LA STORIA ANTICA
dal comunismo primitivo alla fine dello schiavismo
RIPENSARE LA PREISTORIA
Noi non riusciremo mai a capire il periodo storico
che chiamiamo "preistoria", che s'è concluso quando hanno iniziato ad affermarsi
le prime civiltà urbane, semplicemente perché siamo figli di quelle stesse
civiltà e consideriamo tutto quanto le ha precedute come destinato ad essere
superato.
Per poter capire la preistoria in maniera adeguata, dovremmo prima
eliminare qualunque cosa possa indicare o rappresentare la cosiddetta "civiltà".
Non dobbiamo compiere un salto indietro, ma semplicemente fare in modo che, ad
ogni crisi di civiltà, non si pongano delle soluzioni che ne rallentino il
definitivo superamento: basterebbe soltanto smettere d'illuderci.
Dovremmo
approfittare delle crisi, che sono cicliche e sempre più gravi, per fare decisi
passi in avanti verso il recupero del comunismo primordiale. E' del tutto
inutile parlare di "transizione al socialismo" quando non riusciamo a capire che
il modello da realizzare è quello anteriore a tutte le civiltà. E' sufficiente
elencare una serie di pregiudizi per capire quanto ancora siamo lontanissimi da
un'adeguata interpretazione della preistoria.
Noi consideriamo che gli strumenti di lavoro della primitiva comunità
tribale fossero del tutto "rudimentali". Usiamo certi aggettivi in maniera
astratta, facendo confronti del tutto arbitrari, e non ci rendiamo conto che
l'efficienza d'un mezzo è relativa ai risultati che si possono conseguire.
Il fatto che per migliaia e migliaia di anni siano stati usati sempre gli stessi
strumenti di lavoro, dovrebbe suscitarci stupore in senso positivo, non
negativo. Evidentemente quei mezzi dovevano essere molto funzionali allo
scopo.
Oggi i nostri macchinari sono costosissimi, molto sofisticati, molto
inquinanti, destinati a una precoce obsolescenza, al punto che invece di
ripararli, siamo costretti a sostituirli, e per di più producono, col tempo,
una caduta tendenziale del saggio di profitto, tant'è che gli imprenditori
preferiscono trasferirsi là dove la tecnologia è di più basso livello, ma
ancora più basso è il costo della manodopera. Peraltro l'uso di pietre,
bastoni e ossa era, in quel lontano passato, del tutto compatibile con le
esigenze riproduttive della natura: cosa che noi oggi non potremmo dire
di alcun nostro strumento di lavoro.
Naturalmente al giudizio negativo sull'efficacia degli strumenti di
lavoro, facciamo seguire la convinzione (come fosse una logica conseguenza)
che l'uomo primitivo si trovasse quasi del tutto disarmato nella sua lotta
contro la natura. E dicendo questo, non ci rendiamo conto che per l'uomo
primitivo la natura non era affatto qualcosa da "dominare", ma, semmai, da
rispettare profondamente, in quanto fonte di vita.
Noi "civilizzati" abbiamo un rapporto con la natura molto controverso, in
quanto per noi essa va fondamentalmente sfruttata, e siamo convinti di
poterlo fare in maniera illimitata e indiscriminata, proprio perché la vogliamo dominare a
livello planetario, cioè nella massima estensione possibile.
Peraltro ci meravigliamo al vedere l'uomo primitivo del tutto impotente
al di fuori del suo contesto comunitario. Noi siamo abituati talmente tanto
all'individualismo che viviamo il collettivismo solo in certi momenti
della nostra giornata, per lo più nei luoghi di lavoro e spesso in maniera
alquanto formale.
Abbiamo sì organismi collettivi, ma la loro funzione o è quella d'imporre la
loro volontà ad altri organismi o è quella di difendersi dalla volontà altrui.
Quando si sostiene che la raccolta collettiva dei prodotti della natura
o l'esito di un'operazione di caccia si svolgevano su un territorio
relativamente ristretto, nell'ambito di particolari gruppi di consanguinei,
abbastanza isolati, si dicono cose del tutto imprecise.
