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EPOCA MODERNA
La botanica come vera e propria scienza iniziò solo tra la fine del '400 e l'inizio del '500, grazie alle scoperte geografiche (i conquistadores spagnoli scoprirono orti botanici presso gli aztechi) e all'invenzione della stampa. Il nuovo mondo fece conoscere nuove piante medicinali e commestibili, imponendo una revisione critica di tutte le conoscenze fin allora acquisite. P.es. nel 1536 gli indiani irochesi del Quebec salvarono la vita all'equipaggio del colonizzatore J. Cartier, guarendolo dallo scorbuto. Nessuno a quel tempo in Europa conosceva l'origine di quella malattia, la mancanza di vitamica C. Ermolai Barbari cercò sia di uniformare la grande varietà di vocaboli usati, che di creare paralleli fra gli antichi testi, permettendo una visione d'insieme più comprensibile (cfr. Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam). E' noto che nell'antichità le opere botaniche illustrate avevano figure ben disegnate e facili da riconoscere, anche se, con la perdita progressiva della trasmissione orale della conoscenza, la semplice rappresentazione pittorica delle piante non agevolava affatto il lavoro degli esperti del settore, se è vero che già Plinio sosteneva che i rizotomi e i farmacopoli del suo tempo ritenevano spesso insufficienti le descrizioni che permettevano il riconoscimento delle piante medicinali. In ogni caso, mentre quelle descrizioni si basavano prevalentemente su osservazioni dirette, nelle successive trascrizioni amanuensi le figure subirono un inevitabile processo di semplificazione e stilizzazione, fino a diventare quasi del tutto irriconoscibili. Sicché nel XVI secolo, per venire incontro alle scarse conoscenze dei medici nel campo della botanica curativa, nacquero i primi "erbari secchi", che favorirono una più esatta identificazione delle piante. Questo fu possibile dopo l'invenzione della stampa (1440). E' la stampa che permette l'edizione nel 1469 a Venezia della Naturalis Historia di Plinio e quasi dieci anni dopo la versione latina, curata da P. A. Mattioli, della celebre opera di Dioscoride. E che permette anche l'edizione nel 1498 del Ricettario fiorentino, la prima farmacopea scritta in volgare, in grado non solo di superare lo scollamento, causato dal latino, tra dottori/speziali e pubblico, ma anche di uniformare le prescrizioni e la preparazione dei medicamenti, riducendo il numero elevato di piante medicinali agli esemplari più significativi o più usati o più reperibili sul mercato. Sancendo regole precise che assicurassero un futuro allo speziale, che non poteva essere confuso col "droghiere", essa sperava altresì di arginare i crescenti episodi di ciarlataneria e di sofisticazioni Servendosi delle lezioni dioscoridea e galenico-araba, essa descrive piante, droghe, medicamenti nelle loro proprietà, nelle procedure compositive e dissociative, nelle modalità di confezione. Il Ricettario fu così importante che la seconda edizione, mezzo secolo dopo, restò nella sostanza immutata. La sua autorevolezza la compresero bene anche gli autori dell'Antidotario Mantovano (1506) e di quello Bolognese (1575), che su quello si basarono quasi completamente, a differenza invece di quello Romano (1675), in grado di avvalersi dell'apporto collaudato delle erbe provenienti dal Nuovo Mondo. Va detto tuttavia che gli speziali, nella pratica quotidiana, tendevano a privilegiare le farmacopee private, meno soggette a limitazioni legislative e più capaci di fornire informazioni "extra" su ogni singolo farmaco e sulla sua preparazione farmaceutica. Lo dimostra il notevole successo che ebbe, soprattutto nella Repubblica Veneta, il Lessico Chimico Farmaceutico di Giovanbattista Capello. Per tutto il periodo rinascimentale, sino alla fine dell'800, la botanica ha avuto carattere sistematico, avvalendosi di opere iconografiche sempre più fedeli agli originali naturali, al punto che proprio nel Cinquecento il suo insegnamento viene separato dalla farmacologia e farmacognosia. Ne restò affascinato anche Leonardo da Vinci, che studiò p.es. la fillotassi, il geotropismo negativo, la spinta radicale e i cerchi annuali negli alberi. Tuttavia la riproduzione scientifica a stampa degli erbari e delle opere di botanica non influì affatto sulla divulgazione popolare dell'uso delle piante, quanto piuttosto sulla possibilità di formare una categoria di medici specializzati, in possesso di diplomi