LA STORIA ANTICA
dal comunismo primitivo alla fine dello schiavismo


RIPENSARE LA PREISTORIA

Noi non riusciremo mai a capire il periodo storico che chiamiamo "preistoria", che s'è concluso quando hanno iniziato ad affermarsi le prime civiltà urbane, semplicemente perché siamo figli di quelle stesse civiltà e consideriamo tutto quanto le ha precedute come destinato ad essere superato.

Per poter capire la preistoria in maniera adeguata, dovremmo prima eliminare qualunque cosa possa indicare o rappresentare la cosiddetta "civiltà". Non dobbiamo compiere un salto indietro, ma semplicemente fare in modo che, ad ogni crisi di civiltà, non si pongano delle soluzioni che ne rallentino il definitivo superamento: basterebbe soltanto smettere d'illuderci.

Dovremmo approfittare delle crisi, che sono cicliche e sempre più gravi, per fare decisi passi in avanti verso il recupero del comunismo primordiale. E' del tutto inutile parlare di "transizione al socialismo" quando non riusciamo a capire che il modello da realizzare è quello anteriore a tutte le civiltà. E' sufficiente elencare una serie di pregiudizi per capire quanto ancora siamo lontanissimi da un'adeguata interpretazione della preistoria.

  1. Noi consideriamo che gli strumenti di lavoro della primitiva comunità tribale fossero del tutto "rudimentali". Usiamo certi aggettivi in maniera astratta, facendo confronti del tutto arbitrari, e non ci rendiamo conto che l'efficienza d'un mezzo è relativa ai risultati che si possono conseguire.
    Il fatto che per migliaia e migliaia di anni siano stati usati sempre gli stessi strumenti di lavoro, dovrebbe suscitarci stupore in senso positivo, non negativo. Evidentemente quei mezzi dovevano essere molto funzionali allo scopo.
    Oggi i nostri macchinari sono costosissimi, molto sofisticati, molto inquinanti, destinati a una precoce obsolescenza, al punto che invece di ripararli, siamo costretti a sostituirli, e per di più producono, col tempo, una caduta tendenziale del saggio di profitto, tant'è che gli imprenditori preferiscono trasferirsi là dove la tecnologia è di più basso livello, ma ancora più basso è il costo della manodopera. Peraltro l'uso di pietre, bastoni e ossa era, in quel lontano passato, del tutto compatibile con le esigenze riproduttive della natura: cosa che noi oggi non potremmo dire di alcun nostro strumento di lavoro.
  2. Naturalmente al giudizio negativo sull'efficacia degli strumenti di lavoro, facciamo seguire la convinzione (come fosse una logica conseguenza) che l'uomo primitivo si trovasse quasi del tutto disarmato nella sua lotta contro la natura. E dicendo questo, non ci rendiamo conto che per l'uomo primitivo la natura non era affatto qualcosa da "dominare", ma, semmai, da rispettare profondamente, in quanto fonte di vita.
    Noi "civilizzati" abbiamo un rapporto con la natura molto controverso, in quanto per noi essa va fondamentalmente sfruttata, e siamo convinti di poterlo fare in maniera illimitata e indiscriminata, proprio perché la vogliamo dominare a livello planetario, cioè nella massima estensione possibile.
  3. Peraltro ci meravigliamo al vedere l'uomo primitivo del tutto impotente al di fuori del suo contesto comunitario. Noi siamo abituati talmente tanto all'individualismo che viviamo il collettivismo solo in certi momenti della nostra giornata, per lo più nei luoghi di lavoro e spesso in maniera alquanto formale.
    Abbiamo sì organismi collettivi, ma la loro funzione o è quella d'imporre la loro volontà ad altri organismi o è quella di difendersi dalla volontà altrui.
  4. Quando si sostiene che la raccolta collettiva dei prodotti della natura o l'esito di un'operazione di caccia si svolgevano su un territorio relativamente ristretto, nell'ambito di particolari gruppi di consanguinei, abbastanza isolati, si dicono cose del tutto imprecise.
