PROSPETTIVE DEL NOVECENTO
Il nodo della Grande Guerra


MUTAMENTI DI PROSPETTIVA TRA OTTO E NOVECENTO

Facciamo un passo temporale indietro per vedere meglio le origini del processo appena descritto. Nella sfera politica, in Italia tutto era cominciato tra Ottocento e Novecento, con il fenomeno del trasformismo Attorno al 1883, i più autorevoli uomini della Sinistra, che dissentivano dal trasformismo e avversavano Depretis, si stringevano in una lega, chiamata la Pentarchia, che cercava di dare una base più larga alla componente liberaldemocratica.

Va detto che il trasformismo era allora un fenomeno politico corrente che aveva le sue radici nel modo in cui era avvenuta l’unificazione del paese, ossia su base molto frammentaria, con forti e frazionate presenze politiche localistiche, e con una pratica correntemente clientelare e personalistica. In più, le leggi elettorali e la ristrettezza del bacino elettorale favorivano la costituzione di reti politiche personali. D’altra parte, la formazione dei grandi partiti politici di massa, capaci di fornire un solido e stabile punto di riferimento ai loro rappresentanti e di ancorarli ad una continuità di posizioni era, per l’appunto, ancora di là da venire. Scriveva Benedetto Croce che “Uomini di Destra entravano in gabinetti di Sinistra, frazioni di Destra sostenevano siffatti gabinetti, frazioni della Sinistra si combattevano tra loro.” […] “Destra e Sinistra si dividevano ormai non per diverso indirizzo di idee, ma per effetto di tradizioni e di uomini.”

Era stato Depretis, a teorizzare il trasformismo, ossia la prevalenza dei programmi sugli schieramenti, manovra che accompagnava la tendenza ad occupare il centro politico da parte di una frazione della sinistra, assieme ai liberali moderati. Si trattò di un tentativo di fondare una moderna politica conservatrice, senza costruirne il partito di sostegno, di tentare un’azione stabilizzatrice in un’epoca di grandi rivolgimenti sociali. Lo schema di base era quello di cercar di mutare gli avversari in sostenitori del governo.62

Da una prima fase, in cui il fenomeno riguardò singole personalità e ambienti parlamentari, si passò in seguito ad una pratica che coinvolgeva interi gruppi politici, anche dell’estremismo, approdati all’area moderata o reazionaria. Il primo caso di un certo rilievo fu quello del nascente nazionalismo, in cui confluirono ex sindacalisti estremisti ed anarchici.

La vulgata prevalente nella storiografia nella seconda metà del Novecento e cioè che uno dei problemi dell’unificazione italiana, destinato a segnare profondamente le vicende storiche successive, fu la mancata formazione di una borghesia nazionale all’altezza di questa espressione, rimane in buona sostanza valida, nonostante recenti tentativi di attenuarne la portata. Per mancanza di una borghesia nazionale – riprendo qui un’annotazione di Alberto M. Banti - intendo non solo l’assenza di coscienza di una classe che finalmente identifica se stessa, ma proprio il fatto che, nel caso italiano, la borghesia non si collocava all’interno di un orizzonte nazionale nel quale e con il quale costruire uno stato e una cultura per sé e per gli altri, con un’azione di inclusione che considerasse lo stato un bene comune. Certo, nell’analisi occorrerebbe esaminare anche il fenomeno del massiccio astensionismo dei cattolici intransigenti e della opposizione destabilizzatrice del Vaticano al nuovo stato italiano, ma anche quello del dissenso profondo, pressoché inconciliabile, dei gruppi repubblicani e delle prime formazioni anarco-socialiste rispetto ai suoi assetti fondamentali. Così come, nella riflessione, sarebbe necessario includere una versione meno addomesticata e oleografica di ciò che era realmente accaduto nel corso del Risorgimento.

D’altra parte, è anche vero che la stessa composizione della borghesia era molto varia ed eterogenea e che essa pareva sempre sul punto di disgregarsi. L’annotazione, contenuta nelle belle pagine di A. Hauser, nella sua Storia sociale dell’arte, è valida a maggior ragione per il caso italiano. Ma su questo punto, in particolare, le analisi e le osservazioni di Antonio Gramsci, contenute nei Quaderni del carcere, rimangono insuperate. Per questa sua debolezza costitutiva la borghesia italiana tendeva a sostituire l’egemonia, ossia la capacità di dirigere con il consenso, con il dominio, ossia con il deterrente della pura forza coercitiva.

Insomma, non esisteva il concetto di una coesione sociale fondata sulla comune appartenenza ad un’unica collettività nazionale e ciò all’interno della stessa borghesia dominante. E quando questo valore veniva invocato, lo era in modo strumentale, come richiesta agli altri di abdicare alle proprie posizioni e convinzioni, non ricercando i necessari compromessi e livelli di sintesi più elevati. D’altra parte, il bracciante padano, l’operaio torinese o milanese, il manovale meridionale o del centro Italia – salvo rarissimi casi di comportamenti paternalistici – non avevano certo prove giornaliere di concordia nazionale e di solidarietà sociale. Sappiamo anche che c’erano forze liberali, in particolare di sinistra, che tentavano di compiere un’operazione del genere, ma essa risultò incerta e, alla fine, perdente, sia per la sua condizione minoritaria, sia per la sua scarsa capacità di legare a sé i ceti popolari, se non attraverso le clientele.

A conferma di ciò, del resto, la stessa stampa del tempo rimproverava ai liberali democratici di non avere legami sociali estesi e, in più di un’occasione, i commentatori politici li accusarono di essere una baraonda. In altre parole, appare come se la mentalità dei liberali di sinistra presupponesse che, per il solo fatto di essere più sensibili alle tematiche sociali e civili, i ceti subalterni dovessero riconoscerli come loro rappresentanti, anche in forza del loro essere direttamente classe dirigente, ossia una classe nazionale già data, per cultura e per estrazione sociale. Era un atteggiamento che discendeva dalla tradizione illuminista, in cui i ceti più lungimiranti tendevano a presentarsi come avvocati e protettori del popolo, ma non ne erano certo l’espressione.

