STORIA LOCALE DELLA ROMAGNA
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STORIA DEI RAPPORTI AGRARI IN EMILIA-ROMAGNA

DALLA FINE DELL'OTTOCENTO ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Angelo Muratori

L'agricoltura italiana inizia a subire i primi colpi di una durissima crisi, che si trascinerà per molti anni, subito dopo l'unificazione nazionale, e quella emiliano-romagnola non fa eccezione.

L'Italia entra progressivamente in un circuito internazionale di scambi commerciali, e la prima cosa che la destabilizza è la concorrenza del prezzo dei cereali che s'impone sul mercato europeo in seguito alle importazioni di frumento da Stati Uniti e Francia, nonché di riso dall'oriente.

Inevitabilmente diminuisce l'area coltivata, la produttività per ettaro e aumenta la progressiva trasformazione degli arativi in prativi, che richiedono meno manodopera e scarso impegno lavorativo.

Le prime ad essere colpite sono le famiglie mezzadrili e quelle dei piccoli proprietari rurali, che si vedono costrette ad aumentare all'inverosimile i carichi di lavoro o a cercare altrove, nelle città, una compensazione ai diminuiti redditi familiari.

Lo Stato cerca d'intervenire favorendo la bonifica di terre paludose (nel ferrarese e nel ravennate), ma i salari degli operai agricoli sono irrisori e gli agrari partecipano finanziariamente a queste iniziative solo a scopo speculativo, cioè per rivendere i terreni bonificati, senza fare investimenti produttivi.

La condizione dell'agricoltore si sta sempre più trasformando in quella dell'operaio agricolo, dipendente dagli enti locali o dai capitalisti agrari, continuamente alla ricerca di nuova occupazione, che superi le esigenze stagionali e i lavori a progetto, che sono limitati nel tempo e a uno specifico luogo.

Il bracciante agricolo vive molto peggio non solo dell'operaio industrializzato delle grandi città, ma anche del contadino-mezzadro, abituato sì a lavorare su terreni di cui non è proprietario, ma sulla base di un contratto relativamente sicuro. Tuttavia, proprio per questo, è lui il primo a liberarsi dalle tutele e dalle tradizioni della famiglia patriarcale, trovandosi a lavorare per padroni e in luoghi sempre diversi e spesso non facendo le stesse mansioni. Anche le mogli di questi lavoratori (specialmente le mondine delle risaie) tendono a emanciparsi con più facilità dalle tradizioni rurali e patriarcali e i figli che fanno sono relativamente pochi.

Le grandi aziende capitalistiche agrarie si formano proprio in seguito alle speculazioni riguardanti i terreni paludosi, ma anche acquistando i terreni dei nobili decaduti. Sulle nuove aree bonificate s'insediano, col tempo, delle imprese cerealicole che sfruttano manodopera avventizia a buon mercato.

Di fronte al persistere della crisi agraria, lo Stato si vede costretto ad adottare misure protezionistiche (1887-88), aumentando notevolmente il peso del dazio sulle importazioni di frumento e zuccheri. Il protezionismo - si sa - è un'arma a doppio taglio, in quanto, per ritorsione, viene applicato anche dal paese estero con cui si commercia, che può mettere elevati dazi su talune merci importate: di qui la guerra commerciale tra Italia e Francia, che rovinerà i produttori meridionali di vino, olio, agrumi ecc.

La politica doganale liberista, subito dopo l'unificazione, era stata disastrosa per gli interessi agricoli di un'Italia tecnologicamente molto debole, esposta alla concorrenza straniera. I governi avevano fatto un favore solo ai grandi proprietari terrieri, soggetti a bassa fiscalità, esportatori di prodotti specializzati, ma con l'introduzione del protezionismo la situazione generale non migliora, poiché tendono ad aumentare i prezzi dei generi di prima necessità. Il dazio sul frumento d'importazione causava danni maggiori della stessa vergognosa tassa sul macinato del 1868, anche perché gli introiti dovuti a quel dazio finivano soprattutto per finanziare la politica coloniale in Africa. E, più in generale, lo Stato tendeva a esentare dal dazio la maggior parte delle materie prime utili soltanto all'industria.

Tra gli agricoltori chi traeva i maggiori vantaggi erano i grandi proprietari terrieri produttori di cereali, i quali, proprio in quell'occasione iniziarono a investire in nuove tecnologie, sfruttando una manodopera salariata eccedente. Le piccole aziende erano destinate a soccombere o a specializzarsi in settori particolari.

