STORIA ROMANA


4. IL TRAMONTO DELL'OLIGARCHIA
SENATORIA NELLA STORIA DI ROMA

1. Introduzione

Il periodo di storia romana trattato in questo paragrafo si estende dagli anni delle riforme graccane fino ai primi imperi personalistici di Mario e di Silla, arrivando a toccare l'inizio del consolato di Pompeo.
A differenza del periodo delle guerre puniche esso ruota essenzialmente attorno agli eventi interni, dal momento che - come si vedrà - un'importanza solo marginale vi rivestono le guerre contro i nemici esterni.
Roma è impegnata in un gigantesco sforzo di riassestamento organizzativo, di ridefinizione delle proprie strutture politiche, come conseguenza dei profondi mutamenti sociali e strutturali introdotti dall'ampliamento territoriale dei decenni precedenti.
Non a caso, secondo gli storici, il secondo secolo è quello in cui giunge a compimento la trasformazione di Roma da semplice città-stato a Impero a tutti gli effetti, sia a livello territoriale sia a livello economico giuridico e politico.
Mentre gli anni compresi tra le guerre contro Cartagine (culminanti nella distruzione di questa nel 146) sono infatti caratterizzati da un enorme incremento territoriale, quelli seguenti (culminanti nella rivoluzione di Ottaviano) sono segnati dalla lotta per il potere tra due opposte fazioni politiche: quella oligarchica senatoria e quella popolare.

Ogni trasformazione, non solo sociale, implica un tramonto e un'alba, qualcosa che muore e qualcosa che sorge. In questo periodo di profondi cambiamenti, assistiamo dunque al declino dell'oligarchia senatoria e, contemporaneamente, all'affermazione progressiva di poteri di tipo personalistico ad essa antagonistici.

Cominciamo con il fare il punto sul Senato. Le trasformazioni interne e esterne hanno determinato esigenze profondamente nuove nella gestione dello Stato.
Il Senato (o meglio la parte più illuminata di esso) tenta in qualche modo di 'aggiornarsi' rispetto alla nuova situazione, per arginare il dilagare delle forze antagonistiche e rimanere quindi l'istituzione centrale.
Tuttavia appare evidente l'impossibilità di tale cambiamento. Esso infatti, nella sua radicalità, finirebbe per snaturare la sostanza stessa di una istituzione che, in quanto oligarchica e nobiliare, si basa sul principio di eguaglianza tra pari (residuo, proprio delle caste, dell'antico spirito gentilizio) e sul dominio, esercitato da questi in modo unidirezionale, nei confronti della società.
Questo sforzo, in gran parte contraddittorio, di conservazione e di rinnovamento appare evidente in tutta la sua complessità nella figura di Silla, ultimo esponente di spicco dell'oligarchia senatoria (anche se tale sforzo rimane incompreso: Silla verrà infatti guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi, i senatori).
Nonostante il Senato, all'inizio di questo periodo, sia ancora l'autorità politica suprema in Roma (essendo riuscito tra l'altro, attraverso strategie politico istituzionali, ad ampliare ulteriormente il raggio della propria influenza sul sistema delle cariche istituzionali e di governo) esso apparirà già con Pompeo un'istituzione in profonda crisi, la cui supremazia - non più indiscussa - è minata da nuove forze politiche che premono sotto la cenere.

Analizziamo ora i grandi mutamenti, in gran parte interconnessi, che stanno minando il predominio politico di un tale istituto. Sul piano sociale questi appaiono i fattori più rilevanti:
a) la tendenza all'aggravamento della questione agraria;
b) i conflitti sempre più evidenti tra gli interessi senatori e quelli degli equestri (= cavalieri);
c) le aspirazioni sociali e economiche, ormai indipendenti da quelle della classe dominante, delle masse popolari;
d) le rivendicazioni politiche dei popoli alleati a Roma (genericamente gli Italici);
e) la trasformazione graduale dell'esercito in esercito di professionisti;
f) il notevole incremento degli schiavi (dovuto in gran parte alle recenti guerre puniche e orientali), e il conseguente sviluppo di un'economia schiavile: soprattutto per il lavoro nei campi.

Sul piano politico, invece, si afferma la tendenza (che verrà successivamente sanzionata da Ottaviano, con la trasformazione di Roma in Impero) verso l'affermazione di poteri personalistici. (Non a caso, la storia di questi anni è, dall'inizio alla fine, caratterizzata da conflitti e lotte per il potere tra singoli individui).
E' questo tipo di politica a minare l'autorità senatoria, e a decretarne più tardi la fine.

