L’Impero dell’Africa Orientale Italiana (A.O.I.), era dato per perduto in partenza. Mussolini preventivò, ai suoi stretti collaboratori, tre mesi di vita come massimo, ma che si sarebbe recuperato dopo la vittoria finale. Infatti le truppe italiane non solo erano armate poco e male (molti soldati indigeni avevano in dotazione fucili usati nella campagna del 1897, il 70/87 a un solo colpo, le mitragliatrici italiane e austriache erano della Grande Guerra, i vecchi cannoni la cui gittata era di sette chilometri contro il doppio di quelli inglesi), ma si trovavano anche al di là del Canale di Suez, controllato dagli inglesi, senza nessuna possibilità di ricevere rinforzi, ricambi, rifornimenti e tutto ciò che era necessario per una difesa adeguata. Viceversa, gli inglesi ricevevano continuamente rinforzi e materiali dalle loro numerose colonie africane (Sudan, Kenya, Sudafrica), dall’India, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda, e combattevano con loro anche truppe coloniali francesi e belghe, oltre alle numerose bande abissine che assoldavano contro l’Italia.
Tuttavia, grazie all’eroismo e al sacrificio del soldato italiano ed anche indigeno, la strenua difesa dell’Africa Orientale durò un anno e cinque mesi (fino al 28 novembre del 1941). Il vicerè Amedeo di Savoia duca d’Aosta, divise l’A.O.I. in quattro zone militari: il nord-nord-ovest sotto il comando del generale Frusci; ad est il generale Nasi; a sud la Somalia si suddivideva in due zone, il centro-est al comando del generale Gazzera e l’ovest affidato al generale Pesenti. Il duca, secondo gli ordini ricevuti da Roma, doveva limitarsi alla difesa, ma l’interpretò come ‘difesa attiva’ e prese l’iniziativa dove e quando si trovava in condizione di farla. Così nel giugno del 1940 ordinò di conquistare Metemmà e Kurmuk nel Sudan, in luglio Càssala, le cui difese furono sfondate da una carica della cavalleria coloniale, mentre nel Kenya venivano occupate Moyale e Gallabat. Gli inglesi, quando difettavano di carri armati e cannoni, preferivano sganciarsi ed evitare il combattimento. In luglio furono occupate Urak e Ghezzan; in agosto 25 mila italiani e coloniali cominciarono la conquista della Somalia inglese, difesa da 2 mila soldati. Cinque giorni di cruenta battaglia furono necessari per sfondare le fortificazioni inglesi e finalmente il 19 fu occupata Bèrbera, ma costò cara: si perdettero 2 mila uomini, mentre gli inglesi solo 260. In dicembre gli inglesi, ricevuti rinforzi sufficienti in cannoni, carri armati ed aerei, e grazie anche alla loro grande mobilità (avevano una camionetta ogni otto uomini), passarono all’offensiva generale in Somalia. I somali si sbandarono, nei villaggi all'inizio sparavano sugli inglesi, ma poi vendendo che questi vincevano cominciarono a sparare sugli italiani. Nel 1941 in Eritrea due divisioni anglo-indiane presero Agordat, mentre gli italiani ripiegarono sull’altipiano di Cheren, dove la lotta accanita durò due mesi, e infrante le resistenze, il primo marzo gli inglesi occuparono Asmara e, dopo cinque giorni di combattimento, cadde Massaua. Il duca d’Aosta, con le truppe residue, si ritirò sul massiccio dell’Amba Alagi. Terminò il dramma delle famiglie dei soldati italiani che furono consegnate agli inglesi, prima che se ne impadronissero gli abissini. In marzo gli inglesi ritornarono nella Somalia britannica, e il 6 aprile entrarono ad Addis Abeba, ricollocando sul trono Ailé Selassié. Sull’Amba Alagi gli italiani resistettero dal 19 aprile al 27 maggio, circondati dagli anglo-indiani, da altre truppe coloniali e da 25 mila abissini di ras Sejum, ai quali gli inglesi pagavano undici talleri per ogni italiano catturato. Negli ultimi 18 giorni piovvero sull’Amba 30 mila cannonate inglesi. Restarono ancora 80 mila italiani nel Galla, che continuarono a resistere fino al 4 luglio quando il generale Gazzera s’arrese ai congolesi belgi, e 40 mila (17 mila italiani e 23 mila indigeni) agli ordini del generale Nasi, che resistettero a Gondar durante 193 giorni, fino al 28 novembre, malgrado le minacce inglesi d’uccidere le loro famiglie se non s’arrendevano. L’A.O.I. era perduta per sempre, togliemmo le bandierine italiane dalla carta geografica... restarono quelle dell’Africa settentrionale ancora per molti mesi.***