Anzitutto l'uomo primitivo, con le sue migrazioni, ha popolato l'intero
pianeta; in secondo luogo è proprio vivendo in un territorio circoscritto
che si è costretti a garantire alla natura una sua agevole riproduzione, e
la natura viene considerata una fonte di sopravvivenza per la collettività,
quindi una grande ricchezza da tutelare; in terzo luogo, se è vero che
esistevano i gruppi parentali, è anche vero che le relazioni coniugali si
cercava di realizzarle tra clan e tribù differenti; in quarto luogo il fatto
che esistesse l'autoconsumo non ha mai voluto dire che non esistessero
mercati e fiere ove praticare il baratto o lo scambio delle eccedenze:
semplicemente non esisteva alcuna stretta dipendenza dal mercato.
Quando si afferma che nel comunismo primitivo esisteva una semplice
cooperazione, senza divisione del lavoro, se non una, al massimo, per
sesso (le donne p.es. si occupavano di raccolta, gli uomini di caccia)
e, in certi limiti, per età (gli anziani p.es. fabbricavano strumenti
di lavoro), si vuol dare per scontato che il loro livello di benessere fosse
basso proprio per questo motivo.
In realtà l'assenza di una divisione significativa del lavoro rendeva la
comunità molto compatta e omogenea, priva di conflitti sociali e di quelle
tendenze che si avvalgono della stratificazione sociale per creare ceti di
potere o ambiti privilegiati.
Noi dovremmo metterci in testa che la cosa più importante per l'affermazione
dell'essenza umana è lo sviluppo degli interessi collettivi della
comunità, poiché solo questi possono superare le contraddizioni di tipo
antagonistico. Se per ottenere questa cosa, si deve essere disposti a
rinunciare a tutto ciò che apparentemente sembra garantire un elevato
livello di benessere e di comodità, non dovremmo avere dubbi di sorta sulla
scelta da compiere.
Non è possibile considerare negativamente il fatto che lo sviluppo delle
forze produttive avvenisse soltanto all'interno di strutture collettive. Se
questo sviluppo non è stato "tumultuoso" o "impetuoso" come quello della
borghesia nell'ultimo mezzo millennio, ciò non costituisce di per sé alcun
problema. Non possiamo sacrificare sull'altare dello sviluppo
tecnico-scientifico una qualunque altra considerazione.
Quante volte i classici del marxismo han detto che la divisione del lavoro
in manuale e intellettuale era un limite da superare? Perché allora prendere proprio questa divisione come una fonte di progresso che ha reso
necessaria la transizione dal comunismo primitivo allo schiavismo? Perché
utilizzare solo la categoria della "necessità" per spiegare i passaggi da
una formazione sociale all'altra? Questo determinismo economicistico è
davvero in grado di spiegare qualcosa che riguardi i fenomeni di tipo
"antropico"?
Spesso il marxismo è caduto in questa ermeneutica riduzionistica della
storia perché, quando parlava di socialismo futuro, aveva in mente una sorta
di comunismo primitivo ma con tutte le caratteristiche tecnico-scientifiche
del capitalismo avanzato. Non si voleva tornare al passato, rischiando
d'avere gli stessi problemi degli uomini preistorici. Si era convinti che,
avendo a disposizione gli strumenti produttivi della borghesia, il
socialismo futuro sarebbe stato una formazione sociale avanzatissima,
praticamente insuperabile, perché totalmente priva degli antagonismi del
capitalismo.
E invece il cosiddetto "socialismo reale" non aveva fatto i conti con
l'oste, il quale metteva in discussione che una proprietà
"statale" dei mezzi produttivi volesse dire una proprietà "sociale", in
quanto il rafforzarsi dello Stato (in luogo della sua progressiva
estinzione) aveva generato una classe di politici e burocrati del tutto
privilegiata, che poteva estorcere plusvalore agli operai proprio in nome
dello Stato. La stessa natura palesava tutta la propria
sofferenza e rivendicava tutta la propria autonomia nei confronti
dell'enorme saccheggio di risorse compiuto proprio in nome degli ideali
cosiddetti "socialisti". I moderni mezzi produttivi, anche quando fossero
socializzanti o statalizzati nella proprietà, costituiscono sempre un nemico
mortale per le esigenze riproduttive della natura.
