Solo per il petrolio

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


Solo per il Petrolio

Pietro Ratto

6 novembre 1914. L'inizio [1]

Le truppe inglesi, a tre mesi dall’inizio della Prima Guerra mondiale, sbarcano sulla penisola di Al-Faw, che si trova sul fiume Shatt el Arab, in pieno territorio ottomano. Due settimane dopo conquistano Bassora, città in cui, già dalla fine dell’Ottocento, possedevano il monopolio del commercio marittimo. Nel marzo del 1917 entrarono a Baghdad e nell’ottobre 1918 prendono Kirkuk.

 

Comincia così la conquista dei territori arabi, sottomessi al dominio turco, ricchi di giacimenti di petrolio, una risorsa energetica ormai ritenuta fondamentale dall’invenzione più importante della Seconda Rivoluzione Industriale: il motore a scoppio.

Per conquistare questi territori, che coincidono con buona parte dell’antica Mesopotamia, gli inglesi si servono dell’alleanza degli arabi, che sollevano contro gli oppressori ottomani con la promessa di un futuro di indipendenza. A tale scopo si mettono in contatto con il vecchio Sceicco della Mecca Hussein (Al Husayn), che così guida la rivoluzione araba dal 1916, partendo proprio dalla Mecca. Al suo fianco gli inglesi collocano alcuni “collaboratori”, il più importante dei quali è Lawrence d’Arabia, archeologo e spia di sua Maestà britannica. In questa rivolta si distingue particolarmente uno dei figli di Hussein, Feisal, a cui viene promesso il regno sui territori liberati dai turchi.

Gli arabo-inglesi si spingono fino a Gerusalemme, poi in Libano e in Siria. Alla fine del 1919 Feisal è re di tutti i territori conquistati, ma già nel 1920, in virtù dei vari trattati di Pace della fine della Grande Guerra, la Siria passa alla Francia e Feisal viene brutalmente deposto.

Le varie rivolte separatiste (come quella curda), scoppiate all’indomani della guerra, vengono sedate nel sangue.

Novantamila le vittime, in molti casi a causa delle armi chimiche.

Il vero intento degli inglesi è ormai sotto gli occhi di tutti. Ancora in piena guerra, nel 1917, d'altra parte, al sionista Edmond Rothschild - membro del ramo francese della potentissima dinastia di banchieri che dalla seconda metà del Settecento finanziava i grandi potenti della Terra - il Ministro degli Esteri inglese Balfour aveva promesso una massiccia presenza di ebrei in Palestina, venendo così meno alle assicurazioni britanniche nei confronti degli arabi, circa una loro indipendenza futura.

Marzo 1921, la nascita dell’Iraq

Alla fine della guerra, nel marzo ‘21, il neo ministro degli esteri inglese Winston Churchill si riunisce in un hotel del Cairo con i protagonisti della conquista dei territori ottomani e con loro decide di “inventare” un nuovo Stato con capitale Baghdad. Si opta per una monarchia guidata dall’accantonato Feisal. Il nome scelto per questo nuovo Stato è: Iraq, la cui storia inizia ufficialmente nell’agosto dello stesso anno.[2]

Feisal intraprende un percorso da subito molto difficile, dovendo governare su un’accozzaglia di etnie molto diverse tra loro: arabi sciiti e sunniti, ebrei, curdi, ecc. Il territorio è frammentato e controllato da un alto numero di sceicchi; per giunta i sunniti, pur in minoranza, detengono il potere sulla maggioranza sciita. A nord i curdi continuano a rivoltarsi e solo nel 1925 la zona di Mosul, particolarmente “calda” e inizialmente affidata alla Francia, viene assegnata all’Iraq britannico dalla Società delle Nazioni, in seguito all’uscita di scena dei francesi, più interessati a concentrarsi sulla rivalità coi tedeschi.

Comincia così un travagliato dominio britannico, teso allo sfruttamento delle risorse petrolifere di quelle terre, camuffato da monarchia indipendente governata da re Feisal.

Il delitto Matteotti. Un caso a sé?

Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti scompare misteriosamente, dopo aver pronunciato un duro discorso contro le violenze e le intimidazioni perpetrate dal fascismo durante la campagna elettorale appena conclusasi. Subito l’opposizione pensa ad un attentato esemplare, si realizza una forte campagna di propaganda antifascista che culmina nella famosa esperienza dell’Aventino delle coscienze e, come molti si aspettavano, Matteotti viene ritrovato senza vita il 16 agosto dello stesso anno. Seguiranno mesi di forte crisi per i seguaci del fascismo. Lo stesso Mussolini dovrà dimettersi dalla carica di Ministro degli interni (che ricopriva ad interim), e riuscirà in extremis a recuperare consensi solo col famoso discorso del 3 gennaio 1925, circostanza che molti considerano l’inizio vero e proprio della sua dittatura.

Seppure a lungo tale omicidio sia stato presentato come un vendetta contro uno dei nomi più in vista dell’antifascismo, sebbene il Duce sia stato sin da subito sospettato di essere stato il mandante di questo che fu considerato un delitto di natura esclusivamente politica, da qualche anno è ormai emersa una verità ancor più inquietante.

Il delitto Matteotti non fu un omicidio politico; ancora una volta si trattò di una delle tante vicende di corruzione, così tipiche della storia italiana. E ancora una volta, dietro a tutto, c’è il petrolio.

Matteotti, infatti, era entrato in possesso di scottanti documenti che parlavano di una cospicua tangente USA indirizzata al Duce in cambio del suo beneplacito circa la realizzazione di una joint-venture tra lo Stato italiano e la compagnia americana Sinclair Oil per lo sfruttamento esclusivo - da parte di quest‘ultima, in virtù del RDL n.677 del 4 maggio 1924 - di tutti i pozzi petroliferi eventualmente scoperti nel sottosuolo di circa una quarantina di chilometri quadrati di territorio italiano (dislocati nel Centro e nel Sud della penisola), e di quello della Libia, colonia italiana ritenuta particolarmente interessante dai petrolieri statunitensi). Su siffatto accordo - scandalosamente vantaggioso per la compagnia americana, che avrebbe riconosciuto allo Stato italiano solo il 40 per cento delle azioni di questa nuova società e soltanto un quarto degli utili derivati dallo sfruttamento del petrolio estratto - Matteotti aveva deciso di riferire in Parlamento il 12 giugno, ma due giorni prima venne rapito. I documenti di cui era in possesso il parlamentare socialista dovevano essere fatti sparire: costituivano la prova della corruzione del Duce, ma dimostravano anche il coinvolgimento del Re - detentore, a titolo privato, di molte azioni di questa nuova società - di alcuni membri della famiglia reale e di parenti dello stesso Mussolini.[3]

A questa ipotesi, ritenuta ormai l’unica verità da molti storici, si affianca quella dell’esecuzione ordinata dalle frange più estremiste del fascismo per innescare un clima di forte tensione tra il loro partito e la Sinistra, in quanto il Duce, da qualche tempo, non faceva segreto di volersi riavvicinare a quel Partito Socialista in cui era maturata la sua originaria vocazione politica. Ciò spiegherebbe il motivo per cui il Duce, in più occasioni, ribadì la propria estraneità all’attentato Matteotti.

Le due ipotesi, però, potrebbero anche non escludersi. L’omicidio del politico socialista potrebbe anche essere derivato da un concorso di cause.

Fatto sta che la valigetta sottratta a Matteotti durante l‘aggressione e contenente i documenti scottanti concernenti la questione dell’accordo petrolifero tra il Duce e gli Stati Uniti, riapparve  nelle mani del quadrumviro De Bono nel 1944, in occasione del famoso Processo di Verona. Il vecchio collaboratore del Duce, ormai da questi considerato un traditore poiché firmatario del Documento del 25 Luglio, tentò di barattare le carte segrete con la propria salvezza. Non ci riuscì e fu fucilato. La stessa valigetta ricomparve tra le braccia di Mussolini in occasione della sua cattura a Dongo, nel 1945.

Dopodiché sparì nuovamente.

I primi anni Trenta. Le mani dell’Italia sul petrolio iracheno

Nel frattempo, in Iraq, si susseguirono anni di ricerche tese a quantificare le effettive risorse di petrolio del paese, alla fine delle quali - nel 1930 - fu stipulato il Trattato anglo-iracheno, che vincolava l’Iraq a consultarsi coi britannici in materia di politica estera e che, tra l’altro, prevedeva una serie di basi militari inglesi sul territorio.

