefeld, nel 1985, iniziò il processo contro Wolfgang Otto, l'unico ancora vivo del gruppo che lo uccise.
19 Il primo che ebbe il coraggio di parlare dei comunisti italiani eliminati nelle carceri sovietiche fu Guelfo Zaccaria, 200 comunisti italiani vittime di Stalin, Azione comune, Milano 1964.
20 Da notare che, a fronte di obiettivi irrealizzabili, in quanto decisi senza consultare chi doveva realizzarli, il minatore Stakhanov poteva anche apparire come un collaborazionista dello stalinismo, in quanto metteva in difficoltà tutti gli altri minatori, inducendo il potere a pretendere nel successivo piano quinquennale degli obiettivi ancora più alti. Per non parlare del fatto che la totale dedizione al lavoro non può essere considerato un obiettivo "etico" nella vita di una persona.
21 Un altro difensore delle insensate repressioni fu Nikolaj Krylenko, Commissario alla Giustizia, vittima pure lui delle purghe alla fine degli anni '30.
22 Secondo R. Medvedev deboli proteste furono fatte da due personaggi di minor conto: Lunacarskij e Ordzhonikidze (p. 175, o.c.). Il Procuratore generale fu proprio Krylenko.
23 Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 200-208.
24 Questo, poi, senza considerare che chiunque lavori in un contesto statalizzato matura, spesso, la convinzione che la propria inefficienza non sia un problema così importante.
25 è abbastanza singolare che per definire l'identità dello Stato Hegel usi un termine di origine greca che, quando veniva usato, non prevedeva affatto l'istituzione dello Stato.
26 Dire, quando si è in presenza di uno Stato (centralista o federalista non fa differenza) che "la responsabilità penale è personale", non ha alcun senso, proprio perché, in assenza di democrazia diretta, nessuna responsabilità può essere considerata oggettivamente "personale".
27 Medvedev fa notare a pag. 614 che Stalin sulla questione delle nazionalità non aveva nulla di originale, in quanto le sue idee le aveva prese da Karl Kautsky e Otto Bauer, senza citare le fonti. Anche i Fondamenti del leninismo furono presi dal manoscritto di F. A. Ksenofontov, La dottrina rivoluzionaria di Lenin. L'autore fu arrestato e ucciso nel 1937.
28 In oriente un altro Paese cominciò ad avere mire imperiali: il Giappone, che, come Italia e Germania, si era avventurato tardi sulla strada del capitalismo industriale. Qui, in particolare, lo shintoismo ebbe, sul piano ideologico, una funzione analoga a quella del calvinismo.
29 Si pensi a quell'assurdo libro del 1938 (scritto nel periodo del terrore) intitolato Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'URSS (Breve corso), redatto da una Commissione supervisionata da Stalin, che pretendeva fosse paragonabile a una Bibbia. Gli autori furono dei criminali o comunque dei fanatici come lui: Kalinin, Molotov, Voroshilov, Kaganovich, Mikoyan, Zdanov e Berija.
30 I socialisti-rivoluzionari avevano fondato il loro partito nel 1902, riprendendo alcune tradizioni populistiche. Negavano la stratificazione di classe nelle campagne e il carattere rivoluzionario del proletariato industriale. Nel 1917 emerse al loro interno l'ala sinistra, che però restò al governo coi bolscevichi solo fino al marzo 1918. Quest'ala voleva confiscare immediatamente i latifondi ai grandi proprietari terrieri per distribuirli ai contadini, senza aspettare la convocazione di un'Assemblea Costituente. La rottura grave coi bolscevichi avvenne quando rifiutò, compiendo anche degli attentati terroristici, il trattato di Brest-Litovsk tra Russia bolscevica e Imperi centrali, voluto da Lenin per vincere la guerra civile e l'interventismo straniero.
31 Da notare che anche Marx scrisse alla Zasulich che in Russia avrebbero potuto passare, grazie alle comuni rurali (obscine), dal Medioevo al socialismo saltando la fase del capitalismo, a condizione però che nell'Europa occidentale vi fosse stato qualche Paese che, compiendo la rivoluzione comunista, potesse aiutare quelle comuni a resistere sul piano militare di fronte all'inevitabile attacco dei Paesi imperialisti. Tuttavia è impensabile che Marx, nel caso in cui avesse visto il fallimento di tutte le rivoluzioni comuniste nell'Europa occidentale, si sarebbe azzardato a sostenere che quella russa non avrebbe potuto sopravvivere.