Cosicché, la politica si identificava allora “con l’arte dell’adeguamento alle circostanze e con l’imperativo della governabilità, dell’evoluzione dei costumi e della società. [...] Ossia, come capacità di adattamento mimetico ai cambiamenti e all’opportunità non solo come una necessità ma come un valore”.63 La supposta modernità si esprimeva soprattutto in questo modo. Sottolineo che il tutto si inquadrava in una situazione in fortissima e permanente evoluzione, dovuta all’accelerato processo di modernizzazione dell’Italia e alla introduzione di tecnologie e produzioni fortemente innovative, che sconvolgevano di continuo il tessuto sociale e le abitudini consolidate. Ancora, per esempio, proprio a partire dal tumultuoso processo di modernizzazione, si era formata nel primo decennio del Novecento la prima avanguardia artistica italiana ed europea, destinata ad avere anche un peso politico nelle vicende successive. Mi riferisco al futurismo, che della modernità tecnica fece il proprio cavallo di battaglia, collocandosi per un certo tempo tra l’espressione modernizzante di una borghesia avanzata, insofferente di tutto ciò che suonava vecchio, e i tentativi d’inclusione – spesso stravaganti – dei ceti subalterni.

In queste condizioni, mi pare che valga ancora il successivo giudizio del filosofo e storico liberale Guido De Ruggero, che però non coglieva ciò che si agitava a quel tempo nella struttura profonda del corpo sociale: ”Ciò che del liberalismo in realtà sopravviveva era una consumata arte di governo, che riusciva ad amalgamare i gruppi disgregati e a temperare la sostanza oligarchica del regime con un formale rispetto delle libertà civili e degli ordinamenti costituzionali”.64 De Ruggiero non riusciva a mettere in luce che l’impronta oligarchica era la conseguenza di una scelta illiberale compiuta dai gruppi dominanti fin dalla formazione del Regno d’Italia del 1861.

L’estensione senza adattamenti dello Statuto albertino piemontese al resto d’Italia e la successiva legislazione vulneravano il principio fondamentale del liberalismo e cioè quello della separazione dei poteri. La giustizia non aveva alcuna autonomia dall’esecutivo; l’esecutivo era di gran lunga prevalente sull’attività legislativa; i poteri amministrativi erano largamente in contrasto con gli stessi principi dello Statuto; lo stato era concepito come una macchina al servizio delle maggioranze politiche; le autonomie locali e le dinamiche elettorali erano poste sotto stretta tutela attraverso i prefetti; l’esercito era dominio riservato del re ed era utilizzato facilmente per compiti di ordine pubblico; la stampa era fortemente condizionata attraverso l’istituto del sequestro e il finanziamento diretto da parte del governo; la libertà associativa sottoposta a decise restrizioni; il diritto di voto limitato, all’inizio, all’1,9% dell’intera popolazione e al 7,9% dei maschi adulti: la bassissima partecipazione al voto falcidiava ulteriormente le percentuali reali di voto.

Insomma, si trattava di una mentalità che esprimeva in pieno quella che, in una condizione profondamente mutata dal punto di vista dei diritti e delle dinamiche politiche e sociali, somiglia molto a quella che è stata definita da un padre costituente americano, James Madison, come una tirannia della maggioranza, ossia una cultura politica che tutto è meno che liberale nel senso classico della parola e che non concepisce l’assetto democratico come l’organizzazione di poteri indipendenti, coordinati dalla sola legge fondamentale.

In sostanza, la Destra storica che diresse l’unificazione italiana non era affatto in sintonia con i principi formulati da John Stuart Mill, il padre del liberalismo, adottati dalla tradizione anglosassone., e soprattutto del più importante di essi. “Detto in altri termini – chiarisce Alberto M. Banti, riferendosi alle mancate scelte della borghesia italiana ottocentesca – si tratta dell’idea che sia politicamente pericolosa o dannosa una concentrazione dei poteri nell’ambito di una sola funzione, e sia pure di una funzione che riceve la sua investitura dal suffragio elettorale.”65

L’autoritarismo e il centralismo burocratico piemontese hanno segnato il codice genetico del nuovo stato nazionale, assieme alle pagine non certo gloriose della normalizzazione della situazione nell’Italia meridionale e alla commedia dei plebisciti di annessione al Piemonte. Un paragone con quanto avvenuto nel processo di unificazione tedesca può aiutarci a chiarire questi concetti. “L’unità tedesca – scrive R. Aron – fu conseguita grazie alle vittorie militari prussiane, non in seguito a deliberazioni di assemblee e entusiasmi di popolo”.66 Anche nel caso italiano (ma il paragone si ferma qui), il punto di coagulo del nuovo stato nazionale furono l’esercito piemontese e la burocrazia sabauda.

L’assenza di un reale connotato liberale in tutte le formazioni di centrodestra e di destra che si sono susseguite al potere in Italia, al di là delle autoproclamazioni, nascono da questo impianto ideologico di base. Esso tende a sbilanciare e a concentrare i poteri nell’esecutivo e ad indebolire la capacità di azione autonoma degli altri due poteri, il legislativo e il giudiziario. Da questo punto di vista, esiste una straordinaria continuità politica e culturale da cento cinquanta anni a questa parte. Non appena le circostanze lo consentono, pur nel variare delle condizioni storiche, la cultura della destra, liberale o meno, tende a ripetere lo schema essenziale dello statuto albertino. Quella che oggi si tenta di spacciare come innovazione o riforma ripete in realtà una cultura sostanzialmente illiberale, che appare pressoché congenita in una parte del fondo culturale nazionale.

