PER UN'ETICA DELLA SCIENZA

IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE


PER UN'ETICA DELLA SCIENZA

E' ormai diventata oziosa la domanda se accanto alla ricerca scientifica possono coesistere delle obbligazioni normative di carattere etico. E' la stessa evoluzione storica dell'umanità che lo impone. Un'evoluzione strana, per certi aspetti paradossale. Sembra infatti che per un ulteriore sviluppo della scienza -dopo secoli di separazione da ogni riferimento etico- la storia abbia bisogno non di andare avanti ma di tornare indietro, di ritrovare cioè quel periodo in cui scienza e morale, pur ancora primitive nei mezzi e nell'espressione, erano fuse in un tenero amplesso.

In pratica, proprio il progresso tecno-scientifico (specie in campo militare), nonché la crescente azione negativa della produzione economica sull'ambiente naturale, la prospettiva reale di un esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili e altre cose ancora, stanno privando l'umanità del diritto all'errore.

Dai tempi di Hiroshima e Nagasaki il divorzio fra scienza e morale è entrato irrimediabilmente in crisi. Vi è chi ancora sostiene - come ad es. il biochimico americano E. Chain - che i problemi etici o filosofici appaiono solo al momento di applicare le cognizioni acquisite. Ma in generale tendono a prevalere le opinioni di chi - come lo specialista inglese di etica della scienza A. Belsey - sostiene essere impossibile che lo scienziato possa procedere a uno studio descrittivo delle leggi della natura senza agire nel contempo su questa stessa natura. Ciò che in altre parole vorrebbe dire: se la scienza è il frutto della coscienza sociale, il problema etico è inerente sia alla cognizione che all'applicazione del dato scientifico.

Ma c'è di più. Essendo la scienza strettamente legata alla produzione e a tutte le sfere determinanti della vita umana, le conseguenze sia positive che negative di un certo uso delle scoperte scientifiche divengono oggi immediatamente sociali, cioè rilevabili da chiunque e in poco tempo. E come quelle negative possono essere così gravi che un semplice rimando alla "responsabilità individuale" non può essere sufficiente per rimediare all'errore o per evitare che si ripeta, così quelle positive sono di una portata talmente vasta da ripercuotersi sui criteri tradizionali del pensiero e del comportamento umano. Si osservi soltanto il fatto che - come aveva previsto Marx - l'uomo si sta trasformando da agente diretto della produzione a suo controllore e regolatore, nel senso cioè che il lavoro fisico stancante e/o pericoloso e il lavoro intellettuale noioso stanno per essere completamente trasmessi alle macchine, mentre il tempo libero che così viene ad aumentare potrà essere utilizzato per attività più creative.

Oggi la formazione di un'etica della scienza è legata a singoli aspetti o settori scientifici (p.es. alle conseguenze sociali dello sviluppo dell'ingegneria genetica o della microelettronica, mediante cui è possibile realizzare vaste operazioni di "controllo sociale"; ai pericoli dell'accumulo di residui radioattivi; agli interventi psico-chirurgici che mettono in causa l'identità umana, ecc.).

Ma - come diceva Max Born - ciò di cui abbiamo bisogno è "un nuovo ideale di ricerca", conforme alle necessità dei tempi, ossia un criterio di analisi che sappia considerare lo sviluppo onnilaterale della persona umana. Questo perché ai nostri giorni, caratterizzati da uno sviluppo intensivo della scienza come istituzione sociale e da uno sviluppo estensivo delle sue funzioni sociali, sempre più spesso una decisione sbagliata, presa in una regione qualunque del pianeta, determina fatalmente delle conseguenze globali. Cosa che, anche questa, obbliga l'uomo a osservare ogni aspetto della sua vita anche da una prospettiva internazionale, e quindi ad affrontare ogni problema globale in maniera globale.

Fuorvianti, in tal senso, sono quelle posizioni che attribuiscono alla sola scienza la causa di tutti i mali della società, o quelle che, al contrario, le addebitano alla sola società. E' vero che condizioni sociali negative possono produrre uno sviluppo scientifico negativo, e sino al punto in cui quelle condizioni non sono più in grado di controllarlo. Ma è anche vero che in nessuna parte del mondo esistono condizioni sociali negative assolutamente "irrisolvibili", né esiste una forma di sviluppo scientifico "unicamente" negativa.