32 Il passo è preso dal n. 4/2024 della rivista "Slavia" che riporta un capitolo di quel libro. è a pag. 83.
33 Parlare di "accerchiamento" vero e proprio è piuttosto relativo. Infatti già nel 1929 Henry Ford firmò un accordo di assistenza tecnica e nel 1930 fu lanciata la prima catena di montaggio di automobili presso la fabbrica di attrezzature agricole Gudok Oktyabrya a Nizhny Novgorod.
34 Da notare che proprio in quell'anno fu proibito l'aborto, considerato "sabotaggio controrivoluzionario", con pena da 5 a 8 anni di reclusione. La delibera fu abrogata solo nel 1955. L'anno dopo si decise che la responsabilità penale apparteneva anche ai dodicenni, che potevano addirittura essere fucilati.
35 Da notare che la progettazione dello stabilimento di trattori di Stalingrado venne intrapresa dalla società del famoso architetto americano Albert Kahn. L'impianto stesso fu completamente costruito nel 1930 negli Stati Uniti, smantellato, trasportato su 100 navi nell'URSS e rimontato sul Volga sotto la supervisione di ingegneri americani. In tre anni Kahn costruì 570 stabilimenti di varia natura nell'URSS. All'inizio degli anni '30 vivevano qui circa 20.000 stranieri provenienti dai Paesi occidentali industrializzati, che contribuirono a porre le basi per l'industrializzazione sovietica.
36 Da notare che il regime, pur vantandosi d'aver concluso il piano in quattro anni e tre mesi, non riuscì a far nascere alcuna industria leggera, sviluppò soltanto quella pesante (e di questa, in particolare, quella militare). Al palo restò l'industria chimica e lo sarà ancora per molto tempo. I trasporti non vennero modernizzati. Crollò completamente la produzione agricola, e Stalin fece finta di non vedere alcun problema.
37 Per eliminare la NEP lo stalinismo ideò questo semplice escamotage: si cominciò a sostenere, nel 1928, l'idea che la NEP non era in grado di assicurare uno sviluppo sostenuto della produzione industriale. Cioè l'ampiezza dei nuovi cantieri era tale per cui occorrevano ben altri metodi di gestione e di finanziamento. Questa idea traeva la sua ragion d'essere nelle difficoltà emerse a livello di stoccaggio del grano, a causa sostanzialmente di una politica dei prezzi a danno dei cereali panificabili. Si temeva che le città potessero restare senza pane. In quello stesso anno Stalin mise in guardia dal rallentare i ritmi della crescita industriale, anzi, chiedeva addirittura di aumentarli, per dimostrare che la NEP era diventata inutile. Arrivò persino a chiedere che s'incrementassero i prezzi dei prodotti industriali venduti ai contadini, e che ai contadini s'imponesse un "tributo" per finanziare i ritmi accelerati dell'industrializzazione. Se a tutto ciò si aggiunge la sua errata tesi secondo cui la lotta di classe s'acuisce al progredire del socialismo, si capisce facilmente perché iniziarono le persecuzioni di massa.
38 Tanto per fare un esempio. Magnitogorsk, il principale centro della siderurgia dell'URSS per tutto il XX sec., venne fondata sia dai Paesi europei che dagli Stati Uniti. Nel 1930 fu firmato un accordo con la ditta statunitense Arthur G. McKee & Co. di Cleveland per la progettazione dell'altoforno n. 1. Fu proprio lui a dire che la costruzione del più grande impianto metallurgico del mondo, quello americano di Gary (Indiana), aveva richiesto 12 anni e mezzo di lavoro e altri 11 di progettazione. Invece il primo altoforno di Magnitka fu progettato in soli tre mesi, allestito il 1º luglio 1930 e il 1º febbraio 1932 produceva già la prima ghisa.
39 Storia dell'Unione Sovietica (4 volumi), ed. l'Unità su licenza di Arnoldo Mondadori, che la pubblicò in due volumi nel 1976 e 1979 (vol. 1928-41, p. 58).
