OVIDIO, LIBRO OTTAVO DELLE METAMORFOSI
Già, rischiarando di bagliori il giorno, Lucifero aveva
disperso le tenebre: cadde l'Euro e umide si alzarono
le nubi. Un placido Austro permise a Cèfalo di prendere
con gli uomini di Èaco la via del ritorno e di raggiungere,
prima del tempo, il porto a cui tendevano, col favore del vento.
E ciò mentre Minosse devastava le coste dei Lèlegi
e saggiava la forza del proprio esercito contro Alcàtoe.
Era, Alcàtoe, la città di Niso, che alto sul capo,
fra la sua canizie venerata, aveva un capello
acceso di rosso, simbolo del proprio immenso potere.
Per la sesta volta era sorta ad oriente la falce della luna
e ancora incerte erano le sorti della guerra: da tempo ormai
tra l'una e l'altra schiera volava indecisa la vittoria.
A ridosso delle mura (ricche di suoni, perché, si diceva,
il figlio di Latona vi aveva posato la sua cetra d'oro,
trasmettendone la voce alle pietre) c'era la torre del re.
In cima a questa era solita salire sua figlia,
per battere con un sassolino, quando ancora c'era la pace,
quelle pietre armoniose; ma di lassù, ora in piena guerra,
guardava incantata lo svolgersi cruento degli scontri.
E ormai, per il protrarsi della guerra, conosceva il nome
dei capi, le armi, i cavalli, le divise e le faretre cretesi;
ma prima degli altri e più del necessario, conosceva l'aspetto
del condottiero, del figlio di Europa. A suo giudizio, se Minosse
nascondeva il capo sotto un elmo irto di penne,
era bello col cimiero; se imbracciava uno scudo
tutto riflessi d'oro, stava bene con lo scudo.
Se aveva, tendendo il braccio, scagliato un giavellotto smisurato,
la fanciulla esaltava l'eleganza legata alla forza;
se piegava un arco enorme con la freccia incoccata,
lei giurava che, i dardi in mano, così s'atteggiava Febo;
se poi, togliendosi l'elmo di bronzo, scopriva il suo volto
e avvolto di porpora cavalcava su gualdrappe colorate
un bianco cavallo, governandone la bocca schiumante,
allora a stento, sì, a stento la vergine figlia
di Niso non impazziva: chiamava fortunato il giavellotto
che lui toccava, fortunate le redini che impugnava.
L'impulso suo, se avesse potuto, sarebbe stato d'introdursi,
lei, una fanciulla, tra le schiere nemiche; o quello di gettarsi
dalla cima della torre nell'accampamento cretese,
di aprire al nemico le porte di bronzo, o di fare
qualsiasi cosa Minosse volesse. E mentre se ne stava lì
a contemplare seduta le candide tende del re di Dicte:
"Devo rallegrarmi o dolermi", disse, "che si faccia questa guerra
luttuosa? Non so: mi dolgo perché Minosse è un nemico che amo,
ma se non ci fosse questa guerra, l'avrei mai conosciuto?
Però, se mi prendesse in ostaggio, potrebbe deporre le armi:
avrebbe me come compagna, me come pegno di pace.
Se la donna che t'ha partorito era bella come te, che sei
del mondo il più bello, è giusto che di lei s'invaghisse un nume.
Tre volte felice sarei, se librandomi in volo
potessi posarmi nell'accampamento del re di Cnosso
e, rivelandogli chi sono e il mio amore, chiedergli qual prezzo
vorrebbe per essere mio, purché non esigesse la mia patria.
Sfumino pure le nozze sospirate, piuttosto che ottenerle
col tradimento! Anche se a volte la clemenza di chi vince,
per la mitezza sua, finì per favorire i vinti.
Giusta è certo la guerra che conduce per vendicare suo figlio,
forte è la sua causa, forti le armi con cui la difende,
e temo proprio che ci vincerà. Ma se per la città la sorte
è segnata, perché dovrebbe essere Marte ad aprirgli le mura
e non il mio amore? Meglio che vinca subito, senza stragi
e senza versare una goccia del suo sangue.
Almeno non tremerò al pensiero che qualche folle
ferisca il tuo petto, Minosse: chi mai così crudele sarebbe
di scagliarti allora contro, sapendo chi sei, un'asta mortale?
L'idea mi piace, è un fatto: sono decisa a consegnargli me stessa
e la mia patria in dote per porre fine alla guerra.
Ma volerlo non basta: sentinelle vegliano gli accessi
e le chiavi delle porte sono in mano a mio padre: solo lui,
ahimè, io temo, solo lui ostacola il mio piano.
Volessero gli dei che fossi senza padre! Ma ognuno, lo sai,
è dio di sé stesso e la fortuna sprezza le preghiere dei vili.
Un'altra donna, arsa da una passione come la mia,
avrebbe da tempo rimosso con gioia ogni ostacolo all'amore.
E perché un'altra dovrebbe avere più coraggio? Tra fiamme e
spade saprei senza viltà gettarmi; ma qui fiamme e spade
son fuori luogo; a me serve solo un capello di mio padre,
prezioso per me più dell'oro: quel capello color porpora
mi renderà felice, facendomi ottenere ciò che sospiro".
Mentre parlava, sopraggiunse la notte, nutrice incontrastata
delle passioni, e con le tenebre crebbe l'audacia.
Era l'ora del riposo, l'ora in cui il sonno invade la mente
stanca dei diuturni affanni. In silenzio lei s'insinua nella camera
paterna e al padre proprio lei, la figlia, strappa (che delitto, ahimè)
il capello fatale e, impadronitasi di quella preda infame,
fugge come un fulmine, stringendola a sé. Uscita dalle mura,
avanzando tra i nemici (tanto è sicura d'essere elogiata!),
giunge al cospetto del re e a lui, che la guarda sbalordito, dice:
"Al delitto mi ha spinto l'amore. Io, Scilla, figlia di re Niso,
ti consegno la patria mia e le divinità del focolare.
Non chiedo premio all'infuori di te! Prendi come pegno d'amore
questo capello di porpora, e sappi che non un capello ti offro,
ma la testa di mio padre!". E con la destra gli porge
quel dono scellerato. Di fronte a questo Minosse si ritrasse
e, sconvolto alla vista di quel fatto inaudito, rispose:
"Che gli dei, o infamia del nostro tempo, ti bandiscano
dal loro mondo e a te si neghino la terra e il mare!
Non tollererò che un mostro come te metta piede a Creta,
no, a Creta che è la culla di Giove e il mondo mio!".
Così disse; e dopo avere imposto ai nemici, che si erano arresi,
le condizioni che ritenne più giuste, ordinò che si sciogliessero
gli ormeggi alle navi da guerra e ai rematori di prendervi posto.
Quando Scilla vide le navi far vela solcando il mare,
senza che il condottiero la premiasse per il suo misfatto,
esaurite le preghiere, fu presa da una collera violenta
e tendendo furibonda le braccia, coi capelli scarmigliati:
"Dove fuggi," gli gridò, "abbandonando chi t'ha soccorso?
Alla mia patria, a mio padre io t'ho preferito!