Quanto allo sfruttamento dei giacimenti, in modo ambiguo la compagnia inglese Iraq petroleum gestì per anni la situazione in via esclusiva, poi dovette cominciare a cedere alle pressioni USA, che recriminavano una propria partecipazione anche in virtù dell’appoggio fornito agli alleati nella Grande Guerra.

In seguito si fecero avanti anche Francia ed Italia.

Come ben spiega Benito Li Vigni (cfr. nota 1), Mussolini riuscì ad intraprendere un’ambigua politica estera che alternava dichiarazioni di amicizia agli inglesi a forti critiche nei confronti del loro colonialismo, sostenendo l’indipendenza delle popolazioni arabe. Il generale Mola, espressamente inviato dal Duce, giunse a Baghdad nel marzo 1930 e promise a Feisal il sostegno italiano per l’inserimento dell’Iraq nella Società delle Nazioni come Stato indipendente. Feisal lasciò intendere che avrebbe patrocinato volentieri la causa dell’inserimento degli interessi italiani nello sfruttamento dei giacimenti iracheni.

Nel 1931 l’Iraq firmò l’accordo con la britannica Iraq Petroleum, che avrebbe sfruttato i giacimenti nord-iracheni in cambio di una somma forfetaria.

Dopo lunghe trattative, nel maggio 1932 anche la Bod - compagnia petrolifera inizialmente inglese ma poi “partecipata” dalle compagnie di diverse nazioni europee tra le quali l’Italia, con la sua Agip (fondata nel 1926 da Mussolini) - otteneva dal governo iracheno la concessione, della durata di settantacinque anni, per lo sfruttamento di una vasta area sulla riva destra del Tigri. In virtù dell’accordo la Bod si impegnava a pagare una dead rent di cento mila sterline nel 1933, 125 mila nel ‘34, 150 mila nel ‘35, 170 mila nel ‘36 e 200 mila (circa ventisette miliardi delle vecchie lire a valore attuale), nel ‘37, anno in cui l’accordo sarebbe scaduto.

I vertici Agip esultarono. Il grande sogno italiano di poter attuare una propria politica petrolifera era iniziato. Nel frattempo, dati gli interessi in gioco, il generale Mola era stato sostituito del ministro degli esteri Grandi. Per lo stesso motivo nel luglio 1932 anche il Grandi fu costretto alle dimissioni (accusato di aver intrapreso una politica troppo filo-britannica) e la carica di Ministro degli Esteri passò al Duce, ad interim. Sullo sfondo un Hitler sempre più potente si accingeva ad egemonizzare la scena europea. E questo particolare il Duce non poteva trascurarlo. Nel 1934 l’Inghilterra cominciò a chiedere una proroga del pagamento della dead rent dichiarando di non esser momentaneamente in grado di onorare il suo impegno. Quasi sicuramente la verità non era quella. L’Inghilterra cercava di far decadere l’accordo per inadempienza, in modo da firmarne uno nuovo che tagliasse fuori altre compagnie straniere come la stessa Agip. Anche la Francia cominciò a dichiarare la propria difficoltà a versare la sua quota. L’Italia intuì il trucco e comunicò apertamente all’Iraq le difficoltà inglesi e francesi, giocando d'anticipo.

D’altra parte il Duce si era già fatto scappare un’altra occasione. Dal 1933 il sovrano della neonata Arabia Saudita, Ibn Saud, ben impressionato dall’ostentata politica filo-araba del Duce, aveva dichiarato la propria intenzione di coinvolgere la nostra nazione nello sfruttamento dei pozzi petroliferi sauditi, probabilmente al fine di controbilanciare l’ingombrante presenza dell’americana Standard Oil, compagnia californiana che minacciava di esercitare in quei territori un vero e proprio monopolio (e che di fatto si sarebbe aggiudicata di lì a poco una concessione eccezionale, sbaragliando tutta la concorrenza). In quell’occasione l’Italia non si era però dimostrata in grado di far fronte agli ingenti investimenti, indispensabili per accettare l’invito di Saud. Nel ‘35 si sarebbe limitata, infatti, a proporre al sovrano uno scambio tra dodicimila cammelli sauditi (!) da usare nell’imminente spedizione in Eritrea ed un grosso carico di armi, a cui gli arabi si erano mostrati molto interessati. Scambio che, per giunta, non sarebbe avvenuto mai!

L’occasione dello sfruttamento del petrolio iracheno, quindi, non doveva assolutamente sfuggire al Duce, che decise di contrarre un grosso prestito con una banca svizzera, riuscendo a coprire a sorpresa la quota inglese e quella francese. Di colpo la partecipazione dell’Agip al pacchetto azionario della Bod passava al 53%; l’Italia diventava azionista di maggioranza!

Quanto alle modalità di trasporto del petrolio estratto in Iraq, dopo una serie di calcoli si decise che sarebbe stato più conveniente portarlo in Italia servendosi delle ferrovie piuttosto che provvedere alla realizzazione di uno specifico oleodotto.

3 ottobre 1935. L’attacco all’Etiopia

Il clamoroso successo italiano nella gestione dei pozzi petroliferi iracheni fu fuoco di paglia. In seguito ad un incidente diplomatico verificatosi al confine con la Somalia, l’Italia cedette definitivamente alla tentazione di invadere l’Etiopia, territorio che apparteneva alla sfera di influenza italiana dalla fine della Grande Guerra. Da anni il Negus Selassié, sul trono etiopico dal 1930, aveva mostrato di non aver alcuna intenzione di comportarsi da vassallo del Duce, il quale da tempo nutriva ormai il forte desiderio di riprendersi quella che era stata una colonia italiana fino alla clamorosa disfatta di Adua (1896). L’ambizione di un’Italia “imperiale” era ormai, per Mussolini, assolutamente irresistibile.

Va detto, però, che molti erano gli uomini politici, anche di opposizione, che caldeggiavano l’impresa; persino grandi nomi dell’antifascismo come Rosselli o Labriola, persino il “Presidente della Vittoria” Vittorio Emanuele Orlando, avevano assicurato la propria personale adesione alla campagna di Etiopia.

Se però il 3 ottobre le truppe italiane entravano in territorio etiope (facendo ampio uso di armi chimiche al fine di collaudare un nuovo tipo di guerra in prospettiva di un nuovo conflitto mondiale, ormai nell‘aria), già il 7 la Società delle Nazioni condannava l’aggressione, dietro una fortissima spinta inglese. Le sanzioni economiche nei confronti dell’Italia furono durissime, ma l’embargo che venne stabilito a carico della nostra nazione, incredibilmente, non riguardò in alcun modo l’approvvigionamento di petrolio.

Se infatti la Società delle Nazioni avesse disposto anche un embargo petrolifero nei nostri confronti, la guerra in Etiopia si sarebbe immediatamente conclusa. Le operazioni militari italiane in quella terra, infatti, avevano moltiplicato il fabbisogno di carburante necessario a muovere tutti i mezzi militari utilizzati. Il petrolio iracheno di spettanza dell’Italia non era certo sufficiente per coprire il fabbisogno totale di carburante in patria e sui campi di battaglia; dunque la chiusura delle importazioni estere di petrolio nella nostra nazione avrebbe stroncato sul nascere il sogno dell’Impero. Ma l’embargo sancito dalla Società delle Nazioni non riguardò il petrolio, e il motivo fu di poter ottenere dal Duce, in cambio di questo “favore“, l’uscita di scena dell’Italia dal giro d’affari in Iraq su cui aveva appena messo le mani!

Una mattina di fine novembre 1935, quindi, Mussolini convocò il Presidente dell’Agip, Umberto Puppini, e gli diede un ordine perentorio. Abbandonare i pozzi iracheni per “il bene della Patria”.

La conquista dell’Etiopia era stata definitivamente barattata con gli interessi petroliferi italiani in Iraq.

Il Duce, da quel momento, amplificò la sua politica araba; finanziò segretamente la lotta palestinese antibritannica atteggiandosi a paladino dell’indipendenza dei popoli arabi. Il tutto fino agli accordi di Monaco, quando i rapporti italo - britannici conobbero una momentanea fase di distensione. Nel frattempo, in piena autarchia, richiamò i cittadini al sacrificio eroico del proprio benessere in cambio del prestigio dell’Impero, chiese alle donne italiane di offrire sull’Altare della Patria le loro fedi d’oro, s’inventò - con scarsissimo successo - una produzione alternativa di carburante intensificando la produzione di carrube, barbabietola, mais, da distillare per ottenere l’alcol necessario da mischiare con la benzina, importata dall’estero. La distillazione, però, necessitava di carbone, che andava comunque comprato dagli altri Paesi, comportando così una spesa complessiva persino maggiore di quella necessaria per l’acquisto di pari quantità di benzina! “Robur”, così fu pomposamente chiamato questo carburante italiano, costituito dal 52% di alcol vegetale mischiato alla benzina, tanto propagandato quanto rapidamente abbandonato.