    Anzitutto l'uomo primitivo, con le sue migrazioni, ha popolato l'intero pianeta; in secondo luogo è proprio vivendo in un territorio circoscritto che si è costretti a garantire alla natura una sua agevole riproduzione, e la natura viene considerata una fonte di sopravvivenza per la collettività, quindi una grande ricchezza da tutelare; in terzo luogo, se è vero che esistevano i gruppi parentali, è anche vero che le relazioni coniugali si cercava di realizzarle tra clan e tribù differenti; in quarto luogo il fatto che esistesse l'autoconsumo non ha mai voluto dire che non esistessero mercati e fiere ove praticare il baratto o lo scambio delle eccedenze: semplicemente non esisteva alcuna stretta dipendenza dal mercato.
  5. Quando si afferma che nel comunismo primitivo esisteva una semplice cooperazione, senza divisione del lavoro, se non una, al massimo, per sesso (le donne p.es. si occupavano di raccolta, gli uomini di caccia) e, in certi limiti, per età (gli anziani p.es. fabbricavano strumenti di lavoro), si vuol dare per scontato che il loro livello di benessere fosse basso proprio per questo motivo.
    In realtà l'assenza di una divisione significativa del lavoro rendeva la comunità molto compatta e omogenea, priva di conflitti sociali e di quelle tendenze che si avvalgono della stratificazione sociale per creare ceti di potere o ambiti privilegiati.
    Noi dovremmo metterci in testa che la cosa più importante per l'affermazione dell'essenza umana è lo sviluppo degli interessi collettivi della comunità, poiché solo questi possono superare le contraddizioni di tipo antagonistico. Se per ottenere questa cosa, si deve essere disposti a rinunciare a tutto ciò che apparentemente sembra garantire un elevato livello di benessere e di comodità, non dovremmo avere dubbi di sorta sulla scelta da compiere.
    Non è possibile considerare negativamente il fatto che lo sviluppo delle forze produttive avvenisse soltanto all'interno di strutture collettive. Se questo sviluppo non è stato "tumultuoso" o "impetuoso" come quello della borghesia nell'ultimo mezzo millennio, ciò non costituisce di per sé alcun problema. Non possiamo sacrificare sull'altare dello sviluppo tecnico-scientifico una qualunque altra considerazione.
    Quante volte i classici del marxismo han detto che la divisione del lavoro in manuale e intellettuale era un limite da superare? Perché allora prendere proprio questa divisione come una fonte di progresso che ha reso necessaria la transizione dal comunismo primitivo allo schiavismo? Perché utilizzare solo la categoria della "necessità" per spiegare i passaggi da una formazione sociale all'altra? Questo determinismo economicistico è davvero in grado di spiegare qualcosa che riguardi i fenomeni di tipo "antropico"?
    Spesso il marxismo è caduto in questa ermeneutica riduzionistica della storia perché, quando parlava di socialismo futuro, aveva in mente una sorta di comunismo primitivo ma con tutte le caratteristiche tecnico-scientifiche del capitalismo avanzato. Non si voleva tornare al passato, rischiando d'avere gli stessi problemi degli uomini preistorici. Si era convinti che, avendo a disposizione gli strumenti produttivi della borghesia, il socialismo futuro sarebbe stato una formazione sociale avanzatissima, praticamente insuperabile, perché totalmente priva degli antagonismi del capitalismo.
    E invece il cosiddetto "socialismo reale" non aveva fatto i conti con l'oste, il quale metteva in discussione che una proprietà "statale" dei mezzi produttivi volesse dire una proprietà "sociale", in quanto il rafforzarsi dello Stato (in luogo della sua progressiva estinzione) aveva generato una classe di politici e burocrati del tutto privilegiata, che poteva estorcere plusvalore agli operai proprio in nome dello Stato. La stessa natura palesava tutta la propria sofferenza e rivendicava tutta la propria autonomia nei confronti dell'enorme saccheggio di risorse compiuto proprio in nome degli ideali cosiddetti "socialisti". I moderni mezzi produttivi, anche quando fossero socializzanti o statalizzati nella proprietà, costituiscono sempre un nemico mortale per le esigenze riproduttive della natura.