accademici. Le conoscenze popolari, prevalentemente rurali, marciavano su binari paralleli e, per molti versi, antagonistici, come testimoniano i tristissimi episodi europei, tra il 1560 e il 1630, della cosiddetta "caccia alle streghe". L'Herbarium Apuleii Platonici ad Marcum Agrippam è il più antico erbario illustrato di epoca moderna pervenutoci, stampato a Roma nel 1481 dall'umanista siciliano J. P. de Lignamine, il quale disse d'essersi basato su un manoscritto conservato nel monastero di Montecassino: vi sono descritte 130 piante. A esso fece seguire altre pubblicazioni, edite anche in Germania. Qui infatti fu pubblicato nel 1530-32, dal tedesco O. Brunfels, l'Herbarium Vivae Icones, che descrive cento generi di piante e contiene, per la prima volta, figure xilografiche di 271 specie. Molto famoso anche quello del bavarese L. Fuchs (padre della botanica tedesca), apparso a Basilea nel 1542, col nome di De Historia Stirpium (New Kreuterbuch l'anno dopo), ove le piante raffigurate sono in grandezza naturale e dove è presente il primo tentativo di stilare una loro nomenclatura scientifica, sicuramente molto più precisa rispetto a quella del contemporaneo Brunfels. Fu rapidamente tradotto in tedesco e francese e ristampato in edizione di dimensioni ridotte per lo studio universitario. Quello del botanico tedesco H. Bock (Tragus), uscito a Strasburgo nel 1546, contiene 465 xilografie, cui ne sono state aggiunte altre 70 nell'edizione del 1551. Tra gli italiani sicuramente il più importante testo scritto in volgare è quello del medico senese P. A. Mattioli (1500–77), Commentarii in Dioscoridem, del 1544, tradotto in quattro lingue con più di 60 edizioni, di cui la prima con oltre mille illustrazioni di piante a tutta pagina. Mattioli non fu un accademico ma il suo lavoro enciclopedico, vero repertorio di tutta la scienza medica e botanica del tempo, divenne un testo universitario molto apprezzato. Non a caso egli fu considerato il fondatore della Botanica farmaceutica, cioè come colui che tentò per primo di congiungere due discipline che proprio allora avevano iniziato a separarsi. In particolare Mattioli tentò di ripristinare la medicina dei tempi di Dioscoride, ridimensionando di molto la materia medica medievale. A suo parere, infatti, molti dei classici erano stati distorti a causa della componente alchimistica della tradizione araba, e anche perché le troppe traduzioni, dal greco all'arabo e dall'arabo al latino, avevano corrotto il messaggio originario. Tale opinione gli venne contestata da chi faceva osservare che proprio grazie agli arabi gli erbari avevano introdotto piante del tutto sconosciute in Europa. Mattioli comunque aumentò il De Materia Medica di Dioscoride di circa quattrocento piante (soprattutto della regione Alpina), mai descritte prima. E nonostante non s'avvalse mai di una collezione di esemplari essiccati, il successo di quest'opera tra gli speziali si prolungò sino alla metà del XIX secolo. E non solo di quest'opera, ma anche di quella rivolta espressamente alle donne: la Tavola di tutti i Semplici Medicamenti (1568), che fece il punto delle conoscenze dell'arte cosmetica, inaugurando una nuova serie di trattati, dagli Ornamenti delle donne (1574) di Giovanni Marinello al De Arte Comptoria di Giovanni Colle. Il che indurrà Onorato Castiglioni a introdurre per la prima volta delle nozioni di cosmesi nel suo Antidotario Milanese (1678). W. Turner, uno dei primi scrittori di ornitologia e botanica inglese, pubblicò nella sua lingua nel 1551 il New Herball, il più noto di tutti i suoi lavori, che rappresentò una pietra miliare nella storia della botanica e dell’erboristeria del suo paese, al punto che nel 1790 gli fu attribuito il titolo di "Padre della Botanica Inglese". In Inghilterra era molto conosciuto anche l'erbario del botanico J. Gerard, del 1597, soprintendente dei giardini di William Cecil, consigliere della regina Elizabeth. Il suo Herball tuttavia, là dove non cita le piante del suo proprio giardino e dell'America del Nord, si basa prevalentemente sul Cruydboek del medico fiammingo e botanico R. Dodoens del 1554, il quale a sua volta deve molto al testo, già citato, di Fuchs. La prima cattedra universitaria di Lectura semplicium (botanica sperimentale) fu istituita a Padova nel 1533, seguita subito dopo da Bologna (1539), dove la cattedra di Botanica era tenuta dal docente Luca Ghini, che richiese anche un Orto dei Semplici