Nel 1940, dopo la caduta della Francia, Hitler fece il possibile affinché la Spagna ed anche il Giappone dichiarassero guerra all’Inghilterra. Il Giappone, approfittando dell’occupazione tedesca della Francia e dell’Olanda, mirava ad appropriarsi delle colonie franco-olandesi, e non si decideva. La Spagna di Franco avrebbe accettato, ma chiese territori del Nordafrica francese ed aiuti alimentari e militari, che Hitler non volle né poté concedere, tanto più che col consenso di Mussolini, in una riunione al Brennero, aveva deciso che il Marocco sarebbe spettato alla Germania.
Hitler offrì al duce una divisione corazzata per aiutarlo in Libia, ma fu rifiutata, dato che, per orgoglio e prestigio, Mussolini voleva fare una ‘guerra parallela’ e non di comune accordo o, peggio, sotto gli ordini dei tedeschi; ciò significava che ognuno avrebbe fatto la guerra a modo suo, separatamente, contravvenendo alle più elementari regole delle alleanze militari. I tedeschi entrarono in Romania con il pretesto di difendere i pozzi petrolieri: la Russia e l’Italia protestarono inutilmente. Mussolini per vendicarsi del suo alleato che non solo faceva ciò che voleva, senza nemmeno avvisare, ma stava penetrando nei Balcani, considerati zona d’influenza italiana, si mise in testa di restituirgli ‘pan per focaccia’ progettando l’invasione della Grecia. Attolico, ambasciatore italiano a Berlino mise in guardia il duce sulla bassezza e il doppio gioco dei tedeschi, ma Mussolini s’era già fin troppo compromesso, sicché il ‘nostro alleato’, a poco a poco, s’impossessò della produzione industriale italiana e degli stessi operai e lavoratori italiani: 200 mila operai specializzati, su un totale di 700 mila, furono infatti mandati a lavorare in Germania, ed anche 400 mila lavoratori del campo. In 20 mesi l’industria italiana era già in mano tedesca, i cui tentacoli s’estendevano dappertutto. In ottobre Hitler cercò di far entrare in guerra la Russia, comunicando a Stalin un progetto sulla ‘sua’ futura e originale carta geografica mondiale: la Germania si sarebbe occupata della sistemazione dell’Europa centrale e dell’ovest e parte dell’Africa Mediterranea, mentre l’Italia avrebbe avuto mano libera nell’Africa equatoriale, in una ‘parte’ dei Balcani, qualcosa anche nell’Africa mediterranea e nella zona del Mar Rosso, al Giappone sarebbe spettata l’Asia sud-orientale e alla Russia l’impero britannico dell’India. Ma i russi ‘non abboccarono’, chiesero invece il ritiro delle truppe tedesche dalla Finlandia, e di avere zone d’influenza nei Balcani, nonché la restituzione di una base sui Dardanelli e, da parte del Giappone, dell’isola di Sakhalin. Hitler s’arrabbiò, aveva trovato qualcuno più furbo di lui e cominciò a pensare di farla finita con quei russi che si credevano chi sa chi. La ‘neutrale e democratica’ Svizzera censurò la radio e la stampa affinché non continuassero a far propaganda antinazista: non conveniva ai suoi interessi economici…Da notare che la Svezia, che nel 1939 non aveva permesso il passaggio sul suo territorio alle truppe franco-britanniche che cercavano di aiutare la Finlandia, contro l’invasione russa, lo permise alle truppe tedesche d’occupazione in Norvegia affinché passassero in Finlandia.