Del resto, la prima volta che la sinistra, anch’essa liberale, giunse nell’Ottocento al potere non fece in realtà nulla per mutare il centralismo dello stato, rimanendo a sua volta impastoiata nel trasformismo. Anche se produsse una legislazione per molti versi innovativa, essa utilizzò spregiudicatamente gli stessi metodi di governo della destra storica, certo senza le sue convulsioni reazionarie di fine secolo.

La composizione socio-professionale dei parlamenti otto-novecenteschi è stata molto omogenea e segnata dalla massiccia prevalenza delle professioni liberali, dei militari e dei nobili e possidenti. Ma una Camera siffatta, assai stabile per decenni nella sua omogeneità culturale e di ceto ha tuttavia prodotto un’instabilità permanente dei governi, una visione di corto periodo delle prospettive nazionali e una sostanziale incomprensione delle dinamiche proprie di una società che si avviava a diventare di massa, con l’assenza di una cultura strategica e un’incapacità davvero impressionanti di mettersi al di sopra del piccolo cabotaggio parlamentare.

Il tutto si ricollega insomma – a proposito del principio di responsabilità - a quanto ho appena sostenuto circa l’inadeguatezza di una borghesia nazionale degna di questo nome, visto che la sua espressione rappresentativa per eccellenza, il Parlamento, fu praticamente un suo monopolio per tutto l’Ottocento e fu da essa in larga parte dominato nel primo decennio del Novecento.67

Ma – e questo è un punto ormai chiarito dalla storiografia – le delusioni e l’insofferenza che all’indomani dell’unificazione crebbero nel paese, nel recinto degli stessi ceti dominanti e dell’intellettualità, a causa dello scarto evidente tra idealità risorgimentali e realtà dei problemi da affrontare (quello che Croce ha definito il passaggio dalla poesia risorgimentale alla prosa postunitaria) non confluirono, se non eccezionalmente, in un approfondito e serio esame di coscienza nazionale e civile, con la rassegna critica di una politica che aveva puntato tutto sul centralismo piemontese. Esse presero piuttosto la strada di deprecare il funzionamento delle istituzioni, cominciando a marcarne un distacco e accentuando una critica sempre più distruttiva. Senza riflettere (consapevolmente?) che quelle istituzioni, come abbiamo visto, erano interamente nella mani dello stesso ceto sociale che le criticava.

Anche Alberto Asor Rosa ha analizzato magistralmente, nel capitolo su La cultura, contenuto nella Storia d’Italia di Einaudi, il vezzo prevalente insorto a quei tempi di quella che egli chiama la deprecatio temporum. Un atteggiamento antipolitico e antiparlamentare che produsse, alla lunga, frutti avvelenati. Si trattava, anche in questo caso, del predominio di una mentalità profondamente illiberale che passava dalla critica del cattivo funzionamento di un’istituzione a svalutare l’intero sistema rappresentativo, ritenuto decadente proprio a causa dell’emergere della società di massa. Tanto è vero che, nei casi in cui dalla critica dell’istituto della rappresentanza si passava ad esaminare il carattere degli italiani come causa della decadenza del sistema parlamentare, la soluzione che si indicava era in una maggiore disciplina generale e in un ulteriore accentramento dei poteri nella Corona e nell’esecutivo.

Non era certo accettabile che tale critica, comprensibile negli ambienti democratici che avevano subito un’unificazione sabauda dell’Italia secondo linee non condivise, tra i ceti popolari esclusi dalla partecipazione politica (e, naturalmente, anche tra i clericali e tra i partigiani dei vecchi ordinamenti preunitari), potesse circolare in ambienti organicamente inseriti nel circuito del potere. D’altra parte, una porzione dei ceti colti e borghesi prese, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, la strada delle organizzazioni cattoliche e socialiste esprimendone in parte la dirigenza, specialmente nel primo caso. I consistenti gruppi di cattolici che a cavallo del passaggio di secolo si impegnarono nelle attività sociali e nella politica, esprimevano però sentimenti antiliberali che non avevano lo stesso segno della tradizionale difesa clericale dei diritti calpestati della chiesa. Il loro antiliberalismo – pur scontando in seguito profonde differenze nei riferimenti sociali privilegiati e nei rapporti con l’istituzione ecclesiastica – nasceva infatti “da motivazioni sociali, dalla condanna delle insufficienze e delle chiusure dello stato borghese di fronte ai problemi posti dall’industrializzazione e dalla trasformazione capitalistica dell’agricoltura”.68

In sostanza, l’atteggiamento ferocemente antiparlamentare non era solo un affare di poeti, come nel caso di Carducci e poi di D’Annunzio, ma anche di politici liberali di primo piano, di giuristi, politologi e scrittori e persino di psichiatri e di psicologi sociali, e conobbe un’intensificazione e una virulenza inusuale con l’avvento (guarda caso) della Sinistra al potere nel 1876 e con le prime manifestazioni di una società di massa. Questo atteggiamento, che è stato in seguito definito come sovversivismo borghese, è una componente tipica – tra l’anarchismo individualista, il fascino delle scorciatoie autoritarie e il qualunquismo scettico – di una parte persistente della cultura nazionale.

Il discorso da fare sarebbe davvero troppo lungo e dovrebbe ovviamente fare i conti con le strutture profonde del costume, della storia e della mentalità nazionali, oltre che con le stesse modalità di svolgimento del Risorgimento. In una sintetica prospettiva storica, rimango dell’idea - confortato in questo da una delle ultime interviste dello storico e filosofo Eugenio Garin, recentemente scomparso - che “ci accorgiamo anche che i problemi della storia nazionale sono ancora quelli: l’inte­grazione civile mancata, la questione meridionale” e che, per quanto riguarda i guasti profondi della storia d’Italia “i mali dell’oggi hanno radici tenaci e lontane e risiedono nella mancata modernizzazione laica del paese.”

