MICROMEGA E LA DEMOCRAZIA POLITICA

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


MICROMEGA E LA DEMOCRAZIA POLITICA

I

Sul n. 4/2014 di "MicroMega" vi è un interessante dibattito tra il direttore Paolo Flores d'Arcais e il filosofo Raffaele Simone riguardo al concetto di "democrazia politica".

Quest'ultimo mette subito in evidenza l'idea di considerare mere "finzioni" alcuni fondamentali "dogmi" della democrazia politica (uguaglianza, elezioni, rappresentanza, ecc.). Che siano finzioni è dimostrato anche dal fatto che, a seconda della necessità, vi si rinuncia con molta disinvoltura, tant'è che oggi vi è sicuramente meno democrazia che non nell'immediato dopoguerra. Almeno così dice Simone, il che però è opinabile, in quanto, semmai, sarebbe il caso di dire che il massimo della democrazia in Italia, sul piano non solo politico ma anche sociale, culturale ed economico, vi fu nel decennio che va dalla contestazione operaio-studentesca al delitto Moro, e poi, di nuovo, per un breve momento, in occasione del crollo della prima Repubblica ad opera dei magistrati di "Mani pulite". Per il resto si deve soltanto parlare di riflusso neoliberista, di revisionismo teorico e di degenerazione corruttiva, di cui i principali artefici sono stati il socialismo craxiano e il berlusconismo suo erede.

Ma veniamo alle suddette "finzioni". La prima di cui parla Simone è quella relativa all'uguaglianza: "Tutti gli uomini e le donne sono uguali a dispetto di tutte le differenze" (p. 129). Gli esempi che Simone accampa per dimostrare l'inconsistenza di tale principio sono abbastanza banali. Meglio avrebbe fatto a dire che la democrazia borghese non riesce a realizzare l'uguaglianza nonostante le differenze. Questo perché è una democrazia dei principi astratti, i quali vengono affermati proprio per nascondere il fatto che nella realtà vigono delle differenze ingiustificate.

Le differenze infatti in una società democratica ci sono e anzi devono esserci, ma devono esserci anche le condizioni per cui uno non possa fare della propria diversità un motivo di vanto o di frustrazione. E questo la democrazia borghese non riesce proprio a garantirlo. È una democrazia formale, che serve soltanto a giustificare i cosiddetti "poteri forti", quelli che fanno della "differenza" un criterio di vita. La democrazia serve per illudere chi è sfruttato o discriminato che può migliorare se stesso rispettando le condizioni dominanti del sistema, usando appunto le "regole della democrazia". In realtà non può esserci democrazia politica senza democrazia sociale, né democrazia giuridica senza quella economica. Questo non è l'abc della democrazia ma del socialismo.

La seconda finzione è quella della sovranità popolare, tipica delle democrazie rappresentative, cioè le democrazie dove il popolo elegge periodicamente i propri rappresentanti nei parlamenti nazionali. Quanto questa democrazia delegata sia formale è oggi sotto gli occhi di tutti. I parlamentari si sentono sempre più autorizzati a fare ciò che vogliono. Anche quando non vengono rieletti, la corruzione del sistema permane immutata.

Dall'inizio del secondo dopoguerra alla fine degli anni '70 la politica veniva regolamentata o dall'etica cattolica o dall'etica socialcomunista. Oggi la politica, dopo i fallimenti delle due suddette etiche, è fuori controllo. È semplicemente diventata un modo per fare quattrini. E anche quando, nelle nuove generazioni di politici, non sembra essere così, si ha l'impressione che sia solo questione di tempo, cioè che presto o tardi anche loro si corromperanno. Bene fanno, in tal senso, quei partiti che sostengono l'idea di un massimo di due mandati per ogni parlamentare. Tuttavia a questi partiti bisognerebbe dire che, se non viene cambiato radicalmente il sistema della rappresentanza, si rischia soltanto di fare del moralismo e di ottenere l'effetto contrario, cioè d'indurre i politici a concentrare tutta la corruzione possibile in due sole legislature. Se non si cambia l'istituto in sé della delega, nulla sarà sufficiente: neppure la rinuncia ai rimborsi elettorali o al finanziamento pubblico dei partiti, né la riduzione dello stipendio. Ci vuole ben altro.