ove coltivare le piante medicinali da far riconoscere ai propri allievi. L’indifferenza del senato accademico di fronte alla sua richiesta lo indussero ad accettare l'offerta del granduca di Toscana, che lo voleva anche come medico personale, di trasferirsi a Pisa, ottenendo l’appoggio necessario per fondarvi, intorno al 1544, l’Orto botanico. L’Orto pisano è oggi ritenuto da molti il più antico del mondo, sebbene il primato gli sia contestato dall’Orto botanico di Padova (1545) e persino dal Viridarium Novum, sorto grazie a papa Nicolò V, che dal 1447 raccoglieva tra le mura vaticane piante giunte da ogni dove. Si pensi che quelli di Londra e di Parigi verranno realizzati un secolo dopo, nel 1631 e 1635, quello di Berlino nel 1815 e quello di New York, nel Bronx, alla fine del XIX secolo. Quello di Parigi, coi suoi oltre 10 milioni di campioni, è il maggiore del mondo. Luca Ghini, che nel 1550 fondò anche l’Orto botanico di Firenze, si può considerare uno dei più insigni botanici di tutti i tempi, maestro di A. Cesalpino (fondatore della moderna Sistematica vegetale), di P. A. Mattioli, di U. Aldrovandi e di altri insigni botanici. Fu il primo autore di un "erbario" nel senso moderno del termine: alla sua scuola dobbiamo, infatti, l’idea di sostituire gli "erbari figurati" del Medioevo con erbari veri, costituiti da piante o parti di esse disseccate, sottoponendole a forte pressione tra fogli di carta (hortus siccus). Tutte le opere di Ghini, gli erbari e i disegni sono andati perduti, ci rimane solo quanto riportato da alcuni suoi allievi come Maranta, Anguillara, Cesalpino, ma soprattutto Aldrovandi (1519-1605), che lo sostituirà nella cattedra di botanica. La Storia Naturale del naturalista, botanico e entomologo Ulisse Aldrovandi (1522-1605), considerato da Linneo e da Buffon il fondatore della Storia Naturale moderna, contribuì a dare un notevole impulso al rinnovamento delle scienze naturali (e della botanica in particolare) nel XVI secolo. Egli realizzò uno dei primi musei di storia naturale, in cui si potevano studiare 18.000 "diversità di cose naturali" e 7.000 "piante essiccate in quindici volumi". Nel 1561 inaugurò la prima cattedra di scienze naturali a Bologna con il nome di "Lectura philosophiae naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalibus". Su sua proposta il Senato bolognese istituì nel 1568 l'Orto Pubblico, che fu diretto per i suoi primi 38 anni dall'Aldrovandi stesso. A causa di una disputa con i farmacisti e dottori di Bologna sulla composizione di una medicina popolare, nel 1575 fu sospeso da ogni carica pubblica per cinque anni. Nel 1577 riottenne la docenza grazie all'intervento di papa Gregorio XIII (cugino di sua madre), il quale gli diede anche un aiuto finanziario per la pubblicazione delle sue opere. Alla sua morte (1603) lasciò l'intero patrimonio scientifico al Senato di Bologna. Durante il Rinascimento si sviluppa la concezione della "segnatura", accennata in Matteo Silvatico (1285-1342) detto il Pandettario, medico della Scuola Salernitana, e teorizzata, nella sua lingua madre, da Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelso (1493-1541), alchimista, erborista e farmacista, astrologo, medico e filosofo svizzero. Con lui inizia il periodo degli studi chimici, che precorre la sintesi dei prodotti. La scienza si concentra sul principio attivo della pianta, che lui stesso chiamò "quinta essentia", e grazie ai suoi studi arriverà alla scoperta degli alcaloidi e dei glucosidi allo stato puro. Le "droghe" o "essenze", fino allora considerate un tutto inscindibile, diventano così un insieme di sostanze fra loro selezionabili ed estraibili, usabili separatamente o insieme. Lo "speziale" ora è un vero e proprio "farmacista". Influenzato dal clima riformistico della sua epoca, Paracelso, puntando sull'esperienza medica diretta, fece bruciare pubblicamente dai suoi studenti i testi di Ippocrate, Galeno ed Avicenna, bollandoli come ignoranti in materia medica (per questo gesto venne chiamato "il Lutero dei medici"), e sviluppò una teoria, quella appunto della "segnatura", che di scientifico aveva assai poco. Ingenuamente infatti egli riteneva che dio avesse "segnato" con segni indelebili i farmaci, affinché l'uomo fosse in grado di riconoscerli facilmente. Così, p.es., la pulmonaria avrebbe foglie macchiate di bianco per ricordare i polmoni che deve curare. L'eufrasia, il cui fiore ricorda la forma dell'occhio, serve