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A settembre del 1940 in Tripolitania c’erano le divisioni Bologna, Savona, Sabratha, Pavia, Sirte e Brescia, inoltre le divisioni camicie nere ‘23 marzo’ e ‘28 ottobre’; nella Cirenaica le divisioni ‘Marmarica’, ‘Cirene’, ‘Libica’, ‘Catanzaro’ e una di camicie nere, la ‘3 gennaio’, in più la seconda divisione libica, oltre a vari battaglioni libici e a due compagnie sahariane, ma quasi tutte appiedate e pessimamente armate, anacronistiche in una guerra moderna. Erano in totale 221 mila uomini, gli inglesi ne avevano 86 mila secondo il comando italiano, 60 mila secondo quello inglese (che formavano quattro divisioni con i nuovi carri armati ‘I’).
Gli inglesi erano motorizzati, con mezzi corazzati adatti al deserto, veloci, potenti (le loro mitragliatrici perforavano i nostri carri armati da 3 tonnellate), mentre i proiettili dei nostri cannoni anticarro rimbalzavano sulle lamiere dei carri inglesi. Le loro artiglierie erano superiori alle nostre per calibro e gittata. Il governatore della Libia e comandante delle truppe era il generale Italo Balbo, ma il 28 giugno il suo aereo era stato abbattuto[1] dalla nostra contraerea, scambiato per uno degli aerei inglesi che si stavano allontanando dopo un’incursione su Tobruk. Al suo posto fu nominato il maresciallo Rodolfo Graziani, il quale, rendendosi conto della situazione militare della colonia, rinunciò a intraprendere una qualsiasi iniziativa offensiva senza una preparazione adeguata, ma Mussolini insisteva, ordinava di attaccare, voleva una vittoria italiana, anche piccola, dato che Hitler stava preparando lo sbarco in Inghilterra e la guerra sarebbe finita in un batter d’occhio… Intanto gli inglesi con le autoblinde, i carri armati e le camionette cominciarono delle azioni d’infiltrazione nelle retrovie italiane, interrompendo le comunicazioni, logorando e annientando le postazioni e i gruppi isolati, armati solo di fucili e mitragliatrici, come i presidi di Sidi Omar e le ridotte Maddalena e Capuzzo. Mussolini perse la pazienza e ordinò l’attacco non oltre il 9 settembre. Graziani dovette ubbidire e cominciò, previo un bombardamento aereo, l’avanzata lungo la costa con il XXIV corpo d’armata del generale Bergonzoli (cinque divisioni, due delle quali a piedi per insufficienza d’autocarri) e il raggruppamento (tre battaglioni libici) autotrasportato del generale Maletti (in totale 100 mila uomini). A difesa di Tobruk restarono i corpi d’armata XXII (generale Dalmazzo) e XXIII (generale Mannella). In Egitto si supponeva che vi fossero altre divisioni nemiche, di cui una corazzata, ma le truppe italiane non incontrarono resistenza, salvo qualche puntata offensiva di autoblinde, che apparivano improvvisamente, sparavano e si dileguavano, aiutate anche dal fatto che non si pensò di aggirarle con azioni laterali nel deserto, ma si continuò ad avanzare frontalmente, lungo la costa. Il 16 settembre le divisioni italiane raggiunsero Sidi-el-Barrani e lì si fermarono. Passarono le settimane e i mesi. Nessuno si preoccupò di sapere cosa facessero e dove si trovassero gli inglesi, mentre questi inviavano continuamente, di notte, mezzi veloci per spiare la situazione e le collocazioni difensive italiane, rendendosi conto che nessuno vigilava realmente e si preoccupava seriamente di sapere cosa succedeva, e cosa avrebbe potuto succedere, ai lati e dietro lo schieramento italiano. L’aviazione italiana collaborava bombardando Malta e operava in appoggio all’esercito italiano nel deserto. [2] Il maresciallo Graziani se ne stava in una specie di ufficio-cava-bunker a Cirene, in Cirenaica, a più di cento chilometri indietro. Con le truppe che si erano allontanate di 120 chilometri dalle basi di rifornimento, Graziani ordinò di creare