Guardiamo anzitutto com'è nata, storicamente, la rappresentanza parlamentare nazionale. Essa è andata di pari passo con l'affermazione della monarchia assoluta centralizzata. Cioè, in un primo momento, la classe borghese appoggiò la monarchia assoluta perché essa garantiva un mercato nazionale in grado di eliminare le differenze locali-regionali dei signori feudali. Tali differenze, che si riflettevano su tante cose (dazi doganali, monete, pesi e misure, ecc.), rendevano i commerci molto onerosi e difficoltosi. Inoltre la borghesia, per potersi affermare come classe non possidente di latifondi ma solo di capitali, aveva bisogno che i contadini potessero lasciare i feudi e trasformarsi in operai salariati nelle manifatture urbane.

Quando la borghesia, con l'aiuto della monarchia e degli stessi contadini, riuscì a ridurre il peso dell'aristocrazia terriera, cominciò a rivendicare maggiore potere politico: di qui la trasformazione della monarchia da assoluta a costituzionale. In taluni casi si ebbe addirittura la sostituzione della monarchia con la repubblica.

La borghesia non ha mai voluto rinunciare a uno Stato nazionale che garantisse un mercato unico. Al massimo, in alcuni paesi, ha optato per uno Stato federato o decentrato, ma solo per una maggiore autonomia amministrativa, niente di più. Nessuna borghesia al mondo ha mai chiesto maggiore feudalesimo per essere meno borghese; semmai, anzi, ha chiesto più decentramento per essere più libera nei propri affari, senza dover sottostare a talune restrizioni favorevoli al riequilibrio nazionale, dovute al fatto che non tutte le realtà locali-regionali sono sviluppate allo stesso livello.

In Europa occidentale questi Stati nazionali esistono da almeno mezzo millennio. Oggi hanno fatto il loro tempo. Persino il capitale non li sopporta più. Infatti si parla di "globalismo" economico e finanziario: un concetto che va ben al di là dei confini nazionali degli Stati. Oggi quest'ultimi tendono progressivamente a perdere la loro autonomia politica, a tutto vantaggio dell'egemonia economica che esercitano le grandi multinazionali e i grandi gruppi finanziari mondiali.

Di fronte allo strapotere nord-americano, cui oggi si va progressivamente associando quello cinese, l'Europa occidentale ha ritenuto, all'inizio di questo millennio, di potersi meglio difendere istituendo una unione sovranazionale prevalentemente basata sull'economia e sulla finanza. Oggi questa unione sembra vacillare, in quanto ci si è accorti non solo che l'Europa occidentale è un "nano politico" a livello internazionale, essendo del tutto prona alla volontà statunitense (la quale, sottobanco, trama per farla implodere), ma anche che, al suo interno, gli Stati economicamente più forti vogliono imporre le loro regole a tutti gli altri.

Tuttavia, se si pensa di eliminare il formalismo della democrazia rappresentativa degli Stati nazionali affidandosi a organismi sovranazionali, ci s'illude. È illusorio persino il discorso di chi vuole rinunciare all'Unione Europea per recuperare la sovranità dello Stato nazionale. I cittadini hanno in realtà bisogno d'essere "sovrani" nel loro territorio locale. Mai come oggi infatti si sentono in balìa dei mercati internazionali. Cioè anche se l'Unione Europea funzionasse nella maniera più democratica possibile, al punto da permettere ai cittadini di considerarla preferibile a qualunque sovranità nazionale, il problema di fondo resterebbe immutato: a livello locale il cittadino ha la netta percezione di non contare assolutamente nulla.

Che gli Stati nazionali (soprattutto quelli centralizzati) vadano superati, non ci piove. Ma che debbano esserlo in virtù di organismi sovranazionali, cui concedere ampi poteri e persino la propria sovranità politica, è tutto da dimostrare. Se vogliamo ridare dignità ai cittadini, se vogliamo permettere loro che si sentano padroni in casa propria, occorre riformulare il concetto di "democrazia politica", e bisogna farlo ripensando totalmente il primato assoluto che, in questo momento, vogliono attribuirsi i mercati internazionali, ivi incluse le borse titoli e valori.