40 Da notare che i danni all'agricoltura si verificano anche quando la si vuole gestire in maniera capitalistica, con avanzati strumenti tecnologici. Infatti tali mezzi tendono a impoverire i terreni, che per essere produttivi richiedono dosi sempre più massicce di fertilizzanti chimici.
41 Naturalmente questo non è sempre vero, in quanto esistono, dietro le quinte, vari maneggi tra potere politico e potere economico o finanziario: per es. la FIAT non era più avanzata dell'Alfa Romeo o della Lancia, però in Italia divenne l'industria automobilistica nazionale.
42 D'altra parte se gli esseri umani non riescono a convivere pacificamente su un pianeta limitato, con una popolazione soggetta a un tempo determinato, non si vede come potranno farlo in un universo potenzialmente illimitato con una popolazione che non si riuscirà neppure a contare e la cui esistenza non avrà mai fine.
43 Ežov era a capo dei servizi segreti. Era stato scelto da Stalin, in sostituzione di Jagoda, fucilato nel 1936. Ežov fu arrestato da Stalin nel 1939 (e fucilato nel 1940), dandogli tutte le colpe delle persecuzioni di massa. Fu sostituito da Berija, ancora più cinico e crudele di lui, fucilato per ordine di Krusciov nel 1953.
44 Pur essendo stato uno stalinista convinto per gran parte della sua carriera militare, Volkogonov ripudiò il sistema sovietico negli ultimi anni della sua vita, che si concluse nel 1995. Quando completò il suo libro su Stalin nel 1983 (a tutt'oggi l'unico dei suoi a essere stato tradotto in lingua italiana), il Pcus gli permise di pubblicarlo solo al tempo di Gorbaciov, e ciò gli attirò molti nemici. Fu lui a scoprire negli archivi che lo stalinismo fece arrestare 45.000 ufficiali dell'Armata Rossa, durante le purghe degli anni '30, di cui 15.000 vennero fucilati. Volkogonov divenne consigliere militare di El'cin nel 1991, ma si dimise nel 1994 per divergenze sostanziali sulla questione cecena. Non riuscì mai a capire come costruire un socialismo democratico, in quanto si limitò ad accettare il governo di Kerensky, antecedente alla rivoluzione bolscevica. Secondo i fratelli Medvedev, Stalin sconosciuto, furono arrestati durante le purghe del 1937-38 circa 36.000 ufficiali dell'esercito e 4.000 ufficiali di marina (p. 261).
45 La moglie del generale Vlasik disse ch'egli era convinto che dietro la morte di Stalin ci fosse Berija. Da notare che fu proprio Berija - secondo Volkogonov - a far scomparire i documenti più compromettenti dalla cassaforte di Stalin (p. 546, o.c.).
46 Praticamente nel biennio 1937-38 furono eliminati quasi tutti i prelati della gerarchia ortodossa.
47 Mir D. Bagirov, ch'ebbe sempre rapporti molto stretti con Berija, era stato incaricato da Stalin di organizzare la repressione in Azerbaijan. Si stima che abbia eliminato circa 70.000 azeri. Fu giustiziato nel 1956.
48 Berija cominciò a fare il criminale solo dopo l'arresto di Ežov, nel 1939, che sostituì per ordine di Stalin. Era un criminale al 100%, ma tardivo rispetto a tanti altri che, ben prima di lui, si erano distinti per efferati delitti politici.
49 A capo dei khmer rossi Pol Pot mise a morte un terzo della popolazione cambogiana.
50 In realtà i procuratori dipendevano in toto dai servizi segreti e dal Commissariato degli Interni. Il diritto era totalmente subordinato alla politica.
51 Da notare che anche Benedetto Croce, sbagliando completamente la sua interpretazione, considerò il fascismo come breve e transeunte "parentesi" della vita politica italiana, priva di ogni nesso di continuità con la storia dell'Italia liberale.
52 I gulag erano sorti nel 1919 per imprigionare i contadini contrari al comunismo di guerra e i controrivoluzionari delle armate bianche: erano dislocati prevalentemente nelle remote lande della Siberia. Per assistere al loro definitivo smantellamento si dovranno attendere gli anni '80. Fondamentale resta la pubblicazione di A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, benché i suoi calcoli vadano presi cum grano salis, in quanto l'autore è sempre stato fortemente anticomunista.