cinque campi trincerati aspettando il nemico. Cinque campi isolati, senza comunicazioni celeri tra loro, distanti vari chilometri uno dall’altro (a un dipresso come era successo nel 1896 ad Adua, dove le divisioni italiane avanzando si separarono e non potettero aiutarsi quando furono attaccate dalle masse abissine), con difese solo frontali, senza campi minati ad ovest (verso la Cirenaica da dove affluivano i rifornimenti).Gli inglesi, avendo sufficienti mezzi corazzati e meccanizzati (una divisione corazzata ed una indiana), afferrarono al volo la magnifica occasione che si presentava loro, cosicché all’alba del 9 dicembre piccoli reparti muniti di artiglierie iniziarono un attacco diversivo frontale contro gli italiani, mentre la settima divisione corazzata (con sessanta cruiser A9 e A10 da 14 tonnellate, con cannoni da 37 e due mitragliatrici, duecento carri leggeri Mark 6 e numerose autoblinde), piombò sul fianco destro dei campi trincerati di Sidi-el-Barrani, raggiungendo il mare alle loro spalle, circondandoli, distruggendoli uno dopo l’altro e facendo 35 mila prigionieri. Gli inglesi persero 624 uomini.
Tutto ciò mentre l’aviazione inglese attaccava le basi italiane, distruggendo al suolo molti velivoli. Secondo fonti inglesi furono pochi gli italiani che, sorpresi, subito s’arresero: la maggioranza si difese eroicamente, ma tutto fu inutile. Gli addetti ai cannoni spararono finché furono tutti uccisi o feriti. Innumerevoli furono gli atti di valore isolati degli ufficiali e dei soldati, che attaccarono anche i carri armati con le bombe a mano e le bottiglie di benzina. Costatata l’inutilità delle ‘scatole di sardine’ contro i carri inglesi, si decise d’interrarli e usarli fissi solo come nidi di mitragliatrici, ma anche così vennero distrutti uno dopo l’altro dai cannoni inglesi. Durante tutta l’operazione la flotta inglese cannoneggiò le posizioni italiane. La flotta italiana brillò per la sua assenza, poco poterono fare gli aerei, i vecchi e superati Cr. 42, per mancanza di carburante o per essere stati distrutti al suolo o abbattuti; mentre gli inglesi avevano i moderni Spitfire. Inutilmente Graziani chiese a Roma l’invio di armi moderne e automezzi. Al comandante inglese generale Wavell fu ordinato d’inviare la quarta divisione indiana in A.O.I., ma ricevette in cambio la sesta divisione australiana. Così il 17 dicembre, con 200 carri armati e 120 cannoni, riprese l’offensiva che gli permise di giungere, il 5 gennaio, a Bardia, dove fece altri 40 mila prigionieri e il 22 a Tobruk, dove catturò altri 25 mila italiani. Gli inglesi erano in possesso delle copie esatte dei piani difensivi delle piazzeforti di Bardia e di Tobruk, con la disposizione di ogni singola batteria. Graziani pensò di formare una linea di resistenza da Derna a Mechili (a 80 km nell’interno), ma poi, avendo ricevuto una comunicazione erronea che stavano arrivando cento carri e numerose autoblinde inglesi, decise d’abbandonare il progetto. Inoltre si perse del tempo prezioso, a causa del ritardo nel dar ordini e poi anche nell’eseguirli, cosa di cui seppe approfittare il nemico.Le colonne italiane che cercavano di sfuggire alla morsa inglese, ritirandosi lungo la costa e dirigendosi verso la Tripolitania, furono bloccate e accerchiate a sud di Bengasi dai carri armati Matilda (da 28 tonnellate: anche su questi rimbalzavano i proiettili dei cannoni italiani), che sbarrarono loro il cammino a Beda Fomm, dopo aver percorso una scorciatoia attraverso il deserto. Dei 70 carri armati italiani gli inglesi ne distrussero 44, un vero tiro al bersaglio. Solo un gruppo di M.13 riuscì ad aprire un varco, infiltrandosi tra le forze nemiche, permettendo così a varie migliaia di soldati e civili italiani di salvarsi; però altri 21 mila caddero prigionieri.
