STORIA ROMANA


Appendici

4. LA SCHIAVITU' NELLE CIVILTA' ANTICHE

Lo schiavismo antico

Nella fase delle civiltà più antiche ha dominato la schiavitù, in forme diverse, poiché la schiavitù dei contadini egizi o assiro-babilonesi non era uguale alla schiavitù sotto i greci e, soprattutto, sotto i romani, che raggiunsero praticamente il vertice nell'organizzazione socio-economica basata sullo sfruttamento della manodopera schiavizzata.

In 4.000 anni di storia si è passati da una sorta di schiavitù implicita, in cui il contrassegno era l'obbligo del tributo (che se non veniva pagato poteva portare il contribuente a una schiavitù esplicita), a una vera e propria schiavitù diretta, immediata, senza soluzione di continuità: un'esistenza in cui tutta la persona dello schiavo, con tutta la sua vita quotidiana, era un "tributo" al suo padrone.

Nel mondo greco poté esserci un'attenuazione della schiavitù solo con l'emigrazione verso le colonie, nel senso che i coloni, tra di loro, cercarono di vivere nelle colonie una maggiore democrazia rispetto a quella della madrepatria.

Nel mondo romano i conflitti sociali furono enormemente superiori a quelli del mondo greco e la trasformazione dello schiavo in colono fu solo la conseguenza della irreversibile decadenza dell'Impero, incapace di fronteggiare i nemici esterni e la crisi interna.

Forse si può dire che nello schiavismo implicito (ad esempio, quello egizio) la rappresentazione della forza si servisse di preferenza della proprietà agricola, nel senso che quante più terre si possedevano tanto più si era forti. Tuttavia, l'idea stessa di poter misurare la propria forza in rapporto alla quantità di terre possedute deve essere stata successiva all'idea di poter misurare la propria superiorità in virtù della pura e semplice forza fisica.

Quindi all'inizio della proprietà privata deve esserci stato un conflitto di tipo personale, in cui i "Caino" e gli "Abele" della storia si sono misurati sul piano fisico, col risultato che ha prevalso quello che ha adottato i metodi non solo più violenti, ma anche spesso più subdoli, in quanto essi sono risultati inaspettati alla collettività. Mentre poi là dove la comunità ha reagito, il violento è stato emarginato o espulso; dove la reazione non è stata adeguata, si è invece imposto, col tempo e in maniera progressiva, lo stravolgimento dei valori originari.

In altre parole, mentre sotto lo schiavismo implicito il più forte poteva servirsi della proprietà della terra per imporre la propria forza, senza dover necessariamente ricorrere alla forza fisica o militare (e questo presuppone ch'egli in passato fosse già ricorso a un tale uso della forza e che quindi ora non ne avesse più bisogno), viceversa nell'epoca dello schiavismo esplicito la rappresentazione della forza necessitava soprattutto della componente militare, con la differenza inoltre che la giustificazione di una tale componente richiedeva una legittimazione teorica più sofisticata, come per esempio il diritto.

L'Egitto classico sperimentò il passaggio ai due tipi di schiavismo, ma quando entrò nella fase del secondo, accentuando di molto gli aspetti militaristici, incontrò degli avversari - in primis i romani - che sul piano specifico dell'organizzazione militare e della legittimazione teorica erano molto più evoluti.

I romani avevano questa particolare caratteristica: il principio della forza militare veniva mistificato dalla finzione del diritto. Nel passaggio dal dominio della terra al dominio militare infatti, con cui viene difeso il possesso privato della terra e che caratterizza peraltro il passaggio dalla Repubblica all'Impero, si ha un'accentuazione di aspetti che se in apparenza avrebbero dovuto essere antimilitaristici, come appunto il diritto, servivano invece - all'opposto - proprio a giustificare l'uso della forza più cieca.