    Quindi non ha alcun senso limitarsi a socializzare la produzione anche nell'aspetto della sua proprietà, senza chiedersi, nello stesso momento, se questi mezzi sono davvero idonei a garantire un rapporto equilibrato tra uomo e natura. Se non arriviamo a capire che più importante del lavoro produttivo è la riproduzione dei cicli naturali, non potrà mai esserci garanzia di un futuro del genere umano. E perché questi cicli riproduttivi vengano integralmente rispettati, occorre che ogni componente del collettivo si senta moralmente e materialmente responsabile nei confronti di quello specifico ambiente naturale che gli garantisce la sopravvivenza.
    Questo significa che il collettivo deve essere un'esperienza circoscritta, limitata nel territorio, in grado d'individuare facilmente le violazioni anti-ecologiche e porvi rimedio immediatamente. Il collettivo non può definirsi tale solo perché dispone di una proprietà comune dei mezzi produttivi, ma anche perché dispone di un atteggiamento e di una sensibilità comune nei confronti della natura.
  6. Il difetto principale della storiografia marxista è stato quello di accettare la categoria hegeliana della "necessità storica", quella per cui le transizioni da una formazione sociale a un'altra diventano del tutto naturali, in un certo senso inevitabili. All'interno di questa ineluttabilità delle cose si è portati a credere che una successione di determinazioni quantitative (i mutamenti apparentemente poco significativi) ad un certo punto porta al formarsi di una nuova qualità, cioè un inedito stile di vita.
    Si minimizza insomma la tragicità e la complessità del trapasso. Si vuol far credere che la volontà degli uomini non sia in grado di fare granché nei confronti di determinati processi storici. Proprio perché si afferma il materialismo storico-dialettico, si vuol dare alla struttura un'importanza nettamente superiore a quella della sovrastruttura. E così si riduce la struttura, nonché la storia che ne spiega la nascita e l'evoluzione, a una mera caratterizzazione economica, e si riduce la dialettica a un rigido susseguirsi di cause ed effetti, dove il peso della libertà umana è ridotto a zero.
    Di qui l'idea, molto banale, di credere che per passare dal comunismo primitivo allo schiavismo sia stato sufficiente trasformare la proprietà personale in proprietà privata, come se questa trasformazione, in un sistema dove domina la proprietà comune dei mezzi produttivi, fosse la cosa più naturale del mondo, al punto da passare, nella sua fase iniziale, del tutto inosservata.
    Poi si è arrivati a dire che l'aumento della naturale produttività e del conseguente aumento della popolazione hanno fatto sì che, all'interno di questa popolazione, si formassero nuovi gruppi, intenzionati ad appropriarsi di nuovi appezzamenti di terra. Come se da un semplice miglioramento del tenore di vita, ottenuto con una gestione collettiva e quindi razionale della proprietà comune e degli strumenti di lavoro condivisi, si potesse passare, con tutta naturalezza, a trasformare una parte della collettività da proprietaria pubblica a proprietaria privata. Queste cose in realtà implicano un radicale mutamento di mentalità, che non può essere sottaciuto, né dato per scontato, né minimizzato.
  7. E' completamente sbagliato pensare di poter analizzare la cosiddetta "preistoria" dicendo che la principale contraddizione, seppur non antagonistica, stava nel fatto che i bisogni vitali degli uomini non riuscivano ad essere soddisfatti in maniera adeguata a causa di un basso livello di sviluppo delle forze produttive. E' assurdo paragonare le loro forze alle nostre. E' cinico credere che a causa di quel livello, ritenuto inadeguato, fosse necessaria la transizione alla proprietà privata e allo schiavismo. Si fa una storiografia quanto meno bizzarra quando si sostiene che, ad un certo punto, dopo che per decine di migliaia di anni aveva funzionato benissimo, il rapporto tra forze e rapporti produttivi s'era rivelato insostenibile.
    Per circa due milioni di anni gli uomini, nella sostanza, hanno usato analoghi strumenti produttivi. Non era certamente stato fatto per mancanza d'intelligenza o per una particolare soggezione a ideologie religiose o alle forze della natura. Anzi, probabilmente era proprio il contrario: gli uomini avevano capito bene quali mezzi e metodi usare per sopravvivere senza arrecare alcun danno all'ambiente.