Totale: 30 mila inglesi catturarono 130 mila italiani e libici (i soldati d’origine slava furono ‘liberati’ e formarono battaglioni sotto bandiera jugoslava, al lato degli inglesi). Bisogna considerare che alcune migliaia di soldati che furono catturati nelle città non erano combattenti, ma erano adibiti agli uffici, ai magazzini, all’amministrazione, al sevizio di polizia, ecc. I giornali italiani riportarono, sotto il titolo ‘La febbre dell’oro… logio’, che i soldati inglesi (e in A.O.I. gli scozzesi) si occupavano in modo particolare di rubare ai prigionieri italiani gli orologi, i portafogli ed altri oggetti personali di valore. A metà febbraio arrivarono a Worms 10 mila superstiti dell’esercito italiano. Il fronte si fermò ad Agedabia: gli inglesi si erano allontanati troppo dalle basi di rifornimento, inoltre dovettero mandare uomini e mezzi ad aiutare la Grecia (realmente molto strano il fatto che potendo conquistare tutta la Libia, Churchill abbia ordinato di contenere l’avanzata e inviare truppe in un altro fronte che, tra l’altro, non sarebbero servite a nulla), e finalmente ci fu anche una reazione italiana anche se tardiva… Nel frattempo nel campo nemico si formarono reggimenti di cechi, polacchi e francesi degaullisti, che s’unirono alle forze inglesi; inoltre si completò una divisione neozelandese. Il 1 marzo cadde l’oasi di Cufra, il 24 quella di Giarabub, dopo un’eroica difesa del siciliano maggiore Castagna (promosso colonnello). E fu subito pronto l’inno: “la Sacra di Giarabub”, ‘ …Colonnello non voglio pane, dammi il fuoco distruggitore…’; e si fece anche un film. L’8 Graziani chiese di essere esonerato dall’incarico e l’11 partì per l’Italia. Venne istituita una commissione d’inchiesta, per ordine di Mussolini, ma Graziani consegnò un memoriale documentato al duce su ciò che realmente era avvenuto, e l’incartamento fu archiviato. Ma i guai non finirono tutti qui: l’11 novembre aereosiluranti inglesi attaccarono la base navale di Taranto affondando o danneggiando le corazzate Cavour, Littorio e Duilio, perdendo due soli aerei. Si disse che non erano state collocate tutte le reti antisiluri, che ci sarebbero state condanne per i responsabili, così… sbadati. Poi non si seppe più nulla, salvo che l’ammiraglio Campioni era stato promosso a sottocapo di stato maggiore della marina… Ma ancora non bastava. L’improvvisazione, l’incompetenza, la disorganizzazione, la superficialità e l’irresponsabilità di tutti quelli che si erano presi il diritto di dirigere i destini della Patria, cominciando dal duce, continuarono il loro corso, e una mattina determinarono che bisognava attaccare la Grecia. Le ragioni? Mussolini era arrabbiato. I tedeschi, come sempre, facevano quello che volevano, ingannandolo e mettendolo di fronte al fatto compiuto (come già detto erano entrati in Romania). Era necessario vendicarsi: “Conquisteremo la Grecia e i tedeschi saranno avvisati solo quando la frontiera sarà varcata”.[1] Si sparse la voce che non era stato un accidente, ma che il duce aveva dato ordini per farlo uccidere, infatti da tempo i loro rapporti erano tutt’altro che buoni, ma sicuramente si trattò realmente di una casualità. (torna su)
[2] Un’altro mio zio, il tenente di vascello Emilio Nacher, osservatore di volo, il 9 novembre del 1940 fu dichiarato disperso. Il suo Cant Z-506 della 170a, pilotato dal sottotenente Toaldo Furia, fu abbattuto dai Fulmar dell’86º squadrone a sud-est di Malta. Gli fu concessa la medaglia d’argento al valor militare. (torna su)
- Stampa pagina Aggiornamento: 14/09/2014 |