D'altra parte, proprio gli effetti negativi di certe condizioni sociali e di un certo sviluppo scientifico inducono gli uomini a ricercare soluzioni più efficaci per i loro problemi, soluzioni che ovviamente non possono essere trovate aldilà o addirittura contro lo sviluppo scientifico. Nell'ambito del capitalismo la rivoluzione tecnologica è una necessità intrinseca allo sviluppo stesso delle forze produttive, e la centralizzazione dei capitali favorisce ovviamente una più larga applicazione e utilizzazione delle scoperte scientifiche, ma, al lato pratico, le cose non sono così semplici. Non è un mistero per nessuno che nell'ambito del capitalismo la scienza viene sviluppata solo per quel tanto che interessa ai monopoli: ad es. se le multinazionali non detenessero il monopolio del petrolio, oggi sicuramente avremmo delle automobili più sofisticate nell'uso del gas o di altre fonti energetiche alternative.

E' un fatto tuttavia che l'odierna rivoluzione tecno-scientifica caratterizza così fortemente la nostra quotidiana esistenza che non abbiamo bisogno d'attendere le conseguenze negative di un suo eventuale abuso per comprendere la necessità di modificare le condizioni sociali in cui viviamo: è lo stesso sviluppo scientifico, in sé e per sé, positivamente inteso, che ci costringe, in modo naturale, a questa autoconsapevolezza critica.

I bisogni che tale sviluppo soddisfa e quelli nuovi che fa emergere spingono l'uomo a chiedersi, con sempre maggiore insistenza, se il tipo di società in cui vive corrisponde effettivamente alle sue esigenze, se cioè i rapporti di produzione corrispondono al livello delle forze produttive.

E, in tal senso, non ci vuol molto per comprendere che nella società capitalistica, eminentemente antagonistica a causa della separazione del lavoratore dai mezzi con cui produce, il monopolio delle conquiste scientifiche serve alla classe egemone per conservare il suo dominio contro gli interessi della stragrande maggioranza dei lavoratori. Ecco perché nel capitalismo convivono, spesso in forma drammatica, scienza e pregiudizio, progresso e sottosviluppo. I monopoli tendono a salvaguardare tutto e il contrario di tutto, se questo serve loro per riprodursi.

La dipendenza della scienza dalla produzione è comunque relativa, non assoluta. Nel capitalismo, ove la preoccupazione fondamentale è quella di subordinare la ricerca scientifica alla produzione di plusvalore, il processo scientifico -proprio perché il plusvalore presuppone un rapporto sociale- si è esteso in modo tale che potrebbe essere utilizzato anche in funzione anticapitalistica.

Il fatto è che l'uso economico delle scoperte scientifiche obbliga la scienza a socializzarsi, portando così gli uomini a una autocoscienza dei loro bisogni sempre più vasta e profonda, in grado cioè di porre sempre nuove domande ai meccanismi produttivi e ai rapporti sociali che li regolano.

Da questo punto di vista è oltremodo assurda la suddivisione della scienza in "borghese" e "proletaria". La scienza non può essere identificata all'ideologia, per quanto non tutte le ideologie sappiano avvalersi delle sue conquiste nella maniera più democratica.

Il sapere scientifico, nella misura in cui è obiettivamente vero, conferma un contenuto che non dipende dall'uomo singolo né dall'umanità in generale. Tanto è vero che molti fenomeni e processi della vita moderna, determinati dalla rivoluzione tecno-scientifica, avvengono in maniera più o meno simile tanto nel socialismo (o ex-socialismo) quanto nel capitalismo. E' dunque possibile un uso anticapitalistico della scienza proprio perché essa ha per contenuto la verità obiettiva. Il problema semmai è quello di vedere se l'oggetto riflesso nel sapere scientifico lo è in modo adeguato, e se le sue applicazioni pratiche sono conformi agli interessi della grande collettività.

Questa autoconsapevolezza critica la si può riscontrare non solo in quei cittadini impegnati nelle varie organizzazioni ecologiche, ambientali, antimilitariste ecc., ma anche negli stessi scienziati e ricercatori.

L'interpretazione strettamente funzionale del ruolo sociale dello scienziato come semplice porteur d'un sapere specializzato, escluso dalla sfera dei valori, ha fatto ormai il suo tempo. L. R. Graham, storico americano della scienza, la fa risalire agli anni '30-'40, allorché nelle società occidentali la professionalizzazione dell'attività scientifica giocò un ruolo decisivo riguardo alla formazione d'un orientamento di neutralità assiologica, etica, della scienza. Allora lo scienziato si rifiutava d'intervenire su campi estranei alla propria competenza (divenuta peraltro molto settoriale) e non tollerava ingerenze da parte dei "non addetti ai lavori", salvo poi piegarsi alla volontà di chi gli assicurava i mezzi e i finanziamenti necessari per proseguire le sue ricerche. Su questo orientamento avalutativo s'è basata -come noto- tutta la filosofia neopositivistica.