Dove fuggi, rinnegato, tu che hai vinto solo per colpa
e merito mio? Non il dono che ti ho dato o il mio amore
t'hanno commosso, neppure il pensiero che tutte le mie speranze
in te erano riposte! Dove vuoi che vada così reietta?
In patria? Giace sconfitta; ma se anche non lo fosse,
mi è preclusa, perché ho tradito! Tornare al cospetto di mio padre,
che io ti ho consegnato? I cittadini mi odiano, e con ragione;
i vicini temono il mio esempio: tutto il mondo
mi sono preclusa, perché solo Creta mi si potesse aprire.
Ma se anche questa tu mi vieti e, ingrato, m'abbandoni,
tua madre non è stata certo Europa, ma la Sirte inospitale,
le tigri dell'Armenia o Cariddi flagellata dall'Austro.
E non sei figlio di Giove; da una chimera di toro tua madre
non fu rapita: la storia della tua nascita è una favola.
A generarti fu un toro, sì, ma un toro vero, feroce,
e non certo innamorato d'una giovenca! O Niso, padre mio,
puniscimi! E voi mura che ho tradito, godete, godete
della mia sventura! L'ammetto, non merito che la morte.
Ma almeno mi sopprima chi ha subito veramente
la mia empietà. Perché tu, che grazie alla mia colpa hai vinto,
pretendi di punirla? Per mio padre e la patria questa è un delitto,
per te una grazia. Davvero ti è degna compagna chi ti ha tradito
con un toro in calore, abbindolato da un simulacro di legno,
e nel ventre si è portata un feto mostruoso! Ma alle tue orecchie
giunge la mia voce? O i venti, come spingono le tue navi,
se la portano via, priva di senso per quell'ingrato che sei?
Ormai, no, non è incredibile che Pasìfae
t'abbia preferito un toro: ben maggiore è la tua ferocia.
Sventurata me! Comanda ai suoi di affrettarsi, l'onda sollevata
dai remi scroscia, e con me la mia terra svanisce ai suoi occhi.
Ma non ti servirà; invano cerchi di scordare i meriti miei!
Se anche non vuoi, io ti seguirò: avvinghiata all'ansa della poppa,
lungo il mare mi farò trascinare!" E subito si getta in acqua,
inseguendo le navi con la forza che le accende la passione,
finché, sgradita compagna, si aggrappa alla chiglia del re cretese.
Quando suo padre, che, ormai trasformato in aquila marina,
si librava con ali fulve nell'aria, la vide,
si lanciò per straziarla col becco adunco, appesa com'era.
Lei impaurita mollò la poppa, e parve che l'aria leggera
nella caduta la reggesse, impedendole di sfiorare l'acqua;
una piuma: mutata in un uccello coperto di piume,
è detta Ciris per ricordare col nome il capello reciso.
Non appena sbarcò dalla nave, toccando il suolo dei Cureti,
Minosse sciolse i voti fatti a Giove con l'offerta
di cento tori e decorò la reggia appendendo i trofei di guerra.
Ma l'obbrobrio della sua stirpe cresceva: un mostro inaudito,
biforme, a denunciare l'immondo adulterio di sua madre.
Minosse decide di allontanare quel disonore da casa e
di rinchiuderlo nei ciechi recessi di un edificio insondabile.
Dedalo, famosissimo per il suo talento di costruttore,
esegue l'opera, rendendo incerti i punti di riferimento
e ingannando l'occhio con la tortuosità dei diversi passaggi.
Come nelle campagne di Frigia il Meandro si diverte a scorrere,
fluendo e rifluendo col suo imprevedibile corso,
e aggirando sé stesso scorge l'acqua che ancora deve raggiungerlo,
o, rivolto qui verso la sorgente, più in là verso il mare aperto,
tormenta indeciso il suo flusso; così Dedalo dissemina
d'inganni quel labirinto di strade, al punto che persino lui,
tanto è l'intrico di quella dimora, stenta a trovarne l'uscita.
Qui fu rinchiuso il mostro mezzo uomo e mezzo toro,
che dopo essersi nutrito due volte di giovani ateniesi,
scelti ogni nove anni a sorte, la terza fu ucciso da Teseo
con l'aiuto della figlia di Minosse: riavvolgendo il suo filo,
lui guadagnò l'uscita che nessuno prima aveva ritrovato;
poi rapì la fanciulla e fece vela alla volta di Dia,
dove senza pietà abbandonò la sua compagna
lungo la spiaggia. In quella desolazione a lei che piangeva
venne in aiuto Libero col suo abbraccio e, per immortalarla
in una costellazione, le tolse dalla fronte il suo diadema
e lo scagliò nel cielo. Vola quello leggero nell'aria
e mentre vola, le gemme si mutano in fulgidi fuochi,
che mantenendo l'aspetto di un diadema, vanno a fermarsi
a mezza strada tra l'Uomo in ginocchio e il Portatore di serpente.
Ma intanto Dedalo, insofferente d'essere confinato a Creta
da troppo tempo e punto dalla nostalgia della terra natale,
era bloccato dal mare. "Che Minosse mi sbarri terra ed acqua,"
rimuginò, "ma il cielo è pur sempre aperto: passeremo di lì.
Sarà padrone di tutto, ma non dell'aria!". E subito
dedica il suo ingegno a un campo ancora inesplorato,
sovvertendo la natura. Dispone delle penne in fila,
partendo dalle più piccole via via seguite dalle più grandi,
in modo che sembrano sorte su un pendio: così per gradi
si allarga una rustica zampogna fatta di canne diseguali.
Poi al centro le fissa con fili di lino, alla base con cera,
e dopo averle saldate insieme, le curva leggermente
per imitare ali vere. Icaro, il suo figliolo, gli stava
accanto e, non sapendo di scherzare col proprio destino,
raggiante in volto, acchiappava le piume che un soffio di vento
sollevava, o ammorbidiva col pollice la cera
color dell'oro, e così trastullandosi disturbava il lavoro
prodigioso del padre. Quando all'opera fu data
l'ultima mano, l'artefice provò lui stesso a librarsi
con due di queste ali e battendole rimase sospeso in aria.
Le diede allora anche al figlio, dicendogli: "Vola a mezza altezza,
mi raccomando, in modo che abbassandoti troppo l'umidità
non appesantisca le penne o troppo in alto non le bruci il sole.
Vola tra l'una e l'altro e, ti avverto, non distrarti a guardare
Boòte o Èlice e neppure la spada sguainata di Orìone:
vienimi dietro, ti farò da guida". E mentre l'istruiva al volo,
alle braccia gli applicava quelle ali mai viste.
Ma tra lavoro e ammonimenti, al vecchio genitore si bagnarono
le guance, tremarono le mani. Baciò il figlio
(e furono gli ultimi baci), poi con un battito d'ali
si levò in volo e, tremando per chi lo seguiva, come un uccello
che per la prima volta porta in alto fuori del nido i suoi piccoli,
l'esorta a imitarlo, l'addestra a quell'arte rischiosa,
spiegando le sue ali e volgendosi a guardare quelle del figlio.