In altre parole, il guaio principale – anche se non esclusivo - è che in Italia ha vinto a suo tempo il Concilio di Trento e che il potere temporale della chiesa è durato troppo a lungo. Del resto, parlando del rapporto tra identità italiana e cattolicesimo in un convegno svoltosi nel 2001 sotto l’egida della Conferenza episcopale italiana, un relatore ammetteva che tale identità è “anche e prima di tutto figlia di una Controriforma che ne ha plasmato il sapere delle scuole e delle biblioteche, le forme della cultura, l’arte, la musica, lo stile dei comportamenti, i riti sociali e l’intimità della vita domestica, la visione del mondo e la coscienza del destino ultimo dell’uomo oltre la morte”.69

Dunque, riprendendo il discorso della partecipazione popolare alle vicende storiche risorgimentali, non era stato certo il parlamento il luogo-simbolo della riunificazione nazionale. “La costruzione dell’Italia nuova fu una questione di eserciti, di condottieri, di sangue e di eroismo, niente a che vedere con attempati e poco romantici signori che sedevano in un’aula parlamentare” – osserva Alberto M. Banti, nel ricostruire in modo puntuale le ragioni di una periferica collocazione del parlamento rispetto alla prevalenza di casa Savoia e del potere esecutivo. Del resto, si può aggiungere, le ragioni di politica europea che condussero alla formazione del nuovo regno erano troppo astruse, troppo distanti dal sentire comune, troppo riservate a pochi specialisti e troppo affaire du roi per diventare vulgata popolare.

Tutta la storia delle guerre risorgimentali, spesso perse, è stata una storia di politiche militari piemontesi, checché ne continui a raccontare una bolsa tradizione scolastica, tese ad escludere o a circoscrivere non tanto una partecipazione di massa che non esisteva, ma il pur importante fenomeno del volontariato e a reprimere o non aiutare le ribellioni insorgenti negli stati preunitari.

In altre parole, il Risorgimento è stato – per riprendere una geniale espressione di Antonio Gramsci – una rivoluzione passiva, i cui valori fondamentali rimasero patrimonio circoscritto alle élites al potere, senza che esse riuscissero a tradurli in un’egemonia nei confronti della società di massa. Non che non ci siano stati tentativi in questa direzione, ma essi fallirono tutti. Fino alle più conseguenti elaborazioni del liberalismo progressista di Piero Gobetti, che non a caso auspicava una sorta di rivoluzione morale e intellettuale, ripresa in seguito dallo stesso Gramsci, sia pure con altre prospettive.

Forse sono queste, almeno in parte, le ragioni per cui è così difficile per l’Italia diventare un paese normale o, meglio, diverso. In Italia una vera rivoluzione liberale, nel senso pregnante del termine, non c’è mai stata. Anche per questa ragione l’esperienza e la tradizione politiche della sinistra italiana sono state così peculiari.

Il Novecento italiano si è espresso così attraverso modalità politiche originali, nella tragedia e nella loro parte ricostruttiva. Forse conviene partire da qui, dalle componenti profonde della mentalità e del costume del paese per cogliere le radici del futuro. Ciò richiederebbe un’analisi ben più complessa e ampia del Novecento italiano, soprattutto, estesa al suo ultimo cinquantennio e persino al tentativo degli ultimi tempi dei governi di centrosinistra di promuovere qualcosa di simile ad una rivoluzione liberale in economia. Il che esula però dagli obbiettivi di questo saggio.

Qui è sufficiente accennare a come la costruzione della repubblica, nel secondo dopoguerra, tentò proprio di superare quei limiti storici illiberali dell’unificazione nazionale, regolando attraverso contraddizioni, resistenze e lotte l’ingresso delle masse nella società politica, lungo un itinerario di inclusione dal basso. Ma non ci fu quella necessaria riforma morale e intellettuale, alla quale accennerò ancora più avanti, per la quale non c’erano le condizioni effettive di attuazione, considerando le forze in campo e i limiti esterni imposti dal confronto strategico tra est e ovest. Ma non ci furono nemmeno le condizioni o la volontà politica di fare fino in fondo un esame di coscienza sulla storia d’Italia, specialmente quella più recente, il che, a pensarci bene, non sarebbe stato meno complicato.70

Finché il processo avviato nel secondo dopo guerra ha conservato un suo dinamismo (e penso sia alle spinte popolari che alla capacità di interpretazione e di risposta delle forze politiche di opposizione e di governo) quel fondo illiberale nazionale di lunga durata è stato in qualche modo metabolizzato: in sostanza, occultato, indirizzato e spesso reinterpretato. Quando, nonostante i grandi cambiamenti di costume e culturali nel frattempo intervenuti, alla nuova costellazione politica è venuta meno una tale capacità, si è assistito ad una nuova grande operazione trasformistica che, sul versante conservatore, ha ripresentato direttamente sulla scena pulsioni, modi di pensare e di concepire la convivenza sociale tratti dall’armamentario mentale che affonda le sue radici in un’idea tutto sommato proprietaria dello stato, che fu propria delle culture politiche dominanti nei ceti dirigenti dell’Otto-Novecento.

Non c’è dubbio che è proprio qui, in questi aspetti del secolo appena trascorso che occorre concentrare gli interrogativi, al fine di riannodare i fili di un processo riformatore e per immaginare prospettive future credibili. Sono interrogativi che la politica e la storiografia si sono già posti, fornendo talvolta riposte brillanti ma anche autocritiche.71 Essi richiedono nuove interpretazioni, proprio per gli stretti collegamenti ma anche per le profonde e già evidenti diversità che legano il Ventesimo secolo a quello attuale. Non è facile tenere assieme i due aspetti, senza che l’uno cancelli l’altro.

