LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE
dall'esordio al crollo


POLITICA, LOGICA E METODI DELLA NEP

Per la sua ricchezza di idee e di misure audaci, creative, la Nuova Politica Economica (NEP) degli anni '20 occupa un posto assai particolare nell'esperienza storica accumulata nell'URSS in materia di regolazione e gestione dell'economia. Una radicale ristrutturazione di tutto il meccanismo economico, operata in un breve periodo (1921-24), procurò allora un apprezzabile effetto socio-economico. Il settore socialista si trovò ampliato e rafforzato, e l'alleanza politica degli operai coi contadini venne dotata d'una base economica sufficientemente solida. Nel 1927-28 la produzione industriale e agricola aveva già ritrovato i suoi ritmi pre-bellici (non dimentichiamo che la NEP si sviluppa subito dopo la I guerra mondiale e la guerra civile). Si erano elevati anche la produttività del lavoro e gli standard di vita. La NEP aveva posto numerose e necessarie premesse all'industrializzazione del Paese e alla collettivizzazione agricola (anche se poi la prima, sotto lo stalinismo, riguardò quasi esclusivamente l'industria pesante mentre la seconda avvenne nella maniera "forzata").

Oggi non pochi economisti tentano di equiparare la NEP alla perestrojka, ma è evidente che una riedizione pura e semplice della logica e dei metodi della vecchia NEP non ha alcun senso. Al massimo si possono paragonare le esigenze di realizzare complesse strategie socio-economiche in condizioni molto difficili e in un lasso di tempo relativamente breve. In particolare, sono forse 5 o 6 gli aspetti ancora oggi di fondamentale importanza, che assomigliano ad aspetti analoghi della vecchia NEP: il passaggio a una distribuzione proporzionale dei redditi nell'ambito dell'industria e dell'agricoltura; la riedificazione di rapporti mercantili-monetari, equivalenti tra città e campagna; l'istituzione di vari trust industriali e di cooperative commerciali, funzionanti in gestione contabile integrale; la creazione d'una moneta forte e di un bilancio statale equilibrato; la regolarizzazione di tutto il sistema creditizio e finanziario; un ampio utilizzo delle conquiste scientifiche nell'organizzazione del lavoro e nel management.

Il periodo del "comunismo di guerra"(immediatamente precedente a quello della NEP) si era caratterizzato anzitutto per un'opposizione acuta fra le posizioni di classe delle masse lavoratrici da un lato, e quelle degli elementi piccolo-borghesi dall'altro. Ma soprattutto fra gli operai e i contadini, il livello necessario di concertazione degli interessi non era stato ancora realizzato, a causa dell'inesistenza d'un meccanismo economico capace di formarlo e supportarlo. Il problema cioè era quello di come raccordare gli interessi di classe del proletariato industriale delle imprese nazionalizzate, con quelli di tutta l'altra popolazione (di cui i contadini costituivano l'asse portante). La strategia della NEP consisteva appunto in questo, nel cercare di rimuovere le forme contraddittorie più acute e scoperte fra le classi, attenuando le forze centrifughe della piccola produzione mercantile, per arrivare in seguito ad armonizzare gli interessi degli operai e dei contadini almeno su taluni aspetti essenziali.

Per risolvere questi problemi era necessario rispettare scrupolosamente alcune condizioni: nella sfera economica, anzitutto, il carattere equivalente dello scambio dei risultati del lavoro, onde impedire la soggezione dell'agricoltura all'industria; in secondo luogo, la partecipazione paritaria fra lavoratore, collettivo e Stato al reddito finale (mentre infatti il volume assoluto del reddito statale era fissato prima, l'ammontare dei redditi dei collettivi e dei lavoratori variava in funzione del valore del risultato finale della loro attività, per cui il produttore si sentiva sollecitato a fabbricare prima e meglio i beni di consumo).