Per sottrarsi a questa soffocante egemonia, che, in un certo senso, può essere paragonata a quella delle legioni al tempo dell'impero romano, noi abbiamo bisogno di rivendicare non solo una democrazia diretta a livello locale, ma anche un'autogestione dell'economia a livello territoriale. Qui urge liberarsi non solo del peso degli Stati nazionali e degli organismi sovranazionali, ma anche della dipendenza strutturale nei confronti di qualunque mercato. Stato e mercato non sono due nemici "fisici" da combattere, ma due astrazioni, il cui potere però pare immenso.

A tutti piace l'idea di non avere confini, di poter sentire il mondo come la propria casa, di non dover esibire carte d'identità e passaporti. Ma ancora di più piace condividere con una comunità la gestione dei bisogni comuni, piace progettare insieme ai propri concittadini qualcosa di utile per la collettività, qualcosa che duri nel tempo, che risponda a esigenze reali, condivise a livello locale e territoriale.

A nessuno piace essere determinato da fattori indipendenti dalla sua volontà. Non è accettabile trovarsi, dal giorno alla notte, in mezzo a crisi finanziarie scoppiate in capo al mondo, per motivi sui quali non abbiamo responsabilità diretta e che creano problemi planetari, per risolvere i quali non si dispone di alcun potere effettivo. Chi pensa che una situazione così anomala non sia assolutamente modificabile, fa soltanto professione di cinismo, di cieco fatalismo e indirettamente se ne rende complice.

Il cosiddetto "socialismo reale" ha compiuto un grande errore quando ha ritenuto di dover eliminare la democrazia diretta dei consigli di operai, contadini e militari a tutto vantaggio dell'edificazione di uno Stato centralizzato e burocratizzato, prendendo a pretesto che solo in questo modo si sarebbe potuta affrontare la controffensiva del capitalismo mondiale. Ora a questo errore bisogna porre rimedio.

Noi in occidente, non avendo mai fatto alcuna rivoluzione socialista, non abbiamo sofferto le contraddizioni di questo sistema. In compenso abbiamo continuato a scaricare il peso delle contraddizioni interne ai nostri paesi capitalistici su quella realtà mondiale che chiamiamo "Terzo mondo" o, eufemisticamente, "paesi in via di sviluppo", soggetta a una nostra egemonia economica e finanziaria assolutamente vergognosa. Ci siamo vantati di veder crollare il "socialismo reale", come se l'occidente potesse essere immune da crisi di analogo spessore.

È invece stata una "fortuna" (detto senza ironia) che la crisi dei subprime scoppiata negli Usa alla fine del 2006 ci abbia subito ridimensionato nelle nostre illusioni. Noi italiani, poi, abbiamo dovuto subire anche il disastro della politica craxiana e berlusconiana, inducendoci a essere refrattari nei confronti di qualunque partito. Siamo letteralmente stufi dei personalismi in politica, delle chiacchiere a vuoto, dei conflitti d'interesse, di quel teatrino in cui uno gioca la parte del governo e l'altro quello dell'opposizione. Vogliamo la democrazia diretta, l'uguaglianza effettiva, la fine delle caste, politiche, economiche e anche burocratiche.

La democrazia diretta la si sperimenta a livello locale: non è sufficiente la democrazia digitale rivendicata dal partito pentastellato. Questa democrazia resta "nazionale", cioè, in ultima istanza, non controllabile a livello locale. Non ci serve una democrazia digitale per poter accedere alle leve del potere nazionale. Ci serve una democrazia locale che faccia del potere nazionale un'espressione del potere locale. Non vogliamo aspettare - perché potrebbe essere troppo tardi - che il potere nazionale inizi a prestare attenzione alle esigenze delle realtà locali solo dopo essersi impantanato in una serie infinita di scandali e di abusi.

A livello nazionale si dovrebbe soltanto discutere di ciò che non può essere risolto a livello locale. Cioè la realtà locale dovrebbe potersi dotare di tutti gli strumenti utili per affrontare qualunque problema ch'essa è in grado di risolvere da sola. Di qui la necessità che gli enti territoriali fruiscano della più completa autonomia, anche economica, finanziaria, fiscale e impositiva. I rapporti tra centro e periferia vanno completamente rovesciati. Ogni periferia deve diventare centro di se stessa. E quando le realtà locali decidono d'incontrarsi a livello nazionale o sovranazionale, dovrà essere per discutere problemi specifici, la soluzione dei quali dovrà avere ricadute positive su tutte le realtà locali, senza vincolo per nessuna. Cioè nessuna realtà locale dev'essere obbligata ad aderire a deliberazioni prese democraticamente a livello nazionale: deve però sapere che se non vi aderisce, non beneficerà dei vantaggi decisi di comune accordo o a maggioranza, e tenderà a isolarsi, rischiando d'indebolirsi.