Il riconoscimento dei limiti e dei difetti dell’epopea risorgimentale, una critica spassionata dei processi che hanno presieduto alla formazione di una identità nazionale, non possono tuttavia servire a riesumare anacronistiche e rozze vulgate neolocalistiche che, per sopravvivere, provano a fare dell’identità neorazzista il collante di un rifiuto o di una revisione della storia nazionale; né possono servire a riaccreditare il qualche modo la legittimità di interpretazioni che rileggono la storia nazionale come esclusione del filone più autenticamente popolare, il quale sarebbe costituito dalle masse cattoliche, tentando attraverso questa ottica di riaccreditare un’immagine più positiva del ruolo svolto della chiesa nella storia nazionale, attraverso la valorizzazione dell’apporto dei cattolici liberali al Risorgimento. Apporto che pure c’è stato, ma alla fine, sempre conflittuale con gli orientamenti vaticani.72

Il fatto che i Savoia siano stati quel che sono stati, non fa insomma del papa-re e dei regni preunitari le vittime innocenti della prepotenza neogiacobina e massonica. E, del resto, va pur sempre ricordato che il Piemonte era, nel 1859, l’unico stato italiano che avesse conservato una costituzione.

Una rilettura della storia italiana è invece necessaria per riuscire a cogliere le correnti popolari più profonde, a ripensarle al di là dei rapporti di forza che pure si sono espressi, a distinguere le istituzioni dagli uomini in carne ed ossa, a cercare di capire quali somiglianze e quali differenze ci sono state tra aspirazioni e mentalità di diversa estrazione, liberandole dall’identificazione totalizzante con le formazioni storiche del potere e osservandone gli scarti di comportamento quando sono entrate in presa diretta con i problemi della modernità, magari riuscendo ad esprimersi in modo del tutto autonomo dai magisteri religiosi o politici e spesso dando vita ad originali esperienze, quasi tutte tendenti a richiedere un riconoscimento di ruolo sociale.

Per tutte queste ragioni, tra l’altro e a maggior ragione per l’Italia, si può sostenere che “democrazia e totalitarismo sono entrambi risposte storicamente determinate a questa richiesta di integrazione/rottura messa in campo dalle masse e sono comprensibili solo se viene presupposta l’esistenza di una società compiutamente massificata“scrive ancora De Bernardi.

La prima via, quella democratica, tende a praticare un’integrazione dal basso, attraverso la partecipazione sociale e politica e il conflitto organizzato degli interessi. Anzi, tale conflitto arriva ad essere l’intelaiatura della stessa pratica democratica. Questo fermento continuo (che ha funzionato da motore sociale e produttivo delle innovazioni positive del Novecento) può anche portare a punti di rottura politica, se non governato con la capacità di pensare agli interessi generali.

La seconda via, quella totalitaria, enfatizza il primato dello stato, comunque denominato, accompagnato dal carisma di un capo, e propone un’integrazione dall’alto, selezionando i gruppi di potere su base ideologica e di fedeltà personale. Pone comunque in rapporto diretto il capo con le masse, attraverso meccanismi mitologici e di stretto controllo sociale. Qui si innesta anche il fenomeno del cesarismo moderno nelle sue varie versioni, persino nel paradosso di un progetto di democrazia integrale o totalitaria che si è rovesciato storicamente nel suo contrario, come nel caso dell’Unione sovietica.

Questa bipartizione è utile per semplificare un panorama piuttosto complicato, perché all’interno di ognuno di questi due grandi campi sono state sperimentate versioni e modelli assai diversi, con sconfinamenti nell’uno o nell’altro versante. Per esempio, nell’ambito democratico si sono confrontate (e si confrontano) almeno tre vulgate, quella partecipativa, quella progressiva e quella liberale, la quale ultima ebbe talora anche esiti totalitari. E quelle partecipativa e progressiva, a loro volta, hanno attraversato differenti incarnazioni.

Va tuttavia evitato l’equivoco, piuttosto diffuso tra i ceti che si sentono schiacciati tra le due estremità della scala sociale, di identificare le masse con le classi subalterne: il concetto è inclusivo del ceto medio, sia nelle sue ramificazioni più elevate come nelle stratificazioni della piccola borghesia. È la società moderna che è di massa nel suo complesso, quale che sia l’idea che l’individuo ha di se stesso, in un inestricabile intreccio di valori, comportamenti e assetti strutturali. Tanto più in un’età che è stata definita del consumo di massa.

Le reazioni a questo fenomeno hanno assunto e assumono le fisionomie più variegate, talvolta con esiti liberticidi. In particolare, quando lo strumento principale dell’organizzazione, della partecipazione e della promozione sociale, politica e culturale moderna delle masse, ossia il partito, è stato vissuto e teorizzato come realtà totalmente rappresentativa oppure nel suo contrario, quando è prevalso uno spicciolo e diffuso risentimento antipartito. Non c’è qui lo spazio per sviluppare questo discorso, anche se le sue dinamiche ebbero un peso non indifferente nel Novecento. Resta in ogni caso fuori discussione, come sottolinea G. Galasso, “la novità storica del partito moderno – sia nelle sue versioni più deboli che in quelle più forti.”

Ovviamente, le vicende politiche e sociali sono state accompagnate e persino precedute da mutamenti profondi nel clima culturale, nei modi di sentire e di pensare diffusi tra i ceti più colti, anche in questo caso con esiti che hanno talvolta straziato i principi di razionalità.

Qui sono costretto a limitarmi solo ad un sintetico accenno per sottolineare come, ad esempio, lo spiritualismo piuttosto confuso che cerca ancora di opporsi al cosiddetto inaridimento e decadimento sociali dovuti all’affermazione delle masse, continua una tradizione del primo Novecento che culminò nell’idea del tramonto della civiltà. Esso rappresentava un astorico rifiuto della modernità e un disadattamento sociale che cercava di camuffare - nei casi più banali - la realtà, di occultare la comprensione di ciò che accadeva rifugiandosi in miti collettivi e individuali. Ma rappresentava anche un’idea di crisi della civiltà occidentale che da allora in poi accompagna costantemente la cultura europea. Il problema si pone all’incrocio tra la progressiva perdita di centralità del vecchio continente e le difficoltà insorte nel capire e governare la società di massa.