Storia di Roma dai Gracchi fino
al consolato di Pompeo e Crasso
(133-70)

2. Il riformismo dei Gracchi

2.1. La situazione socio-politica

Per comprendere l'azione riformistica dei Gracchi è necessario conoscere più in dettaglio il contesto politico e sociale in cui essa si sviluppa.
Sul piano politico, assistiamo in questi anni ad un ulteriore chiusura in se stessa della classe senatoria. E' sempre più difficile, per gli esterni, entrare a fare parte del Senato: ad esso accedono soltanto gli appartenenti a famiglie nobili, ovvero a quelle famiglie che già annoverano almeno un magistrato al proprio interno.
Inoltre la struttura politica e istituzionale di Roma è delineata in modo tale che le singole magistrature siano essenzialmente delle tappe di un più ampio cursus honorum, culminante con l'assunzione nel Senato.
Se a questo si aggiunge che quest'ultimo è l'unico elemento di stabilità all'interno di una costituzione basata sull'annualità e la non iteratività delle cariche, è facile capire come esso eserciti - in concreto - un'autorità pressoché assoluta su Roma.
Le Assemblee plebee inoltre, da sempre voce del popolo, perdono gradualmente la loro antica carica rivoluzionaria.
Le guerre infatti allontanano gran parte della plebe rurale da Roma, e ciò fa sì che soltanto la plebe cittadina abbia la possibilità di partecipare ai comizi.
Tuttavia - come noto - nelle città molto è estremamente diffusa la pratica clientelare. Il proletariato cittadino, essenzialmente una classe che vive alle spese dei potenti, diventa dunque per questi uno strumento di potere attraverso la pratica del voto concordato.
La plebe dunque, smettendo di affermare i propri interessi peculiari, decade a mero strumento politico nelle mani dei suoi patroni, i quali (come si è appena detto) dipendono a loro volta dal Senato per il proprio cursus honorum.

Mentre istituzionalmente si assiste al consolidamento delle più antiche strutture, a livello sociale si verifica un consistente cambiamento su tutti fronti:
- le guerre hanno depauperato molti cittadini medi e moltissimi piccoli contadini;
- l'afflusso continuo di schiavi (il cui utilizzo si diffonde per altro a tutti i livelli sociali!) rende sempre meno necessario il lavoro libero nei campi [è l'inizio dell'economia schiavile, in special modo di quella agricola];
- quest'ultimo fattore alimenta ovviamente il divario fra poveri e ricchi, quindi la crescita del latifondismo e il fenomeno concomitante dell'inurbamento della plebe contadina, oppure il suo impiego nell'esercito;
- la plebe stessa tende a dividersi in due realtà differenti, nonchè latentemente antagonistiche: quella rurale e quella urbana;
- i cavalieri, che vivono di commercio e di appalti pubblici, sono sempre più spesso in dissidio con i senatori, più favorevoli di solito a politiche di carattere conservativo anziché a politiche espansive;
- infine, le popolazioni alleate, gli Italici, sempre più vessati dal governo centrale, rivendicano una maggiore possibilità di partecipazione a livello politico (contro l'esclusivismo della classe dirigente di Roma).
E' in questo contesto che si inserisce la lotta, operata dai Gracchi e dal loro partito, in favore dei diritti dei ceti più svantaggiati.

2.2. L'azione dei Gracchi (133-122)

a) Introduzione

Come noto, quelle dei Gracchi sono tra le figure più discusse e controverse dell'intera storia romana. Non è facile esprimere un giudizio definitivo su personaggi così complessi, né è possibile farlo in poche righe di testo.
Tentando un bilancio delle loro vicende politiche, si può dire tuttavia che essi, con grande lungimiranza, abbiano individuato i limiti strutturali e profondi della società romana, e cercato di porvi rimedio attraverso nuove leggi.
Nessuno dei due riesce a far approvare i propri progetti e a vederne la definitiva affermazione, ma ciò non deve stupire: il Senato infatti, sebbene sia già entrato in crisi, non è comunque sufficientemente indebolito da permettere ai suoi avversari di minare seriamente il proprio predominio.
Le loro intuizioni però - soprattutto quelle del secondo - diverranno dopo la loro morte temi fondanti della politica repubblicana, pur essendo sempre contaminate da intenzioni demagogiche, né venendo inserite mai più in un programma di riforma organica della società romana.

b) Tiberio Gracco

Esponente di quella nobiltà 'illuminata' che è consapevole della necessità di un cambiamento strutturale, il giovane tribuno Tiberio Gracco propone nel 133 una riforma finalizzata a una ridistribuzione più equa delle terre dell'ager publicus.
Tale proposta, subito osteggiata dal Senato, in realtà non ha in sé nulla di rivoluzionario: è anzi ispirata al periodo arcaico della storia romana, nel quale non si era ancora creato un eccessivo divario tra i piccoli e i grandi proprietari.
Tiberio vuole che le terre pubbliche (ovvero le terre confiscate dai romani ai loro alleati e divenute di proprietà dello Stato, e da esso affittate a singoli cittadini) vengano ridistribuite in base a criteri di maggiore equità: egli stabilisce a 125 ettari il limite massimo di terreni assegnabili al singolo individuo, e propone di ridistribuire le eccedenze in lotti di circa otto ettari ai proletari urbani che abbiano perduto le loro terre (e in seconda istanza anche ai proletari rurali).
Egli inoltre, come risarcimento per gli espropriati, propone che questi divengano proprietari a tutti gli effetti (cioè senza il dovere di pagare l'imposta dell'affitto allo Stato) dei territori occupati.