Il tutto per far fronte a quelle sanzioni internazionali (embargo su armi e munizioni, blocco di qualsiasi prestito e credito all’Italia, divieto da parte di tutte le altre Nazioni di importare prodotti italiani e di esportare nella nostra penisola le loro merci, naturalmente carburanti a parte!), che, di fatto, non vennero applicate mai e furono revocate già dal luglio ‘36, a Campagna d’Etiopia ormai conclusa!

Un’altra guerra

Tra le molteplici cause della Seconda Guerra mondiale l’approvvigionamento di petrolio costituisce una delle motivazioni fondamentali. Dalla sua ascesa al potere Hitler aveva potenziato sempre più gli impianti di produzione di carburante sintetico, in modo tale da rendersi il più possibile autonomo dalle importazioni straniere. All’inizio del 1940 poteva infatti contare su un 46% di carburante di propria produzione; relativamente ai mezzi militari, poi, il sistema tedesco di idrogenazione copriva addirittura il 95% del fabbisogno totale. Ma il petrolio restava una priorità, per i tedeschi, che, pur impossessatisi immediatamente dei pozzi polacchi, norvegesi, francesi e belgi con l’inizio delle ostilità, consideravano obiettivo della massima importanza la conquista delle risorse petrolifere russe. Questo, in realtà, fu il principale motivo della disastrosa Operazione Barbarossa, finalizzata anche alla messa in sicurezza dei pozzi rumeni della zona di Ploesti, da cui veniva estratto il 60% del fabbisogno tedesco ed il 20% di quello italiano. L’operazione fu da Hitler ritenuta non più procrastinabile quando l’URSS, nel giugno 1940, occupò buona parte della Romania nord orientale con la scusa di poter far fronte alle forniture di carburante nei confronti della Germania, così come previsto dal patto Molotov-Von Ribbentrop, ma il Führer si insospettì e decise di avviare quanto prima l’occupazione del territorio sovietico, puntando soprattutto ai giacimenti di Baku, nel Caucaso.

Quanto all’Italia, Churchill fece di tutto per “comprare” la sua neutralità, promettendo in cambio - oltre alle province “irredente” rimaste ancora in mano nemica alla fine della Grande guerra - Nizza, la Corsica, la Tunisia settentrionale, la Savoia francese. Le lettere con cui il cancelliere inglese prometteva tutto ciò sono state scoperte da poco. E’ altresì vero, però, che alle trattative “bonarie” Churchill affiancò iniziative a dir poco minacciose, come il fin troppo sottovalutato blocco navale realizzato dalle navi inglesi dall’inizio del 1940 con l’intento di interrompere i traffici commerciali tra l’Italia e le proprie colonie. Il tutto per spingere il Duce su posizioni molto più estreme rispetto a quella semplice non belligeranza prospettata da Churchill; queste misure tendevano, in realtà, a costringere l’Italia a schierarsi decisamente contro Hitler, a fianco degli inglesi.

Mussolini, però, reagì in senso contrario e si legò definitivamente al Führer ed alla sua folle spedizione in territorio sovietico.

Anche la ritirata italo tedesca in Russia ha a che fare con il petrolio. Le riserve di carburante cominciarono a scarseggiare già al momento dell’ingresso nella periferia di Mosca. Il generale Inverno fece il resto. La svolta decisiva dell‘ingresso in guerra degli USA, poi, non potrebbe nemmeno venir adeguatamente compresa senza pensare che l’embargo petrolifero imposto dagli americani al Giappone costituì uno dei due motivi dell’attacco nipponico su Pearl Harbour. L’altro motivo, d’altra parte, fu il tentativo giapponese di neutralizzare la flotta americana così da permettere alle proprie forze militari di invadere indisturbate il Sud est asiatico e le Indie olandesi, territori - manco a dirlo - pieni di giacimenti petroliferi!

Quanto all’Iraq, l’Italia approfittò della guerra per tentare di organizzare un golpe filofascista e riprendersi, così, le proprie quote petrolifere. Il tutto facendo leva sul sentimento antibritannico iracheno, amplificato proprio dal conflitto mondiale. Hitler, dal canto suo, approvava questo tipo di manovre, che oltre tutto potevano seriamente disturbare l’Inghilterra sottraendole il carburante necessario per procedere nell’attività bellica.

L’occasione si presentò quando l’Inghilterra, facendo leva sul Trattato anglo iracheno del 1930, chiese ufficialmente al governo di Baghdad (17 aprile ‘41) di permettere lo sbarco delle proprie truppe a Bassora; il governo rispose con un netto diniego ma gli inglesi sbarcarono ugualmente dando inizio ad una serie di scontri con le forze militari irachene. Così Germania ed Italia inviarono i propri aerei (il Duce riuscì in realtà a mettere insieme una flotta quasi ridicola, composta da soli tredici velivoli), e negli ultimi giorni di maggio si scatenò la Battaglia di Baghdad, conclusasi però con una disfatta degli iracheni ed il ritiro della flotta italo tedesca. Ciano, nei suoi diari, commenterà: “Questa è la prova evidente dell’impreparazione della nostra aereonautica”.

La duplice sconfitta di El Alamein (sulla quale, tra l’altro, gravò moltissimo la carenza di carburante sofferta delle forze dell’Asse), stroncò definitivamente ogni ambizione di un Commonwealth mediterraneo, più volte vagheggiato dai due dittatori. E disintegrò anche l’ultima speranza di Hitler: riprovare a raggiungere i giacimenti petroliferi di Baku, passando per la Palestina, l’Iran e l’Iraq.

Fermare Mattei

Nel frattempo re Feisal era morto misteriosamente, a Berna, nel 1933. Sotto il debole potere del figlio, Feisal II, si verificò una serie di tentativi di golpe, come quello del 1936, ed un lungo periodo di vuoto di potere di fatto gestito da una forte presenza britannica, fino all’ascesa alla carica di primo ministro di Al Ghaliani, che portò l’Iraq su posizioni filo fasciste, rifiutando agli inglesi, come abbiamo visto, il permesso di sbarcare nel suo regno e dando il via alla Battaglia di Baghdad. Ma, come detto, gli inglesi ebbero la meglio, riuscirono a reintrodurre nel governo iracheno i loro uomini e nel 1948 stipularono con Al Ghaliani un nuovo Trattato, che di fatto prolungava il loro protettorato sulla zona di altri vent’anni.

La popolazione irachena si ribellò a lungo alla sudditanza nei confronti degli inglesi, sempre più solidale con il colonnello Nasser, che in Egitto, in nome della nazionalizzazione del Canale di Suez e della totale indipendenza del proprio Paese, nel 1952 procedeva alla rivoluzione repubblicana deponendo re Faruk e proponendosi come il nuovo leader internazionale del movimento indipendentista arabo. Così, nel 1958, i rivoltosi guidati dal generale Abdul Karim Kassem trucidarono Feisal II ed altri politici e parenti a lui vicini, inneggiando più a Nasser che allo stesso Kassem. Questi, in Iraq, inaugurò una politica fortemente anti britannica, e pretese, tra l’altro, di riprendersi il controllo delle proprie risorse petrolifere. Il nuovo leader voleva il totale controllo dell’Iraq, e per ottenerlo non esitò a far accusare di tradimento, destituire ed arrestare il primo ministro Aref, colpevole di essersi pericolosamente schierato a favore del progetto di una Repubblica Araba Unita guidata da Nasser. Una successiva sommossa pro-Aref fu sedata da Kassem grazie all’aiuto del partito comunista locale, cui poi fu riconosciuta una schiacciante maggioranza nel successivo governo.

A rivoluzione non ancora conclusa l’Iraq si precipitava a chiamare l’Italia per riprendere le trattative fermatesi all’epoca del Duce, al fine di gestire il proprio petrolio in joint venture con qualcuno che salvaguardasse i diritti dell’economia irachena molto più dei petrolieri inglesi. E non si rivolse genericamente all’Italia. Si rivolse ad Enrico Mattei. Il Presidente dell’ENI si era infatti distinto per aver appena siglato un eccezionale accordo petrolifero con l’Iran, che riconosceva molti vantaggi al Paese produttore sbaragliando così la concorrenza britannica. La sua formula, che era pronto ad offrire anche a Kassem, consisteva in un sistema chiamato “25/75”. In pratica l’ENI anticipava tutte le spese di ricerca di eventuali nuovi giacimenti; nel caso ne fossero stati trovati, il Paese produttore avrebbe allora versato la metà dei costi sostenuti diventando socio paritetico dell’ente italiano. I profitti sarebbero stati divisi al 50%  ma l’ENI si sarebbe obbligato a versare al fisco del Paese produttore la metà del proprio profitto! Tale sistema, inoltre, permetteva al Paese ospitante di maturare proprie capacità imprenditoriali, partecipando in tutto e per tutto alla gestione amministrativa e strategica degli affari petroliferi sul proprio territorio. Nulla a che vedere con lo sfruttamento (tramite cifre forfetarie erogate allo Stato produttore in cambio di un utilizzo esclusivo dei pozzi e di un profitto al 100%), da decenni imposto dai britannici!