Tutto era iniziato, per così dire, nella seconda metà dell’Ottocento, quando - tra altre ugualmente fondamentali - si registrarono due novità rivoluzionarie che mutarono in profondità la traiettoria della civiltà: la scienza diventò – da ricerca isolata, magari riservata a chi può pagare di tasca propria un laboratorio attrezzato – un’impresa collettiva sostenuta da istituzioni. Si formò una vera e propria comunità di scienziati, la cui formazione intellettuale, invece di essere casuale e molto eterogenea, venne strutturata formando persone che si guadagnavano la vita dedicandosi solo alla scienza e che condividevano una visione del mondo, metodi di indagine e procedure di verifica.

In secondo luogo, si cominciò a creare una stabile e organizzata convergenza tra scienza e tecnica; cioè si passò dalle invenzioni casuali, empiriche, fatte da “praticoni”, all’applicazione sistematica di conoscenze scientifiche per compiti pratici. Nasceva la tecnologia come tecnica di inventare le tecniche, sulla quale si innestava l’economia più vivace, per quanto un ruolo importante continuò ad essere svolto anche da inventori più o meno collegati ad ambienti accademici, come nel caso di Edison, di Tesla e di Marconi.73

Impressionata dalle formidabili capacità tecniche tedesche messe in evidenza dalla guerra franco-prussiana del 1870, l’Europa adottava il modello germanico di Università, con la didattica e la ricerca poste sullo stesso piano. La competizione scientifica tra i paesi venne considerata, per la prima volta da due millenni, dopo la straordinaria fioritura culturale dei regni ellenistici, un fattore di potenza e di prestigio. Ma in Italia una svolta del genere avvenne in modo stentato, seppure avvenne.

Il predominio di una cultura umanistico-idealista, la debolezza della struttura industriale, l’arretratezza della compagine sociale, il grande ritardo nell’avviamento dei processi di modernizzazione, l’assenza di interesse per i nuovi fondamenti teorici della scienza a tutto favore di uno sperimentalismo accademico - privo di collegamento con un’industria che poco richiedeva di ricerca - produssero anzi un indebolimento delle facoltà scientifiche nell’Università, massacrata anche dalla miope politica di bilancio messa in atto dai governi della Destra storica per raggiungere il pareggio. A quanto pare, si tratta di una storia destinata a ripetersi.

Quanto al considerare la scienza solo sotto il profilo sperimentale e non anche per le sue dimensioni conoscitive, una tale impostazione riemerge anche attualmente con prepotenza. Si tratta di un discorso apparentemente complicato e astratto. Tuttavia esso ha a che fare con i depositi culturali profondi e arretrati del paese e con la persistenza di una cultura secondo la quale le risposte alle domande fondamentali sull’uomo e sull’universo possono essere solo metafisiche (religiose o filosofiche). La scienza come pensiero critico e come conoscenza in progress del mondo, come visione naturalistica della realtà viene così depotenziata perché considerata un’invasione di campo nella sfera religiosa o umanistica. Speculare a questa impostazione è il tentativo di schiacciare la ricerca sulla sola dimensione dell’utilità economica.

Lo sfondo nazionale (una volta si sarebbe detto: la psicologia nazionale) su cui nacquero l’industrializzazione e i nuovi modi di sentire e di vedere il mondo è molto sinteticamente quello delineato. Forse ciò spiega anche come mai molti contemporanei, specialmente letterati, furono impressionati dalle novità dei prodotti tecnici arrivati sul mercato, come ad esempio l’automobile o l’elettricità, ma furono poco influenzati da una seria riflessione sul significato culturale della scienza moderna, discussione dalla quale rimasero in larga parte estranei anche i non numerosi scienziati italiani.

Comunque, con la rivoluzione industriale concetti scientifici vecchi e nuovi vennero bene o male diffusi e volgarizzati nel largo pubblico attraverso la prima letteratura fantascientifica e la divulgazione popolare. Forse è poco noto che il popolarissimo Emilio Salgari pubblicava nel 1903 anche un libro di fantascienza intitolato Le meraviglie del Duemila, che ebbe un discreto successo. Ma gli autori di fantascienza italiani del tempo furono molti altri e anch’essi popolari.

In questo quadro, è importante capire il ruolo dei ceti colti e le ideologie allora prevalenti. Ancora nell’ultimo scorcio dell’Ottocento il socialismo godeva di molte simpatie tra gli intellettuali, tanto da far parlare gli storici di socialismo dei professori. Ma poi, con la crisi economica e l’avvento di Crispi al potere, prese piede l’idea della trasposizione della lotta tra le classi sociali sul piano della lotta tra nazioni (inventata da Giovanni Pascoli: la grande proletaria si è mossa), ripresa poi dai nazionalisti e che giustificherà l’imperialismo italiano fino alla seconda guerra mondiale.

Era il mito dell’Italia come grande proletaria - ultima arrivata tra le nazioni - tenuta in disparte e umiliata dalle potenze europee (una costante del pensiero politico conservatore, originato dal nazionalismo di Enrico Corradini). La nozione di popolo, nazione e patria, antecedenti allo stato, e contrapposta sia all’idea di classe in funzione antisocialista sia all’idea di borghesia in funzione antiliberale, trovò nel nazionalismo un terreno fertile. È in questo periodo che anche l’idea repubblicana e mazziniana del Risorgimento tradito si trasformò nell’avventura africana vista come risarcimento di un’ingiustizia storica.

Lo sviluppo comunque in corso, in stridente contrasto con la situazione culturale e sociale, aggravata quest’ultima da una pesante depressione del ciclo economico, determinò - tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento - una caduta di certezze e di senso del mondo. Milioni di contadini poveri furono costretti a emigrare dall’Italia a partire dal 1880, mantenendo la pressione sociale al di qua della rivolta, che pure ci fu in alcune regioni.