Il Senato tuttavia, mostrando tutti i limiti di una classe abituata a esercitare il proprio imperio senza compromessi, rifiuta la proposta facendola cadere con l'aiuto del secondo tribuno, Ottavio.
E' a questo punto che l'azione di Tiberio subisce effettivamente una svolta rivoluzionaria, che fornirà ai suoi nemici un valido pretesto per distruggerlo.
Tiberio accusa Ottavio di aver tradito il suo mandato nei confronti del popolo, non riflettendone più gli interessi, e propone (sulla base di un principio non costituzionale) di sospenderne il mandato politico. Una simile proposta però non può non suonare come una sfida al Senato, anche per la sua incostituzionalità.
Assieme a essa poi, egli avanza un'altra proposta. Avendo Roma ereditato recentemente, dopo la morte del re Attalo, il regno di Pergamo (il quale, come si è visto, ruota attorno all'orbita d'interessi romani), chiede che la gestione delle terre acquisite sia affidata al popolo. Anche questo si scontra con le consuetudini dello Stato romano, fatto che il Senato non manca di rilevare al fine di delegittimare Tiberio.
Tiberio viene abbandonato difatti dai suoi alleati moderati, spaventati dall'idea di un attentato contro lo Stato. E' la sua fine: ormai rimasto senza sufficienti appoggi politici per proseguire la sua azione, e giunto alla fine del suo mandato - che non può rinnovare (non essendo consentita in Roma l'iteratività delle cariche) - si trova del tutto isolato.
Verrà ucciso poco dopo da una congiura senatoria (capeggiata da un suo stesso cugino, Scipione Nasica) nel 133.
Nonostante la sua parabola politica duri complessivamente meno di un anno, egli è riuscito ugualmente in così poco tempo a rivoluzionare la strategia politica anti-senatoria romana.

c) Gaio Gracco

Nel 125 un esponente del partito graccano, il console Fulvio Flacco, avanza un'altra proposta rivoluzionaria, la concessione della cittadinanza romana agli italici.
La proposta cade nel vuoto, non incontrando i favori del Senato, mentre la città di Flegelle viene addirittura distrutta per essersi ribellata.

La stessa proposta tuttavia verrà ripresa pochi anni dopo da Gaio Gracco, fratello di Tiberio e suo principale erede politico.
Rispetto a Tiberio, l'azione di Gaio Gracco si inquadra in un piano molto più vasto, che coinvolge non soltanto la plebe, ma tutti gli strati sociali i cui interessi siano almeno potenzialmente ostili alla classe dei senatori. Tra di essi troviamo: il ceto dei cavalieri romani, e in genere quello commerciale non solo romano, i proletari rurali assieme alla plebe cittadina, e gli Italici.
L'orizzonte del suo intervento si allarga dunque a tutto il mondo italico (e oltre, come vedremo), uscendo così dai limiti ormai angusti dei territori romani.
La sua azione politica si estende poi su un arco di due anni, avendo ottenuto il tribunato il principio dell'iteratività delle cariche. Ciò lo renderà più temibile del fratello.

Le fasi salienti della vicenda politica di Gaio sono:

- 123: Gaio avvicina a sé il ceto equestre, con una legge che ne favorisce la libera iniziativa nelle colonie orientali, minando il predominio politico dei senatori. Propone inoltre una legge frumentaria, per accattivarsi le simpatie delle masse cittadine.
E' l'inizio di una nuova stagione politica, basata sull'alleanza tra il proletariato e la classe equestre in funzione anti-senatoria, politica i cui esiti saranno però sempre incerti, data la facilità della seconda nel cambiare partito schierandosi con i senatori.
Gaio ha tuttavia intuito le potenzialità di questa strategia, che rimarrà anche in futuro una costante della politica repubblicana.
Sempre nel 123 egli propone di dare l'avvio a una nuova stagione di deduzione (ovvero di fondazione) di colonie sia in Italia sia fuori, in particolare a Cartagine. Il suo progetto è quello di fare della città fenicia non solo la residenza di cittadini romani depauperati, ma anche uno scalo marittimo che ravvii l'economia dei ceti commerciali romani e italici.
E' importante osservare come, accanto al tradizionale programma di collocamento dei romani espropriati delle terre, vi sia qui una nuova attenzione sia verso gli interessi commerciali dei cavalieri, sia verso le nuove prospettive internazionali e globali di Roma.
Per tutti questi motivi, la proposta di Gaio non può essere ben accetta ai senatori, favorevoli - coerentemente con quelle stesse tradizioni da cui essi traggono il proprio mandato politico - a conservare Roma come una città-stato, e molti restii a fare propria una prospettiva "internazionalistica". Questo episodio mostra chiaramente come il Senato, rimasto ancorato a una dimensione di tipo locale e regionale, segni oramai il passo rispetto ai tempi nuovi.
Il trasferimento di cittadini con diritti romani non solo fuori dal territorio di Roma ma anche fuori dall'Italia, significherebbe infatti ampliare immensamente il territorio che cade sotto la giurisdizione dell'Urbe. E significherebbe inoltre togliere a essi il diritto di esprimere le proprie preferenze politiche, rendendoli così in pratica cittadini solo formalmente.
Nonostante alcuni risvolti negativi del proprio progetto politico, Gaio dimostra qui una notevolissima lungimiranza. Egli difatti intuisce e prefigura con esso quella che entro pochi decenni sarà la dimensione politica dell'Impero romano: cioè una dimensione addirittura mondiale.
Il merito dei Gracchi, del resto, come già si è detto, è proprio la capacità di cogliere i punti di debolezza strutturali del vecchio sistema, e individuarne al tempo stesso delle possibili soluzioni!