E chi li scorge, un pescatore che dondola la sua canna,
un pastore o un contadino, appoggiato l'uno al suo bastone
e l'altro all'aratro, resta sbalordito ritenendoli dèi
in grado di solcare il cielo. E già s'erano lasciati a sinistra
le isole di Samo, sacra a Giunone, Delo e Paro,
e a destra avevano Lebinto e Calimne, ricca di miele,
quando il ragazzo cominciò a gustare l'azzardo del volo,
si staccò dalla sua guida e, affascinato dal cielo,
si diresse verso l'alto. La vicinanza cocente del sole
ammorbidì la cera odorosa, che saldava le penne,
e infine la sciolse: lui agitò le braccia spoglie,
ma privo d'ali com'era, non fece più presa sull'aria
e, mentre a gran voce invocava il padre, la sua bocca
fu inghiottita dalle acque azzurre, che da lui presero il nome.
Ormai non più tale, il padre sconvolto: "Icaro!" gridava,
"Icaro, dove sei?" gridava, "dove sei finito?
Icaro, Icaro!" gridava, quando scorse le penne sui flutti,
e allora maledisse l'arte sua; poi ricompose il corpo
in un sepolcro e quella terra prese il nome dal sepolto.
Mentre Dedalo tumulava il corpo di quel figlio sventurato,
da un fosso fangoso lo scorse una pernice cinguettante,
che sbattendo le ali manifestò la sua gioia con un trillo.
Mai vista in passato, era ancora un esemplare unico, un uccello
appena creato, ma per te, Dedalo, un'accusa senza fine.
Tua sorella infatti, ignorandone il destino, t'aveva affidato
il suo figliolo perché l'istruissi, un ragazzo di dodici anni
appena, ma d'ingegno aperto ai tuoi insegnamenti.
Questi, tra l'altro, notate le lische nel corpo dei pesci,
le prese a modello e intagliò in una lama affilata
una serie di denti, inventando la sega.
E fu lui il primo che avvinse due aste metalliche
a un perno, in modo che rimanendo fissa tra loro la distanza,
l'una stesse ferma in un punto e l'altra descrivesse un cerchio.
Preso dall'invidia, Dedalo lo gettò giù dalla sacra rocca
di Pallade, inventandosi che era caduto; ma la dea,
che protegge gli uomini d'ingegno, sostenne il giovinetto
e lo mutò in uccello, vestendolo di penne ancora a mezz'aria.
Così l'agilità che possedeva il suo straordinario ingegno
passò in ali e zampe, mentre il nome rimase qual era.
Tuttavia questo uccello non si leva molto in alto
e non fa il nido sui rami o in cima alle alture;
svolazza raso terra, depone le uova nelle siepi
e, memore dell'antica caduta, evita le altezze.
Dedalo intanto, affaticato, aveva raggiunto le terre
dell'Etna, dove Còcalo, che avrebbe preso le armi in suo favore,
gli era benigno. Gli ateniesi, d'altro canto, avevano finito
di pagare, grazie a Teseo, il tragico tributo:
inghirlandarono i templi, invocarono la battagliera
Minerva, Giove e tutti gli altri dei, e li adorarono
sacrificando vittime, offrendo doni e bruciando incenso.
Vagando per le città dell'Argolide, la fama aveva sparso
notizia dell'impresa, e i popoli stanziati nella ricca Grecia,
in caso di pericolo, invocavano l'aiuto di Teseo.
E il suo aiuto chiese, con preghiere angosciate, anche Calidone,
che pure aveva tra i suoi Meleagro: causa della supplica
era un cinghiale, strumento di vendetta del rancore di Diana.
Si racconta infatti che Eneo, per l'esito felice del raccolto,
avesse offerto le primizie delle messi a Cerere,
a Bacco il suo vino, e il succo d'oliva alla bionda Minerva.
Onorate le divinità campestri, un ambìto omaggio
fu reso a tutti gli altri dei; solo gli altari della figlia
di Latona, dimenticati, rimasero vuoti e senza incenso.
Lo sdegno coinvolse gli dei. "Non lo subirò impunemente!
Potranno dirmi senza onori, mai senza vendetta!"
esclamò Diana; e per vendicarsi dell'offesa mandò
nei campi di Eneo un cinghiale, grande quanto nei prati d'Epiro
o nelle campagne di Sicilia non sono i tori.
Di fuoco gli brillano gli occhi iniettati di sangue; ispide
sul collo possente si ergono setole come rigidi aculei,
[come una palizzata di lunghe aste piantate al suolo;]
con rauco sfrigolio gli scorre lungo tutto il petto ribollente
la bava; le zanne sembrano quelle d'elefante indiano;
fiamme eruttano le fauci, che di vampate bruciano le foglie.
La belva qui calpesta le colture fresche di germogli,
là falcia le speranze mature del contadino in lacrime,
sottraendogli il pane sulle spighe: invano l'aia,
invano il granaio attenderanno un raccolto, ch'era ormai sicuro.
Fa strage di frutti maturi con i loro lunghi tralci,
di bacche d'ulivo coi loro rami sempreverdi.
E infuria contro le greggi: non c'è pastore o cane contro quello,
non c'è toro infuriato che possa difendere le mandrie.
La gente in fuga si rifugia dentro le mura della città,
dove solo si sente sicura, finché per amore di gloria
Meleagro non raduna al suo fianco una scelta schiera di giovani:
i figli gemelli di Tìndaro, ammirevole uno coi pugni,
l'altro a cavallo; Giasone, inventore della prima nave;
Teseo e Pirìtoo, esempio di rara amicizia;
i due figli di Testio e quelli di Afareo, Linceo
e il veloce Ida; Cèneo ormai non più femmina,
il fiero Leucippo e Acasto, un campione nel lancio dell'asta;
Ippòtoo, Driante e il figlio di Amintore, Fenice;
i figli gemelli di Actore e Fileo venuto dall'Elide.
E c'erano Telamone, il padre del grande Achille,
il figlio di Ferete, Iolao della Beozia; c'erano
l'infaticabile Eurizione, Echìone imbattibile nella corsa,
Lèlege di Nàrice, Panopeo e Ileo,
il fiero Íppaso e Nèstore ancora in verde età;
e gli uomini che Ippocoonte mandò dall'antica Amicle,
il suocero di Penelope, Anceo della Parrasia,
il figlio indovino di Ampice, quello di Ecleo, non tradito ancora
dalla moglie; e Atalanta di Tegea, vanto dei boschi del Liceo,
che portava una veste fermata in cima da una fibbia brunita,
capelli raccolti senza ornamenti in un unico nodo,
appesa alla spalla sinistra una tintinnante faretra eburnea
per le frecce e, stretto sempre nella sinistra, l'arco:
abbigliata così, l'avresti detta una fanciulla con l'aspetto
di un ragazzo o un ragazzo con quello di una fanciulla.
Meleagro, l'eroe di Calidone, non fece in tempo a vederla
che la desiderò, malgrado il divieto divino, e ardendo in cuore
d'amore: "Beato l'uomo, se mai ve ne sarà uno," pensò,
"che lei riterrà degno!". Ma non ebbe il tempo né l'ardire
d'aggiungere altro. Più grande impresa premeva: la grande caccia.
Un bosco fitto di fusti, incontaminato dal tempo dei tempi,
saliva dal piano dominando ai suoi piedi la campagna.
Quando gli uomini vi giunsero, alcuni tesero le reti,
altri sciolsero i cani e altri ancora si misero a seguire le orme
impresse nel suolo, smaniosi di scovare a proprio rischio il mostro.