Dobbiamo smetterla con la costrizione legale che parte dall'alto e si dirama a livello periferico. Ogni realtà locale deve autoregolamentarsi, deve autogestirsi, deve organizzarsi da sé. Qui non si sta parlando di un'autarchia che si vuole isolare, o di realtà monadiche o atomizzate in competizione tra loro. Qui si parla soltanto di possibilità di gestire in maniera autonoma e responsabile il proprio territorio, avendo cura di non fare di questo obiettivo un motivo per danneggiare l'autonomia di altre realtà locali, come invece succedeva durante l'istituzione dei Comuni italiani borghesi, che cercavano di espandersi, diventando prima Signorie poi Principati, a spese del contado circostante o delle realtà urbanizzate più piccole o più deboli.

Democrazia diretta vuol dire che qualunque realtà locale deve poterla esercitare liberamente. Vuol dire non approfittare delle debolezze di una realtà locale per fagocitarla, per assoggettarla, come facevano tutte le città-stato dei regimi schiavistici antichi.

* * *

Interessante è la critica che Raffaele Simone fa del Movimento 5 Stelle, che "formatosi in rete, non ha mai tenuto un congresso... I grillini votano telematicamente su tutto ma non s'incontrano mai; ritengono di praticare il principio di accessibilità universale ma il loro capo è autonominato, materialmente irraggiungibile, totalitario nelle prese di posizione, dotato di una carica perpetua non negoziata e indiscutibile; sono convinti d'essere uguali ma non hanno statuti e possono essere espulsi da un momento all'altro..." (pp. 136-7).

Forse questa critica è un po' esagerata. Forse i congressi possono anche essere tenuti in rete; i grillini eletti in Parlamento s'incontrano necessariamente tutti i giorni, e anche quelli che vogliono essere presenti negli enti locali territoriali; chi origina un movimento per forza è un "autonominato": semmai il problema del ricambio si pone successivamente, quando il movimento prende piede e si espande a livello territoriale. Quanto agli statuti, nel loro sito esistono vari regolamenti di comportamento e anche una sorta di "non-statuto". Certo è che i grillini entrati in Parlamento come se fossero un "partito" (non essendo possibile entrarvi come un "movimento") dovranno per forza darsi uno statuto standardizzato.

Il vero problema per i grillini è invece un altro: quand'anche riuscissero a governare da soli, che farebbero della democrazia rappresentativa e dello Stato centralista? Riuscirebbero davvero ad accettare l'idea che la realtà locale va considerata superiore a quella nazionale e sovranazionale? E a immaginarsi una realtà nazionale composta di tante realtà locali autonome? Sono favorevoli alla valorizzazione delle risorse locali sino al punto da pretendere di poter fare a meno dei mercati mondiali? Credono davvero che la decrescita possa comportare la rinuncia a un dominio di scienza e tecnica sulla natura? Fin dove sarebbero disposti ad accettare l'idea di basarsi sull'autoconsumo e sullo scambio alla pari dei prodotti agricoli eccedenti?

Quando si parla di democrazia diretta, di autogestione delle risorse locali, bisognerebbe essere coerenti sino in fondo, ripensando a come vivevano le popolazioni che noi chiamiamo "primitive" e che vivevano nelle comunità di villaggio, quelle comunità che sono esistite per milioni di anni e che sono scomparse in Europa orientale alla fine dell'Ottocento e che oggi sopravvivono in alcune aree sperdute del pianeta.

II

Paolo Flores d'Arcais ribatte all'articolo di Simone negando che l'alternativa al sistema possa essere una sorta di "democrazia diretta", alla Rousseau, per intenderci. Secondo lui la democrazia è sempre stata e sempre sarà rappresentativa. Una democrazia assolutamente diretta, cioè priva di deleghe, sarebbe ingestibile, non perverrebbe mai ad alcuna decisione comune o ad alcuna decisione significativa.