- 122: Essendo stato rieletto tribuno, Gaio ripropone - anche se modificandola lievemente - la legge sull'estensione della cittadinanza agli Italici proposta da Fulvio Flacco nel 125, e assieme ad essa un nuovo sistema di votazione nei comizi tributi che alleggerisce il peso delle classi di censo più alte.
E' chiara l'intenzione di ridimensionare il potere dei senatori e delle istituzioni tradizionali (sia attraverso la legge sulla cittadinanza, sia con quella elettorale).
Il Senato reagisce usando le stesse armi di Gaio: ovvero facendo ricorso, in modo demagogico, alla voce del popolo. Agitando alla plebe urbana lo spettro della condivisione dei privilegi agrari con quella rurale e con le popolazioni italiche, riesce a far perdere consensi a Gaio. Per riparare alla penuria di terre rilancia poi l'idea della deduzione delle colonie: ben 12, ma nella sola penisola italiana.
Usando armi simili a quelle del tribuno, dunque, esso riesce a togliere terreno alla sua politica.
Gaio non verrà rieletto tribuno nel 121 e, trovandosi completamente solo, sarà perciò costretto a rifugiarsi sull'Aventino. Lì si farà uccidere da un servo, per sfuggire alla persecuzione del Senato, che - attraverso una speciale misura repressiva - lo ha dichiarato sovvertitore dell'ordine dello Stato e equiparato quindi ad un fuorilegge.

Nonostante anche la parabola politica di Gaio (come, prima di lui, quella di Tiberio) sia di breve durata, essa avrà un'influenza forse ancora maggiore rispetto a quella del fratello sulle strategie politiche popolari degli anni successivi. Ciò per aver egli intuito sia le potenzialità politiche dell'alleanza tra i plebei ricchi (equestri) e la plebe urbana, sia per aver compreso e favorito la nuova dimensione globale di Roma - laddove Tiberio invece si era limitato a proporre una ridistribuzione delle terre demaniali, ispirata in gran parte al periodo arcaico.

3. Mario, l'uomo nuovo

3.1. Introduzione

Erede immediato della politica dei Gracchi e del loro partito è Gaio Mario, un uomo la cui figura pubblica è indissolubilmente legata a quella dell'esercito.
La sua vicenda politica è densa di incoerenze. Egli è infatti fondamentalmente un demagogo, un uomo che 'si è fatto da sé' (da cui l'espressione, che lo stigmatizza, di 'homo novus'), sfruttando ogni occasione buona per elevarsi, attraverso i propri meriti militari, fino al rango senatorio e diventare - lui, che pure proviene da una famiglia equestre - il politico più in vista di Roma.
Rispetto ai Gracchi (figure di impronta rivoluzionaria e idealista) egli ci appare decisamente più pragmatico e realista.
D'altronde il suo rapporto con le masse popolari è più che altro strumentale, come dimostra il fatto che quando avrà bisogno di farlo, non tarderà a tradire la loro causa!
Nonostante ciò, Mario è comunque un uomo ostile al Senato e alle vecchie istituzioni politiche, che come tale darà un grosso contributo al loro indebolimento.
Per questa ragione può essere considerato un democratico, erede della linea ideologica e politica dei Gracchi.

3.2. La guerra numidica e la conquista del potere

La carriera politica di Mario ha inizio nel 107, quando egli viene eletto console e trasferito in Numidia, per portare avanti la guerra contro Giugurta, al posto del patrizio Metello.
Giugurta è il re della Numidia, lo stato a cui Roma, alla fine della guerra contro Cartagine, aveva assegnato il compito di presidiare le sue nuove conquiste africane, ed è figlio di Massinissa, il precedente sovrano.