53 Ci vorrebbe un libro a parte per affrontare il tema dei rapporti tra socialismo ed ecologia. Qui è sufficiente affermare che proprio in virtù di questo tema si è riscoperta l'importanza del valore dell'uso, dell'autonomia della natura e delle sue esigenze riproduttive.
54 In presenza di una democrazia esclusivamente rappresentativa o delegata, dire che la responsabilità penale è "personale", non ha molto senso. In assenza di democrazia diretta nessuna responsabilità può essere considerata oggettivamente "personale". Se non si è liberi di esercitare una piena facoltà di scelta, come si può essere davvero "responsabili"? Si sarà continuamente tentati a scaricare le colpe su qualcuno. Naturalmente la Costituzione ha messo l'art. 27 con altre intenzioni, pensando che non può esserci una "responsabilità penale collettiva", come per es. quella che Netanyahu sta usando come pretesto per eliminare anche i bambini di Gaza.
55 Forse una traduzione migliore sarebbe stata: "in maggior parte in buona fede".
56 Spiace qui ricordare che persino la Krupskaja si trovò ad approvare una proposta di Stalin secondo cui Bucharin e Rykov dovevano essere espulsi dal partito e il loro caso affidato all'esame dei servizi segreti: il che voleva dire sicura condanna e quasi sicura fucilazione (cosa che avvenne 13 mesi dopo quella proposta).
57 Chi cercò di assassinare Lenin, nel 1918, Fanny Kaplan, era una socialista-rivoluzionaria di destra.
58 Volkogonov scrive a p. 383 del suo libro che Molotov, dopo aver fatto un viaggio a Berlino nel novembre 1940, era convinto che la Germania non avrebbe mai attaccato l'URSS, e Stalin si fidava di lui. Evidentemente ci teneva a far vedere che il suo Patto di non belligeranza era molto solido.
59 Il Giappone nel 1931 era sbarcato in Manciuria. Alcuni storici attribuiscono a quell'anno l'inizio della seconda guerra mondiale.
60 Si pensi che l'ingegnere americano Hugh L. Cooper progettò e costruì la centrale idroelettica Dneproges (odierna Zaporizhzhia) sul fiume Dnieper in Ucraina, nel periodo 1927-32. All'epoca era la più grande centrale idroelettrica d'Europa. Gli fu dato, come riconoscimento, l'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro.
61 Basta leggersi i testi di C. Penchienati, Brigate internazionali in Spagna. Delitti della "Ceka" comunista, Milano 1950; G. Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Verona 1948; V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, 1901-1941, Nuova Italia, Firenze 1956.
62 La Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari (comunismo, nazismo e fascismo) è stata fissata dall'Unione Europea nel 2008: è il 23 agosto, naturalmente senza fare alcuna distinzione tra "comunismo" e "stalinismo". Tant'è che il giorno è stato scelto in riferimento al Patto Molotov-Ribbentrop, che gli storici antirussi considerano la vera causa scatenante della seconda guerra mondiale. Questa data in Russia è stata accettata solo dai tatari di Crimea.
63 Il plico che conteneva i protocolli fu ritrovato nel 1992. L'URSS si sarebbe presa la Polonia orientale, i Paesi Baltici e la Bessarabia per ristabilire i confini dell'ex impero zarista (e parte della Finlandia). Ma erano già stati pubblicati negli USA durante il processo di Norimberga. Stalin negò sempre la loro esistenza e Krusciov non li usò durante la destalinizzazione (ne parlò solo nelle sue Memorie).
64 Al processo di Norimberga Ribbentrop voleva accusare i sovietici di corresponsabilità nello scoppio della guerra. Ma tutti i procuratori glielo vietarono, essendosi messi preventivamente d'accordo che nessun argomento "sensibile", che avrebbe potuto mettere in imbarazzo le potenze vincitrici, poteva essere affrontato. Anche i fatti di Katyn subirono la stessa sorte, tant'è che furono rivelati solo nel 1989.
65 Stalin riteneva che la guerra avesse fatto di lui un militare, tant'è che sino alla morte non smise mai d'indossare la divisa da maresciallo. Si faceva chiamare "Generalissimo".
66 è sufficiente qui ricordare che nel 1925 Stalin aveva dichiarato, dalla tribuna del XIV Congresso del partito, che l'URSS era "la base della rivoluzione mondiale" e, un anno più tardi, che il potere sovietico era il baluardo e il rifugio del movimento rivoluzionario del mondo intero.