    Piuttosto è oggi che, nonostante tutti i sofisticati mezzi di cui disponiamo, non riusciamo in alcun modo, neppure quando ce la mettiamo tutta, a rispettare la natura sino in fondo. Non c'è nessuna nostra azione, oggi, che non rechi danno alla natura: persino quando pensiamo in maniera "ecologista", il massimo che possiamo fare è riuscire a creare un danno minore.
    Il digitale, in teoria, o meglio, come tendenza, dovrebbe sostituire il cartaceo, ma riciclare il digitale è infinitamente più complesso e oneroso, per non parlare dei pannelli solari che dovrebbero sostituire i combustibili fossili. Finché non decideremo di uscire dalle città e di vivere a contatto con la terra e la natura in generale, qualunque nostro tentativo ambientalista sarà soltanto, nel migliore dei casi, un semplice palliativo. Noi siamo destinati a illuderci e, nell'illusione, a usare quanta più violenza possibile, contro gli altri e contro noi stessi.
  8. Se vogliamo, lo stesso passaggio dalla raccolta nei boschi e dalla caccia nelle foreste o nelle praterie all'allevamento e all'agricoltura rappresenta già una sorta di "involuzione" nell'esperienza della libertà umana. Cioè il fatto di voler modificare la natura degli animali, trasformandoli da selvatici a domestici; il fatto stesso di voler sfruttare la terra in maniera intensiva, rischiando di desertificarla, vanno visti, pur in presenza di una proprietà comune, come una sorta di anomalia nei rapporti tra uomo e natura.
    Questo passaggio epocale non può essere avvenuto spontaneamente, solo per cercare maggiori sicurezze alimentari (le eccedenze), o maggiori comodità (dal nomadismo alla stanzialità): ci si deve per forza essere trovati in condizioni sociali e ambientali molto difficili, che hanno indotto a comportamenti inediti, che poi, col tempo, sono risultati prevalenti rispetto a quelli tradizionali. Non a caso le prime civiltà schiavistiche sono nate presso paludi, acquitrini, fiumi soggetti a periodiche esondazioni, zone impervie e malsane e poco abitate. Per scegliere di andare a vivere in luoghi così difficili e inospitali, per praticare appunto l'agricoltura e l'allevamento, dovevano essersi verificate, in seno al collettivo primordiale, delle gravi rotture sociali, che non si è più stati capaci di ricomporre.
    Probabilmente sono stati i mutamenti climatici o delle improvvise carestie a indurre determinati gruppi di una tribù omogenea ad avventurarsi, senza rifletterci abbastanza, in taluni territori poco frequentati, in cerca di fortuna. E la scommessa venne vinta con la forza della disperazione, sottoponendosi a immani fatiche (soprattutto per le necessarie opere di bonifica e di canalizzazione, al fine di rendere vivibili aree giudicate, fino a un momento prima, depresse e infertili). La differenza, nel racconto del Genesi, tra l'albero della vita e quello della scienza stava proprio in questo, che uno era selvatico o naturale, mentre l'altro era un prodotto artificiale dell'uomo, della sua agricoltura.
    Forse all'inizio si era soltanto vinta una scommessa fatta nei confronti di se stessi. Forse questa vittoria, nella fase iniziale, non aveva comportato una vera e propria stratificazione sociale o una innaturale divisione del lavoro o un'appropriazione privata di beni comuni. Forse neppure l'idea di conservare scorte di viveri per l'inverno, facendo tesoro delle eccedenze ottenute da un duro lavoro, può di per sé aver portato alla nascita delle civiltà antagonistiche. Però qualcosa d'importante stava cambiando e, in assenza di riflessione critica, il mutamento veniva percepito come irreversibile. Sarebbe stato sufficiente inventarsi qualcosa di strano, di vagamente mistico, per giustificare il controllo delle eccedenze nelle mani di un personale specifico, che poi col tempo avrebbe acquisito sempre più poteri, per realizzare qualcosa di assolutamente inedito rispetto allo stile di vita precedente.