Un tale meccanismo non esisteva nella Russia dei primi anni rivoluzionari. Alcuni tentativi erano stati fatti nel 1918-19, ma la guerra civile, l'intervento straniero e la fame resero necessari una misura politica estrema: la requisizione del grano, onde realizzare degli stocks minimi di derrate. La razione di pane venne fissata a 409 grammi al giorno pro-capite, ma in genere si riusciva ad assicurarne solo la metà.

Ovviamente la confisca del grano eccedente lo stretto indispensabile, ledeva gli interessi del contadino produttore: le norme che lo riguardavano consideravano solo il numero delle bocche da sfamare per ogni famiglia, nonché i bisogni di foraggio e di sementi per gli animali (queste eccedenze gli venivano pagate a prezzi calmierati e finivano negli ammassi pubblici. Il libero commercio era proibito). Ciò ovviamente dissuadeva i contadini dall'aumentare la produzione, anche perché l'inflazione era così alta che i prezzi con cui lo Stato pagava il grano eccedente, non servivano neanche a coprire le spese di produzione, per cui col tempo la fame, che pur il governo aveva cercato di combattere, divenne peggiore di prima.

Non solo, ma nelle fabbriche il livellamento remunerativo degli operai distoglieva quest'ultimi dall'idea di dover produrre meglio e prima. Di qui il circolo vizioso: la produttività del lavoro diminuiva, questa portava a un calo dei consumi, e questo, a sua volta, inibiva gli stimoli a un lavoro più intenso e qualificato. Nel 1920-21 il livello reale di vita dei lavoratori raggiungeva appena 1/3 di quello del 1913.

All'inizio degli anni '20, il ristabilirsi di rapporti fondati su incentivi, al fine di garantire una migliore e maggiore produttività, debuttò nelle campagne, cioè in quel settore in grado di risolvere i problemi connessi all'approvvigionamento di tutta la popolazione. Durante il sistema delle requisizioni forzate il governo aveva posto l'accento sull'alleanza con gli strati più poveri dei lavoratori agricoli, che ricevevano in effetti una parte del grano stoccato. Ora invece l'intenzione era diventata quella di estendere ai contadini medi le migliori condizioni per potersi sviluppare. Nel marzo 1919 Lenin dichiarò che il partito avrebbe difeso i contadini medi dall'arbitrio delle autorità locali. Poco dopo l'VIII congresso, egli chiese, in un primo momento, di diminuire le requisizioni, le esazioni fiscali, ecc.; poi chiese di fissare una quota proporzionata di prelievi, che il contadino avrebbe dovuto conoscere in anticipo, in modo da poter utilizzare liberamente la quota restante.

I punti di vista che si fronteggiavano sulla stampa erano sostanzialmente due: uno partiva dall'immutabilità del sistema dei prelievi delle derrate e prevedeva di passare a una regolazione statale diretta delle aziende individuali e familiari, sino alla delineazione di compiti obbligati relativamente alle superfici seminate (era l'approccio amministrativo). L'altra opinione, del tutto opposta, puntava su misure miranti a interessare economicamente i contadini alla crescita della loro produzione. Alla fine del dicembre 1920, nel corso dell'VIII congresso dei soviet, si giunse a un compromesso. I prelievi delle derrate secondo la vecchia modalità furono aboliti in 13 distretti.

L'8 febbraio 1921, Lenin elaborò delle tesi che prevedevano la transizione dalla politica del "comunismo di guerra" alla NEP. I punti fondamentali erano i seguenti:

  • soddisfare le esigenze dei contadini, sostituendo le requisizioni (il prelievo delle eccedenze) con un'imposta in natura (cioè in grano), che poi diventerà in denaro, pagato il quale, il contadino poteva liberamente vendere i suoi prodotti sul mercato locale;
  • diminuire il tasso di questa imposta in rapporto alle requisizioni dell'ultimo anno;
  • approvare il principio secondo cui il tasso d'imposta dev'essere fissato secondo l'impegno dell'agricoltore, ovvero che deve diminuire se l'impegno aumenta;
  • estendere la libertà per l'agricoltore di utilizzare le eccedenze rimanenti nel circuito economico locale, a condizione che l'imposta sia versata rapidamente e completamente. Queste tesi serviranno poi da base per elaborare la risoluzione del X congresso del partito: "Sulla sostituzione delle requisizioni con un'imposta in natura". La NEP insomma era stata suggerita dalle esigenze degli stessi contadini.