Tutto questo non sarebbe mai stato possibile se non ci fosse stato, all'origine dell'affermazione personale attraverso la proprietà privata della terra, l'uso della forza fisica come strumento per risolvere le controversie sociali.

In Egitto in luogo del diritto vi fu uno sviluppo eccezionale della religione, e solo nel momento in cui si cercò di realizzare il passaggio allo schiavismo esplicito si operò un tentativo di riforma, poi abortito, in direzione del monoteismo assoluto (tentativo poi portato avanti da Mosè e altri sacerdoti egizi insieme al popolo ebraico, che mal sopportava l'acuirsi dello schiavismo). Il fallimento di questa riforma contribuirà decisamente al crollo della civiltà egizia.
In ogni caso anche da queste cose si comprende il motivo per cui la civiltà egizia sia durata più di quella romana, anche se questa ha lasciato nella storia delle civiltà un segno maggiore.

Al tempo dello schiavismo non esistevano vere e proprie ideologie, se non miti di tipo religioso, formule sacre da ripetere per la propria o per l'altrui salvezza. Ciò che non si metteva mai in discussione era il primato della forza, che in quel momento veniva espresso dal monarca e dai suoi più stretti collaboratori e funzionari.

L'ideologia invece è subentrata nel momento stesso in cui il concetto di forza aveva bisogno di una giustificazione teorica per poter continuare a sopravvivere in forme e modi diversi.

Sia il Sacro Romano Impero che l'Impero bizantino furono caratterizzati dal tentativo di giustificare lo schiavismo (poi attenuato nella forma del servaggio) realizzando una fusione ideologica tra diritto romano e religione ebraico-cristiana; ed è in tal modo che è nata la teologia, che è poi la prima vera 'ideologia' sviluppatasi in seno alle civiltà antagonistiche del mondo occidentale.

Oggi l'illusione di un diritto contrapposto alla forza è di molto superiore all'illusione che nelle civiltà antiche si aveva di mitigare l'eccesso della forza con le formule e i riti religiosi.

Le civiltà sono state la più grande sventura dell'umanità! Di esse sarà finalmente possibile liberarsi solo quando si porrà termine alla proprietà privata e, di conseguenza, a quelle stesse sovrastrutture che la difendono: apparati politici, militari, burocratici, fiscali ecc.

Il sistema schiavista dei Romani

Bisognerebbe tracciare una linea evolutiva delle civiltà antiche in modo da dimostrare che l'Impero romano si configura come l'organizzazione migliore nella gestione dello schiavismo. "Migliore" nel senso della capacità di sfruttare gratuitamente il lavoro altrui.

Quali sono state le caratteristiche salienti dell'Impero romano che nell'insieme lo hanno reso "migliore" rispetto a tutte le altre formazioni sociali schiavistiche?

1) La centralizzazione dei poteri, prima intorno alla città di Roma, rappresentata dal Senato, poi nelle mani dell'imperatore.
Significativo è stato il passaggio dal particolarismo e dal localismo del concetto di polis, all'universalismo del concetto di Stato e di Impero, rappresentato dall'imperatore. I grandi imperi di Alessandro il Macedone e di Gengis Khan non hanno avuto infatti la stessa influenza nella storia, la stessa capacità organizzativa di quello romano; ciò probabilmente perché essi erano basati su un concetto di forza o troppo diretto o troppo individualistico o comunque troppo semplicistico per poter durare a lungo, mentre quello romano aveva la caratteristica, molto singolare per quei tempi, e quindi anche molto moderna, di dare all'uso della forza una copertura ideologica che ne mistificasse la forma.