Cominciarono così i contatti italo iracheni, all’insaputa degli inglesi, proprio in contemporanea con quelli stabiliti da Mattei con l’URSS, che consistevano in uno scambio (sancito definitivamente nel 1960), di grosse proporzioni tra il petrolio sovietico e la gomma sintetica italiana unitamente ad attrezzature e macchinari petroliferi di nostra produzione. Il tutto scatenò le ire e le proteste degli USA contro Mattei, colpevole di fare affari con i comunisti, sia  russi che iracheni!

Il modo “etico e solidale” di fare affari del petroliere italiano (Giorgio La Pira, sindaco DC di Firenze in quegli anni, definì quello del Presidente dell’ENI un impegno di liberazione ed emancipazione), suscitò critiche a ripetizione da parte degli inglesi e degli americani, mentre diffuse l’entusiasmo e l’interesse per una gestione italiana delle proprie riserve petrolifere in giro per i Paesi arabi (in Egitto, ove fu siglato un analogo accordo, in Marocco - il cui re Maometto V non esitò a recarsi a Firenze per parlare con Mattei addivenendo poi ad un effettivo trattato con la solita formula - ma anche in paesi come la Tunisia e l’Algeria, per i quali il nome del petroliere italiano cominciò ad essere legato ai propri progetti di indipendenza dalle potenze coloniali europee).

Cominciarono i dissidi politici interni all’Italia e il Presidente del Consiglio Fanfani prese le distanze da Mattei per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, dato che lo stesso Segretario di Stato americano Dulles considerava ormai il Presidente dell’ENI una minaccia nei confronti degli obiettivi politici americani.

In un clima di grande tensione Mattei decise di sfidare gli americani avviando contatti segreti con l’Iraq, al fine di perfezionare l’accordo. In conseguenza della sua vantaggiosa offerta, nel 1961 Baghdad decise di strappare alle compagnie petrolifere inglesi il 99,5% delle aree in concessione, determinata a consegnarle nelle mani dell‘ENI. Contemporaneamente il nuovo presidente americano Kennedy inaugurò una politica tesa a migliorare le relazioni americane con Mattei, conquistato dai valori etici, ma anche dall’enorme influenza in territorio arabo, del petroliere italiano. Venne così avviata una trattativa tra l’ENI e l’americana ESSO, patrocinata proprio dall’amministrazione Kennedy. Restava però il problema dei rapporti tra Mattei e l’URSS, rapporti che agli americani continuavano a non andar giù. Fanfani, nel settembre 1962, ordinò a Mattei di non acquistare più petrolio russo. Mattei, in tutta risposta, decise di spostare i suoi finanziamenti dalla corrente fanfaniana a quella di Aldo Moro, pienamente d’accordo con la sua linea “etica”. A fine settembre Kassem annunciava trionfalmente la nascita della compagnia petrolifera nazionale irachena (la Inoc), preannunciando l’imminente accordo con l’ENI. Contemporaneamente stava per essere siglato un trattato tra l’ente italiano e la Libia!

Il 26 ottobre 1962, però, l’aereo personale di Mattei esplodeva in volo, precipitando a Bescapè, vicino a Linate. Il Presidente dell’Eni stava recandosi negli USA per essere ricevuto da Kennedy, il quale, per altro, sarebbe stato ucciso di lì a poco.

Il Giudice Vincenzo Calia ha indagato per un decennio sull’incidente aereo di Mattei, combattendo giorno dopo giorno contro il segreto di stato imposto dai servizi segreti italiani sulla vicenda. Le sue indagini hanno portato alla certezza, da parte dello stesso magistrato, circa la matrice dolosa dell’incidente. Ma il 24 gennaio 2001 l’onorevole Giovanardi ha chiesto ed ottenuto dal Ministro della Giustizia di imporre al magistrato di non perdere tempo a soddisfare la sua vocazione di romanziere sottraendosi ad indagini ben più serie.

Nel 2004 Calia ha depositato una sentenza di archiviazione, negando l‘ipotesi dell‘esplosione precedentemente da lui stesso provata.

All’indomani della morte di Mattei l’ENI ha ripreso la vecchia linea tornando indietro sui propri passi, facendo cadere i vari trattati e lasciando spazio alla vecchia politica di sfruttamento delle compagnie angloamericane.[4]

1975. La morte di Pasolini

Negli ultimi mesi di vita, Pier Paolo Pasolini si dedicò con molto impegno al suo libro Petrolio, incentrato sugli interessi che ruotano attorno a questa risorsa e sui legami tra petrolio e strategia della tensione. Un numero sempre maggiore di studiosi e di storici sono convinti che la morte prematura, violenta, dello scrittore - avvenuta nel 1975 in circostanze in realtà ancora misteriose - potrebbe aver poco a che fare con le dinamiche omosessuali inizialmente tirate in ballo per spiegare l’omicidio. L’uccisione a sfondo sessuale sembra sempre più una copertura costruita appositamente per mascherare un’esecuzione, volta a far sparire un uomo di grande apertura mentale e di grande intelligenza, che criticava aspramente le logiche di potere di molti “intoccabili”, a livello nazionale ed internazionale. Uno dei reali motivi di questo omicidio, forse, potrebbe essere quel famoso “appunto 21” scomparso dal libro sopra citato e contenente, secondo alcuni, verità imbarazzanti per molti politici e per i vertici dell’ENI di quegli anni. Il senatore Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e conclamato “anello di congiunzione” tra la mafia ed il potere politico italiano, sostiene di essere in possesso del prezioso capitolo, che però non ha mai mostrato pubblicamente. E se taluni studiosi ritengono che questo appunto possa anche non essere mai esistito, altri si richiamano ad uno dei capitoli successivi di Petrolio, in cui l’autore lo cita espressamente. D’altra parte non è un segreto che la sorella di Pasolini abbia denunciato il furto di alcuni scritti del fratello, immediatamente dopo la sua morte.

1979: Saddam Hussein al potere

Kassem pagò caro il proprio nazionalismo e le proprie alleanze comuniste. Nel febbraio 1963 gli americani organizzarono ed appoggiarono un colpo di stato guidato proprio da quel colonnello nasseriano Aref - che Kassem a suo tempo aveva fatto arrestare - affiancato dall’organizzazione estremista Ba’ath, che tra i propri esponenti comprendeva anche Saddam Hussein. I successivi conflitti tra i due schieramenti arrivati al potere si risolsero con la vittoria dei nasseriani. Lo stesso Saddam finì, per un breve periodo, in carcere. Nel ‘66 Aref morì in un incidente aereo, gli succedette il fratello. Nel contempo i pozzi petroliferi erano saldamente tornati nelle mani delle compagnie anglo americane, con buona pace dell’ENI presieduta dal successore di Mattei, Eugenio Cefis.

Nel 1968 fu la volta di un colpo di stato ba’athista, con un Saddam Hussein sempre più in privilegiato dagli USA per le sue inclinazioni “filoamericane”. Negli anni a seguire si verificarono gravissime persecuzioni nei confronti delle minoranze etniche (a partire da quella curda) e dei comunisti, epurati definitivamente nel 1979 attraverso eccidi ed esili forzati. Nello stesso anno Saddam Hussein effettuò un colpo di mano collocandosi al vertice dell’Iraq ed assumendo il controllo di tutte le principali cariche politiche. Leader di un Paese che dal 1975 gli USA avevano aiutato a diventare la nazione con il più micidiale arsenale militare di tutto il Medio Oriente.