Secondo le iniziali previsioni, l'imposta doveva essere percepita sotto forma di un prelievo proporzionato alla produttività dell'azienda, tenendo conto dell'importanza del raccolto, del numero di bocche da sfamare e della presenza o assenza di bestiame. Tuttavia si concedevano forti agevolazioni agli agricoltori zelanti, che aumentavano le superfici coltivate. In seguito si decise di stabilire l'imposta sulla base delle terre lavorate, cosa che aumentava l'interesse del contadino verso un loro uso intensivo.

Il rischio maggiore che il governo doveva affrontare era quello della diffusione degli accaparratori e degli speculatori. A tale scopo si propose di organizzare, con l'aiuto delle cooperative e degli organi locali di potere, una sorta di scambio diretto dei prodotti tra produttori e consumatori. Questo scambio "naturale" delle merci era troppo primitivo per potersi sviluppare, ma proprio per questo il governo lo appoggiò: un decreto del 24 maggio 1921 autorizzò "il libero scambio, la vendita e l'acquisto di derrate agricole che restano alla popolazione, dopo il pagamento dell'imposta in natura".

Il X congresso del partito, nel marzo 1921, aveva dunque optato per la trasformazione della confisca in un'imposta naturale e per la reintroduzione della circolazione delle merci. Esso in pratica aveva costatato ch'era impossibile vincere il proprietario privato (specie quello medio-piccolo, enormemente maggioritario) con l'aiuto dei mezzi e dei metodi militari e amministrativi. La lotta per l'affermazione del socialismo si doveva spostare sul terreno dell'economia, dove i mutamenti qualitativi sono sempre molto lenti e faticosi, anche se, in ultima istanza, sicuri e irreversibili. Il governo doveva partire dal riconoscimento che le aziende individuali costituivano la forza principale dell'economia.

La valorizzazione, da parte di Lenin, del duplice carattere dell'azienda individuale ebbe un'importanza capitale per l'elaborazione d'una politica corretta nei confronti di circa 100 milioni di lavoratori. "Il proletariato -egli scrisse- deve distinguere il contadino lavoratore dal contadino proprietario, il contadino lavoratore da quello mercantile, quello laborioso da quello speculatore". Lenin ammise l'errore d'aver creduto che fosse sufficiente, tramite ordini espressi dall'alto, organizzare in modo comunista, in un Paese di piccoli agricoltori, la produzione e la divisione dei prodotti, senza tener conto dell'interesse e dei vantaggi individuali. Egli insomma capì che per costruire il socialismo si doveva, almeno in Russia, passare per il capitalismo di stato. Questa transizione al socialismo era la più accessibile e la più comprensibile ai contadini.

L'esperienza degli anni 1918-20 mostrò chiaramente il fallimento di tutti i tentativi di risolvere le contraddizioni economiche attraverso uno scambio dei prodotti imposto volontariamente. D'altro canto, gli agricoltori sapevano bene d'aver ricevuto la terra dalla rivoluzione proletaria. Tornare indietro era impossibile: solo i rapporti mercantili-monetari avrebbero potuto salvare l'economia rurale dalla rovina in cui era caduta all'inizio degli anni '20. E in effetti sarà così: la NEP supererà il dissesto economico del Paese e l'inflazione, inoltre ristabilirà la normale formazione dei prezzi e un sistema monetario stabile, creando infine una consistente riserva finanziaria e materiale per la successiva industrializzazione. Nel 1925 molti indici produttivi uguagliarono quelli del 1913. Nel '27 si contavano nel Paese decine di migliaia di associazioni e cooperative agricole, compresi 6.300 associazioni per il lavoro comune della terra (TOZ) e 8.500 artels e comuni.