C'era una valle profonda, dove confluivano i rivoli
dell'acqua piovana: il fondo paludoso era invaso
di salici flessuosi, tenere alghe, giunchi palustri,
vimini e piccole canne sovrastate da altre più alte.
Snidato da qui, il cinghiale s'avventa con furia contro il nemico,
come una folgore che si sprigiona dallo scontro delle nubi.
E nella sua corsa, aprendosi con fragore la strada nel bosco,
fa strage di piante: i giovani lanciano grida e con mano ferma
tengono protese le lance brandendone il ferro minaccioso.
L'animale carica i cani e disperdendo quelli che si oppongono
alla sua furia, sbaraglia a zannate oblique la muta che latra.
A vuoto andò la prima lancia, scagliata dal braccio
di Echìone, che scalfì leggermente il tronco di un acero.
La seconda, se il lanciatore non vi avesse impresso troppa forza,
parve che dovesse conficcarsi nel dorso a cui era diretta,
ma finì ben oltre; autore del tiro: Giasone di Pàgase.
"Febo," sbottò il figlio di Ampice, "se ti ho onorato e ti onoro,
concedimi di colpire al cuore il bersaglio col mio tiro!"
Per quel che poté, il nume l'esaudì: il cinghiale fu colpito,
ma non rimase ferito; Diana aveva sfilato il ferro
dalla lancia durante il volo: il legno arrivò, ma privo di punta.
Provocata, la belva s'infuria, esplode più violenta di un fulmine:
sprizza scintille dagli occhi, sprigiona fiamme dalla bocca,
e come il macigno scagliato da una corda tesa vola dritto
contro le mura o le torri stipate di soldati,
così sui giovani si getta con furia tremenda quel cinghiale
micidiale e abbatte Eupàlamo e Pelagone, che erano schierati
sull'ala destra: d'un balzo i compagni gli sottraggono i caduti.
Ma ai colpi mortali non sfugge Enèsimo, il figlio di Ippocoonte,
che mentre trepidando si accingeva a volgergli le spalle,
ebbe recisi i tendini del ginocchio, che più non lo sostenne.
E forse prima della guerra di Troia anche Nèstore di Pilo
sarebbe morto, se puntando al suolo la sua lancia, con un salto
non si fosse lanciato sui rami di una quercia posta nei pressi,
per guardare di lassù al sicuro il nemico al quale era sfuggito.
Inferocito il mostro, arrotando le zanne contro il tronco,
minaccia nuove stragi e, forte di quelle armi rese aguzze,
colpisce al femore, col suo grugno adunco, il grande Euritide.
Intanto i figli gemelli di Tìndaro, prima d'essere stelle,
l'uno più bello dell'altro, affiancati, cavalcavano cavalli
più candidi della neve, brandendo entrambi nell'aria una lancia,
la cui punta vibrava ad ogni minimo sobbalzo;
e avrebbero colpito il villoso animale, se nel bosco fitto,
inaccessibile ad armi e cavalli, lui non si fosse cacciato.
Telamone l'inseguì, ma nella fretta di correre
non vide la radice di una pianta, inciampò e cadde bocconi.
Mentre Peleo l'aiutava ad alzarsi, la fanciulla di Tegea
incocca veloce una freccia alla corda, incurva l'arco e la scaglia.
Conficcato sotto l'orecchio della bestia, il dardo lacera
la cute e qualche goccia di sangue arrossa le setole.
Ma se Atalanta fu felice di quel colpo fortunato,
di più lo fu Meleagro, che pare l'avesse visto per primo
e, indicando per primo il fiotto di sangue ai compagni, le dicesse:
"Di questa impresa a buon diritto tu sola ne porterai l'onore!".
Gli uomini arrossirono, e per farsi coraggio, con grida di guerra
si esortano a vicenda e scagliano dardi alla cieca:
quella babele ostacola i tiri, impedendo che colgano il segno.
Ed ecco che, accecato dal destino, Anceo con in pugno una scure:
"Guardate come i colpi di un uomo valgano il doppio, o giovani,
di quelli di una donna!" gridò. "Fatemi largo! guardatemi!
Armi alla mano, protegga quel mostro Diana stessa:
malgrado la figlia di Latona, la mia destra l'annienterà!".
Con enfasi aveva tutto tronfio pronunciato queste parole,
e sollevando la scure con entrambe le mani,
si levò sulla punta dei piedi, le braccia tese sopra il capo:
la belva previene il temerario e gli pianta tutte e due le zanne
in alto all'inguine, dove più rapida giunge la morte.
Anceo stramazza e grovigli di viscere gli colano dal ventre
in un fiume di sangue e di umori che intridono la terra.
Contro il nemico, brandendo con forza nella destra
una picca, si lancia allora Pirìtoo, il figlio d'Issìone.
"Scòstati," gli grida il figlio di Egeo, "più di me stesso mi sei caro!
Fèrmati, anima mia! Combattere a distanza non scema il valore:
guarda Anceo, vittima dissennata del suo coraggio!"
E detto questo, scaglia un'asta armata con una punta di bronzo:
dritta l'aveva vibrata e avrebbe potuto colpire il bersaglio,
se contro non avesse trovato il ramo frondoso di una quercia.
Anche il figlio di Esone lanciò un giavellotto, ma sfortuna volle
che sviato centrasse un cane senza colpa: penetrato
nelle viscere, gliele trapassò, conficcandosi al suolo.
Esito alterno hanno i tiri del figlio di Eneo: di due lance
che scaglia, la prima si pianta a terra, l'altra in mezzo al dorso.
Senza tregua, mentre la belva si dibatte, gira su sé stessa,
vomita con un grugnito bava e fiotti di sangue,
il feritore gli è addosso, irrita e provoca il nemico
e affrontandolo gli immerge tra le scapole una picca fiammante.
Danno sfogo alla gioia i suoi compagni con applausi e grida,
fanno a gara per stringere la destra al vincitore,
e stupefatti contemplano l'immane bestia lungo distesa
sulla terra, e malgrado non ritengano ancora sicuro
toccarla, immergono le proprie armi nel suo sangue.
Meleagro, ponendovi sopra un piede, calpesta quella testa
micidiale e proclama: "Prenditi il trofeo che mi compete,
Atalanta, così che con te sia spartita la mia gloria!".
E le dona le spoglie: la pelle irta di rigide
setole e il muso su cui spiccano due zanne enormi.
Felice è lei del dono e perché è lui che glielo dona.
Ma gli altri provano invidia e per tutto il gruppo corre
un mormorio. Fra questi, agitando le braccia e con voce rabbiosa
i figli di Testio gridano: "Lascia, donna, non toccare
ciò che ci spetta! Non credere che la tua bellezza ti dia credito
o che l'amore del donatore possa servirti!".
E strappano a lei il dono, a lui il diritto di donarlo.
Meleagro non lo sopporta e digrignando i denti, gonfio d'ira,
grida: "Vi mostrerò io, ladri della gloria altrui, che differenza
c'è tra i fatti e le minacce!", e con la sua arma scellerata
trafigge il petto a Plessippo, senza che lui se l'aspettasse;
nemmeno a Tosseo permise di esitare a lungo, incerto com'era
tra la sete di vendicare il fratello e il timore
di condividerne la sorte: ancora fumante di strage,
tornò a scaldare l'asta sua nel sangue del congiunto.