Appare necessario ora riassumere brevemente gli eventi che precedono l'azione di Mario.
Le ragioni della ritrosia del Senato a impegnarsi direttamente in Africa stanno probabilmente nella decisa volontà senatoria di non ampliare i confini territoriali dell'impero, volontà la cui origine sta nella paura di perdere il controllo della situazione a vantaggio delle nuove forze sociali emergenti, quali ad esempio i ceti finanziari e borghesi.
Pur essendo Roma difatti 'padrona' di tali territori, ha preferito affidarne la difesa a Giugurta, uomo di cui si fida (anche per una precedente partecipazione alle campagne romane in Spagna, accanto a Scipione Africano).
Tuttavia nel 112 il sovrano numidico si ribella alla potenza dominante, assediando e distruggendo Cirta, una città abitata da cittadini italici e adibita a scopi commerciali.
A questo punto l'intervento è d'obbligo, anche per la reazione indignata dell'opinione pubblica di Roma. Nel 111 il Senato manda un suo uomo, Metello, a condurre il conflitto. Questi ottiene in due anni dei buoni risultati, ma insufficienti comunque a concludere il conflitto.
Nel 107 l'opposizione anti-senatoria scaglia perciò l'offensiva, proponendo Mario (uomo di origini equestri, anche se vicino agli ambienti nobiliari) come console e generale della guerra in Numidia.
La sequenza di vittorie di Mario - per la verità preparate dalla campagna precedentemente condotta da Metello - è impressionante: in due anni egli riesce a chiudere favorevolmente il conflitto.
Sarà l'inizio della sua brillante carriera politica, alla cui base stanno appunto la gloria militare e il prestigio che ne deriva.

E' d'obbligo a questo punto fare alcune osservazioni su Mario e su Roma.
Prima di tutto bisogna osservare quali sono le innovazioni militari introdotte da Mario, e in secondo luogo le implicazioni di queste sulla struttura sociale romana.
Sul piano militare, Mario dà inizio a una pratica di arruolamento basata, anziché sulle classi di censo (in uso sin dai tempi della monarchia, anche se progressivamente la fascia di censo ammessa nell'esercito si era sempre più estesa includendo un sempre maggior numero di plebei), sulla leva volontaria.
Ad entrare nell'esercito sono principalmente i proletari, e soprattutto i proletari rurali: la maggior parte della plebe urbana infatti sopravvive, come si è detto, attraverso quei rapporti clientelari che sono attuabili soltanto in un contesto cittadino!
Ma lo svilupparsi degli eserciti mercenari o professionali ha anche implicazioni enormi sulla struttura sociale e democratica di Roma.
Se infatti la partecipazione attiva alla guerra era stata salutata dalla plebe del VI secolo come una grande conquista politica, essendo essa segno di considerazione sociale e di partecipazione alla vita della collettività, ora al contrario la riduzione dell'esercito a una mera classe di volontari/mercenari, interessata più che alle implicazioni politiche del proprio ruolo alla semplice paga ricevuta per le proprie prestazioni, è segno (e al tempo stesso determina) di un notevole scollamento di gran parte della popolazione romana dai problemi riguardanti la gestione dello Stato e della collettività.
Insomma, il formarsi di eserciti professionali legati - anche psicologicamente - più al proprio generale che alla collettività, sarà alla base dei futuri sviluppi autoritari della politica repubblicana, che diventerà col tempo sempre più scontro tra poteri personalistici armati!
Sono evidenti in questo i segni della fine imminente della Res-publica, intesa non soltanto come dominio del Senato, ma anche come dimensione cittadina e democratica, quindi popolare.

3.3. Le guerre contro Teutoni e Cimbri e la politica di Saturnino

Subito dopo la guerra numidica, che gli ha fruttato moltissimi consensi politici, Mario è impegnato in un nuovo conflitto in Provenza e nel nord Italia, per fermare l'avanzata di due popolazioni germaniche: i Teutoni e i Cimbri.
Questa guerra, durata ben 4 anni (dal 104 al 101), vede un ulteriore affermazione del condottiero romano (chiamato tra l'altro dal Senato stesso, vista l'incapacità dei precedenti generali a risolvere la situazione) cui viene riconfermato il consolato per quattro anni di seguito.