67 Da notare che quando Stalin discusse a Berlino, nel luglio 1945, con Truman e Churchill la questione delle riparazioni dei danni di guerra, non ottenne nulla. L'occidente non voleva né che la Germania rimasse prostrata in eterno, né che l'URSS si riprendesse troppo presto. Anzi in quell'occasione gli anglo-americani gli chiesero di assicurare la dichiarazione di guerra contro il Giappone. Cosa che lui fece. Nonostante ciò gli USA, pur sapendo che i nipponici non avevano alcuna possibilità di vincere, sganciarono le due atomiche sui civili di Hiroshima e Nagasaki, facendo capire chiaramente a Stalin che più in là di tanto, in Asia, non poteva andare.
68 Gorbaciov fu travolto nelle accuse di quello sciagurato di El'cin, solo perché dopo quest'ultimo l'URSS implose… Ancora oggi i russi non sanno distinguere l'importanza dei due statisti.
69 Ancora oggi la Russia soffre di scarsa popolazione. Anzi, si è arrivati a dire che se il rapporto tra emigrati e immigrati si mantiene costante, i russi tra 25 anni diventeranno una minoranza rispetto alle altre nazionalità.
70 Sulla morte di Berija, avvenuta dopo pochi mesi quella di Stalin, non fu mai fatta chiarezza. Ufficialmente fu fucilato nel dicembre 1953, senza un processo pubblico, mentre al governo vi era Krusciov. Tuttavia nel 1961 alcuni comunisti polacchi asserirono che Berija fosse stato ucciso freddamente nel corso di una seduta del Comitato Centrale del Pcus. Secondo il figlio venne ucciso in casa propria, dopo un'improvvisa incursione da parte di unità militari. Nelle sue memorie politiche, pubblicate nel 1993, Vjaceslav Molotov sostenne che Berija si era vantato con lui d'aver avvelenato Stalin.
71 Cfr L'idealista Gorbaciov. Le forme del socialismo democratico, che ho pubblicato su Amazon.
72 "Il solo Stalin - scrive Medvedev - costava allo Stato decine di milioni di rubli all'anno. Si dice che una volta abbia chiesto al capo della sua guardia, generale Vlasik, di calcolare questa somma. Costui si fece aiutare da alcuni specialisti e ottenne una cifra così astronomica che perfino Stalin ne rimase colpito. Tuttavia Berija disse che i calcoli erano completamente sbagliati e Vlasik fu fucilato" (p. 651). Come faccia l'autore a parlare di fucilazione non si sa. Vlasik morì a Mosca nel 1967. Si sa soltanto che Vlasik nel 1952 fu arrestato con la falsa accusa d'essere coinvolto nel "Complotto dei medici".
73 Se ci pensiamo, è stato inevitabile che gli Stati Uniti abbiano sostituito l'Europa occidentale nella gestione del capitalismo mondiale. Infatti l'Europa occidentale, avendo fatto scoppiare due guerre mondiali, si era completamente screditata. Il capitalismo aveva bisogno di uno Stato giovane, capace di una nuova democrazia (il consumismo di massa e i diritti umani) e soprattutto di una nuova capacità comunicativa, basata sul facile successo personale, sul divertimento, sull'emancipazione sessuale, sull'individualismo a tutti i livelli e soprattutto sull'idea che indebitarsi non è un problema quando si gode della fiducia altrui. Che poi questa nuova democrazia avesse sulla coscienza lo sterminio dei nativi, la colonizzazione dell'America Latina, l'occupazione degli Stati che avevano perso la seconda guerra mondiale e le continue guerre contro gli Stati che professavano idee socialiste o islamiste, nonché l'imposizione mondiale di una moneta nazionale (soprattutto nella sua veste di "petrodollaro"), erano cose che, tutto sommato, si potevano accettare come una sorta di male minore. Solo oggi ci si è accorti che anche questa forma di capitalismo è arrivata al capolinea e che l'ideologia su cui dal secondo dopoguerra ad oggi si è giustificata, è un'incredibile menzogna.
74 Peraltro l'attuale Costituzione, adottata con referendum nazionale il 12 dicembre 1993, non permette alle repubbliche di secedere dallo Stato centrale.