Oggi le cose stanno notevolmente cambiando. Si pensi solo alla recente decisione di quei 6.500 scienziati e ricercatori americani, fra cui 15 premi Nobel, di rifiutare qualsiasi partecipazione alla messa a punto del progetto reaganiano SDI (noto col nome di "guerre stellari"). Con sempre maggiore convinzione lo scienziato giudica essere suo fondamentale diritto e dovere quello d'intervenire su molte questioni di carattere globale. Egli sente cioè di dover mettere al servizio dell'umanità, e non solo della produzione del proprio Paese, la sua competenza e professionalità.

L'intervento politico degli scienziati negli ambiti in cui si prendono delle decisioni di carattere "globale", riguardanti cioè le grandi collettività umane, è tanto più necessario quanto più si pensa che i loro appelli morali non sono assolutamente sufficienti per scongiurare eventuali disastri o pericoli per l'umanità. Furono forse ascoltati gli scienziati che prima di Hiroshima si erano raccomandati di non impiegare il nucleare contro le popolazioni civili o di non applicarlo all'apparato militare?

L'etica professionale dello scienziato include il problema della sua responsabilità verso la società. E questa responsabilità non può essere gestita in modo individualistico o semplicemente morale. La scienza è sempre meno affare di ricercatori isolati, i cui successi o le cui sconfitte hanno ripercussioni limitate, ed è sempre più affare d'importanti équipes che mettono in opera risorse materiali e intellettuali considerevoli: basterebbe questo, tra l'altro, per comprendere la necessità oggettiva d'un'azione della società sulla scienza e di una vasta eco dei risultati di quest'ultima sulla società.

Ovviamente non si vuole caricare sulle spalle dei soli ricercatori tutto l'onere d'un corretto uso delle conquiste scientifiche: lo scienziato altri non è che un cittadino di una complessa società civile. Come tale egli potrà compiere qualsiasi ricerca, per quanto possano esistere delle priorità da rispettare (impostegli dai suoi interessi o dalle esigenze della società), ma come cittadino egli ha il dovere di sincerarsi che le sue scoperte vengano utilizzate nel migliore dei modi.

Né sarebbe pensabile l'idea di elaborare un codice normativo o deontologico valido in ogni tempo e per qualsiasi situazione. La scienza è sempre ricerca d'un sapere nuovo: di conseguenza essa conduce a situazioni inedite, anche in campo morale, che nessun codice etico è in grado di prevedere. L'armonizzazione degli interessi professionali dello scienziato con il suo ruolo sociale si pone sempre in forme diverse, essendo appunto vincolata a ogni modificazione della realtà concreta in cui egli opera.

Le discussioni sull'etica della scienza non hanno tanto per scopo quello di dare risposte definitive, quanto quello di stimolare la formazione d'una posizione progressista negli scienziati, una posizione socialmente e moralmente responsabile. I problemi etici della scienza sono uno degli aspetti della sua storia sociale. Proprio lo sviluppo del progresso scientifico e delle sue interrelazioni con la società determinano le trasformazioni delle caratteristiche etiche della medesima attività scientifica. Più la scienza penetra in profondità i misteri della materia e della natura, compresa la natura sociale e individuale (poiché anche l'uomo è diventato oggetto di studio scientifico), più essa rende l'uomo potente, obbligandolo ad assumersi responsabilità sempre maggiori, che solo collettivamente possono essere gestite.

Bisogna fare appello alla storia e alla sociologia della scienza per far avanzare le ricerche nel campo dell'etica della scienza. Le sue dimensioni etiche le sono infatti intrinseche. "Anche quando io esplico soltanto un'attività scientifica -costatava il giovane Marx-, attività che io raramente posso esplicare in comunità immediata con altri, io esplico un'attività sociale, poiché agisco come uomo". "Sapere e virtù sono inseparabili", diceva l'adagio socratico. Proprio questo adagio ci rammenta che non è più possibile tornare indietro. Oggi c'è solo un modo per ritrovare l'unità di scienza e morale agli attuali livelli di sviluppo tecnologico e sociale, che sono molto elevati e complessi: quello di realizzare la transizione dal capitalismo a un socialismo democratico.

LA SCIENZA COME NUOVA RELIGIONE

Che l'artificiale stia sostituendo completamente il naturale lo si vede in tutto il mondo, non solo nei paesi a capitalismo avanzato, dove si è cominciato a farlo, in maniera considerevole, a partire dalle rivoluzioni industriali.

L'uomo ha sempre modificato la natura per i suoi bisogni, ma oggi lo fa impedendo alla natura di soddisfare i suoi propri bisogni. Manca il rispetto e, quel che è peggio, manca la convinzione che il rispetto sia necessario per la sopravvivenza dell'intero pianeta, inclusa quindi la specie umana.