  9. Tuttavia sarebbe assurdo sostenere che le eccedenze, di per sé, portano allo schiavismo, fosse anche solo a uno schiavismo di stato, come quello di tipo asiatico ed egiziano, e non a uno schiavismo privato. E' piuttosto quello che si fa in nome delle eccedenze che può portare a una situazione anomala, caratterizzata dalla stratificazione sociale.
    E' fuor di dubbio, infatti, che chi si pone a controllare delle eccedenze, chi si arroga il potere della loro distribuzione, e non fa nulla, sostanzialmente, a livello produttivo, diventa, per così dire, un privilegiato. In questa suddivisione tra momento produttivo e distributivo si cela la possibilità di una differenza di classe, pur in presenza di una proprietà ancora comune.
    Le eccedenze possono garantire la sopravvivenza nei momenti difficili (dovuti a improvvisi mutamenti climatici, a esondazioni impreviste, a infestazioni di insetti, a eventi sismici...); possono anche permettere degli scambi commerciali con popolazioni limitrofe. Ma possono anche essere usate come arma di ricatto o d'intimidazione.
    Ecco perché, quando si cominciò a produrre eccedenze, i lavoratori non potevano non chiedersi se stavano lavorando per vivere o per produrre proprio quelle eccedenze, cioè per produrre ben oltre le loro necessità vitali. Non può esserci stato un passaggio graduale dal lavoro concepito come libera espressione di un bisogno vitale alla richiesta forzata di accumulare oltre questo bisogno. Una cosa è preoccuparsi di vivere anche in condizioni molto difficili; un'altra finalizzare tutta la propria attività come se ci si trovasse costantemente in tali condizioni. In questo secondo caso il lavoro smette d'essere un bisogno vitale e diventa una condanna, appunto una schiavitù, anche se nessuno ha il potere di vita e di morte su nessun altro.
    Non ci può essere spontaneità nel passaggio tra questi due stili di vita, come non può svilupparsi alcun socialismo all'interno del capitalismo. Dall'uno all'altro deve essersi insinuato qualcosa di anomalo, che ad un certo punto ha reso necessario e irreversibile quel passaggio. Questo qualcosa non poteva che essere la trasformazione della proprietà "sociale" dei mezzi produttivi in proprietà "statale", impersonata da un potere separato dalla società, un potere che, da un lato si concepiva in maniera autoreferenziale e, dall'altro, si serviva di uno strumento ideologico per persuaderle la popolazione della sua legittimità: questo strumento non poteva essere che la religione.
    E' profondamente errato sostenere che la transizione dal comunismo primitivo allo schiavismo (prima di stato, poi privato) sia avvenuta semplicemente perché la comparsa di strumenti di lavoro più efficienti o di nuove tecniche produttive, hanno reso inutile o poco rilevante il modo collettivo di procurarsi il cibo. Non è stato l'aratro che, di per sé, ha introdotto lo schiavismo, e neppure la sostituzione della caccia con l'allevamento, o del nomadismo con la stanzialità. Nessuna di queste cose, presa in sé, spiega lo schiavismo, e neppure tutte messe insieme, anche se è senz'altro vero ch'esse hanno creato un terreno favorevole. Se una popolazione dispone solo di arco e frecce, avrà con la natura un rapporto molto diverso rispetto a quella che ha scoperto l'uso dei metalli. Ma la vera differenza la prima popolazione la scoprirà soltanto quando l'altra vorrà conquistarla.
    Per capire il passaggio dobbiamo immaginarci qualcosa di poco naturale, qualcosa che si è interposto nei rapporti fra uomo e uomo e fra uomo e donna, qualcosa che deve aver riguardato il concetto di forza (fisica e intellettuale), l'uso cioè di una forza per scopi individuali, che poi, in origine, saranno stati clanici (una parte della tribù ancestrale).