La nuova figura chiave dell'impresa capitalistica agraria è il fittavolo, cioè colui che gestisce la grande proprietà terriera sulla base di un canone d'affitto e con facoltà di assumere manodopera salariata, la quale però non è più così docile come nel passato, in quanto si sta organizzando socialmente e politicamente.

Gli operai agricoli sono i primi a protestare in maniera organizzata, superando le sommosse convulse e isolate che vi erano state contro la tassa sul macinato. Cominciano a incendiare casolari e raccolti, istituiscono delegazioni per trattare con le autorità locali sui lavori pubblici e la distribuzione degli alimenti, formano, alla fine dell'Ottocento, i primi nuclei del partito socialista rivoluzionario e anche della federazione sindacale dei lavoratori della terra. Vogliono la socializzazione della terra, anche contro la conquista individuale di particelle di terreno, su cui invece si impegnano i mezzadri, i coltivatori diretti, i piccoli affittuari. Boicottaggi e scioperi si susseguono senza sosta.

Di fronte a ciò gli agrari riducono l'impiego della forza-lavoro avventizia, allargano i prativi a scapito della cerealicoltura e risicoltura, rivalutano la mezzadria, frazionano i fondi maggiori in unità produttive che affidano a piccoli affittuari o coloni, o addirittura vendono queste particelle ai coltivatori diretti.

Quando il costo della forza-lavoro, a seguito degli scioperi, comincia a salire in maniera significativa, gli agrari si sentono indotti a incrementare la meccanizzazione degli impianti per sostituire sempre di più la manodopera; dopodiché cominciano a pensare a introdurre concimi chimici per ottenere monoculture intensive a sbocco industriale. Sono persino disposti, pur di limitare le lotte sociali, a diffondere rapporti di lavoro basati sulla partecipazione agli utili: il che pare possibile solo cointeressando gli operai agricoli ai mezzi di lavoro e ai prodotti da ottenere.

Nonostante questo, in Emilia-Romagna le lotte contadine proseguono, anche perché le concessioni degli agrari, alla lunga, sembrano solo fittizie, smentite dai fatti: non a caso la gestione delle macchine viene decisa soltanto da loro, che le hanno acquistate.

L'indebolimento politico ed economico degli agricoltori in generale, proprietari e non, si verifica quando si sviluppa un'industria monopolistica di trasformazione dei prodotti agricoli (Cirio, Zuccherifici, Eridania...). Queste grandi società o trust impongono la diffusione di nuove piante industriali (barbabietola da zucchero, pomodori ecc.), e quindi determinano i tempi di semina, la scansione degli interventi colturali, la qualità del prodotto, i tempi di consegna del raccolto, i prezzi dei prodotti, le sanzioni per chi non rispetta le clausole del contratto.

Ora gli agrari più significativi diventano quelli che decidono di avere rapporti molto stretti col settore industriale. E' appunto il capitale agrario-industriale che, non volendo più concedere spazi stabili di potere e diritti di controllo da parte delle leghe rosse, sceglie la via dello scontro diretto col proletariato agricolo organizzato. Anche la vecchia imprenditoria agraria, che voleva rivendicare una propria autonomia rispetto alla crescente industrializzazione, è costretta ad adeguarsi a questo nuovo trend capitalistico.

A partire dal 1908 gli agrari dell'Emilia-Romagna si convincono che i loro destini devono intrecciarsi strettamente con quelli industriali, e saranno appunto le Unioni Zuccherifici a fare la parte del leone. Acquistano anche "Il Resto del Carlino" come loro organo di propaganda.

Le Leghe rosse tenteranno di difendersi in varie maniere:

  1. conquistano spazi negli enti locali, favorendo una politica assistenziale a favore dei ceti più deboli;
  2. impongono l'assunzione di operai sindacalizzati attraverso gli uffici di collocamento, per fissare i prezzi della manodopera e contrattare gli orari di lavoro;
  3. promuovono cooperative di consumo per realizzare prezzi di favore agli iscritti;
  4. pretendono di stabilire quanti operai gli agrari devono assumere in rapporto al lavoro per unità di terreno.

Rivendicazioni del genere paiono insostenibili agli agrari e lo faranno chiaramente capire alla fine della prima guerra mondiale, sposando la causa del fascismo.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 02/01/2014