Quindi non ha alcun senso limitarsi a socializzare la produzione anche
nell'aspetto della sua proprietà, senza chiedersi, nello stesso
momento, se questi mezzi sono davvero idonei a garantire un rapporto
equilibrato tra uomo e natura. Se non arriviamo a capire che più
importante del lavoro produttivo è la riproduzione dei cicli
naturali, non potrà mai esserci garanzia di un futuro del genere umano.
E perché questi cicli riproduttivi vengano integralmente rispettati, occorre
che ogni componente del collettivo si senta moralmente e
materialmente responsabile nei confronti di quello specifico ambiente
naturale che gli garantisce la sopravvivenza.
Questo significa che il collettivo deve essere un'esperienza circoscritta,
limitata nel territorio, in grado d'individuare facilmente le
violazioni anti-ecologiche e porvi rimedio immediatamente.
Il collettivo non può definirsi tale solo perché dispone di una proprietà
comune dei mezzi produttivi, ma anche perché dispone di un
atteggiamento e di una sensibilità comune nei confronti della
natura.
Il difetto principale della storiografia marxista è stato quello di
accettare la categoria hegeliana della "necessità storica", quella per cui
le transizioni da una formazione sociale a un'altra diventano del tutto
naturali, in un certo senso inevitabili. All'interno di questa
ineluttabilità delle cose si è portati a credere che una successione di
determinazioni quantitative (i mutamenti apparentemente poco significativi)
ad un certo punto porta al formarsi di una nuova qualità, cioè un inedito
stile di vita.
Si minimizza insomma la tragicità e la complessità del trapasso. Si vuol far
credere che la volontà degli uomini non sia in grado di fare granché nei
confronti di determinati processi storici. Proprio perché si afferma il
materialismo storico-dialettico, si vuol dare alla struttura un'importanza
nettamente superiore a quella della sovrastruttura. E così si riduce la
struttura, nonché la storia che ne spiega la nascita e l'evoluzione, a una
mera caratterizzazione economica, e si riduce la dialettica a un rigido susseguirsi di cause ed effetti, dove il peso della libertà umana è ridotto a zero.
Di qui l'idea, molto banale, di credere che per passare dal comunismo
primitivo allo schiavismo sia stato sufficiente trasformare la proprietà
personale in proprietà privata, come se questa trasformazione, in un sistema
dove domina la proprietà comune dei mezzi produttivi, fosse la cosa più naturale
del mondo, al punto da passare, nella sua fase iniziale, del tutto
inosservata.
Poi si è arrivati a dire che l'aumento della naturale produttività e del
conseguente aumento della popolazione hanno fatto sì che, all'interno di
questa popolazione, si formassero nuovi gruppi, intenzionati ad appropriarsi
di nuovi appezzamenti di terra. Come se da un semplice miglioramento del
tenore di vita, ottenuto con una gestione collettiva e quindi razionale
della proprietà comune e degli strumenti di lavoro condivisi, si potesse
passare, con tutta naturalezza, a trasformare una parte della collettività
da proprietaria pubblica a proprietaria privata. Queste cose in realtà
implicano un radicale mutamento di mentalità, che non può essere sottaciuto,
né dato per scontato, né minimizzato.
E' completamente sbagliato pensare di poter analizzare la cosiddetta
"preistoria" dicendo che la principale contraddizione, seppur non
antagonistica, stava nel fatto che i bisogni vitali degli uomini non
riuscivano ad essere soddisfatti in maniera adeguata a causa di un basso
livello di sviluppo delle forze produttive. E' assurdo paragonare le loro
forze alle nostre. E' cinico credere che a causa di quel livello, ritenuto
inadeguato, fosse necessaria la transizione alla proprietà privata e allo
schiavismo. Si fa una storiografia quanto meno bizzarra quando si sostiene
che, ad un certo punto, dopo che per decine di migliaia di anni aveva
funzionato benissimo, il rapporto tra forze e rapporti produttivi s'era
rivelato insostenibile.
Per circa due milioni di anni gli uomini, nella sostanza, hanno usato
analoghi strumenti produttivi. Non era certamente stato fatto per mancanza
d'intelligenza o per una particolare soggezione a ideologie religiose o
alle forze della natura. Anzi, probabilmente era proprio il contrario: gli
uomini avevano capito bene quali mezzi e metodi usare per sopravvivere senza
arrecare alcun danno all'ambiente.