Pupillo degli americani, Saddam Hussein condusse con il loro appoggio la Guerra contro l’Iran (1980-1988), caratterizzata da enormi massacri, bombardamenti a base di armi chimiche, deportazioni ecc. Dopo aver erogato finanziamenti e fornito armamenti (secondo un programma che coinvolse massicci aiuti economici e militari all‘Iraq anche da parte delle altre nazioni occidentali, Italia inclusa), l’appoggio americano divenne diretto negli ultimi due anni, periodo nel quale il 70% degli attacchi all’Iran partirono da unità statunitensi. Anche questa guerra è da inquadrarsi nella solita febbre da petrolio. Da anni gli USA stavano cercando di mettere le mani sui pozzi iraniani, vanificando così i precedenti - odiatissimi - accordi tra l’Iran e l’ENI di Mattei. Tutti gli sforzi della CIA per collocare al comando del Paese un governo filoamericano si erano però infranti contro la rivoluzione (16 gennaio 1979) dell’ayatollah Khomeini, leader religioso che aveva rovesciato il governo dello scià, molto vicino agli USA. Il 22 settembre 1980, però, gli aerei di Saddam avevano bombardato le principali basi militari iraniane dando inizio alla lunga guerra e fornendo così agli Stati Uniti un utile strumento di conquista di quel Paese.

A guerra ultimata, un Saddam ormai troppo potente divenne improvvisamente un Satana. L’invasione del Kwait, dettata dalle sue mire imperialistiche e dalla sua sete di egemonia in Medio Oriente, fu il pretesto ideale per permettere agli USA di invertire improvvisamente la propria politica nei confronti dell’Iraq ed avviare, nel 1991, la prima Guerra del Golfo, che terminò con il perentorio nei confronti di Saddam, da parte dell’ONU, di distruggere qualsiasi arma di distruzione di massa in suo possesso. Un argomento che gli americani avrebbero riutilizzato per giustificare i successivi attacchi all’Iraq.

Le Oil pipeline e le Gas pipeline che trasportano petrolio e gas dall’Oriente all’Occidente

La svolta. L’11 settembre

Il nome di Osama Bin Laden non è una novità del cosiddetto “attacco” alle Twin Towers. Nel 1993, all’indomani del primo attentato al World center di New York, il suo nome era stato pronunciato per la prima volta dai mass media. Sicuramente, però, figurava negli archivi della CIA dalla metà degli anni ‘80, quando il terrorista saudita era stato proficuamente utilizzato dagli americani nella guerra contro i russi, in Afghanistan.

L’attentato dell’11 settembre 2001, però, fornì un validissimo pretesto agli USA al fine di inaugurare un periodo nuovo, fatto di continue intromissioni nella privacy delle persone in nome della sicurezza e, soprattutto, di una guerra ininterrotta “contro il terrorismo”. Guerra che, naturalmente, si concretizzò in un’aggressione all’Iraq motivata con l’urgenza di eliminare Saddam Hussein - considerato, dagli Stati Uniti, in stretto collegamento con Al Qaeda - e cancellare le sue “armi di distruzione di massa”. L’imperativo di trovare assolutamente le prove del possesso, da parte del dittatore iracheno, di armi nucleari in grado di minacciare la sicurezza del pianeta trovò una valida risposta - secondo un‘inchiesta dell’agenzia giornalistica statunitense Knight Ridder - in un documento fornito da tal Rocco Martino, agente  Sismi (il servizio segreto militare italiano), consegnato a metà ottobre 2001 alla CIA tramite una giornalista (ed il suo direttore Carlo Rossella), di Panorama, il settimanale del premier Silvio Berlusconi. Il dossier, finalizzato a costituire la prova della spedizione di diverse tonnellate di uranio del Niger all’Iraq, fu accuratamente studiato e poi considerato falso dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che avvisò G. W. Bush  il 3 marzo 2003. Il Presidente USA, però, decise ugualmente di attaccare l’Iraq da lì a breve, il 20 marzo, ignorando l’avvertimento. Dal Niger Gate e dallo stesso Rocco Martino prese le distanze sia il capo del Sismi, Nicolò Pollari (che pure, secondo l’inchiesta del Knight Ridder, era presente alla consegna del dossier), sia lo stesso governo Berlusconi.

D’altra parte, le reali motivazioni che spinsero l’America e i suoi alleati (a cominciare dall’Italia), ad invadere l’Iraq, emergono anche soltanto dal dossier del Ministero delle attività produttive del governo Berlusconi, datato 21 febbraio 2003, che ad un certo punto afferma:

“Esiste un’elevata possibilità che entro la metà dell’anno venga rovesciato da un’azione militare guidata dagli USA il regime di Saddam Hussein […] L’Iraq ha stabilito una serie di accordi commerciali nel settore degli idrocarburi […] la contromossa americana sembra consista nel garantire il mantenimento degli accordi […] Forse anche l’Italia potrebbe giocare la stessa carta per le iniziative dell’Eni circa i giacimenti di Halfaya e Nassiria.”

Un successivo dossier del 5 aprile 2004, intitolato “La ricostruzione dell’Iraq”, ribadirà le aspettative italiane nei confronti di “considerevoli benefici economici” e sottolineerà nuovamente l’interesse della nostra nazione a cogliere tutte le opportunità della spedizione militare in Iraq.

Quanto all’invasione dell’Afghanistan, presentata al mondo come necessaria contromisura nei confronti del regime dei talebani e della loro attività terroristica, non si può non considerare, invece, come rientri perfettamente nella logica di possesso che gli americani hanno sviluppato rispetto ai giacimenti petroliferi mondiali.

Obiettivo USA fu, in realtà, quello di sostituire il regime talebano con un governo amico in grado di permettere la realizzazione di una grande rete di oleodotti prevista dalla cosiddetta Dottrina Clinton. La realizzazione, cioè, della terza direttrice di pipeline (oltre all’oleodotto inaugurato nel 2005, che collega l’Azerbaigian alla costa turca passando per la Georgia, ed a quello che porta il greggio dal Mar Nero alla Macedonia, servendo così l’Europa), in grado di trasportare petrolio da Oriente ad Occidente senza passare per la Russia e collegando, nello specifico, il Turkmenistan al Pakistan, passando proprio per l‘Afghanistan. Nella seconda metà degli anni Novanta l’America aveva sostenuto i talebani, coi quali aveva instaurato un ottimo rapporto. Questa setta integralista di studenti delle università sunnite (appoggiati dal governo pakistano), aveva preso il sopravvento dopo il ritiro delle truppe russe (entrate nel Paese nel 1979 per sostenere il governo filosovietico di Babrak Karmal e poi costrette a ritirarsi nel 1989 a causa delle continue rivolte dei guerriglieri mujaheddin), e dopo il successivo governo del presidente Rabbani (che i talebani avevano arrestato nel 1992 mutilandolo, trascinandone il corpo legato ad una gip  per poi appenderlo con una corda e sparargli un colpo alla testa). Dal 1999, però, gli USA avevano cominciato a comprendere che i talebani, troppo nazionalisti, non sarebbero stati in grado di assicurare l’appoggio ai progetti statunitensi, ed avevano deciso di cambiare strategia. L’incontro a Berlino del luglio 2001 tra tre funzionari americani, il ministro degli esteri pakistano Naik e diversi capi talebani, servì a proporre a questi ultimi un governo di unità nazionale filoamericano. Il rifiuto talebano fu preso malissimo dagli americani, che - come lo stesso Naik ha poi raccontato in un‘intervista alla Bbc - minacciarono di invadere l’Afghanistan entro la metà di ottobre.

L’attentato dell’11 settembre, guarda caso, fornì agli USA un ottimo motivo per dar corso alla minaccia. Attentato appositamente procurato o azione preventiva di Bin Laden? Sta di fatto che l’attacco all’Afghanistan fu confezionato con tutti i crismi, visto che, come nel 2005 ha spiegato Norman Solomon nel suo War made easy. How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death, il Pentagono versò ben trecentonovantasettemila dollari allo studio di pubbliche relazioni Rendon Group, per trovare il modo di promuovere nell’opinione pubblica americana l’idea dell’assoluta necessità di bombardare quelle terre.