Sulla scia dei successi politico-militari di Mario, il tribuno della plebe Lucio Saturnino tenta - tra il 103 e il 100 - un attacco contro l'autorità costituita.
Saturnino propone varie leggi, tutte di matrice popolare e populista, in funzione anti-senatoria:
· una legge giudiziaria che istituisce un tribunale permanente contro i crimini di tradimento verso lo Stato;
· una legge frumentaria (per la distribuzione dei viveri nella città) volta a cattivarsi le simpatie della popolazione cittadina;
· e ben due leggi agrarie (103, 100) per l'assegnazione di terre ai veterani delle campagne di Mario, nei luoghi dove essi hanno combattuto: in Gallia e in Numidia.
Si noti come questo progetto richiami la proposta di Gaio Gracco di fondare colonie romane fuori d'Italia, e costituisca quindi una chiara provocazione per il Senato.
Ma Saturnino commette errori imperdonabili nel valutare la reale disponibilità dei suoi alleati a seguirlo.
La plebe urbana difatti, non contenta perché gelosa dei favori dispensati all'esercito (che si identifica in gran parte con la plebe rurale, spesso italica), non appoggia con eccessivo calore il progetto di assegnazione delle colonie.
Il Senato invece - messo in allarme dalla violenza dei tumulti popolari, alimentati in realtà dallo stesso Saturnino - si affretta a correre ai ripari con misure repressive.
I cavalieri infine, a loro volta in allarme per il timore di una deriva rivoluzionaria che sarebbe destabilizzante per lo Stato e per i loro stessi interessi, abbandonano il partito popolare e si schierano coi senatori.
E sarà proprio Mario - ispiratore della riforma, ma anche figura profondamente ambigua - ad accettare di guidare, su richiesta del Senato, la repressione dei moti popolari, eliminando inoltre lo stesso Saturnino e il suo alleato Glaucia.

3.4. La questione italica e le guerre sociali

Tuttavia i problemi di Roma non riguardano soltanto la città, ma anche i rapporti con gli alleati (socii) italici.
L'unità politica e militare della penisola ha infatti favorito con gli anni uno sviluppo notevole delle forze produttive e di quelle commerciali, grazie alle guerre ma anche grazie alle opere pubbliche (ad esempio la rete stradale). Accanto agli equestri romani si sviluppa così un ceto equestre italico, che ha stretto spesso col primo rapporti affaristici o ha comunque affinità di vedute e di interessi.
Ma parallelamente cresce anche l'esosità della macchina statale, ovvero le richieste finanziarie e militari della capitale ai centri municipali italici.
Roma in più perdura in un atteggiamento di netta superiorità rispetto ai propri alleati, non concedendo loro - con la sola eccezione della classe nobiliare, alleata nella gestione dei territori sottomessi - molti diritti politici, tra cui la cittadinanza e i vari privilegi a essa legati.
Questa situazione crea profondi attriti, rimasti però fino ad ora (con la sola eccezione di Flegelle, nel 125) ancora inesplosi.
Se il Senato può usare la demagogia nei confronti delle masse romane (le cui aspirazioni politiche non possono oramai più essere ignorate) per allontanare la rivolta sociale, sarebbe costretto a fare concessioni anche alle popolazioni italiche per calmarne gli animi.
Non sempre però vi è tra i senatori una lungimiranza sufficiente per seguire una tale politica. Ne sono esempio le riforme di Licino e Crasso del 95, che ostacolano, anziché agevolarlo, l'accesso degli italici alla cittadinanza romana.

Sulla scia opposta si colloca la riforma di Druso, senatore moderato e illuminato, favorevole a fare concessioni alle nuove classi al fine di rafforzare e conservare il potere senatorio.
Druso propone essenzialmente due riforme:
· la concessione della cittadinanza agli italici;
· e l'allargamento del Senato da 300 a 600 membri, con l'inclusione in esso dei ranghi più alti della classe equestre (quelli la cui politica entra meno in dissidio con quella del patriziato romano).
Questa proposta verrà tuttavia bocciata, anche per l'opposizione di molti esponenti della classe dei cavalieri, per nulla favorevoli all'idea di dare voce soltanto a quelli tra loro che abbiano il censo più alto.
Druso viene assassinato nel 91, l'anno stesso della sua tentata riforma.

Ma le sue proposte non hanno mancato di risvegliare le aspirazioni politiche degli italici, i quali l'anno seguente (90) si armano contro la potenza di Roma. E' l'inizio della guerra sociale o guerra italica.
Essa costituisce la terza impresa bellica di Mario, il quale viene chiamato nel 90 per piegare la Federazione italica.
E anche se la sua vittoria non segna la fine del conflitto, che verrà portato a termine da Pompeo Strabone (padre del futuro Pompeo Magno), dal momento che il Senato non gli rinnova l'incarico militare, costituisce comunque il passo decisivo di Roma verso la vittoria.
Al termine della guerra gli Italici saranno costretti ad arrendersi e a consegnare le armi, con la promessa in cambio della cittadinanza romana.
Gli effetti di questa guerra saranno devastanti per Roma per svariati ordini di motivi:
- le conseguenze destabilizzanti che avrà sulla classe dirigente;
- i disastrosi riflessi economici (tra l'altro perché - oltre a portare ovunque devastazioni - non comporta, a differenza delle precedenti, alcun bottino e quindi non si autofinanzia) sull'economia della penisola italiana;
- il momento stesso in cui essa viene combattuta. (Proprio in questo periodo infatti è iniziato il conflitto ai confini orientali dell'impero contro il sovrano del Ponto Mitridate).