Paradossalmente, se la grande depressione di quegli anni, che dimezzò i prezzi delle merci e anche di più per quanto riguarda i prodotti agricoli, gettò nella fame e spinse all’emigrazione forzata milioni di contadini, contribuì invece a migliorare le condizioni di vita degli altri salariati, perché si abbassò il costo della vita. Ma la stragrande maggioranza della popolazione, occorre ricordarlo, lavorava ancora nell’agricoltura. In seguito, invece, durante il grande ciclo espansivo coincidente con quella che è stata chiamata la belle époque i salari reali tesero a calare, il che fu all’origine dell’intensificarsi delle lotte sociali.

C’era, insomma, il conflitto tra una realtà sempre più complicata e l’incapacità delle vecchie convinzioni di dar conto di un cambiamento che disgregava collocazioni sociali consolidate e rimescolava ruoli ritenuti stabili. C’era la delusione per le disattese promesse positiviste di una risoluzione rapida di tutti i problemi dell’umanità grazie alla scienza e ad un progresso ritenuto ingenuamente lineare.

In realtà, il positivismo italiano era stato fragile e ritardatario rispetto alle altre esperienze europee e, in ogni caso, venne ben presto ridimensionato dal prevalere delle correnti idealiste e spiritualiste, con Croce e Gentile in prima fila. I quali stabilirono, dapprima insieme e poi seguendo strade diverse, quella che è stata chiamata una dittatura culturale durata quasi mezzo secolo. L’influenza crociana è durata anche di più, se si considerano i suoi effetti di lunga durata, compresi quelli sulla versione italiana del materialismo storico.74

In conclusione – ha scritto Norberto Bobbio a proposito dell’esperienza positivista italiana - l’idealismo uccise in realtà un moribondo, cui non concesse il beneficio della lenta agonia, e lo fece – aggiungo - svalutando la scienza e la tecnica, sostenendo che non solo le scienze naturali ma anche quelle umane, da poco nate dal ceppo della fisica e dell’evoluzionismo (come la psicologia, la sociologia, l’antropologia e così via), dovevano essere degradate sul campo e considerate come attività meramente classificatorie, prive di qualsiasi reale capacità di cercare il vero, compito che spettava solo alla filosofia.

Insomma, la strada principale percorsa dalla cultura italiana fu quella di accumulare concetti e verbose considerazioni, piuttosto che misurarsi con la scienza. In realtà, Croce rappresentava pienamente la tradizione nazionale, originata da GiovanBattista Vico, di una frattura insanabile tra il fare tecnica e il fare cultura, laddove la prima era certamente pratica e utile, ma priva di qualsiasi valore critico. Una concezione tuttora diffusa nel milieu umanistico. Ancora nel novembre dello scorso anno, un commentatore celato dietro lo pseudonimo di Lanterna Rossa scriveva su La Stampa – con supponente ignoranza e citando il filosofo tedesco Heidegger - che la scienza non è sapere. Il vizio congenito di questo atteggiamento, fondato sull’antica tradizione retorica italiana, è che riesce a parlare in modo persino brillante di cose di cui non sa o non capisce assolutamente nulla.

In ogni caso, i colpi mortali che la filosofia idealistica inferse al debole positivismo italiano, aprirono non solo la strada alle teorie elitistiche di Vilfredo Pareto e di Gaetano Mosca, ma incoraggiarono tutta una nuova generazione di intellettuali a porre al centro della riflessione e della proposta culturale il soggetto, il singolo, come colui che dà forma al mondo e lo indirizza, al di sopra e al di là delle forze della storia e degli impacci sociali.75 È, del resto, nello sbocco della guerra che quei giovani intravidero volentieri il luogo in cui l’affermazione di sé e le dinamiche sociali potevano incontrarsi e risolversi. Sarà poi lo stesso Croce, dopo aver incoraggiato quei filoni politico-culturali per usarli come un ariete fiancheggiatore contro il positivismo, a rendersi conto, nel suo razionalismo olimpico, dei pericoli di quell’attivismo irrazionale e a denunciarlo. Ma ormai era troppo tardi.76

Dunque, in quel periodo a cavallo dei due secoli, c’era il malessere per la distanza tra l’enorme e affascinante potenza tecnica messa in atto e il grigiore della vita quotidiana. C’era soprattutto un’inquietudine crescente nei ceti intermedi, stretti tra gli strati operai in ascesa e i gruppi dominanti chiusi in se stessi e per nulla propensi ad aprirsi ad una politica di partecipazione. L’irruzione delle masse sulla scena politica e sociale generava allarmi e confuse reazioni. Si diffondeva in strati sempre più ampi della società acculturata il mito di una malattia della civiltà occidentale, anche sulla scorta di un gusto e di una letteratura che sempre di più odoravano di morte e di sfacelo morale, come nel caso del decadentismo. Fino al culmine letterario de Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, pubblicato al termine della prima guerra mondiale e che, proprio grazie al trauma collettivo prodotto dall’esperienza bellica, ebbe una straordinaria fortuna in tutta Europa.

Era un filone di pensiero riguardante la crisi europea che si appoggiava ad una cattiva assimilazione delle teorie darwiniane e della nascente biologia, associato alla vecchia concezione greca dei cicli e dell’eterno ritorno. Insomma, era una visione morfologica della storia, collegata all’idea del ciclo vegetativo delle civiltà (nascita, fioritura e morte), nutrita di una visione pessimistica.