Non riusciamo più a capire quale sia il limite oltre il quale l'uso di strumenti lavorativi diventa, agli occhi della natura, un abuso. Non è un caso che il capitalismo si sia sviluppato di pari passo con la devastazione ambientale. Solo che con la scoperta del "Nuovo Mondo", in virtù della quale abbiamo potuto trasferire altrove il peso delle nostre contraddizioni, non ce ne siamo accorti più di tanto. Da un lato infatti abbiamo potuto rendere gli abitanti del Terzo mondo più "schiavi" degli operai occidentali; dall'altro abbiamo potuto saccheggiare le loro risorse, ritenendo che questo processo sarebbe durato in eterno.

La percezione di una vastità immensa di risorse umane e materiali da utilizzare ci ha permesso di guardare con molta benevolenza i problemi che nei nostri territori occidentali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo. Il concetto di "vastità geografica" ci ha permesso di restare a un livello di "profondità" molto superficiale.

Noi non abbiamo mai una vera consapevolezza dei problemi che creiamo: pensiamo sempre di poterli risolvere in maniera relativamente semplice. E ci stupiamo enormemente quando vediamo le crisi prolungarsi troppo nel tempo. Preferiamo non guardarci mai direttamente allo specchio, ma restando sempre dentro una bolla di sapone. Ci piace guardare la realtà in maniera deformata, per poter sognare ad occhi aperti, come i grassoni in quegli specchi dimagranti di certi luna park.

Quando l'Europa occidentale ha fatto scoppiare le due ultime guerre mondiali, sembrava che nessuno le volesse, ma, appena si sono verificati i primi conflitti, subito quasi tutti hanno voluto prendervi parte, perché sappiamo bene che, in caso di vittoria, i vantaggi sono considerevoli.

La guerra fa parte del nostro DNA, nel senso che non ci viene istintivo fare di tutto per evitarla. Noi siamo figli di quel Carl von Clausewitz secondo cui "la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi".

Forse pochi si ricordano che quando, nella seconda guerra irachena, gli americani adottarono la dottrina militare nota col nome di shock and awe (colpisci e terrorizza), si comportarono, più o meno, come i nazisti nelle loro battaglie, a partire da quella di "prova" che fu il bombardamento di Guernica, durante la guerra civile spagnola.

I moderni Clausewitz oggi si chiamano H. Ullman e J. P. Wade, per i quali i bombardamenti massicci devono imporre un livello travolgente di distruzione e di terrore in un lasso di tempo sufficientemente breve da paralizzare del tutto la volontà del nemico di proseguire una qualunque forma di resistenza. E' il blitzkrieg hitleriano in salsa yankee, cioè con l'aggiunta di armi molto più potenti e sofisticate, cui vanno aggiunte quelle dei mezzi di comunicazione di massa, utili a creare un clima "patriottico" di euforia per la potenza tecnologica e militare dispiegata. L'importante è non far vedere le immagini delle vittime civili.

Oggi, quando distruggiamo tutto, siamo convinti di poterlo ricostruire abbastanza facilmente, in tempi relativamente rapidi, proprio in virtù dei mezzi che disponiamo, e non ci preoccupa granché il fatto che l'ambiente abbia subìto, a causa delle nostre azioni scriteriate, dei danni enormi. Nel nostro vocabolario non esiste la parola "irreparabile", anche perché non andiamo certo a chiederlo a chi, vivendo a Hiroshima e Nagasaki, ha subìto bombardamenti atomici, o ai vietnamiti che hanno subito bombardamenti chimici (agent orange), né ai serbi che hanno subito bombardamenti all'uranio impoverito (che peraltro hanno fatto ammalare di cancro persino i nostri militari) e neppure agli iracheni che hanno subito bombardamenti al fosforo. Che c'importa di sapere se la popolazione e l'ambiente bombardati hanno subito danni irreversibili, al punto che non si è più nemmeno in grado di riprodursi normalmente?

Quando nel mondo antico e medievale si considerava la natura praticamente immutabile, in quanto l'uomo sembrava poterla modificare solo parzialmente, in realtà ci s'illudeva. Nel senso cioè che non ci si rendeva conto che anche delle piccole modifiche ripetute nel tempo, possono provocare sconvolgimenti inarrestabili, com'è successo con la formazione dei deserti in seguito alle deforestazioni compiute nell'area del Mediterraneo.

Oggi l'illusione di poter riportare le cose a com'erano prima delle nostre devastazioni è ancora più grande, proprio perché riteniamo la potenza della nostra tecnologia una realtà praticamente invincibile. Se c'è una cosa che oggi non vogliamo assolutamente mettere in discussione è l'emancipazione che l'umanità ha compiuto nei confronti della religione medievale, grazie alle scoperte scientifiche e alle innovazioni tecnologiche. Senza volerlo abbiamo fatto della scienza una nuova religione.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018