Mentre ai templi degli dei stava recando doni per la vittoria
del figlio, riportare vide Altea le salme dei propri fratelli.
Affranta riempie la città dei suoi lamenti,
si batte il petto, muta le vesti dorate in nere;
ma quando apprende chi è l'autore della strage, il suo cordoglio
si dilegua e da pianto si converte in sete di vendetta.
Il giorno in cui Altea giaceva prostrata dal parto,
le Parche, che premendo il pollice filavano al figlio il destino,
avevano posto sul fuoco un ceppo con queste parole:
"Durata uguale di vita assegniamo al ceppo e a te,
che ora vedi la luce". Pronunciata questa profezia
le dee si allontanarono, e la madre subito strappò
il tizzone alle fiamme, spegnendolo con un getto d'acqua.
Da allora era rimasto nascosto in un angolo segreto
e, così custodito, o giovane, t'aveva mantenuto in vita.
Di lì lo trasse Altea, ordinando di affastellare rami e trucioli,
e a mucchio pronto, vi appiccò per vendicarsi il fuoco.
Quattro volte fu sul punto di porre il ceppo sulle fiamme,
quattro volte si trattenne: sorella e madre combattono in lei
e le due nature in direzioni opposte trascinano il suo cuore.
Ora il volto si sbianca per timore del delitto che ha nell'animo,
ora l'ira che le ferve negli occhi glielo infiamma;
ora ha l'aspetto di chi minaccia le cose più orrende,
ora, lo giureresti, quello di chi ha compassione;
e quando la furia selvaggia del suo animo secca le sue lacrime,
qualche lacrima trova ancora. E come una nave in balia
del vento e di una corrente che lo contrasta,
subisce entrambe le forze e fra quelle si dimostra incerta,
così la figlia di Testio si dibatte tra impulsi avversi
e di volta in volta placa o riaccende la sua ira.
Ma a poco a poco comincia ad essere miglior sorella che madre
e per placare col sangue le ombre dei suoi fratelli,
si fa nell'empietà pietosa. Così quando quel fuoco sinistro
prende vigore: "Che questo rogo bruci la carne mia!" esclama
e stringendo orribilmente in mano il legno incantato,
immobile davanti a quel funebre altare, disperata invoca:
"O dee della vendetta, Eumenidi, a questo rito infernale
volgete il vostro sguardo! Vendico una colpa
commettendone un'altra. Morte con la morte si deve scontare.
Si aggiunga delitto a delitto, funerale a funerale,
e si estingua questa stirpe malvagia sotto un cumulo di lutti.
Perché mai Eneo dovrebbe godersi il figlio che torna in trionfo
e Testio esserne privo? Che piangano entrambi, sì,
questo è giusto! Anime dei fratelli miei, sorpresi dalla morte,
considerate il mio compito e accettate questa funebre offerta
che tanto mi costa, il frutto maligno del mio ventre.
Ahimè, cosa mi prende? Abbiate pietà, fratelli miei, d'una madre!
La mano si ribella. Certo, lui merita di morire,
lo riconosco, ma l'esser causa della sua morte mi ripugna.
Resterà impunito allora, vivo, vittorioso, e in più diverrà,
tronfio dei suoi successi, re di Calidone, mentre solo un pugno
di cenere riposerà di voi, gelide ombre, sottoterra?
Non lo permetterò! no, muoia lo scellerato e nella rovina
con sé trascini le speranze di suo padre, il regno e la sua patria!
E l'affetto materno? gli obblighi pietosi che hanno i genitori?
i travagli che sopportai per nove mesi? dove sono?
Oh, se appena nato tu fossi arso al primo fuoco
ed io l'avessi permesso! Per dono mio tu sei vissuto,
per colpa tua morirai. Prenditi il premio per ciò che hai fatto:
restituisci la vita che due volte ti ho dato, partorendoti e
salvando il ceppo, o con i miei fratelli anche me metti a morte!
Vorrei, ma non posso. Che fare? Nei miei occhi ora ho le piaghe
dei miei fratelli e la visione di quella tremenda strage,
ora l'affetto e l'istinto materno mi spezzano il cuore.
Ahimè! per disgrazia mia vincerete voi; ma sì, vincete, sì,
purché voi e chi sacrifico per placarvi io segua
nella morte!". Così dice, e con mano tremante, girandosi
per non vedere, getta in mezzo al fuoco quel ceppo funereo.
Il legno manda un gemito, o almeno così sembra, e le fiamme,
benché riluttanti, ghermendolo lo bruciano.
Lontano e ignaro, da quel fuoco è arso Meleagro:
sente le viscere seccarsi in preda a fiamme misteriose
e solo col suo coraggio può sopportarne gli atroci dolori.
Ma di morte ingloriosa e incruenta si strugge di morire,
considera un privilegio le ferite di Anceo,
e in quegli ultimi istanti con un gemito invoca il suo vecchio,
i fratelli, le tenere sorelle, la sua compagna d'amore,
e forse anche la madre. Crescono il fuoco e lo strazio,
poi si attenuano: infine l'un l'altro insieme si estinguono
e a poco a poco l'anima sua nel vuoto dell'aria si dissolve,
a poco a poco un velo di cenere bianca ricopre la brace.
Prostrata è la nobile Calidone: piangono giovani e anziani,
gemono popolo e patrizi, e le donne nate in riva all'Eveno
si strappano i capelli, si percuotono le membra.
Il padre, steso al suolo, si cosparge di polvere la canizie,
il volto emaciato, maledicendosi d'essere ancora in vita:
per espiare il rimorso di quel suo gesto orrendo,
di sua mano la madre con un pugnale si era trafitta il petto.
Neppure se un nume mi desse cento bocche straripanti
di parole, ingegno fervido e tutta l'arte delle Muse,
potrei descrivere i lamenti e l'angoscia delle sorelle.
Incuranti del proprio aspetto s'infliggono lividi sul petto,
col loro abbraccio tentano di rianimare i resti del fratello,
li colmano di baci e di baci colmano il feretro sul rogo;
reso cenere, quella cenere raccolgono e stringono al petto,
si accasciano davanti al tumulo e avvinghiate alla lapide
che reca il suo nome, su quel nome spargono le lacrime loro.
Finalmente la figlia di Latona, paga d'aver sterminato
la stirpe di Partàone, le solleva (tranne Gorge e della nobile
Alcmena la nuora) facendo spuntare penne sui loro corpi;
in lunghe ali modella le loro braccia, a becco
foggia la bocca e, così mutate, le affida all'aria.
Teseo intanto, dopo avere assolto coi compagni la sua parte
nell'impresa, stava tornando alla rocca di Eretteo, sacra a Pallade.
Gonfio di pioggia, l'Achelòo gli sbarrò la strada, impedendogli
di proseguire. "Entra nella mia dimora, illustre erede
di Cècrope," gli disse, "e non esporti alla violenza dei miei flutti:
sradicano i tronchi più robusti e con fragore immenso travolgono
i macigni in bilico. Ho visto, vicino alla riva, grandi stalle
trascinate via con tutto il bestiame, e non servì
agli armenti la forza, ai cavalli l'agilità.