L’Oleodotto Baku – Ceyhan, che collega l’Azerbaijan alla Turchia passando per la Georgia

Il Petrolio all’origine delle “rivoluzioni colorate”

Non è d’altra parte un mistero che molte delle vicende internazionali di questi anni siano da ricollegare alla solita questione del petrolio. Le elezioni presidenziali in Georgia, ad esempio, che nel 2003 avevano visto la vittoria del Presidente in carica Shevardnadze (un tempo ministro degli esteri sovietico e, dal ‘95, presidente di questo Stato), vennero contestate e considerate “truccate” dagli stessi americani, che sostenevano invece il candidato filo-americano Saakashvili. Il risultato - dopo giorni di scontri in piazza tra le opposte fazioni, in quella che è stata chiamata la Rivoluzione delle rose” - fu la ripetizione delle votazioni popolari, con conseguente vittoria di quest’ultimo. Manco a dirlo, in Georgia passa il suddetto oleodotto che convoglia in Occidente il petrolio estratto in Azerbaijan, ed un presidente georgiano amico non poteva che venir considerato dagli USA un’importante garanzia per i loro interessi petroliferi. Non a caso, all’apertura dei Giochi Olimpici Pechino 2008, tra Russia e Georgia si è alzata improvvisamente la tensione e si sono verificati forti scontri fatti passare dall’opinione pubblica occidentale come una riprovevole aggressione russa. In realtà il motivo del contendere - le tensioni autonomistiche dell’Ossezia del Sud, regione georgiana a maggioranza russa, che i russi avrebbero appoggiato per danneggiare “l’indifesa” Georgia, va compreso alla luce del fatto che a ridosso del territorio osseto passa proprio quell’oleodotto, e che l’esercito georgiano, con l’aiuto americano, nei giorni precedenti aveva dato il via ad una “pulizia etnica” nei confronti dei russi osseti, proprio per garantire agli USA l’utilizzo indisturbato di quell’importante regione

Per non parlare dell‘Ucraina e della sua recente Rivoluzione arancione. Paese di grande importanza strategica dal punto di vista energetico, dato il gigantesco gasdotto che passa nel suo territorio, visse giorni drammatici in occasione delle elezioni del 2004, contestate e ripetute così come da copione. Il candidato filoamericano Juscenko, perdente in prima battuta, ne uscì improvvisamente vittorioso (dopo una campagna elettorale violenta ed aspra finita con un avvelenamento alla diossina ai danni dello stesso Juscenko, super propagandato dagli scandalizzati media occidentali ma risultato poi falso dagli esami di laboratorio della clinica Rudolfinerhaus di Vienna ove il politico era stato ricoverato).

In tutta risposta il Primo ministro - ed ex Presidente - russo Putin, in modo piuttosto scaltro ha portato a conclusione nel 2009 la stipula di un accordo tra l’ENI ed il colosso energetico russo Gazprom per lo sfruttamento del gas e del petrolio della Siberia e per il relativo trasporto in Europa tramite il percorso detto South Stream, bypassando così l’Ucraina, ormai decisamente in mano agli USA. Si tratta dell’ultima fase di una trattativa iniziata nel novembre 2006 per la realizzazione del gigantesco Gasdotto del Mar Baltico, che collegherà Russia a Germania aggirando proprio i territori ucraini.

Il progetto South Stream

La Guerra tra Usa ed Europa

Gli accordi economici (e non solo di natura petrolifera), stipulati tra il nostro continente e diverse nazioni orientali, la nascita dell’Unione europea ed il suo costante allargamento, l’introduzione di una moneta unica forte come l‘euro, sono tutti fattori che hanno indebolito l’economia americana ed inasprito i rapporti tra USA ed UE.

Un esempio fra tutti la rivalità incrociata acciaio/agricoltura: la politica agricola europea - fin dagli anni Novanta tesa a sostenere gli agricoltori comunitari con sussidi tali da avvantaggiare gli stessi sui mercati internazionali - suscitò continue lamentele americane, fino ad indurre gli USA ad imporre clamorosamente, nel marzo del 2002, dazi del 30% su tutte le importazioni europee di acciaio in America. La questione finì davanti alla WTO (World Trade Organization) di Ginevra, che il 20 marzo 2003 diede ragione all’UE costringendo l’USA ad azzerare i dazi. Non era la prima volta: l’anno prima la WTO aveva condannato gli USA per la loro concorrenza sleale nei commerci internazionali, basata su una fitta rete di società offshore atta a far risparmiare alle aziende statunitensi parecchi carichi fiscali. Questa volta l’Europa fu autorizzata da Ginevra ad applicare dazi punitivi nei confronti delle importazioni americane, per un totale di 4 miliardi di dollari. Per non parlare del blocco imposto da Bruxelles al consumo di prodotti agricoli OGM, vera e propria battuta d’arresto per le importazioni americane in Europa di questo genere di merci.

Soltanto a vantaggio dell’economia americana va inteso il provvedimento adottato il 21 settembre 2003 e teso ad inaugurare l’era del dollaro debole. Gli Stati Uniti, infatti, da quel giorno hanno svalutato la loro moneta così da ottenere notevoli vantaggi nelle esportazioni. E questo anche se le prime reazioni dei mercati azionari si sono concretizzate, l’indomani, in una forte perdita di quasi tutti i titoli, a Wall Street così come nelle principali borse europee ed asiatiche.

Il petrolio, naturalmente, tra le motivazioni di tensione USA-EU non può mancare. La scelta dell’Iraq (2002), e successivamente dell’Iran, di utilizzare l’euro per regolare i propri contratti petroliferi ha alzato di molto la tensione internazionale, già alle stelle a causa dell’intenzione americane di monopolizzare (insieme alla Gran Bretagna), vaste zone petrolifere del Medio Oriente, a cominciare proprio dall‘Iraq.

Quanto al rapporto con gli altri continenti, gli USA sono determinati ad evitare che si crei un asse Europa-Asia che possa tagliarli fuori dallo sfruttamento delle risorse energetiche mondiali. In quest’ottica, forte risentimento americano è stato suscitato dagli accordi tra i Paesi europei e quelli balcanici, per la costruzione dei futuri oleodotti in grado di trasportare il greggio ed il gas dal Mar Nero all’Adriatico.

Ma la questione delle riserve di petrolio non potrà che peggiorare sempre più, nel corso degli anni, i rapporti tra i due continenti. D'altra parte, una conseguenza di questa rivalità mascherata da amicizia non potrebbe essere, ad esempio, la crisi economico finanziaria ed il crollo delle Borse europee verificatisi dall'estate 2011 ?

La fine del gioco

Le risorse mondiali di petrolio sono state stimate intorno ai mille miliardi di barili. Le attuali riserve irachene si aggirano intorno ai duecento miliardi, ma secondo L’Energy Information Agency del Dipartimento americano per l’energia nella zona sud occidentale dell’Iraq potrebbero trovarsi quantitativi pari ad altri cento miliardi. Le riserve irachene, insomma, costituirebbero il 30 per cento di quelle mondiali.

Calcolando che l’attuale consumo mondiale di petrolio si aggira circa sui cento milioni di barili al giorno, le riserve irachene potrebbero bastare per poco più di una decina di anni, forse per quindici, nell’ottica del processo di risparmio energetico innescato negli ultimi tempi.

E’ comunque evidente che la partita tra le grandi potenze mondiali interessate allo sfruttamento dei pozzi in Iraq sia di capitale importanza. Questo ha portato ad esempio, negli ultimi tempi, ad un’accesa rivalità tra le compagnie petrolifere anglosassoni e l’Eni, che dal 2005 è diventata la prima compagnia straniera nel vicino Iran. Questo non ha fatto altro che peggiorare i rapporti con gli americani, già esasperati dalla suddetta scelta di Saddam Hussein, e successivamente dell’Iran, di regolare i propri rapporti petroliferi in euro. Scelta che ha avuto innegabilmente un forte peso sulla decisione americana di invadere l’Iraq.

D’altra parte l’intera area mediorientale, particolarmente ricca di giacimenti petroliferi, è da considerarsi di immensa importanza per il futuro dell’energia che muove il pianeta. La vittoria elettorale che ha portato alla guida dell’Iran l’ex sindaco di Teheran Ahmadinejad, noto fondamentalista islamico, ha esasperato le tensioni ed allontanato di più gli USA dall’obiettivo di accaparrarsi anche il petrolio iraniano. L’ostilità del nuovo Presidente iraniano nei confronti di Israele e i suoi più volte annunciati propositi di riprendere la conversione dell’uranio per inaugurare un nuovo processo di produzione di armamenti nucleari, hanno fatto il resto. Per quanto Israele sia la quinta potenza nucleare mondiale ed i suoi missili siano puntati su tutte le principali città del Medio Oriente, per gli americani il vero problema è rappresentato da “Paesi canaglia” come l’Iran e l’Iraq. All’indomani dell’11 settembre Israele si scatenò in una terribile serie di massacri in territorio palestinese. Nessuno osò dir nulla, sulla scia del forte risentimento anti-arabo di quei giorni. E nella questione arabo-palestinese l’Iraq ha sempre giocato un ruolo favorevole agli arabi, rifiutando costantemente qualsiasi accordo con Israele. Invadere l’Iraq ha significato anche, per gli USA, la possibilità di mettere fuori combattimento il grande rivale dell’alleato israeliano. Non è un segreto, d’altra parte, che nel corso degli anni Novanta Saddam abbia versato “compensi” di venticinquemila dollari ad ogni famiglia di un kamikaze morto in un attentato contro Israele. Né lo è la crescente ostilità dello stesso dittatore di Baghdad nei confronti di un Arafat sempre più disposto al dialogo.