    Indubbiamente all'inizio deve esserci stata una certa rivalità tra allevatori, sempre bisognosi di campi liberi, e agricoltori, preoccupati di non veder devastate le loro culture dal passaggio delle mandrie, e quindi sempre più intenzionati a porre delle recinzioni. Là dove si formano recinzioni, è facile pensare che si sia in presenza di una proprietà non collettiva. Di qui la necessità di pensare che all'inizio non può essersi posta una rivalità tra famiglie, ma piuttosto tra componenti sociali di una medesima tribù, i cui legami erano appunto clanici, cioè non dettati dalla semplice consanguineità.
    Probabilmente la domesticazione degli animali ha preceduto la coltivazione intensiva della terra, che richiede strumenti specifici e non poche competenze. Ma non è questo il problema. Una volta passati dalla fase del nomadismo a quella della stanzialità, le due cose potevano essere anche gestite contemporaneamente. Di certo quando ci si specializza in un'attività, è molto facile vedere tutte le altre attività con sospetto, come potenzialmente nocive.
    Lo schiavismo si è formato nei territori più impervi del pianeta, dove la sopravvivenza era un problema quotidiano, dove l'eccedenza forniva sicuramente una garanzia non trascurabile, e dove chiunque, quando la propria attività (p. es. l'allevamento) ne comprometteva la resa, la durata, la qualità e la quantità, rischiava di diventare un pericoloso nemico.
  10. All'origine della transizione però deve esserci stata una sorta di illusione, quella di credere che, poste certe condizioni, fosse più facile vivere. Tali condizioni dovevano essere inerenti al concetto di "comodità". Il surplus è una comodità. Ora, chiunque si rende conto che avere una comodità cui poter attingere in un momento particolare di bisogno, come se fosse una riserva speciale per le emergenze, è una cosa; finalizzare tutta la propria vita e quindi tutto il proprio lavoro a incrementare di continuo tale risorsa, è evidentemente un'altra cosa. E' assurdo che questo possa essere considerato un atteggiamento spontaneo. Qui siamo in presenza di qualcosa di forzoso, imposto o indotto alla collettività non con l'uso della sola forza bruta, pura e semplice, ma insieme a una mistificazione di tipo ideologico, elaborata per far credere utile, necessario un determinato comportamento anomalo.
    E' difficile pensare a una costruzione "libera" di imponenti piramidi, palazzi, templi ecc. senza l'illusione della religione, usata dai poteri costituiti, per i quali la forza era un valore alla base della stratificazione sociale. E poi, ad un certo punto, il fatto che l'illusione abbia preso due strade separate, parallele, unite da ponti in comune, cioè quelle della religione e del diritto, non cambia la sostanza delle cose. Il diritto non è che una laicizzazione della religione. All'inizio il sovrano era politico-militare e sacerdotale; col tempo tali funzioni si sono separate, anche se hanno continuato a conservare forti legami, in quanto risultava inevitabile la loro reciproca dipendenza.
    Il fatto che le prime civiltà si siano date delle legislazioni scritte, in cui la religione era solo una delle componenti, indica soltanto uno sviluppo maturo del concetto di "forza". Infatti, più si sviluppa la forza politica, militare, economica..., e meno si ha bisogno di ricorrere a giustificazioni di tipo mistico.
  11. La proprietà privata non può essere apparsa parallelamente a quella pubblica. Sono due cose che non possono coesistere. In origine le proprietà potevano essere solo di due tipi: sociale, cioè appartenente al collettivo, e personale, quella che uno produceva da solo o che acquistava o barattava o ereditava dei propri avi. La proprietà personale non poteva mai riguardare gli strumenti, i mezzi, le risorse che permettevano la sussistenza e la riproduzione del collettivo. Quando è la tribù intera a prevalere (o la comunità di villaggio) non può esistere proprietà privata. Infatti là dove questa esiste, la proprietà sociale o pubblica è del tutto secondaria, relegata ad aspetti marginali (p.es. i boschi o le paludi in comune).
    Nel Medioevo esistevano le comunità agricole, ma dominava la proprietà privata dei feudatari, che pretendevano, in forza delle loro capacità militari, di vivere di rendita. "Proprietà comune" vuol dire che la fondamentale proprietà dei mezzi produttivi che garantiscono la sussistenza riproduttiva, appartiene all'intera collettività, che insieme decide come gestirla. Quando queste decisioni non vengono prese dagli stessi produttori, ma da dei dirigenti al di sopra di loro, vuol dire che la proprietà non è più "sociale" ma è "statale" o "privata".