per le malattie di quest'organo. Anche se con questa teoria casualmente si scoprirono reali virtù medicamentose, il merito principale di Paracelso (dal punto di vista dell'evoluzione chimica della fitoterapia) sta piuttosto nell'aver intuito che si poteva estrarre dalle piante il loro principio attivo, isolandolo da tutto il resto, nella convinzione che potesse avere una maggiore efficacia nella cura delle malattie. Oltre a questo, decisivo fu il suo contributo, per la nascita della chimica farmaceutica, nella preparazione di numerosi sali metallici, dello zolfo precipitato, dell'arsenico, dell'ossido rosso di mercurio e di molti altri composti. Nelle "officine della salute" (i primi laboratori della nascente protochimica), lo speziale si trasforma decisamente in alchimista e la sua scienza diventa uno dei pilastri della medicina moderna. Paracelso diceva che gli alchimisti devono estrarre come i minatori e raccogliere come gli agricoltori, per produrre farmaci. Il suo aforisma antigalenico era "similia similibus curantur", che però, alla resa dei conti, aveva più valore antropologico che farmacologico, nel senso che i malati andavano curati più con un buon medico che con una buona medicina. In effetti, non essendoci ancora un riscontro effettivo, dimostrabile, dei nuovi preparati alchemici, a fini terapeutici, le teorie di Paracelso arrivavano in realtà a relativizzare cure e malattie, anticipando addirittura la cura palliativa denominata "effetto placebo". Non a caso i suoi seguaci arriveranno ad abolire totalmente l'uso delle piante, dando inizio a quella parte della chimica che studiava i medicamenti, detta "iatrochimica". Curioso il fatto però che proprio lo studio accurato del bilancio dei fluidi corporei si ponesse decisamente nella scia tracciata diversi secoli prima da Ippocrate, il cui insegnamento era stato decisamente accantonato da Paracelso e dai suoi seguaci. Nella distillazione comunque si cominciarono ad usare prodotti nuovi: solventi, alcool e acido acetico. Il ricercatore svedese Scheele fu presto in grado di isolare alcuni principi attivi come l'acido ossalico, citrico, gallico e malico. In Inghilterra, nell'arco di circa mezzo secolo, furono pubblicati importanti erbari illustrati di J. Gerard (1597), J. Parkinson (1640) e N. Culpeper (1652). Quest'ultimo tradusse in inglese la Pharmacopeia Londinensis, il principale manuale latino dei medici accademici del tempo, attirandosi ovviamente le loro ire, e scrisse nel 1652 Il medico inglese (Compleat Herbal and English Physician), in cui proponeva, non senza evidenti esagerazioni, soluzioni economiche per curarsi da soli, evitando gli esosi rimedi dei farmacisti del tempo. Divenne in breve tempo l'erborista più popolare: solamente Shakespeare e la Bibbia lo superarono nel numero di ristampe. La categoria dei medici cercò di reagire pretendendo un monopolio esclusivo nella cura delle malattie, ma il re Enrico VIII lo impedì, favorendo anzi una tradizione praticamente ininterrotta di uso di piante medicinali negli ospedali inglesi. Culpeper tuttavia riteneva impossibile curare un paziente senza considerare l'influenza dei pianeti. Secondo lui ogni parte del corpo umano veniva controllata da un pianeta diverso: il cuore dal sole, i genitali da Venere, le ossa da Saturno ecc. Quindi il medico doveva abbinare l'uso delle erbe alle conoscenze astrologiche: angelica e calendula al Sole, timo e fiore di sambuco a Venere, consolida maggiore ed equiseto a Saturno ecc. Queste strane teorie magico-naturalistiche non furono rare nel XVII secolo: erano una conseguenza del fatto che le ricette mediche, essendo molto complicate, non permettevano di indicare con precisione quale ingrediente fosse davvero efficace nella cura di una malattia. Si pensava che le erbe dovessero curare di per sé, a prescindere da tradizioni consolidate e tanto meno da un approccio olistico alla persona malata, per cui, quando ci si accorgeva che il loro effetto non era sicuro, si cercavano altre strade fantasiose. E se vogliamo anche per tutto il XVIII secolo non si fanno progressi significativi né in direzione di una sostituzione della fitoterapia naturale con la chimica di sintesi, né in direzione di un recupero sostanziale della fitoterapia classica, basata su principi naturali. Si vive in una sorta di limbo, in cui si sperimentano continuamente nuove soluzioni che pretendono d'essere scientifiche, in quanto basate su nuove