I contadini si univano anche in società di consumo. Le cooperative di consumo divennero degli importanti intermediari commerciali fra il produttore agricolo e il cittadino consumatore. Nel 1926-27 più della metà dell'insieme del commercio al dettaglio veniva gestito dalle cooperative di consumo, che realizzavano anche una buona parte dello stoccaggio del grano, della carne, delle uova, delle fibre di lino e altre merci. Nella seconda metà degli anni '20 si sviluppò anche il sistema dei contratti riguardanti le forniture dei mezzi produttivi e la concessione di un'assistenza agrotecnica: contratti stipulati fra le organizzazioni statali e le cooperative, da un lato, e le aziende contadine dall'altro. Ciò al fine di limitare l'anarchia del mercato.

La NEP tuttavia non rappresentò soltanto il passaggio dal prelievo delle derrate all'imposta in natura e, in seguito, a forme più o meno evolute di commercio. Oltre a ciò, la NEP aveva di mira la creazione di un forte sistema monetario, finanziario e creditizio, nonché il rafforzamento e l'estensione delle cooperative di consumo e l'istituzione (come poi avvenne nel febbraio 1921) d'una commissione di Stato (Gosplan) autorizzata ad elaborare un piano statale unico. Inoltre la NEP autorizzò l'affitto della terra e l'uso, in una certa misura, della manodopera salariata.

Non solo, ma gli stessi rapporti dello Stato con la classe operaia subirono delle modifiche. Gli operai infatti vennero coinvolti nell'allestimento di trusts funzionanti in gestione autonoma, dotati d'una relativa libertà d'azione e responsabili del loro fatturato, nei confronti non solo dello Stato ma anche del collettivo dei lavoratori. Si faceva cioè dipendere direttamente il finanziamento della produzione e i redditi di tutto il personale dai risultati delle attività produttive e commerciali. Il lavoro del trust doveva essere orientato verso l'acquisizione di profitti destinati a una divisione equilibrata. Infatti, almeno il 20% dei profitti andavano alla formazione d'un capitale di riserva del trust: tale somma raggiungerà ben presto la metà del totale del capitale sociale di base (di qui la decisione che in seguito si prenderà di alimentare il capitale di riserva in ragione del 10% dei profitti). Il capitale di riserva veniva utilizzato dal consiglio d'amministrazione del trust, in accordo con gli organi amministrativi superiori, per allargare la produzione e compensare le perdite connesse alle attività economiche. Il trust era soggetto a tutte le imposte, comprese quelle industriali e sul reddito, allo stesso titolo delle imprese private.

Per interessare il personale del management alla crescita di efficacia della produzione, furono istituiti premi speciali e occasionali dividendi, proporzionati al livello di profitti raggiunto. Nel contempo il personale era responsabile nei confronti del diritto civile e penale per l'integrità del bene affidatogli e per la redditività dell'impresa.

Gli operai erano remunerati a cottimo o sulla base di contratti negoziati: vi erano poi dei "bonus" relativi ai profitti. Praticamente si cercava di ostacolare il livellamento retributivo e d'incentivare materialmente i lavoratori migliori. Anche se la cosa però non riusciva più di tanto. Produzione e distribuzione restavano, nonostante tutto, largamente dipendenti dalla volontà dello Stato, e in questo senso si può dire che la NEP trovò maggiori sostegni nel mondo agricolo che in quello industriale.

I prodotti del trust erano commercializzati sulla base dei prezzi di mercato. In un primo momento, numerosi trust cercarono d'incrementare i profitti facendo lievitare i prezzi, ma poi gli organi statali competenti dovettero aumentare i controlli e regolamentare i prezzi (anche perché le merci rischiavano di restare invendute). Ciò comunque indusse le imprese a puntare sulla qualità dei prodotti, migliorando le prestazioni economiche e la produttività del lavoro.