E quando sui monti si sciolgono le nevi, l'impeto del fiume
ha inghiottito persino dei giovani nel turbine dei suoi gorghi.
È meglio che tu riposi, in attesa che il suo flusso torni a scorrere
negli argini e l'acqua, calando, rientri nell'alveo."
Il figlio di Egeo accettò e rispose: "Mi varrò del tuo consiglio
e della tua casa, Achelòo". E si valse dell'uno e dell'altra.
Entrò in un atrio dai muri di pomice spugnosa
e di ruvido tufo; molle e umido di muschio era il piancito,
il soffitto a cassettoni ornati di conchiglie e di mùrici.
E ormai il sole aveva superato i due terzi del giorno;
Teseo e i suoi compagni d'avventura si stesero sui triclini:
da questa parte il figlio d'Issìone, dall'altra Lèlege,
l'eroe di Trezene, dalle tempie ormai brizzolate;
poi tutti gli altri che il fiume dell'Acarnania, felice d'avere
un ospite così importante, aveva degnato di pari onore.
Subito ninfe a piedi scalzi apparecchiarono le tavole,
riempiendole di vivande, poi, al termine del banchetto,
servirono vino in coppe di gemma. Allora quell'eccelso eroe,
guardando in lontananza la distesa del mare: "Che luogo
è quello?" chiese indicando col dito. "Dimmi, qual è il nome
di quell'isola, anche se non mi sembra che sia una sola?".
"Ciò che vedete, non è un'isola sola," rispose il fiume,
"sono cinque lingue di terra: la distanza ne confonde i limiti.
Ma perché ciò che fece Diana offesa non ti sembri enorme,
quelle un tempo erano Naiadi: immolati dieci giovenchi
e invitati alla funzione gli dei della campagna, in festa
avevano intrecciato le loro danze, ignorandomi del tutto.
Gonfio di rabbia, come mai quando straripo nelle piene
più furiose, questo ero: con impeto immane e immane alluvione
sradico foresta da foresta, campo da campo,
e insieme a loro le ninfe, che finalmente m'ebbero presente,
precipitandole in mare. I suoi flutti e i miei asportarono
un lembo di terraferma, frantumandolo in tante parti
quante son quelle che si scorgono al largo: le Echìnadi.
Come però tu stesso vedi, laggiù c'è un'isola più discosta,
un'isola che mi è cara: i marinai la chiamano Perimele.
A costei, che amavo, avevo rapito la verginità;
suo padre, Ippodamante, non lo tollerò e giù da uno scoglio
spinse la figlia perché perisse negli abissi del mare.
Io l'afferrai e reggendola a galla: "O tu che armato di tridente
hai avuto in sorte il secondo regno del mondo, il mare agitato,"
dissi, ["dove noi fiumi divini scorrendo al termine finiamo,
vieni e ascolta benigno, o Nettuno, la mia preghiera.
Disonorata ho costei che sorreggo; se suo padre Ippodamante
fosse stato mite e giusto o meno spietato con sua figlia,
avrebbe dovuto averne pietà e perdonare chi l'offese.]
Vienmi in aiuto, Nettuno, ti prego, e a lei, che annega per ferocia
paterna, concedi un luogo o che un luogo lei stessa diventi.
[Anche così io continuerò ad abbracciarla". Il re del mare
chinò il capo e in segno d'assenso agitò tutte le sue onde.
Si spaventò la ninfa, ma seguitò a nuotare; e mentre nuotava
io le accarezzavo il seno che palpitava d'emozione;
ma stringendola a me sentii il suo corpo, tutto il suo corpo,
irrigidirsi e il petto fasciarsi di terra.] Parlavo, parlavo:
la terra, sorta dal nulla, le avviluppò in mezzo ai flutti le membra,
si rapprese e crebbe sul suo corpo, trasformandola in isola."
Qui il fiume tacque. Quel prodigio aveva emozionato tutti.
Ma il figlio d'Issìone si prese beffa di chi ci credeva
e, miscredente e insolente com'era, disse:
"Racconti frottole, Achelòo, e giudichi troppo potenti
gli dei, se pensi che possano dare e togliere il volto alla gente".
Gli altri allibirono, disapprovando simili parole,
e Lèlege, più maturo di tutti per giudizio ed anni,
così disse: "Immensa e senza limiti è la potenza
del cielo: ciò che vogliono gli dei, sia quel che sia, si compie.
E per toglierti i dubbi, c'è sui colli di Frigia una quercia,
con accanto un tiglio e intorno un basso muro di cinta;
ho visto il luogo io stesso: fu quando Pitteo mi mandò
nelle terre su cui un giorno aveva regnato suo padre Pèlope.
Non lontano da lì c'è uno stagno, un tempo terra abitabile,
ora distesa d'acqua affollata di smerghi e folaghe palustri.
Qui, sotto aspetto umano, venne Giove e insieme a lui
il nipote di Atlante, privo d'ali e con la sua bacchetta magica.
A mille case bussarono, in cerca di un luogo per riposare;
mille case sprangarono la porta. Una sola infine li accolse:
piccola, piccola, con un tetto di paglia e di canne palustri,
ma lì, uniti sin dalla loro giovinezza, vivevano
Bauci, una pia vecchietta, e Filemone, della stessa età,
che in quella capanna erano invecchiati, alleviando la povertà
con l'animo sereno di chi non si vergogna di sopportarla.
Non ha senso chiedersi chi è il padrone o il servitore: la famiglia
è tutta lì, loro due; comandano ed eseguono tutti e due.
Quando i celesti, arrivati a questa povera casa,
entrarono chinando il capo per l'angustia della porta,
il vecchio li invitò ad accomodarsi, accostando una panca,
sulla quale Bauci stese con premura un ruvido panno; lei,
poi, smosse sul focolare la cenere tiepida, ravvivò
il fuoco del giorno avanti, alimentandolo con foglie e corteccia,
e ne fece scaturire fiamme con quel poco fiato che aveva.
Da un ripostiglio trasse scaglie di legno e rametti secchi,
li spezzettò e li pose sotto un piccolo paiolo;
spiccò le foglie ai legumi raccolti dal marito
nell'orto bene irrigato, mentre lui con un forcone staccava
la spalla affumicata di un suino appesa a una trave annerita:
di quella spalla a lungo conservata taglia una porzione
sottile, che pone a lessare nell'acqua bollente.
Intanto ingannano il tempo che si frappone conversando,
[perché non si avverta la noia dell'attesa. Appesa a un gancio
per il suo manico ricurvo, vi è una tinozza di faggio:
la riempiono d'acqua tiepida e vi immergono i piedi
per ristorarli. Al centro, sopra un letto dalla sponda
e dalle gambe di salice, c'è un giaciglio d'erbe morbide.]
Sprimacciano il giaciglio d'erba morbida di fiume,
posto sopra il letto dalla sponda e dalle gambe di salice.
Lo coprono con una coltre, che hanno l'abitudine di stendere
solo nei giorni di festa; ma anche questa coltre era vecchia
e logora, giusto adatta a un letto di salice.