La favola di Nassiriya

Dal momento in cui l’Iraq è stato occupato dalle forze della Nato, all’Italia è stata affidata l’area di Nassiriya, che si trova nella zona meridionale del Paese. Un’area particolarmente suggestiva, il cui territorio è disseminato di fessure dalle quali escono lingue di gas, che brucia costantemente. Quelle stesse fessure a cui gli antichi si riferivano parlando delle “fornaci ardenti” in cui il re Nabucodonosor gettava i suoi nemici e che, secondo Plutarco, avevano così fortemente impressionato il grande Alessandro Magno, quando gli abitanti del luogo avevano pensato di spaventarlo dando fuoco ad una strada interamente cosparsa di petrolio.

In quell’area l’esercito italiano è ufficialmente impegnato in una missione di pace - denominata suggestivamente Antica Babilonia - orientata, tra l’altro, alla conservazione ed al recupero dei beni archeologici locali. Ma l’interesse della nostra nazione nei confronti di questo territorio ha origini non recenti, dato che già nel 1997 Saddam Hussein aveva stipulato un accordo con l’Eni e con la spagnola Repsol per lo sfruttamento dei giacimenti di Nassiriya. La reale motivazione della presenza italiana in quelle zone, quindi, pare proprio essere un’altra. Come ha riconosciuto il 13 maggio 2005 a Rai News 24 lo stesso senatore Ventucci, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio : “Se a Nassiriya c’è una fonte energetica importante con oleodotti e raffineria è giusto che noi tuteliamo tutto questo nell’interesse del popolo iracheno. E non è un male se poi noi possiamo fare qualche affare …”. Per non parlare della successiva gaffe del sottosegretario, che ad un certo punto afferma che il petrolio iracheno servirà per far fronte ai maggiori consumi di India e Cina (riconoscendo così l’implicita idea di poter disporre liberamente delle risorse irachene, pur tirando in ballo Paesi che in alcun modo avevano approvato la spedizione in Iraq).

Lo stesso squilibrio che si evince dal bilancio delle spese del contingente militare italiano in quelle zone (8% in operazioni di pace, 92% per finanziare azioni militari), parla chiaro. “Le imprese italiane si sono aggiudicate, a partire dall’inizio delle operazioni di ricostruzione del 2003, contratti di valore”, afferma una Relazione sulla politica informativa e sicurezza dell’Intelligence italiana, relativa al primo semestre 2005. Anche se il meglio delle occasioni toccheranno agli USA, dato che la Halliburton (società di cui è stato vicepresidente Dick Cheney), il gruppo Bechtel (vicino al Segretario di stato americano George Shultz), ed altre grandi multinazionali USA gestite da importanti politici statunitensi, si divideranno la gran parte degli appalti per ricostruire case, edificare ed amministrare scuole e ospedali, in un giro di affari stimato in una decina di miliardi di dollari all’anno per parecchi anni. Naturalmente senza fare i conti con la fonte di guadagno di gran lunga più importante: il petrolio.

Nel documento dell’11 novembre 2004 inviato alla Camera dall’allora Ministro degli Esteri Franco Frattini, scritto ad un anno dalla Strage di Nassiriya - in cui il 12 novembre 2003 erano morti diciassette militari e due civili italiani a causa dell‘esplosione di due camion-bomba condotti da kamikaze - si trova scritto: “Il nostro impegno nelle missioni di pace rappresenta un solido investimento. […] Possiamo attenderci considerevoli benefici economici dalla stabilizzazione di regioni sensibili per i nostri approvvigionamenti e per le prospettive di apertura di nuovi mercati e di nuove aree di collaborazione”. A fargli eco, il 23 gennaio 2005, il Presidente della Commissione difesa della Camera, Gustavo Selva, in un’intervista sul quotidiano Libero: “Basta con l’ipocrisia dell’intervento umanitario. E’ ora di prendere atto che la natura dell’operazione “Antica Babilonia” è inadeguata alla realtà del terreno. […] Abbiamo dovuto mascherare “Antica Babilonia” come operazione umanitaria perché altrimenti dal Colle non sarebbe mai arrivato il via libera”.

La questione dei beni archeologici

Il 9 aprile 2003 la città di Baghdad cade in mano ai marines. Il 10 aprile i soldati americani entrano nella sede del Ministero del Petrolio, prendendone possesso. Circa duecento hard disk di altrettanti computer del ministero vengono trafugati dalle forze militari. Una mole impressionante di dati strategici sulla dislocazione ed il funzionamento di tutti gli impianti petroliferi del Paese, nonché di progetti relativi a nuovi oleodotti e depositi, finisce nelle mani degli USA.

Sembra l’unica cosa che conti, mentre migliaia di saccheggiatori depredano i grandi musei archeologici di quella che per millenni è stata la leggendaria Mesopotamia. Come ha rilevato il National Geographic Society in un sopralluogo effettuato da suoi autorevoli archeologi, importantissimi siti come il cimitero di Dahaila - risalente a 3700 anni fa ed ora ridotto ad un colabrodo dai tombaroli - l’Arco di Ctesifonte - che si trova a sud di Baghdad e nelle cui vicinanze l’edificio che contiene l’affresco della battaglia di Kadisiyed (scoppiata tra arabi e persiani nel VII sec.), risulta devastato dai saccheggi - il Museo archeologico di Baghdad - la cui Galleria assira è stata letteralmente depredata dei suoi inestimabili tesori - e altre mitiche località come l’antica Ninive, Hatra, Nimrud, Girsu, Babilonia, presentano gli irreparabili sfregi di un saccheggio incontrollato.

Il Paese degli orrori

Il Presidente Bush, una volta occupato l’Iraq, nominò governatore L. Paul Bremer. Appena insediatosi Bremer procedette allo smembramento dell’esercito iracheno. Tutti i quattrocentomila soldati vennero mandati a casa. Ad essi si aggiunsero i cinquantamila membri del partito ba’athista, quasi tutti sunniti. Un vero e proprio disastro economico per loro e le loro famiglie, per un totale di quasi tremila persone. Più di un decimo dell’intera popolazione irachena privato di qualsiasi forma di reddito.

Successivamente Bremer - da subito impegnato, tra l’altro, a fronteggiare l’inaspettata ostilità della componente sciita, a cui evidentemente non bastava l’eliminazione di Saddam, considerando comunque gli americani degli invasori da cui liberarsi - promulgò ben novantasette decreti, tutti orientati a garantire agli USA il controllo del petrolio dell’intera regione. Misure, queste, che andavano a sovrapporsi, in modo piuttosto ridondante, alla risoluzione ONU 1483, che già prevedeva che tutte le rendite petrolifere irachene venissero convogliate nel Fondo per lo Sviluppo, naturalmente gestito dagli USA attraverso il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

In linea con quanto afferma il giornalista Massimo Fini nel suo libro Il vizio dell’Occidente (“Bin Laden non è che l’ombra dell’Occidente, è una risposta fondamentalista, integralista, totalitaria ad un sistema che nonostante si definisca, in buona fede, democratico e liberale, è fondamentalista, integralista, totalitario.”), l’America ha imposto da subito, in Iraq, le stesse misure autoritarie e liberticide attuate all’indomani dell’11 settembre e giustificate sulla base dell’emergenza sicurezza. La famosa Patriot Act dell’ottobre 2001 - che consente alla CIA di dichiarare “terroristica” qualsiasi organizzazione, nazionale o straniera, a proprio insindacabile giudizio - assomiglia a molti dei provvedimenti elaborati dalle forze di occupazione in Iraq.

Le foto scattate nelle carceri di Abu Ghraib e di Guantanamo, che mostrano le condizioni di centinaia di musulmani accusati in qualche modo di essere terroristi, parlano chiaro. Maltrattamenti, offese gravissime alla dignità dei reclusi, scene al limite del sadomaso e dell’horror. Prigionieri denudati e trascinati sul pavimento da soldatesse che li tengono al guinzaglio, o picchiati a sangue, assaliti da cani feroci, costretti ad assistere ad atteggiamenti oltraggiosi nei confronti del Corano … Inoltre da più parti si sono levate dure critiche nei confronti della CIA, accusata di essersi avvalsa anche di carceri dell’Europa dell’Est, presso le quale i suoi aerei hanno più volte fatto scalo scaricando prigionieri destinati ad un vero e proprio “tour” di torture prima in Polonia, poi in Romania, ecc …

Ignominia e vergogna nei confronti degli americani che si sono macchiati anche di rappresaglie degne della peggiore repressione nazista, come nel caso della reazione dell’esercito USA al linciaggio di quattro suoi soldati avvenuto su una strada di Falluja il 31 marzo 2004.