Lo sviluppo dei trust si basava sul principio dell'autofinanziamento: il capitale proveniva dall'ammortamento del capitale di riserva, cioè dai profitti, e dal credito bancario. In tali condizioni, le imprese incapaci di sfruttare al meglio le potenzialità esistenti, prive di vera iniziativa, finivano col trovarsi in una grave situazione finanziaria. Non poche infatti dovettero chiudere. Il tesoro pubblico, infatti, per legge, non rispondeva dei debiti contratti dai trust: le eccezioni erano assai rare. In questi casi Lenin prevedeva la confisca di tutti i beni e il perseguimento giudiziario per quei membri del management colpevoli di determinate infrazioni: per quanto possibile però si cercava di escludere la nazionalizzazione.

Nel 1922, al fine di ovviare ai guasti del sistema centralizzato di distribuzione dei prodotti (si poteva vendere solo ai clienti decisi dallo Stato), cominciarono a formarsi dei sindacati, che, quali organi del commercio all'ingrosso, poco per volta si sostituirono agli enti centrali. I primi sindacati si svilupparono nell'industria leggera (alimentare, tessile, cotonifici, pellame, saline...), il cui sviluppo aveva subìto più in fretta e più completamente l'impatto della NEP. Si trattava spesso di società anonime il cui capitale si componeva di crediti bancari e di partecipazioni da parte di trust interessati ai loro servizi.

In seguito, con un certo ritardo, si formarono sindacati anche nell'industria pesante. Nel gennaio 1923 s'istituì uno speciale comitato (la Convenzione dei sindacati) incaricato di assicurare la regolazione delle vendite e dei movimenti dei prezzi relativi alla produzione delle aziende metallurgiche. Sulla base di un'analisi dei costi di produzione e della congiuntura di mercato, si poterono fissare con successo i prezzi all'ingrosso e al minuto previsti dalla Convenzione. Nel 1922-23 si formarono circa, in totale, una ventina di sindacati. Il loro finanziamento dipendeva, in genere, dalla partecipazione dei trust interessati, dall'emissione di azioni e dal credito.

Le funzioni essenziali dei sindacati consistevano nell'aiutare i trust a smerciare i loro prodotti, a rifornirsi di materiali, materie prime e combustibili. In caso di necessità, il sindacato concedeva un credito commerciale ai suoi membri, oppure erano questi a concederne al sindacato. I servizi dei sindacati naturalmente venivano pagati. Gli ordinativi mensili e trimestrali per l'approvvigionamento di materiali erano la più importante relazione d'affari, oltre ai contratti di commercializzazione dei beni e servizi prodotti, tra sindacati e imprese. Nel 1923-24, 15 sindacati federali avevano realizzato un profitto che ammontava a 21 milioni di rubli, ripartito nel modo seguente: 8,4% al Tesoro, 2,9% agli azionisti, 25,5% per l'aumento del capitale di riserva, 6,7% al "fondo-qualità" per il livello di vita degli operai, 46,8% per la creazione d'un capitale speciale per investimenti e il restante 9,8% lasciato in bilancio.

L'estensione rapida del processo di sindacalizzazione mostrò, nella pratica, che questi organismi erano la forma più adeguata di relazioni commerciali fra i trust industriali e l'utenza sociale. Se nel 1923 la percentuale dei sindacati nella circolazione degli articoli manufatti era del 20-40%, cinque anni più tardi essa s'aggirava sull'80-90%, a seconda dei settori produttivi, raggiungendo a volte il 100%. Alcuni di essi (ad es. quello tessile o petrolifero) ebbero accesso al mercato mondiale.