Gli dei si adagiano. La vecchia, con la veste raccolta, apparecchia
vacillando la tavola; ma delle sue tre gambe una è corta:
un coccio la pareggia; infilato sotto elimina la pendenza,
e il piano viene poi ripulito con un ciuffo di menta verde.
Sopra vi pone olive verdi e nere, sacre alla schietta Minerva,
corniole autunnali aromatizzate con salsa di vino,
indivia, radicchio, una forma di latte cagliato, e
uova girate leggermente nel tepore della cenere;
il tutto in terrine. Poi porta in tavola un cratere cesellato
nello stesso 'argento', bicchieri di faggio intagliato
che hanno la superficie interna spalmata di bionda cera.
Dopo non molto, giungono dal focolare le vivande calde,
si mesce un'altra volta il vino (certo non d'annata),
poi, messo il tutto un poco in disparte, si fa posto alla frutta.
Ed ecco noci, fichi secchi misti a datteri grinzosi,
prugne, mele profumate in larghi canestri,
grappoli d'uva colti da tralci purpurei.
Al centro un candido favo. Ma a tutto questo si accompagnano
facce buone, sollecitudine sincera e generosa.
E qui i due vecchi si accorgono che il boccale, a cui si è attinto
tante volte, si riempie da solo, che il vino da solo ricresce;
turbati dal prodigio, Bauci e il timido Filemone son presi
dal terrore e con le mani alzate al cielo si mettono a pregare,
chiedendo venia per la povertà del cibo e della mensa.
C'era un'unica oca a guardia di quella minuscola cascina,
e loro erano pronti ad immolarla per quegli ospiti divini.
Ma l'oca starnazzando scappa in barba a quei lenti vecchietti,
beffandoli di continuo, finché fu vista rifugiarsi
proprio accanto agli dei, che proibiscono di ucciderla, dicendo:
"Numi del cielo noi siamo, e i vostri empi vicini avranno
la punizione che meritano; a voi invece d'esserne immuni
sarà concesso. Lasciate solo la vostra casa,
seguite i nostri passi e venite con noi in cima
a quel monte!". I due obbediscono e, appoggiandosi al bastone,
salgono lungo il pendio a fatica, passo passo.
Distavano ormai dalla vetta il tragitto che può percorrere
una freccia: volgono gli occhi e vedono che giù tutto è sommerso
da una palude, tutto tranne la loro dimora.
E mentre guardano stupiti, piangendo la sorte dei vicini,
quella vecchia capanna, piccola anche per i suoi padroni,
si trasforma in un tempio: colonne vanno a sostituire i pali,
vedono la paglia del tetto assumere riflessi d'oro,
le porte ornarsi di fregi e il suolo rivestirsi di marmo.
E allora con voce serena il figlio di Saturno così parla:
"O buon vecchio e tu, donna degna del tuo buon marito,
esprimete un desiderio". Consultatosi un po' con Bauci,
Filemone partecipa agli dei la loro scelta:
"Chiediamo d'essere sacerdoti e di custodire il vostro tempio;
e poiché in dolce armonia abbiamo trascorso i nostri anni,
vorremmo andarcene nello stesso istante, ch'io mai non veda
la tomba di mia moglie e mai lei debba seppellirmi".
Il desiderio fu esaudito: finché ebbero vita,
custodirono il tempio. Ma un giorno mentre, sfiniti dallo scorrere
degli anni, stavano davanti alla sacra gradinata, narrando
la storia del luogo, Bauci vide Filemone coprirsi
di fronde e il vecchio Filemone coprirsene Bauci.
E ancora, quando la cima raggiunse il loro volto,
fra loro, finché poterono, continuarono a parlare: "Addio,
amore mio", dissero insieme e insieme la corteccia come un velo
suggellò la loro bocca. Ancor oggi gli abitanti della Frigia
mostrano l'uno accanto all'altro quei tronchi nati dai loro corpi.
Queste cose mi furono narrate da vecchi degni di fede
e che non avevano ragione di mentire. Del resto ho visto
io stesso ghirlande appese ai rami e io ne ho appese, dicendo:
"Divino sia chi fu caro agli dei e abbia onore chi li onorò"".
La storia, per l'autorità di Lèlege, aveva commosso tutti,
specialmente Teseo. E a lui, che non si saziava d'udire
i prodigi degli dei, il fiume dell'Etolia, appoggiato al gomito,
così si rivolse: "Vi sono creature, valoroso eroe,
che dopo un mutamento hanno mantenuto la forma assunta;
ve ne sono altre che hanno la facoltà d'assumerne diverse,
come te, Pròteo, creatura del mare che circonda la terra.
A volte infatti ragazzo ti sei mostrato, altre volte leone;
ora violento cinghiale, ora serpente che non si ha il coraggio
di toccare; a volte le corna t'hanno reso toro;
altre avresti potuto sembrare una pietra, altre ancora una pianta;
talora, imitando l'aspetto liquido dell'acqua,
sei stato fiume, talaltra, al contrario, fuoco.
Anche la moglie di Autòlico ha questa facoltà. Suo padre,
Erisìctone, era un essere che spregiava le divinità
e mai nulla bruciava sugli altari in loro onore.
Si dice che avesse violato addirittura un bosco consacrato
a Cerere, profanandone con la scure la macchia inviolata.
Lì si ergeva una quercia immensa, secolare, ch'era lei da sola
un bosco, e aveva tutto intorno al fusto addobbi di nastrini,
di ex voto e di ghirlande, a ricordo di grazie ricevute.
Ai suoi piedi un'infinità di volte avevano danzato in festa
le Driadi, in cerchio, mano nella mano, intorno al tronco,
che per le sue mostruose dimensioni chiedeva quindici braccia
e passa a circondarlo. Sotto questa quercia il resto della selva
scompariva, così come scompare l'erba ai piedi d'ogni pianta.
Eppure il figlio di Trìopa lontano non ne tenne il ferro:
ordinò ai servitori di tagliare la sacra quercia alla base,
ma vedendo che esitavano ad obbedire, quello scellerato
ad uno di loro strappò la scure, sbraitando:
"Quand'anche non fosse solo cara alla dea, ma la dea in persona,
tra poco a terra si schianterà con tutta la sua cima frondosa".
Disse e, bilanciando l'arma, stava per vibrare colpi di sbieco:
tutta tremò la quercia di Cerere ed emise un lamento;
nel medesimo istante fronde e ghiande insieme cominciarono
a sbiancare ed un pallore si diffuse sui lunghi rami.
Appena l'empia mano ebbe inflitta una ferita al tronco,
dalla corteccia scheggiata fiottò il sangue, così come
sgorga dalla nuca squarciata di un toro possente,
quando vittima immolata stramazza davanti all'altare.
Tutti allibiscono; fra loro solo un temerario cerca
di sventare il sacrilegio, di fermare quella scure impazzita.
Erisìctone lo fissa: "Eccoti il premio del tuo sacro zelo",
gli dice e, rivolgendo il ferro dalla pianta contro l'uomo,
gli mozza il capo; poi torna ad accanirsi contro la quercia,
quando dal cuore del fusto si leva una voce che mormora:
"Sotto questa scorza vive una ninfa, io, prediletta di Cerere,
e in punto di morte io ti predìco che per questo misfatto
il tuo castigo incombe, e ciò mi conforta della mia fine".