4. Silla, il difensore dell'oligarchia senatoria

4.1. Introduzione

Figura di grande fascino storico, per la lungimiranza e la capacità di comprendere i mutamenti profondi in atto nel suo tempo, Silla è tuttavia anche un personaggio profondamente ambiguo e contraddittorio.
La contraddizione di fondo della sua azione - che ne costituisce però anche l'originalità - sta nel tentare di arginare le forze antagonistiche al Senato adoperando i loro stessi mezzi.
In questo modo, se da una parte egli riesce a ottenere una temporanea riaffermazione di quest'ultimo (dovuta soprattutto alla sua forte personalità), dall'altra la sua azione è la dimostrazione lampante dell'arretratezza della classe senatoria rispetto ai tempi nuovi. E' sintomatico di questa situazione il fatto che nell'arco di tutta la sua carriera egli si scontri con la diffidenza dei suoi stessi alleati.
Silla costituisce comunque l'ultima personalità di spicco della classe senatoria, e le sue imprese sembrano quasi il 'canto del cigno' dell'oligarchia e dei suoi valori.

4.2. La guerra mitridatica e la prima guerra civile

Mentre in Italia si combatte la guerra sociale, in Oriente si è aperta già da un pezzo la questione mitridatica.
Mitridate, re del Ponto, regno situato nei pressi di Pergamo e della Bitinia, insedia già da tempo questi territori minando così la supremazia romana in quella zona.
La politica da tenersi in tale frangente è uno dei molti (nonchè dei principali) motivi di dissidio tra il Senato e i cavalieri.
Questi infatti propendono per una politica aggressiva e una soluzione militare della questione (tra di essi ovviamente troviamo lo stesso Mario); i senatori invece, coerentemente con la decisione di non farsi coinvolgere in nuovi conflitti all'esterno, propendono per una soluzione che sia il più pacifica possibile.
I cavalieri inoltre hanno molti interessi commerciali nella zona in questione, e per questo non vogliono certo che essa sia sottratta al dominio di Roma.
La situazione precipita quando Mitridate (88) fa massacrare un numero imprecisato di mercanti italici residenti nella zona del Ponto. Si impone allora una risposta militare da parte di Roma.
Il Senato assegna a Silla la provincia asiatica e il compito di ristabilirvi la pace, risolvendo il conflitto con Mitridate.
A Roma intanto, sull'onda dell'indignazione popolare per la strage avvenuta ai danni degli Italici, si sta riformando (sotto la guida di Sulpicio Rufo) una alleanza politica tra cavalieri e popolari, che comprende in sé anche gli Italici. Alla sua testa si pone, una volta di più, Mario.
Obiettivo immediato di tale coalizione è di trasferire a quest'ultimo la conduzione delle operazioni militari in Asia.

Sarà proprio il dissidio su chi debba condurre questa nuova impresa militare a far esplodere la prima guerra civile.
Silla infatti, deciso a non mollare una preda tanto ghiotta, prospetta al proprio esercito quale perdita di guadagni comporterebbe il fatto di cedere il campo a Mario e al suo esercito, convincendolo così a marciare su Roma: un'azione tanto estrema da risultare del tutto inaspettata ai nemici, e che perciò li coglie di sorpresa e li costringe alla fuga.
E' l'88, e Silla ritorna immediatamente in Oriente per combattere la sua campagna, lasciando Roma nelle mani dei consoli Ottavio e Cinna.
L'anno seguente si ha tuttavia la violentissima vendetta dei popolari, i quali tornati a Roma si riappropriano della città mettendola a ferro e fuoco e giustiziando sommariamente molti esponenti dell'oligarchia.

Nell'86 poi, il consolato passerà nelle mani di Mario (che muore lo stesso anno) e di Cinna (il quale si è alleato ora con la parte popolare). Quest'ultimo manterrà il potere fino all'84, anno in cui verrà assassinato.
Egli perseguirà una politica responsabile di riconciliazione, volta al ristabilimento della pace e dell'equilibrio interno (non si dimentichi che due guerre a brevissima distanza di tempo, quella sociale e quella civile, avevano piegato Roma finanziariamente ed economicamente) mirando a riavvicinare ai popolari i senatori più moderati e assumendo un atteggiamento attendista nei confronti di Silla, ancora impegnato in Oriente.

4.3. Il ritorno di Silla e la seconda guerra civile; le riforme dell'82

Ma l'omicidio di Cinna (84), a opera dei suoi stessi soldati, stravolge nuovamente la situazione, determinando una svolta intransigente all'interno del movimento popolare.
Proprio per questo il ritorno di Silla dopo la campagna in Oriente (nel corso della quale ha sconfitto Mitridate, costringendolo alla resa e a pagare una forte ammenda, e ha sedato una rivolta in Atene) determina la seconda guerra civile.