Il massacro di Falluja

1500 marines, uno sproposito di elicotteri (Cobra e Apache), con contorno di Tank, F15 e carri armati, hanno scatenato quel giorno un bombardamento di una violenza assoluta con bombe ad alta pressione, facendo saltare in aria sei minareti ed una moschea (in cui sono morte quaranta persone), uccidendo centinaia di persone che cercavano di attraversare a nuoto l’Eufrate e causando la fuga di altre duecentomila rimaste senz’acqua e senza cibo. L’azione militare, condannata poi dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, non è stata però l’unica, in quella zona.

Nel novembre dello stesso anno, è stata la volta del Fosforo bianco, un agente chimico di estrema pericolosità “sperimentato” proprio sui cittadini di quella città. La tecnica scelta era incredibilmente subdola. Un iracheno intervistato dalla giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena ha raccontato che due sue vicine di casa, a Falluja, avevano ricevuto l’ordine dagli americani, di “disinfettare le loro case prima di abbandonarle. I soldati avevano procurato loro alcuni bidoni di “polvere bianca” con cui lavare i pavimenti, e le avevano costrette ad intraprendere subito l’opera, allontanandosi rapidamente. Le donne avevano cominciato il lavoro ma, appena versata la polvere dai bidoni, avevano cominciato a sanguinare ovunque, accusando dolori terribili. (Naturalmente non era stato l’unico modo adottato. La presenza sospetta di giganteschi nuvoloni bianchi sollevatisi sulla zona durante i bombardamenti notturni, ad esempio, era stata spiegata dagli americani come una particolare tecnica militare finalizzata ad illuminare la zona o a nascondere le proprie azioni militari, ma la vera natura di quella polvere bianca non era sfuggita a nessuno). Relativamente alla testimonianza raccolta, la giornalista aveva deciso di intervistare le due donne su cui gli americani avevano “sperimentato“ il fosforo bianco, ma il 4 febbraio 2005 era stata improvvisamente rapita; l’atto era stato ufficialmente rivendicato da una organizzazione appartenente alla resistenza irachena antiamericana.

Durante la prigionia, Giuliana Sgrena si era chiesta molte volte il motivo del suo rapimento, data la sua manifesta contrarietà nei confronti di quella guerra. A distanza di qualche tempo dalla sua liberazione, infatti, le organizzazioni della resistenza le avrebbero fatto sapere di non aver avuto nulla a che fare con l‘accaduto, e di condannare decisamente l’episodio atto soltanto a screditare la loro stessa attività.

La sera del 4 marzo 2005 la giornalista venne liberata grazie all’intervento del dirigente del SISMI Nicola Calipari, che la prelevò e la fece salire in auto per portarla all’aeroporto di Baghdad e metterla su un aereo per l’Italia. A meno di un chilometro dall’aeroporto una raffica di mitragliatrice partì dal posto di blocco USA n° 541, raggiungendo la loro automobile. Nicola Calipari si precipitò addosso alla Sgrena, facendole istintivamente scudo col proprio corpo e rimanendo ucciso sul colpo dai proiettili americani. La giornalista venne ferita, ma si salvò. Il governo italiano pretese chiarimenti, domandando  più volte una commissione di inchiesta comune USA - Italia. L’indagine venne però condotta esclusivamente dagli USA, rivelandosi a tutti gli effetti un colpo di spugna. La parallela inchiesta condotta dalla Procura di Roma non ottenne per altro alcuna collaborazione americana.

E la questione fu chiusa così.

Negli anni successivi Giuliana Sgrena avrebbe denunciato un grave aumento di leucemie e tumori tra gli abitanti della zona colpita dai bombardamenti chimici. Nel 2011, all’interno del suo sito web, la giornalista del Manifesto - poi entrata anche in politica - ha spiegato ad esempio come, nei cinque anni precedenti, si siano verificati in quella stessa area quasi seimila casi di malattie sconosciute, la metà dei quali a carico di bambini.

La strage di Falluja (8-12 novembre 2004), nel corso della la quale gli americani hanno anche fatto largo uso, oltre che del famigerato fosforo bianco, di Napalm MK77 (un gas in grado di provocare incendi davvero apocalittici), rientrava nell’obiettivo di punire quella che era ritenuta la base dei guerriglieri sunniti impegnati a sabotare gli oleodotti. Se il nome di questo gas evoca un inquietante passato, va chiarito che anche il fosforo bianco fu impiegato in Vietnam. Lo utilizzò anche lo stesso Saddam Hussein negli anni Ottanta contro i curdi. Il suo effetto consiste nel penetrare all’interno della carne e bruciare da dentro l’ossigeno contenuto negli organi e nei tessuti, sciogliendoli fino alle ossa. Ossigeno di cui, naturalmente, sono invece privi gli abiti; il pregio del fosforo bianco sta infatti nel non intaccare i vestiti, nascondendo così i devastanti effetti che procura internamente. Il suo raggio d’azione, per giunta, è di circa 150 metri. “Una pioggia di fuoco è scesa sulla città - ha ricordato il biologo Mohamad Tareq al-Deraji, fondatore del “Centro studi sui i diritti umani” di Falluja, in un’inchiesta realizzata il 18 novembre 2004 per Rai News 24 da Sigfrido Ranucci - la gente colpita da queste sostanze ha cominciato a bruciare. Abbiamo trovato persone morte con strane ferite, i corpi bruciati ed i vestiti intatti”.

In quel novembre 2004 il Napalm e il Fosforo bianco furono largamente impiegati dagli americani anche sui civili, su donne e bambini. L’intera Falluja fu considerata “obiettivo militare”. Pino Arlacchi, ex vicesegretario dell’ONU, in quella stessa inchiesta di Rai News 24 ha sostenuto che questa strage abbia messo in discussione “ogni autorità morale dell’Occidente […] fornendo al terrorismo internazionale una sorta di legittimazione.”

Falluja, però, non è soltanto la città più importante del “triangolo sunnita” fedele a Saddam. La violenza spropositata con cui è stata attaccata va ben al di là dell’intento di reprimere le sacche di resistenza ostili agli americani, in quelle zone soprannominati “gli Alì Babà”, in riferimento alle loro ruberie all’interno delle abitazioni, ai loro maltrattamenti nei confronti degli abitanti, alle loro molestie sessuali o perquisizioni immotivate ai danni della popolazione. Falluja si trova, in realtà, in una zona molto strategica, attraversata com’è dall’oleodotto che porta da Kirkuk a Bassora, passando per Baghdad. Un condotto che taglia da nord a sud tutto il Paese. Su quella zona, che include i gangli vitali del sistema energetico centrosettentrionale dell’Iraq, gli americani avevano posato gli occhi da tempo. Su di essa avevano deciso di investire miliardi di dollari e di stabilire un controllo assoluto, a tutti gli effetti ostacolato da un‘inarrestabile guerriglia sunnita. L’uccisione dei quattro soldati USA linciati per strada e poi appesi ad un ponte dai ribelli sunniti il 31 marzo 2004 fornì l’utile pretesto per l’assedio di tutta la zona. Ma l’episodio non poteva certo motivare, da solo, una presa definitiva dell’intera area sunnita, soprattutto in fase di elezioni presidenziali in America, nel corso della cui campagna elettorale il Presidente in carica stava faticando non poco contro la crescente delusione dei suoi cittadini circa l’andamento del conflitto. La rielezione di George W. Bush, avvenuta il 2 novembre 2004, sciolse però ogni riserva. Sei giorni dopo partì l’attacco finale di una battaglia considerata da tutti la più feroce mai condotta dagli USA in un centro urbano, dopo quella del 1968 ad Hue, in Vietnam.

Note

[1] Molto del contenuto di questo articolo lo si deve al bellissimo libro di Benito Li Vigni, autentico braccio destro di Mattei, In nome del Petrolio, Editori Riuniti UP, 2006.

[2] Cfr. anche C. Catherwood, La follia di Churchill. L'invenzione dell'Iraq, Corbaccio, Milano, 2005

[3] Come ha affermato lo storico Mauro Canali (convinto tra l'altro che il silenzio della vedova Matteotti fu "comprato" dal Duce), in un'intervista rilasciata al periodico "Oggi 2000" (n. 51), "I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che il mandante dell'omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair. Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l'eliminazione del suo avversario politico".

[4] Cfr, anche la conferenza tenuta nel 2008 da Benito Li Vigni a questo indirizzo.

Fonte: www.incontrostoria.it/Petrolio2.htm


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018