Ma lui insiste nella sua infamia, e alla fine, stroncato
da un'infinità di colpi e tirato dalle funi,
l'albero crolla e con la sua mole travolge gran parte del bosco.
Annichilite di fronte alla rovina del bosco e loro,
le Driadi, tutte le sorelle insieme, vestite di nero,
vanno in pianto da Cerere, invocando il castigo di quell'infame.
Lei acconsente e annuendo col suo bellissimo capo,
scuote i campi carichi di messi lussureggianti,
escogitando un genere di pena che muoverebbe a pietà,
se mai si potesse avere pietà di un simile malvagio:
farlo divorare dai morsi della Fame. Ma poiché non può
recarsi da lei in persona (i fati non consentono che Cerere
e Fame s'incontrino), la dea si rivolge a una divinità
minore dei monti, a un'ombrosa Orèade, dicendole:
"C'è nelle estreme contrade della Scizia un luogo gelato,
una terra desolata, sterile, priva d'alberi e di messi;
abitano lì l'inerte Gelo, il Pallore, il Brivido
e la Fame digiuna: ordinale di annidarsi nelle viscere
scellerate di quel sacrilego; profusione di cibo
non la vinca e nella contesa con le mie risorse abbia la meglio!
La lontananza non deve spaventarti; prendi il mio cocchio,
prendi i miei draghi: con le briglie li guiderai lungo il cielo".
E glieli diede. Quella, trasportata attraverso l'aria dal cocchio,
giunse in Scizia, e sulla sommità d'una montagna ghiacciata,
chiamata Caucaso, liberò dai finimenti i colli dei draghi.
E mentre la cercava, scorse in una pietraia la Fame,
intenta a svellere con unghie e denti i rari fili d'erba.
Ispidi aveva i capelli, occhi infossati, viso pallido,
labbra sbiancate dall'inedia, gola rósa dall'arsura,
rinsecchita la pelle, diafana al punto da mostrare le viscere;
ossa scarne spuntavano dalle sue anche spigolose,
del ventre aveva la cavità, non il ventre; il torace sembrava
sospeso, sorretto soltanto dalla colonna dorsale.
La magrezza esaltava le articolazioni, rotule e malleoli
tumefatti sporgevano come gibbosità mostruose.
Quando la vide, l'Orèade, non osando avvicinarsi,
le riferì da lontano il messaggio della dea; e subito,
malgrado si tenesse a distanza e fosse appena arrivata,
sentì i morsi della fame, o così le parve, e allora con le redini,
in volo verso l'Emonia, spinse i draghi sulla via del ritorno.
La Fame, pur contraria per principio all'opera di Cerere,
eseguì l'ordine: si fece portare dal vento nello spazio
sino alla casa indicata, entrò senza indugio nella camera
del sacrilego e, immerso in un sonno profondo
nel cuore della notte, l'avvinse tra le sue braccia e in corpo
gli infuse sé stessa, respirandogli in bocca, in gola, nei polmoni,
e diffondendogli sin nelle vene i morsi della fame.
Assolta la missione, lasciò le regioni fertili del mondo
e tornò alla sua squallida dimora, al suo covo di sempre.
Un molle sonno ancora cullava Erisìctone tra le sue morbide
piume, e nel sogno è assalito dal desiderio di mangiare,
muove a vuoto la bocca, tormentando dente contro dente,
stanca la gola delusa con cibi inesistenti
e in luogo di vivande, senza frutto, divora folate d'aria.
Quando poi si desta, la smania di mangiare divampa furiosa
e domina la gola insaziabile, le viscere in fiamme.
Non può attendere: ciò che produce il mare, la terra, il cielo,
tutto esige e davanti a tavole imbandite geme per inedia,
fra le vivande chiede vivande, e ciò che a intere città,
a un popolo intero potrebbe bastare, a lui, un uomo, non basta:
quanto più ingurgita nel ventre, tanto più lui brama.
Come il mare assorbe i fiumi di tutto il mondo, senza mai saziarsi
d'acqua, e assimila anche le correnti dei luoghi più lontani;
come il fuoco nell'ingordigia sua non rifiuta alimento alcuno,
bruciando un'infinità di tronchi, e più gliene danno,
più ne vuole, reso ancor più vorace dalla quantità;
così la bocca dell'empio Erisìctone inghiotte vivande a iosa
e altre ancora ne reclama; per lui il cibo chiama
cibo: mangia, mangia, ma in lui sempre un vuoto si forma.
Ormai con la sua fame e con l'abisso senza fondo del suo ventre
aveva assottigliato il patrimonio paterno, ma neanche allora
la mostruosa fame s'era attenuata, e la gola implacabile
seguitava a spasimare. Alla fine, divorate le sostanze,
gli restava solo la figlia, che non meritava un padre simile.
In miseria, la vendette; ma lei, nobile, rifiuta un padrone
e in riva al mare, tendendo le mani alle sue onde:
"Liberami dalla servitù," dice, "tu che hai avuto l'onore
di rapirmi la verginità!". Era Nettuno ad averlo avuto.
E lui non resta sordo alla preghiera: benché il padrone, tenendola
sott'occhio, la segua, ne mutò l'aspetto in quello di un uomo,
abbigliandola come si conviene a un pescatore. A quella vista,
il suo padrone l'interpella: "O tu, che sotto un po' di cibo
celi un amo appeso e manovri la tua lenza, t'auguro
che il mare sia calmo, che il pesce sott'acqua sia tanto ingenuo
da accorgersi dell'amo solo quando ha abboccato;
ma dimmi: quella che, mal vestita e coi capelli scomposti,
si trovava su questa spiaggia (ed io l'ho vista che vi si trovava),
dov'è finita? Oltre qui non se ne vedono più le impronte".
Lei capì allora che la grazia del nume aveva avuto effetto
e felice che le chiedesse di sé stessa, così gli rispose:
"Chiunque tu sia, perdonami: non ho mai distolto i miei occhi
da quest'acqua, voltandomi, intento com'ero al mio lavoro.
E se hai dei dubbi, lo giuro sul dio del mare, che m'assista
in questo mestiere: nessuno, eccetto me, da tempo
ha messo piede su questa spiaggia, e tanto meno una donna".
Quello le credette e tornato sui suoi passi, calcando la rena
se ne andò gabbato; e lei riacquistò la forma primitiva.
Ma quando suo padre si rese conto d'avere una figlia
col dono della metamorfosi, la vendette ad altri padroni.
E lei se ne liberava di volta in volta come uccello, vacca,
cavalla o cervo, procurando all'ingordo padre cibi immeritati.
Alla fine, però, quando la violenza del male ebbe bruciato
tutte le risorse, fornendo nuovo alimento alla sua molestia,
Erisìctone, lacerandole a morsi, cominciò a divorarsi
le membra e, con strazio, a nutrirsi rosicando il proprio corpo.
Ma perché mi soffermo sugli altri? Anch'io ho il potere,
o giovani, di mutare il mio corpo, sebbene non più di tanto.
A volte sono come mi vedete, altre mi attorco in serpente;
altre ancora, a capo dell'armento, prendo forza dalle mie corna:
dalle corna, finché ho potuto! Metà della mia fronte ora è priva,
come vedi, di un'arma". E alle parole seguirono i suoi sospiri.
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