Sbarcato a Brindisi nell'83 difatti, Silla tenta una riconciliazione con i popolari, ma inutilmente.
Tale fallimento segna l'inizio di un'altra guerra intestina, ancora più sanguinosa della prima, dal momento che essa coinvolge questa volta anche le popolazioni italiche.
Il generale patrizio pensa subito a guadagnarsi i favori di buona parte dei municipi italici, garantendo loro il rispetto dei diritti precedentemente acquisiti e prospettando un'alleanza tra ceti dirigenti romani e ceti dirigenti locali (promessa che - come vedremo - verrà rispettata!)

Subito dopo la vittoria della guerra (82) inoltre, Silla instaurerà una dittatura in Roma (della quale è ormai virtualmente padrone assoluto) portando avanti un programma di riforme costituzionali volte a riaffermare il predominio del Senato.
Il suo intento è proprio quello di rafforzare l'autorità e il dominio politico delle antiche istituzioni romane, al fine di rafforzarne la centralità e prevenire così il sorgere di poteri personalistici (dei quali paradossalmente il suo è stato proprio uno degli esempi più eclatanti!).
Tali riforme - ispirate alla proposte fatte da Druso circa dieci anni prima - consisteranno essenzialmente in:
- un ampliamento della base senatoria, con l'introduzione degli equestri e degli italici (come del resto aveva loro promesso);
- una drastica diminuzione dei poteri dei tribuni, cui viene tolto il diritto di veto e proibita l'assunzione di altre cariche politiche;
- l'aumento del numero dei pretori (magistrati di rango immediatamente inferiore ai consoli, deputati ad amministrare le colonie) al fine di una migliore distribuzione delle cariche, contro il loro possibile accentramento in poche mani.
Accanto a queste riforme, egli opera poi la confisca di molti terreni (soprattutto campani) che assegna poi ai veterani del proprio esercito.
Nell'80 si ritira infine a vita privata in Campania, dove muore poco dopo.

Non amato dagli altri senatori - che non lo capiscono -, dopo la sua morte saranno le forze più tradizionali a riprendere il potere. Esse tuttavia manterranno fondamentalmente intatte le modifiche da lui apportate all'assetto istituzionale.
Fino al 70, l'anno del consolato di Crasso e di Pompeo, tali forze deterranno il predominio politico in Roma, cercando senza successo di estirpare i germi rivoluzionari antioligarchici.

CONCLUSIONI (133-70)

Al termine del processo di estensione territoriale costituito dalle guerre puniche (conclusosi a metà del II secolo) si affermano in Roma sempre più chiaramente due indirizzi politici opposti tra loro:

- da una parte vi è quello, più conservativo, del Senato e della nobiltà terriera, spaventata all'idea delle possibili conseguenze di un'ulteriore estensione territoriale.
Un tale processo di 'mondializzazione' infatti, renderebbe sempre meno governabili attraverso le antiche strutture senatorie i territori dell'Impero, favorendo inoltre l'affermazione a livello politico dei ceti plebei: sia di quelli finanziari, sia di quelli popolari (i primi attraverso l'estensione dei mercati e degli appalti legati a guerre di conquista, opere pubbliche, ecc.; gli altri invece attraverso l'impiego nelle fila degli eserciti, divenuti oramai realtà di tipo professionale);

- dall'altra parte troviamo invece l'indirizzo politico (che col tempo finirà per prevalere) sostenuto dai ceti equestri, decisamente più aperto a una politica militare e di estensione territoriale.
Dal momento inoltre che una tale politica d'ampliamento richiede un uso sempre più massiccio delle forze armate, assistiamo in questi anni a una progressiva trasformazione di queste ultime in strumenti di potere e di imposizione anche a livello politico, in funzione ovviamente anti-senatoria. (Fatto che trova una chiara dimostrazione nella vicenda personale di Mario e - anche se ciò può sembrare paradossale - in quella di Silla).

Un altro problema col quale lo Stato deve sempre più fare i conti è la presenza di vaste masse dei diseredati, di coloro cioè che sono rimasti privi di terre e di sostanze proprie, i quali - alla meglio - si riciclano impiegandosi negli eserciti, oppure si riversano nelle città, dove vivono di espedienti a spese dei cittadini più ricchi (secondo l'antica pratica clientelare).
La lotta contro un tale piaga sociale costituirà la 'bandiera' politica soprattutto dei Gracchi, i quali con i propri tentatativi di riforma costituzionale cercheranno di dare una svolta positiva alla situazione in atto.
Nonostante inoltre la fine indecorosa sia di Tiberio sia di Gaio, le loro idee - soprattutto quelle del secondo - ispireranno le strategie politiche dei popolari anche nei successivi decenni.

Adriano Torricelli


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014