Piuttosto è oggi che, nonostante tutti i sofisticati mezzi di cui
disponiamo, non riusciamo in alcun modo, neppure quando ce la mettiamo
tutta, a rispettare la natura sino in fondo. Non c'è nessuna nostra azione,
oggi, che non rechi danno alla natura: persino quando pensiamo in maniera
"ecologista", il massimo che possiamo fare è riuscire a creare un danno
minore.
Il digitale, in teoria, o meglio, come tendenza, dovrebbe sostituire il
cartaceo, ma riciclare il digitale è infinitamente più complesso e oneroso,
per non parlare dei pannelli solari che dovrebbero sostituire i combustibili
fossili. Finché non decideremo di uscire dalle città e di vivere a contatto
con la terra e la natura in generale, qualunque nostro tentativo
ambientalista sarà soltanto, nel migliore dei casi, un semplice palliativo.
Noi siamo destinati a illuderci e, nell'illusione, a usare quanta più
violenza possibile, contro gli altri e contro noi stessi.
Se vogliamo, lo stesso passaggio dalla raccolta nei boschi e dalla
caccia nelle foreste o nelle praterie all'allevamento e all'agricoltura
rappresenta già una sorta di "involuzione" nell'esperienza della libertà
umana. Cioè il fatto di voler modificare la natura degli animali,
trasformandoli da selvatici a domestici; il fatto stesso di voler sfruttare
la terra in maniera intensiva, rischiando di desertificarla, vanno
visti, pur in presenza di una proprietà comune, come una sorta di anomalia
nei rapporti tra uomo e natura.
Questo passaggio epocale non può essere avvenuto spontaneamente, solo per
cercare maggiori sicurezze alimentari (le eccedenze), o maggiori comodità
(dal nomadismo alla stanzialità): ci si deve per forza essere trovati in
condizioni sociali e ambientali molto difficili, che hanno indotto a
comportamenti inediti, che poi, col tempo, sono risultati prevalenti
rispetto a
quelli tradizionali. Non a caso le prime civiltà schiavistiche sono nate
presso paludi, acquitrini, fiumi soggetti a periodiche esondazioni, zone
impervie e malsane e poco abitate. Per scegliere di andare a vivere in
luoghi così difficili e inospitali, per praticare appunto l'agricoltura e
l'allevamento, dovevano essersi verificate, in seno al collettivo
primordiale, delle gravi rotture sociali, che non si è più stati capaci di
ricomporre.
Probabilmente sono stati i mutamenti climatici o delle improvvise carestie a
indurre determinati gruppi di una tribù omogenea ad avventurarsi, senza
rifletterci abbastanza, in taluni
territori poco frequentati, in cerca di fortuna. E la scommessa venne vinta
con la forza della disperazione, sottoponendosi a immani fatiche
(soprattutto per le necessarie opere di bonifica e di
canalizzazione, al fine di rendere vivibili aree giudicate, fino a un
momento prima, depresse e infertili). La differenza, nel racconto del Genesi,
tra l'albero della vita e quello della scienza stava proprio in questo, che
uno era selvatico o naturale, mentre l'altro era un prodotto artificiale
dell'uomo, della sua agricoltura.
Forse all'inizio si era soltanto vinta una scommessa fatta nei confronti
di se stessi. Forse questa vittoria, nella fase iniziale, non aveva
comportato una vera e propria stratificazione sociale o una innaturale
divisione del lavoro o un'appropriazione privata di beni comuni. Forse
neppure l'idea di conservare scorte di viveri per l'inverno, facendo tesoro
delle eccedenze ottenute da un duro lavoro, può di per sé aver portato alla
nascita delle civiltà antagonistiche. Però qualcosa d'importante stava cambiando e,
in assenza di riflessione critica, il mutamento veniva percepito come irreversibile. Sarebbe stato sufficiente inventarsi qualcosa di
strano, di vagamente mistico, per giustificare il controllo delle
eccedenze nelle mani di un personale specifico, che poi col tempo avrebbe
acquisito sempre più poteri, per realizzare qualcosa di assolutamente inedito rispetto
allo stile di vita precedente.