2) La militarizzazione dell'economia. L'economia romana del periodo imperiale fu essenzialmente basata infatti su un fattore di tipo militare, nel senso che sue basi erano la conquista militare e la conseguente colonizzazione di territori sempre nuovi.
La ricchezza di Roma non dipese tanto dunque da una particolare abilità nello sfruttare le risorse interne (come p. es. si verificò in quella egizia o babilonese, o in quelle pre-colombiane), ma fu per buona parte il risultato dello sfruttamento esoso delle risorse esterne. Quanto più poi si allargava l'Impero, ed aumentava di conseguenza anche lo sfruttamento economico delle risorse degli alleati (cosa che andava spesso di pari passo col riconoscimento dei diritti civili e politici di questi ultimi… un'ambivalenza di fondo, questa, che costituisce indubbiamente uno degli elementi alla base della stessa grandezza di Roma), tanto più i romani si dedicavano ad attività economicamente improduttive, connesse all'esigenza di condurre una vita lussuosa, dispendiosa, futile: di qui le grandi costruzioni di ville, monumenti, bagni pubblici, strutture ludiche... che avevano anche e soprattutto lo scopo di favorire il consenso politico.
Da ciò anche, a un certo punto, il rifiuto della popolazione imperiale di partecipare alla vita militare, con la conseguente necessità di arruolare i cosiddetti "barbari" nelle legioni.

3) La copertura ideologica del diritto, che svolse (come si è detto) una funzione di tutela pseudo-democratica della proprietà.

4) Ed inoltre una diffusa strumentalizzazione della religione a fini politici.

La progressiva accentuazione di tutti questi aspetti, il cui sviluppo impetuoso ebbe inizio soprattutto dopo la morte di Cesare e con la trasformazione della Repubblica in Impero, determinò una progressiva rinuncia alle lotte di liberazione: lotte di cui l'ultimo significativo esempio fu quello ebraico, anticipato un secolo prima da quello degli schiavi guidati da Spartaco.
Un'altra lotta di liberazione, viziata peraltro dalla componente religiosa, venne successivamente portata avanti dai cristiani.

Ed anche quando l'Impero fu invaso dalle cosiddette "popolazioni barbariche", non si realizzò un vero superamento dell'ideologia e della prassi schiavistica, bensì soltanto una trasformazione che ne attenuò le asprezze: di qui la nascita del servaggio.

Per altri mille anni infatti, il feudalesimo ha conosciuto conflitti di ogni sorta intorno ai concetti di proprietà e di libertà.

Sul passaggio dal sistema schiavista antico a quello capitalistico moderno:
il ruolo del Medioevo cristiano

Bisognerebbe dimostrare che il mancato passaggio dallo schiavismo al capitalismo è dipeso non tanto o non solo da questioni tecniche o economiche (cioè di tipo quantitativo), ma anche e soprattutto da questioni culturali.

Il rifiuto di considerare lo schiavo come una persona (una questione introdotta per la prima volta dal cristianesimo) ha impedito infatti di realizzare un rapporto giuridico formalmente libero, e di indurre lo schiavista a trasformarsi in un imprenditore, cioè a puntare l'attenzione sulla tecnologia per poter sfruttare come prima e meglio di prima una manodopera formalmente umana e non animalesca.
Il mondo romano sarebbe potuto dunque passare direttamente dallo schiavismo al capitalismo, saltando la fase del servaggio feudale, a condizione che l’accettazione e il rifiuto del cristianesimo fossero avvenuti in tempi molto brevi.

Tuttavia considerare lo schiavo come una persona implicava anche un'altra cosa, e cioè che si considerasse il lavoro una forma emancipativa e non una condanna. E questo per tutta l'epoca classica, incluso il Medioevo, non s'è mai verificato. Ecco perché il capitalismo non è nato neanche nel feudalesimo, dove pur esisteva - per quanto fosse limitato dal servaggio - il concetto di persona

Per far nascere il capitalismo ci voleva l'uomo formalmente libero e l'idea che col lavoro è possibile emanciparsi dalla schiavitù-servitù e contemporaneamente dal proprio passato, dalle tradizioni condivise, dalla comunità di villaggio, dalla chiesa... Per tutto il Medioevo non si è mai stati capaci di porre il lavoro al centro dell'emancipazione politica e sociale.