tecnologie. La scoperta delle medicine naturali delle popolazioni indigene americane non aiuta affatto gli europei, se si escludono gli inglesi, a capire che il percorso scientifico verso la sintesi chimica non era la soluzione migliore per curare le malattie. Per tutta l'epoca moderna, in forza del meccanicismo cartesiano-galileiano, l'organismo umano viene interpretato come una sorta di macchina o di alambicco in cui si mescolano sostanze umorali, fluide; non si riesce a vederlo come un'unità di mente e corpo né come un elemento appartenente alla natura. In tal senso fanno scuola le opere di Boyle, The Sceptical Chemist, del 1661, che fa nascere la chimica come scienza, e De motu cordis di W. Harvey (1628), il primo scienziato a descrivere accuratamente il sistema circolatorio umano, e De motu animalium di G. A. Borelli (1680), che tratta dei movimenti esterni e dei moti interni (muscoli, respirazione, attività nervosa) dei corpi, attribuendo cause fisico-meccaniche ai fenomeni organici e alle funzioni fisiologiche. Anche l'opera di G. B. Morgagni, De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761) non ha alcun valore per la fitoterapia, pur essendo egli il padre della patologia moderna. Ormai la strada che si sta percorrendo è quella di una netta separazione dell'uomo dalla natura e quindi del botanico dal medico. Non riesce a rilanciare la fitoterapia neppure l'enorme sforzo compiuto dal naturalista, biologo e medico svedese Carl von Linné (Linneo) (1707-78) che in tre volumi elenca, descrive e riclassifica l'intero universo vegetale. Ormai gli unici veri progressi si registrano solo in campo chimico, per quanto non ancora decisivi come lo saranno nell'Ottocento. Il farmacista di origine tedesca, K. W. Scheele (1742-86), inaugura la chimica farmaceutica scoprendo l'ossigeno, gli acidi formico, urico, lattico, citrico, malico e la glicerina. Si apre la strada alla chimica organica, mentre A.-L. Lavoisier (1743-94) confuta la vecchia "teoria del flogisto" ponendo le basi della nuova chimica quantitativa. D'altra parte, anche quando vi era la possibilità di una ripresa sicura delle tradizioni fitoterapiche naturali, come nel Nuovo Mondo, la seconda ondata di colonizzatori europei, arrivata all'inizio del XVII secolo, non fece altro che ostacolare le pratiche mediche degli indigeni, giudicate "selvagge", prediligendo erbe medicinali importate o erbe europee in grado di crescere in quella zona di colonizzazione. Nel migliore dei casi, come p.es. quello di S. Thompson (1769-1843) o quello di W. Beech (1794-1868), vi fu sì l'ideazione di nuove terapie erboristiche basate su quelle degli indiani nordamericani, ma si evitò accuratamente di riconoscerne la fonte, allo scopo di poterne trarre profitti economici. E comunque anche negli Usa l'uso terapico delle piante fu molto osteggiato dai chimici, tanto che il dottor A. I. Coffin (1790-1866), seguace di Thompson, fu costretto a trasferirsi nel nord dell'Inghilterra, dove fondò scuole di fitoterapia. Tuttavia la nuova medicina erboristica americana (Fisiomedicalismo) ebbe successo e si sviluppò anche in Inghilterra, al punto che ancora oggi gli erboristi britannici usano una varietà di erbe medicinali nordamericane maggiore rispetto a quella usata dagli altri erboristi europei. Era un caso particolare, poiché di fatto, nell'arco di due secoli, gli antichi rimedi a base di erbe erano quasi completamente scomparsi in Europa. E non sarà certo il medico tedesco S. Hahnemann (1755-1843) a recuperarli con la sua omeopatia, un sistema di cura basato sulla supposizione che quantità infinitesimali di una data sostanza, come una pianta medicinale, curano una malattia con sintomi identici a quelli che avrebbe una persona sana che ingerisse grandi quantità della stessa sostanza. L'opinione degli omeopati è che diluizioni maggiori della stessa sostanza non provochino una riduzione dell'effetto farmacologico, bensì un suo potenziamento. Molte ricerche cliniche concordavano però nel ritenere che gli effetti terapeutici dei trattamenti omeopatici non si discostassero in maniera significativa da quelli ottenuti per effetto placebo. Bisognerà attendere il 1952, prima che l'omeopatia si dia, col medico tedesco, H. H. Reckeweg, una veste scientifica apprezzabile, grazie alla biochimica e all'immunologia: dall'unione di omeopatia e allopatia nascerà l'omotossicologia. |
Le immagini sono state gentilmente offerte da Davide Fagioli