Tuttavia sarebbe assurdo sostenere che le eccedenze, di per sé, portano
allo schiavismo, fosse anche solo a uno schiavismo di stato, come quello di
tipo asiatico ed egiziano, e non a uno schiavismo privato. E' piuttosto
quello che si fa in nome delle eccedenze che può portare a una situazione
anomala, caratterizzata dalla stratificazione sociale.
E' fuor di dubbio, infatti, che chi si pone a controllare delle eccedenze,
chi si arroga il potere della loro distribuzione, e non fa nulla,
sostanzialmente, a livello produttivo, diventa, per così dire, un
privilegiato. In questa suddivisione tra momento produttivo e
distributivo si cela la possibilità di una differenza di classe, pur in
presenza di una proprietà ancora comune.
Le eccedenze possono garantire la sopravvivenza nei momenti difficili
(dovuti a improvvisi mutamenti climatici, a esondazioni impreviste, a
infestazioni di insetti, a eventi sismici...); possono anche permettere
degli scambi commerciali con popolazioni limitrofe. Ma possono anche essere
usate come arma di ricatto o d'intimidazione.
Ecco perché, quando si cominciò a produrre eccedenze, i lavoratori non
potevano non chiedersi se stavano lavorando per vivere o per produrre
proprio quelle eccedenze, cioè per produrre ben oltre le loro necessità
vitali. Non può esserci stato un passaggio graduale dal lavoro concepito
come libera espressione di un bisogno vitale alla richiesta forzata di
accumulare oltre questo bisogno. Una cosa è preoccuparsi di vivere anche in
condizioni molto difficili; un'altra finalizzare tutta la propria attività
come se ci si trovasse costantemente in tali condizioni. In questo secondo
caso il lavoro smette d'essere un bisogno vitale e diventa una condanna,
appunto una schiavitù, anche se nessuno ha il potere di vita e di morte su
nessun altro.
Non ci può essere spontaneità nel passaggio tra questi due stili di
vita, come non può svilupparsi alcun socialismo all'interno del capitalismo.
Dall'uno all'altro deve essersi insinuato qualcosa di anomalo, che ad un
certo punto ha reso necessario e irreversibile quel passaggio. Questo
qualcosa non poteva che essere la trasformazione della proprietà "sociale"
dei mezzi produttivi in proprietà "statale", impersonata da un potere
separato dalla società, un potere che, da un lato si concepiva in maniera
autoreferenziale e, dall'altro, si serviva di uno strumento
ideologico per persuaderle la popolazione della sua legittimità: questo
strumento non poteva essere che la religione.
E' profondamente errato sostenere che la transizione dal comunismo primitivo
allo schiavismo (prima di stato, poi privato) sia avvenuta semplicemente
perché la comparsa di strumenti di lavoro più efficienti o di nuove tecniche
produttive, hanno reso inutile o poco rilevante il modo collettivo di
procurarsi il cibo. Non è stato l'aratro che, di per sé, ha introdotto lo
schiavismo, e neppure la sostituzione della caccia con l'allevamento, o del
nomadismo con la stanzialità. Nessuna di queste cose, presa in sé,
spiega lo schiavismo, e neppure tutte messe insieme, anche se è senz'altro
vero ch'esse hanno creato un terreno favorevole. Se una popolazione dispone solo di
arco e frecce, avrà con la natura un rapporto molto diverso rispetto a
quella che ha scoperto l'uso dei metalli. Ma la vera differenza la prima
popolazione la scoprirà soltanto quando l'altra vorrà conquistarla.
Per capire il passaggio dobbiamo immaginarci qualcosa di poco naturale,
qualcosa che si è interposto nei rapporti fra uomo e uomo e fra uomo e
donna, qualcosa che deve aver riguardato il concetto di forza (fisica
e intellettuale), l'uso cioè di una forza per scopi individuali, che poi, in
origine, saranno stati clanici (una parte della tribù ancestrale).