La vera alternativa alla corruzione del sistema può essere soltanto quella di dare alla politica un ideale, sottraendola all'interesse privato e soprattutto all'idea di poter fare della politica una professione ambita, una carriera personale: cosa che, quando avviene, fa di questo monopolio un tutt'uno col potere del denaro e dell'apparenza mediatica, sottraendosi naturalmente a qualunque tipo di controllo. Questa la tesi fondamentale del direttore della rivista.

Nella fattispecie egli propone l'incompatibilità tra cariche elettive (il deputato non può essere sindaco o europarlamentare, ecc.); tra cariche elettive ed esecutive (il deputato non può essere ministro); tra interessi in conflitto (non può essere candidato chi abbia avuto appalti pubblici o concessioni). Ci vuole inoltre un limite di due mandati, o comunque una pausa obbligatoria pari alla durata delle cariche svolte. Infine l'interdizione, per chi ha avuto cariche politiche, a successivi incarichi o consulenze presso soggetti privati o pubblici, nazionali o esteri, con cui la sua attività politica era entrata in contatto.

Richieste sacrosante, ma è difficile pensare che possano essere soddisfatte in una tradizionale democrazia borghese. D'Arcais non si rende conto di chiedere cose che potrebbero essere realizzate solo in un sistema ultrademocratico, cioè in un sistema socialista. Chiede alla politica di avere un'etica quando l'etica borghese non ha nulla di politico, avendo tutto di privato.

Il bello è che, a sostegno delle sue tesi, cita i classici del marxismo, senza però trarne le dovute conseguenze. Quando Marx riteneva che l'eguale sovranità fosse la copertura ideologico-istituzionale dello sfruttamento di classe, in quanto riferita al cittadino astratto; quando Lenin diceva che i governi occidentali sono un comitato d'affari della borghesia, non stavano facendo della propaganda a buon mercato. Erano assolutamente convinti che l'unica vera alternativa al formalismo della democrazia borghese fosse la democrazia diretta e l'autogestione dei propri bisogni, delle proprie risorse locali, attraverso la piena proprietà dei mezzi produttivi. Se e quando hanno fatto concessioni alla sopravvivenza dello Stato, la intendevano sempre e solo in via temporanea e col preciso obiettivo di eliminare la reazione violenta delle classi espropriate.

Nessun "classico" del marxismo ha mai considerato con superficialità l'idea di eliminare progressivamente lo Stato. Il primo che ha tolto dal vocabolario marxista la parola "estinzione" è stato Stalin, con la sua idea, strumentale alla propria dittatura, secondo cui quanto più cresce il socialismo, tanto più aumenta l'odio del capitalismo, per cui lo Stato va rafforzato al massimo.

Quindi non è possibile pensare, neanche lontanamente, che si possa risolvere la corruzione endemica della politica borghese, appellandosi alle idee neokantiane di Max Weber. Qui non è questione di "responsabilità personale" da parte del politico, né di una crociana "passione ideale". È il meccanismo in sé della delega, istituzionalizzato all'interno di uno Stato nazionale, i cui poteri di governo sono centralizzati, che impedisce non solo una qualunque democrazia diretta o radicale, ma anche una qualunque democrazia tout-court, che non sia appunto formale, fittizia, priva di sostanza.

E non è che la cosa si possa risolvere trasformando lo Stato da centralista a federato. Laddove esistono gli Stati federali, il presidente della nazione ha poteri che lo rendono simile a un monarca (vedi gli Usa), oppure la società civile è così straordinariamente "borghese" da non sopportare alcun controllo di tipo politico (vedi la Svizzera o i cosiddetti "paradisi fiscali"). In tal senso non è neppure così sicuro che le proposte avanzate da d'Arcais sarebbero meglio realizzabili in uno Stato federato che non in uno centralizzato. In nessuno Stato capitalistico si è mai pensato "spontaneamente" di abrogare il dominio monopolistico della politica come professione, meno che mai in uno Stato "democratico-borghese", dove è il sistema in sé che garantisce alla borghesia di coltivare i propri affari privati. Semmai è sotto le dittature, di destra o di sinistra, che la cricca al governo può interrompere, anche senza preavviso, la carriera politica di qualcuno.

È vero che la delega ha un senso etico solo se temporanea, ma non ne ha alcuno in un sistema che impone solo la delega come forma di rappresentanza del potere. Infatti è il concetto di "istituzione" che va anzitutto abolito. È l'istituzione che impone la delega e questa implica la deresponsabilizzazione del singolo cittadino, il quale appunto si abitua a delegare ad altri la gestione dei bisogni, la soluzione dei problemi.