Lenin, che pur tuttavia si oppose a separare il lavoro dei sindacati da quello del partito, diceva che se non si sapeva lavorare con un'elevata efficienza, qualità e rendimento, anche i migliori piani e programmi erano destinati a restare sulla carta. Di qui l'esigenza di migliorare il livello culturale e professionale dei lavoratori e di realizzare un'organizzazione scientifica del lavoro. Il periodo di pace che seguiva la firma del trattato di Brest-Litovsk, offrì la possibilità di creare una nuova mentalità sociale e individuale, una nuova cultura del lavoro. Non a caso quelli furono gli anni in cui s'introdusse la scolarizzazione gratuita e di massa, offrendo borse di studio ai capaci privi di mezzi per accedere all'università. L'insegnamento era diventato una professione centrale. Relativamente all'organizzazione scientifica del lavoro, fu creato all'inizio del 1920 l'Istituto di studi sperimentali del lavoro (più tardi chiamato Istituto centrale del lavoro), avente compiti molto vasti di razionalizzazione della produzione e del management. L'Istituto, coadiuvato da altre decine di istituti, laboratori, sezioni, raggiunse un livello così alto, che praticamente a tutt'oggi è rimasto ineguagliato.

Praticamente la NEP fallì perché nella seconda metà degli anni '20 l'industria, ancora debole, non era in grado di offrire ai contadini le merci di cui avevano bisogno. Lo sviluppo dell'agricoltura era così ostacolato dalle limitate possibilità della sua base tecnico-materiale. Nel '28 più del 70% delle superfici colturali erano state seminate a mano, circa il 45% di tutti i cereali erano stati raccolti con la falce e il falcetto, più del 40% di tutta la raccolta venne battuto col correggiato.

Invece di considerare queste difficoltà, il partito-Stato puntò a realizzare i grandi piani d'industrializzazione, i quali naturalmente richiedevano urgenti risorse materiali, umane e finanziarie. La popolazione cittadina aumentava del 4% l'anno. Crescevano i redditi da lavoro e la domanda solvibile. Le città risentivano di una certa scarsità del pane e di altri generi alimentari, tanto che si dovettero introdurre le tessere del razionamento.

Nei confronti dei contadini, Stalin e il suo entourage misero in atto la concezione di Trotski e Preobrajenski sull'"accumulazione socialista primitiva" (il drenaggio, praticamente gratuito, delle risorse agricole verso l'industria). Venne anche applicata l'idea di Zinoviev e Kamenev sulla tassazione straordinaria degli strati agiati della campagna. L'opposizione a queste misure coercitive venne interpretata come una forma di sabotaggio.

Si stavano insomma violando del tutto i princìpi dei fondatori del marxismo, secondo cui l'espropriazione delle piccole aziende agricole non andava assolutamente fatta. Lenin aveva formulato con precisione i princìpi fondamentali, relativi alla trasformazione socialista delle aziende agricole: il libero consenso, la gradualità, l'inammissibilità di ogni misura coercitiva durante il passaggio dei contadini alla produzione agricola collettiva, lo scambio equivalente tra città e campagna, un largo utilizzo di varie forme di cooperazione, l'assistenza tecnico- materiale da parte dello Stato.

Lo stalinismo fece esattamente il contrario. Ripristinando i metodi extraeconomici del "comunismo di guerra", considerò l'aspirazione dell'uomo ad essere padrone della propria terra, come una sopravvivenza della mentalità del proprietario privato. Tutta la diversità di metodi, nel gestire l'agricoltura, venne ridotta a uno solo. Ogni autonomia economica dei colcos e sovcos venne abolita. Gli agricoltori furono trasformati in lavoratori a giornata, direttamente subordinati all'apparato burocratico. Negli anni '32-'33 la fame coinvolse milioni di contadini. Il livello di produzione agricola raggiunto nel periodo precedente alla collettivizzazione forzata, venne superato solo due volte, prima della II guerra mondiale: nel '37 e nel '40. Anche da questo punto di vista strettamente economico ci si rende facilmente conto di quale disastro sia stato per l'URSS l'aver introdotto, con lo stalinismo, il metodo burocratico e amministrativo di gestione dell'economia.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia contemporanea
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Aggiornamento: 20/11/2012