Indubbiamente all'inizio deve esserci stata una certa rivalità tra
allevatori, sempre bisognosi di campi liberi, e agricoltori,
preoccupati di non veder devastate le loro culture dal passaggio delle
mandrie, e quindi sempre più intenzionati a porre delle recinzioni. Là dove
si formano recinzioni, è facile pensare che si sia in presenza di una
proprietà non collettiva. Di qui la necessità di pensare che all'inizio non
può essersi posta una rivalità tra famiglie, ma piuttosto tra componenti
sociali di una medesima tribù, i cui legami erano appunto clanici,
cioè non dettati dalla semplice consanguineità.
Probabilmente la domesticazione degli animali ha preceduto la coltivazione
intensiva della terra, che richiede strumenti specifici e non poche
competenze. Ma non è questo il problema. Una volta passati dalla fase del
nomadismo a quella della stanzialità, le due cose potevano essere anche
gestite contemporaneamente. Di certo quando ci si specializza in
un'attività, è molto facile vedere tutte le altre attività con sospetto,
come potenzialmente nocive.
Lo schiavismo si è formato nei territori più impervi del pianeta, dove la
sopravvivenza era un problema quotidiano, dove l'eccedenza forniva
sicuramente una garanzia non trascurabile, e dove chiunque, quando la
propria attività (p. es. l'allevamento) ne comprometteva la resa, la durata,
la qualità e la quantità, rischiava di diventare un pericoloso nemico.
All'origine della transizione però deve esserci stata una sorta di
illusione, quella di credere che, poste certe condizioni, fosse più
facile vivere. Tali condizioni dovevano essere inerenti al concetto di
"comodità". Il surplus è una comodità. Ora, chiunque si rende conto
che avere una comodità cui poter attingere in un momento particolare di
bisogno, come se fosse una riserva speciale per le emergenze, è una cosa;
finalizzare tutta la propria vita e quindi tutto il proprio lavoro a
incrementare di continuo tale risorsa, è evidentemente un'altra cosa. E'
assurdo che questo possa essere considerato un atteggiamento spontaneo. Qui
siamo in presenza di qualcosa di forzoso, imposto o indotto alla
collettività non con l'uso della sola forza bruta, pura e semplice,
ma insieme a una mistificazione di tipo ideologico, elaborata per far
credere utile, necessario un determinato comportamento anomalo.
E' difficile pensare a una costruzione "libera" di imponenti piramidi,
palazzi, templi ecc. senza l'illusione della religione, usata dai
poteri costituiti, per i quali la forza era un valore alla base della
stratificazione sociale. E poi, ad un certo punto, il fatto che l'illusione abbia preso
due strade separate, parallele, unite da ponti in comune, cioè quelle della
religione e del diritto, non cambia la sostanza delle cose. Il
diritto non è che una laicizzazione della religione. All'inizio il
sovrano era politico-militare e sacerdotale; col tempo tali funzioni si sono
separate, anche se hanno continuato a conservare forti legami, in quanto
risultava inevitabile la loro reciproca dipendenza.
Il fatto che le prime civiltà si siano date delle legislazioni scritte, in
cui la religione era solo una delle componenti, indica soltanto uno sviluppo
maturo del concetto di "forza". Infatti, più si sviluppa la forza politica,
militare, economica..., e meno si ha bisogno di ricorrere a giustificazioni di
tipo mistico.
La proprietà privata non può essere apparsa parallelamente a quella
pubblica. Sono due cose che non possono coesistere. In origine le proprietà
potevano essere solo di due tipi: sociale, cioè appartenente al
collettivo, e personale, quella che uno produceva da solo o che
acquistava o barattava o ereditava dei propri avi. La proprietà personale
non poteva mai riguardare gli strumenti, i mezzi, le risorse che
permettevano la sussistenza e la riproduzione del collettivo. Quando è la
tribù intera a prevalere (o la comunità di villaggio) non può esistere proprietà
privata. Infatti là dove questa esiste, la proprietà sociale o pubblica è del tutto
secondaria, relegata ad aspetti marginali (p.es. i boschi o le paludi in
comune).