In Europa occidentale non si è riusciti a eliminare il professionismo della politica nemmeno l'indomani dei due conflitti mondiali. Guardando i cinquant'anni di dominio incontrastato della Democrazia cristiana, bisogna dire che il massimo che si è riusciti a ottenere è stato un turn-over delle stesse "facce" nella composizione dei governi, certamente non nell'occupazione dei seggi parlamentari. Il ricambio generazionale avveniva soltanto per motivi di malattia o di morte. I parlamentari si sentivano così "investiti" della loro funzione che non avrebbero saputo fare altro.

Tutte le altre proposte fatte da d'Arcais sono soltanto auspicabili ma non praticabili: magistrati soggetti solo alla legge; giornalisti vincolati solo alla sovranità della notizia e alle modeste verità di fatto; docenti, ricercatori e scienziati selezionati secondo meriti illuministici; un welfare più esteso e agiato... Queste non sono cose che il sistema "non vuole": semplicemente "non può volerle". Non esistono personalità eccezionali che possano esigerle: prima o poi esse si scontrano con poteri più forti di loro. E anche quando spuntano figure carismatiche che pretendono seriamente d'imporle, già il fatto d'usare la forza le pone fuori della democrazia, e le loro rivendicazioni finiscono col diventare un controsenso. Quanto alla società civile, l'unico potere ch'essa ha è quello di votare per "confermare" il sistema, illudendosi di poterlo migliorare sostituendone gli attori.

All'interno di questo panegirico su come "dovrebbe essere" la democrazia formale borghese, non può mancare, nell'analisi di d'Arcais, l'elogio della democrazia digitale, che in parte viene praticata dal Movimento 5 Stelle, di cui pur s'individuano alcune interne contraddizioni, la prima delle quali è - secondo il direttore - che il principio, pur giustissimo, "uno vale uno" si rovescia nel carattere padronale del sito-agorà.

D'Arcais vorrebbe una soluzione per così dire "istituzionale" alla crisi del sistema. In attesa che ciò avvenga, secondo lui è sufficiente limitarsi all'educazione massiva alla democrazia, cioè allo spirito critico, ai buoni esempi, all'ethos repubblicano onnipervasivo, all'intransigenza gobettiana con cui si lotta per "giustizia e libertà"; più avanti parlerà anche di "rigore di laicità", cioè di "Stato laico". Tutto qui.

III

A Raffaele Simone è poi stato concesso il diritto di replica, che ha esercitato magnificamente là dove dice che quando il cittadino vota un candidato al Parlamento, e questi viene eletto, la democrazia, come diritto elettorale, finisce lì. Come se si firmasse una cambiale in bianco. Di fatto il cittadino non può rifarsi vivo per esprimere sue opinioni su singoli temi, e il delegato non si sente tenuto ad ascoltare il parere dei cittadini che l'hanno eletto. La democrazia è una farsa, un gioco delle parti.

Si potrebbe anche aggiungere, in tal senso, che quando i parlamentari esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato usano questa prerogativa, al pari di quella sull'immunità parlamentare, con il tacito scopo di fare quello che vogliono. Cioè sfruttano principi giusti svuotandoli di significato.

Simone è preoccupato di questa continua degenerazione della politica, poiché teme che, ad un certo punto, emergeranno dei movimenti che, mirando all'uguaglianza estrema, finiranno per trasformare la democrazia in una dittatura. E non vede soluzioni a questa deriva populistica, anche perché lui si definisce un "analitico", non un "progettuale" (come del resto dicono di essere tutti i filosofi). Peraltro ritiene che per convincersi che la democrazia sia diventata sempre più formale, è sufficiente costatare lo sviluppo impetuoso del capitalismo transnazionale (finanziario soprattutto) negli ultimi trent'anni. La potestà dei governi nazionali sembra essersi ridotta al minimo.

In tal senso la soluzione proposta da d'Arcais, circa la non-professionalizzazione della politica, la ritiene - e bisogna dire giustamente - irrealistica, in quanto gli appare inverosimile che a rinnovare le regole dovrebbero essere proprio le persone a cui le limitazioni dovrebbero applicarsi. E conclude dicendo che gli istituti della rappresentatività devono essere rimodellati in modo serio.