Il lavoro nell'accezione moderna (borghese) viene visto infatti come un'occasione di affermazione del singolo contro la comunità (in Italia addirittura già intorno al Mille il borghese cominciava a guardare con disprezzo chi non lavorava, quindi non solo i feudatari e il clero ma anche i poveri).

La borghesia ha ereditato dal cristianesimo il concetto di persona e ha fatto del lavoro non una dimensione degna dell'uomo, ma un'occasione prima di emancipazione individualistica (nel commercio c'è il furto, l'inganno ai danni della collettività) e successivamente di sfruttamento di chi è libero solo formalmente, in quanto materialmente nullatenente.

Se guardiamo il momento in cui, intorno al Mille, in Italia sono rinati i commerci, noteremo subito che ciò avvenne mentre contestualmente nelle Università si stava teorizzando la fine del cattolicesimo tradizionale (papocentrico, gerarchico, integralistico ecc.), a tutto vantaggio della riscoperta dell’aristotelismo, del nominalismo, del relativismo dei valori, dell’affermazione insomma dei valori borghesi, i quali in Italia andavano imponendosi, a livello di società civile, in ambito comunale, signorile…
La nascita della borghesia europea è contestuale dunque alla critica del cattolicesimo romano.

Ma poteva avvenire una cosa del genere anche nel mondo romano? Le eresie sono state tantissime nel mondo romano-cristiano (dopo l’ufficializzazione di Teodosio); esse tuttavia sono anche state tutte duramente represse, ragion per cui il pensiero si è per così dire 'fossilizzato'.

La teologia agostiniana (affermatasi sul finire della civiltà antica) rimarrà in auge per tutto l’Alto Medioevo e verrà decisamente superata soltanto dal Tomismo, che aprirà le porte a un’esperienza della fede basata sulla razionalità, cioè su un atteggiamento che è l’anticamera del modo di porsi borghese (tant’è che il tomismo è ancora oggi la teologia dominante per il cristianesimo-borghese).
E non è un caso che Wojtyla abbia cercato, vanamente, di superarlo accentuando gli aspetti dell’integralismo preconciliare (un'operazione che poteva andar bene nella Polonia preborghese, in funzione anticomunista, ma che nell’Europa occidentale non ha avuto alcun seguito).

Se lo schiavismo insomma non s’è trasformato in capitalismo, ciò non è stato perché mancassero le basi strutturali, bensì perché mancarono delle basi di tipo culturale che, se fossero state poste, avrebbero generato col tempo anche le necessarie strutture.

Il capitalismo infatti non sarebbe stato possibile senza un’esperienza alienata del cristianesimo, cioè senza la convinzione che l’ideologia cristiana, ai fini della giustizia sociale, sarebbe stata una clamorosa illusione. Ma perché maturasse questa convinzione occorreva del tempo: dalla fine dell’impero romano alla nascita del capitalismo sono infatti trascorsi praticamente mille anni!

Dunque senza cristianesimo non avrebbe mai potuto esserci il capitalismo. E il cristianesimo che ha permesso la nascita del capitalismo è stato quello che ha tradito se stesso, i suoi principi: cioè innanzitutto il cattolicesimo-romano, che ha tradito se stesso sul piano politico, con l'affermazione della monarchia pontificia, e successivamente il protestantesimo, che ha portato alle estreme conseguenze il tradimento cattolico, estendendolo a livello sociale. Sotto il protestantesimo la corruzione non si pone difatti solo a livello di istituzioni e di gerarchia, ma si estende al livello della società civile, ossia dei rapporti sociali quotidiani: tutti sono nemici di tutti! E tutto ciò, paradossalmente, in nome del dio cristiano, stravolto nei suoi contenuti originari.

Il cattolicesimo ha posto quindi delle premesse politiche a favore del capitalismo, che il protestantesimo ha poi sviluppato a livello sociale.

Enrico Galavotti


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 11/09/2014