Si tratta, per alcuni aspetti, dello stesso impianto concettuale, anche se capovolto, che accompagna il recente lavoro di S. P. Huntington ne Lo scontro delle civiltà. Anche se in quest’ultimo non c’è alcuna critica della tecnica. Come ha scritto Max Horkheimer, per Spengler la tecnica era invece la tendenza vincente, enunciando così tesi che saranno riprese per tutto il secolo. Ma Spengler affermava anche la necessità di “un eroismo della fine che consiste nel contrastare il corso delle cose, anche se tale corso è catastrofico [...] Molto superomismo letterario, soprattutto di estrema destra si è nutrito di concezioni come questa. […] La tecnica non può essere abbandonata né corretta, solo seguita fino alla fine: fino alla fine della tecnica e della civiltà. [...] Di fronte al destino c’è solo un atteggiamento degno di noi, e cioè quello di Achille: meglio una vita breve e ricca di imprese e di gloria che una vita lunga e senza contenuto.”

Di fronte alle due correnti storiografiche di pensiero che hanno attraversato il Novecento, l’una che vede nel processo storico un percorso lineare e progressivo, e l’altra che insiste sulla ripetizione dei cicli (nascita, crescita, decadenza e morte), sta la concezione dell’antropologia culturale contemporanea. La storia somiglia più ad una spirale in cui certi fenomeni sembrano ripetersi ad ogni crescita del giro: in realtà ci troviamo solo di fronte a ripetizioni apparenti, il cui senso è differente da quelli che li hanno preceduti. Il che non ci deve far dimenticare che esiste una persistenza tenace, che – al di sotto dell’incresparsi delle vicende storiche - riguarda quella che gli storici francesi definiscono come la storia di lunga durata, cioè la persistenza delle mentalità di fondo e di alcuni schemi antropologici, delle culture diffuse e così via.

In conclusione, “per comprendere il senso profondo di quelle lacerazioni, dibattiti, scontri, che partendo dal campo politico si estendevano a quello culturale e che erano destinati a lasciare tracce profonde nei decenni successivi, si deve partire dalla considerazione che il quarantennio che comprende gli ultimi due decenni dell’800 ed i primi due del ‘900 rappresenta, o almeno fu vissuto dai suoi protagonisti, come un momento epocale della storia universale, perché in quei quattro decenni scomparve un mondo e ne nacque uno nuovo.”77


62 F. Cammarano, Il progresso moderato: un’opposizione liberale nella svolta dell’Italia Crispina (1887-1892), Bologna, 1990. Anche in E. J. Hobsbawn, L’età degli imperi, 1875-1914, op.cit.
63 B. Trentin, Uscire dal trasformismo, in Sul partito riformista, Il Ponte, 11, 2003.
64 G. De Ruggero, Storia del liberalismo europeo, 1962. De Ruggero si riferiva a ciò che era accaduto nei primi decenni del Novecento.
65 A. M. Banti, Storia della borghesia. L’età liberale, op. cit. Ovviamente, esistono le motivazioni storiche sull’aver imboccato questa strada, ma questo non cambia l’esito finale del giudizio.
66 R. Aron, Il Ventesimo secolo, Bologna, 2003.
67 Dal 1861 al 1882 le oscillazioni minime e massime di rappresentanza furono così ripartite: avvocati, notai e giornalisti: 34,7-43%; nobili e possidenti: 14,2–19,1%; ingegneri, architetti, medici e farmacisti: 7,6–9,2%; docenti, funzionari pubblici, magistrati e militari: 19–23,5%; dediti ad attività produttive e finanziarie: 3,1–4,4%; altri: 9,2–10,2%. In sintesi, le rappresentanze di estrazione borghese e nobiliare classica oscillarono sempre tra i nove e gli otto decimi del Parlamento. [Dati rielaborati, tratti dallo studio di A. M. Banti, Storia della borghesia italiana, L’età liberale, op. cit.]
68 E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, vol 4.3., Torino, 1976. Ma l’ala più democratica del movimento, ispirata da Romolo Murri, venne ben presto costretta al silenzio e riassorbita dall’azione congiunta del Vaticano e dei cattolici più retrivi e anche di quelli più moderati. Il movimento venne bollato come cattolicesimo rosso. La vicenda si ricollega alla sconfitta del modernismo cattolico, il quale – tuttavia – non si riprometteva di governare lo stato secondo principi laici, ma di affermare il predominio della sfera religiosa nelle condizioni della modernità [vedi anche in F. Rodano, La question democristiana, in Quaderni della Rivista trimestrale, 45,1975].
69 D. Zardin, Controriforma, Riforma cattolica, cattolicesimo moderno, conflitti di interpretazione, in C. Mozzarelli, op. cit.
70 V.Foa, Il paradigma antifascista, in Micromega, febbraio-marzo, 2003.
71 Penso, ad esempio, ad un saggio di A. Reichlin, Note sul decennio. La sinistra e la crisi della nazione italiana, in Gli argomenti umani, Quaderni, dicembre 2000. Dove, a proposito della vera e propria crisi del sistema politico uscito dalla seconda guerra mondiale si sarebbe trattato di “fare fronte a qualcosa che era molto di più e di diverso da un semplice collasso del sistema politico. Era una crisi organica. Fine dello Stato storico centralistico e di quella sua costituzione materiale, economica ma anche politica e ideale, all'interno della quale (non dimentichiamolo) questo era diventato uno dei Paesi più ricchi del mondo.”
72 Vedi C. Mozzarelli ( a cura di), Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, Roma, 2003.
73 Come è noto, il Ministero della poste italiano si dichiarò non interessato all’invenzione di Guglielmo Marconi, costringendolo a cercare e trovare capitali inglesi per metterla a frutto.
74 L’influenza crociana è durata fino agli anni ’60 del secolo scorso e una vera anche se parziale fuoriscita culturale da quel sistema si ebbe solo con il ’68.
75 Così anche in E. Garin, La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Bari, 1962.
76 P. Albini, Manifesti futuristi. Scienza macchine natura, Roma, 2002.

Web Homolaicus

Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia contemporanea
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Aggiornamento: 14/09/2014