Peccato, secondo noi, che non sia arrivato a dire che tali istituti vanno semplicemente aboliti. La rappresentatività non può avere alcuna istituzionalizzazione, se davvero vuole essere democratica. La comunità locale deve semplicemente essere messa in grado di autorappresentarsi, e nel caso in cui essa abbia bisogno di allacciare rapporti con altre comunità, la rappresentanza deve essere temporanea, finalizzata ad obiettivi specifici, mirati, decisi preventivamente dalle stesse comunità.

Non si devono costruire organismi terzi che superino, in autorità e competenza, le comunità locali. Su questo bisogna essere tassativi. I poteri che si concedono ai delegati provvisori devono essere inversamente proporzionali alla distanza che li separa dalla comunità che glieli conferisce; cioè quanto più lontani sono inviati a esercitare determinati poteri, tanto meno tali poteri devono essere decisivi. Questo significa che quando i delegati di varie comunità si trovano a discutere in organismi terzi, non possono prendere decisioni che esulino dalla volontà delle comunità locali di appartenenza, e in ogni caso devono sottoporre alla volontà di queste comunità la ratifica definitiva delle decisioni prese. Su questa procedura non si può assolutamente transigere, proprio perché la democrazia va esercitata dall'intera comunità, nessuno escluso.

È significativo che d'Arcais ribatta a Simone dicendo che "la democrazia è un artefatto umano, che non si trova in natura, oltretutto immateriale" (p. 159). Siamo così disabituati alla democrazia locale, alle comunità di villaggio, che quando parliamo di "democrazia" possiamo intendere solo quella "borghese" e, in tal senso, non abbiamo dubbi nel ritener delle vere e proprie "dittature" tutte le esperienze del cosiddetto "socialismo reale", che, non a caso, sono fallite.

Peraltro ci si chiede se quelle esperienze di socialismo, ove al governo vi era un partito unico, avessero potuto svilupparsi democraticamente, non le avremmo ritenute tali solo perché non avevano il pluripartitismo? A tale proposito vogliamo qui aprire una parentesi. Noi italiani abbiamo uno strano modo di concepire la democrazia: essa esiste solo là dove esistono opinioni contrapposte. La democrazia è spesso un confronto-scontro fine a se stesso, senza poter prendere alcuna decisione comune.

Questo succede perché, il più delle volte, le opinioni riflettono interessi divergenti, sostenuti da ceti, classi, gruppi sociali tra loro rivali. Per noi sarebbe una forma di dittatura che le opinioni divergenti potessero esprimersi all'interno di un unico partito di governo, privo di un'opposizione da parte di altri partiti, sia che questi partiti manchino del tutto, sia che lascino governare tranquillamente chi ha vinto le elezioni.

La nostra democrazia non serve tanto a risolvere i problemi della collettività, quanto a legittimare degli interessi esistenti, ampliandone il più possibile le prerogative, gli spazi di manovra. È una democrazia conservativa degli antagonismi sociali, a favore dei ceti più forti.

Ciò ovviamente non vuol dire che là dove esistono, p. es., due soli partiti, la democrazia sia più sostanziale che non da noi. Ci basta guardare gli Usa, dove tra i due partiti, democratico e repubblicano, le differenze sembrano essere minime: nessuno dei due infatti tutela gli interessi della classe operaia o dei piccoli coltivatori o di chi non percepisce uno stipendio inferiore ai 50.000 dollari annuali. Di qui il grande astensionismo elettorale. Negli Usa i dibattiti televisivi sono meno accesi, rispetto ai nostri, proprio perché la politica difende interessi relativamente convergenti. Entrambi i partiti infatti sono esplicitamente anticomunisti e, in politica estera, sono imperialisti e guerrafondai.

Quando si prendono gli Usa come modello di democrazia, ci si dimentica ch'essi sono nati come "paese borghese", cioè privo di conflitti tra borghesia e aristocrazia, e anche tra borghesia e chiesa. Essi hanno beneficiato, dopo averne sterminato i nativi, di un grande territorio da sfruttare, permettendo virtualmente a tutti di diventare "borghesi", e quando stavano cominciando a esplodere le contraddizioni del loro sistema antagonistico, hanno preso a conquistare un enorme impero coloniale, prima in America latina, poi nel mondo intero, grazie alla vittoria nelle due guerre mondiali.