    E' molto probabile che la proprietà pubblica, prima di diventare privata, sia stata "statale", anche se non come noi occidentali intendiamo tale istituzione. Di simile c'è soltanto il fatto che lo Stato, che può essere rappresentato anche da un monarca, è un ente astratto, edificato proprio per mistificare la realtà del collettivo.
    in Europa occidentale non abbiamo avuto la proprietà "statale" proprio perché ce l'ha impedito il nostro individualismo, che ha preferito passare dalla proprietà sociale a quella privata. La proprietà privata in senso stretto l'abbiamo inventata noi europei. Anche quando, coi romani, abbiamo formulato un diritto valido per tutto l'impero, si trattava pur sempre di uno Stato in cui la figura dell'imperatore militare era centrale, il quale non avrebbe mai potuto opporsi agli interessi della classe nobiliare e mercantile, rappresentata dai senatori. L'impero romano non era che una gigantesca polis greca, dove la contrapposizione netta era fra classi sociali.
    Laddove invece, come in Cina, in India, nell'Egitto dei faraoni e nelle civiltà pre-colombiane, ma anche nella Russia stalinista, aveva prevalso la natura dello Stato, e quindi una sorta di "schiavismo statale", pur incarnandosi questo nella figura individuale del sovrano, che si serviva dell'autorità militare per farsi rispettare, la classe dominante era quella dei funzionari di partito e dei burocrati, quella degli intellettuali, che non necessariamente erano proprietari di qualcosa. Anche Platone, per tutta la sua vita, cercò, invano, di realizzare uno Stato del genere, in cui la classe dirigente doveva essere quella dei filosofi nullatenenti, bisognosi di nulla.
    L'Europa occidentale, che trasferì poi le sue caratteristiche nel continente americano a partire dal 1492, è sempre stata legatissima, da quando vi sono nate le civiltà antagonistiche, all'idea di proprietà privata. E anche oggi lo Stato è concepito come un organismo che tutela questa proprietà e le classi sociali afferenti. Ecco perché per passare a una proprietà sociale, diventa preliminare l'abbattimento dello Stato.
    Se nel momento stesso in cui si usa lo Stato per abbattere l'eventuale resistenza armata della borghesia, non si creano i presupposti di una produzione davvero socializzata e non statalizzata, di una gestione del potere politico sempre più decentrata e non accentrata, sarà impossibile impedire che qualcuno sostenga che quanto più si edifica il socialismo, tanto più la borghesia farà di tutto per abbatterlo. E' stato proprio su questa ambiguità terminologica che lo stalinismo ha fatto la sua fortuna, facendo coincidere in senso stretto "sociale" con "statale".
    Tutto ciò per dire che è profondamente sbagliato sostenere - come in genere fa la storiografia marxista, che pur risulta infinitamente migliore di quella borghese - che la comunità primitiva conteneva al suo interno i germi della propria rovina. Qui tra le due deve necessariamente imporsi un'alternativa: o si sostiene che un qualunque progresso tecnico-scientifico, che non tenga conto delle esigenze riproduttive della natura, è foriero di uno svolgimento sociale di tipo antagonistico (ma allora il futuro socialismo, visto che non vuole rinunciare a tale tecnologia, sarà destinato alla sconfitta), oppure bisogna cercare di capire quale sia stato l'elemento sovrastrutturale che ha indotto quelle antiche comunità a passare dal comunismo allo schiavismo (ma allora la storiografia marxista deve smettere d'interpretare la struttura secondo la categoria della "necessità storica").
    Cioè se non si vuole attribuire alla sovrastruttura un ruolo decisivo nei mutamenti della struttura, ci si deve per forza convincere che quest'ultima può davvero funzionare, sul piano sociale, soltanto quando è eco-compatibile, ovvero quando l'ecologia ha un primato sull'economia.

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 01/05/2015