Nel Medioevo esistevano le comunità agricole, ma dominava la proprietà privata
dei feudatari, che pretendevano, in forza delle loro capacità militari, di
vivere di rendita. "Proprietà comune" vuol dire che la fondamentale
proprietà dei mezzi produttivi che garantiscono la sussistenza riproduttiva,
appartiene all'intera collettività, che insieme decide come gestirla. Quando
queste decisioni non vengono prese dagli stessi produttori, ma da dei
dirigenti al di sopra di loro, vuol dire che la proprietà non è più
"sociale" ma è "statale" o "privata".
E' molto probabile che la proprietà pubblica, prima di diventare privata,
sia stata "statale", anche se non come noi occidentali intendiamo
tale istituzione. Di simile c'è soltanto il fatto che lo Stato, che può essere rappresentato anche da un
monarca, è un ente astratto, edificato proprio per mistificare la realtà
del collettivo.
in Europa occidentale non abbiamo avuto la proprietà "statale" proprio
perché ce l'ha impedito il nostro individualismo, che ha preferito passare
dalla proprietà sociale a quella privata. La proprietà privata in senso
stretto l'abbiamo inventata noi europei. Anche quando, coi romani, abbiamo
formulato un diritto valido per tutto l'impero, si trattava pur sempre di
uno Stato in cui la figura dell'imperatore militare era centrale, il quale
non avrebbe mai potuto opporsi agli interessi della classe nobiliare e
mercantile, rappresentata dai senatori. L'impero romano non era che una
gigantesca polis greca, dove la contrapposizione netta era fra classi
sociali.
Laddove invece, come in Cina, in India, nell'Egitto dei faraoni e nelle
civiltà pre-colombiane, ma anche nella Russia stalinista, aveva prevalso la
natura dello Stato, e quindi una sorta di "schiavismo statale", pur
incarnandosi questo nella figura individuale del sovrano, che si serviva
dell'autorità militare per farsi rispettare, la classe dominante era quella
dei funzionari di partito e dei burocrati, quella degli intellettuali, che non necessariamente erano
proprietari di qualcosa. Anche Platone, per tutta la sua vita, cercò,
invano, di realizzare uno Stato del genere, in cui la classe dirigente
doveva essere quella dei filosofi nullatenenti, bisognosi di nulla.
L'Europa occidentale, che trasferì poi le sue caratteristiche nel continente
americano a partire dal 1492, è sempre stata legatissima, da quando vi sono
nate le civiltà antagonistiche, all'idea di proprietà privata. E anche oggi
lo Stato è concepito come un organismo che tutela questa proprietà e le
classi sociali afferenti. Ecco perché per passare a una proprietà
sociale, diventa preliminare l'abbattimento dello Stato.
Se nel momento stesso in cui si usa lo Stato per abbattere l'eventuale
resistenza armata della borghesia, non si creano i presupposti di una
produzione davvero socializzata e non statalizzata, di una gestione
del potere politico sempre più decentrata e non accentrata, sarà
impossibile impedire che qualcuno sostenga che quanto più si edifica il
socialismo, tanto più la borghesia farà di tutto per abbatterlo. E' stato
proprio su questa ambiguità terminologica che lo stalinismo ha fatto la sua
fortuna, facendo coincidere in senso stretto "sociale" con "statale".
Tutto ciò per dire che è profondamente sbagliato sostenere - come in genere fa
la storiografia marxista, che pur risulta infinitamente migliore di quella
borghese - che la comunità primitiva conteneva al suo interno i germi della
propria rovina. Qui tra le due deve necessariamente imporsi un'alternativa: o
si sostiene che un qualunque progresso tecnico-scientifico, che non tenga
conto delle esigenze riproduttive della natura, è foriero di uno svolgimento
sociale di tipo antagonistico (ma allora il futuro socialismo, visto che non
vuole rinunciare a tale tecnologia, sarà destinato alla sconfitta), oppure
bisogna cercare di capire quale sia stato l'elemento sovrastrutturale che
ha indotto quelle antiche comunità a passare dal comunismo allo schiavismo
(ma allora la storiografia marxista deve smettere d'interpretare la
struttura secondo la categoria della "necessità storica").
Cioè se non si vuole attribuire alla sovrastruttura un ruolo decisivo
nei mutamenti della struttura, ci si deve per forza convincere che quest'ultima
può davvero funzionare, sul piano sociale, soltanto quando è
eco-compatibile, ovvero quando l'ecologia ha un primato sull'economia.