Ora che stanno di nuovo scoppiando le anomalie del loro sistema, ogni occasione è buona per scatenare nuovi conflitti, facendo pagare a paesi terzi il peso dei loro problemi. D'altra parte quando un cittadino viene educato, sin da piccolo, a credere che le risorse e il benessere della sua nazione sono praticamente illimitati, come può comportarsi quando improvvisamente gli si fa capire che il "diritto alla felicità", sancito nella sua Costituzione, è solo un modo di dire? Chiusa la parentesi.

A giudizio di d'Arcais la democrazia è solo "migliorabile", non esistendo una reale alternativa a quella "borghese". Questo significa che d'Arcais non vede alcuna democrazia neppure là dove essa non esiste formalmente non perché sostituita da una dittatura esplicita, ma semplicemente perché non esistono tradizioni borghesi imperanti. Là dove non si vota o dove non esiste un Parlamento, un governo centralizzato, una burocrazia, delle istituzioni e quant'altro, lì non esiste la "democrazia".

Davvero si può dire questo? Davvero gli uomini hanno bisogno di tutte queste superfetazioni per poter vivere in pace con se stessi? Davvero è giusto sentirsi autorizzati a "esportare" la democrazia in tutto il mondo? A quanto pare sì. E d'Arcais, questa volta, ne spiega anche le ragioni ultime, quelle più filosofiche. Egli paragona l'antica comunità tribale a un bambino piccolo, preso isolatamente, figlio del nostro tempo; dopodiché l'osserva attentamente, come faceva Piaget, e quali conclusioni ne trae? 1) L'esistenza di un pensiero etico naturale è un puro mito; 2) nel bambino convivono pulsioni etiche opposte; 3) per crescere moralmente sano il bambino ha bisogno di "istituti correttivi": famiglia, scuola e società.

Dunque qual è la filosofia della storia di d'Arcais? Eccola: "in realtà di 'naturale' in Sapiens non c'è nulla, tranne la necessità biologica di sostituire la perduta cogenza degli istinti con la norma. Quale che sia, purché funzioni..." (pp. 161-2). E qual è la conclusione politica? "Perciò la democrazia - dove la norma è istituita per la prima volta come autos-nomos - è artificiale, né più né meno che ogni altra forma di reggimento basato sull'eteronomia della norma (che proviene dall'Altro e dall'Alto)" (p. 162).

D'Arcais quindi non ritiene che nella preistoria si sia vissuta una democrazia migliore di quella odierna: al massimo è disposto a concedere un vantaggio al fatto che a quel tempo gli "istinti", non la "ragione", giocavano un ruolo molto più cogente di quello odierno, per cui, se si era "etici", lo si era di necessità, non per convinzione, come invece, grazie alla legge, lo si può essere oggi.

Oggi siamo antidemocratici o immorali perché non vogliamo rispettare leggi e consuetudini, non perché non ne avremmo le possibilità materiali e razionali. Ecco perché d'Arcais è contrario alla democrazia diretta: non crede nelle capacità autonome di autoregolamentazione. Cioè proprio mentre dice che sotto la democrazia si istituisce per la prima volta la necessità di una legge che aiuti a osservare le regole della stessa democrazia, sottraendola alla pretesa "naturalezza" delle società prive di diritto, fa di questa democrazia un diritto per pochi, un patrimonio per pochi eletti, pochi illuminati, che decidono in maniera delegata o rappresentativa per tutti gli altri, proprio perché hanno raggiunto "i gradi più alti degli studi" (p. 166).

Siccome l'essere umano è un fastello di contraddizioni, a causa delle quali non può sapere quale sia il proprio bene, è meglio che accetti l'idea di essere guidato dall'Altro e dall'Alto, limitandosi a intervenire quando questa eteronomia compie evidenti abusi. D'Arcais vuole solo aggiustamenti riformistici e considera pericolosa l'idea stessa di un superamento del sistema, anche perché è convinto che "non c'è logica nella storia, non ci sono cicli..." (p. 165). Tutto è affidato al caso, alla imponderabilità. L'intellettuale, per lui, è una sorta di sacerdote laico che deve spiegare agli altri come bisogna vivere in un mondo schizofrenico.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018