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La notizia era dilagata in un attimo:
l’ile de Paris, cuore della città, era tutta in fermento. Per
l'entusiasmo, gli studenti della Scuola di Notre Dame avevano colorato
il cielo lanciando in aria i loro berretti. Suonavano trombe e trombette
gli sbrindellati giullari sul ponte che univa l'isola al resto di
Parigi. Mortificati, i maestri si ritiravano uno per uno nelle loro case
di legno costruite intorno alle rovine della cattedrale atterrata dai
normanni, e non ancora ricostruita.
Unica femmina in quella folla di
studenti eccitati, Eloisa attendeva in disparte. L'emozione di
incontrare l'uomo che tutti attendevano le aveva paralizzato il cuore.
Finalmente approdava alla celeberrima Scuola il più celebre maestro del
tempo: Maestro Pietro chiamato Abelardo, filosofo e teologo, pensatore
anticonformista e audacissimo, bretone e quindi straniero.
Figurarsi:
pretendeva di applicare la ragione alla filosofia e alla teologia. Un
chierico maturo, forse aveva già quarant'anni, più volte redarguito
dai vescovi, già una volta condannato a bruciare i suoi libri,
inseguito da monaci integralisti e intimi del re di Francia: Bernardo di
Chiaravalle per primo, che gli aveva giurato guerra e gli intralciava il
cammino.
Trepidante, bianca di commozione,
anche Eloisa aveva vissuto il tortuoso e contrastato percorso impiegato
da Abelardo per giungere, in quel mattino di primavera del 1115, alla
Scuola di Notre Dame: un interminabile assedio, continuamente e
ostinatamente respinto dai suoi avversari, tantissimi e per di più
invidiosissimi: dal momento che gli studenti li piantavano in asso per
andare da lui, perché lui era la Sapienza e il Vangelo, che inoltre
pagavano.
Trepidava e fremeva anche per un altro motivo. Ovunque
andasse, tutte le donne si innamoravano di Maestro Abelardo, tutte
sospiravano per lui: e tale era il suo fascino che tutte si giravano a
guardarlo, «tanto che il collo gli rimaneva anchilosato all'indietro»,
andava ripetendosi, imbarazzata e incuriosita Eloisa.
Le donne lo
amavano non tanto per la sua fama di maledetto ribelle e di
perseguitato, quanto per le sue canzoni d'amore. Canzoni così belle da
risuonare ininterrottamente per le strade e sotto le finestre delle
ragazze. Così intense, pensava Eloisa, da fare di Abelardo un eroe, un
mito; uno che chissà quali storie aveva vissuto e patito: se d'amore
sapeva scrivere e cantare così.
Abelardo l'aveva notata immediatamente.
Era l'unica donna in quel mare di studenti che, per ascoltarlo, erano
arrivati da ogni parte del mondo: e molti erano principi, figli di re.
Era giovanissima, neppure diciassette anni. E bella: alta, la fronte
ampia sotto la treccia bionda, lunghe gambe sotto la tunica spoglia,
sguardo intenso e intelligente. Le era stata presentata come l'allieva
più colta e brillante della scuola. Scriveva di filosofia, disputava
pubblicamente di teologia. Gli era piaciuta, si era informato per
avvicinarla e, magari, amarla.
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nel
monastero d'Argenteuìl, gli avevano detto. Era arrivata a Parigi
invitata dallo zio e tutore Fulberto, canonico del capitolo di Notre
Dame.
Abelardo si era fatto presentare. Eloisa era arrossita, Fulberto
gongolava: «...cosa si potrebbe fare per vederci più spesso -gli
aveva detto-, vorrei tanto che tu frequentassi più a lungo mia nipote;
per una ragazza tanto intelligente e curiosa, discutere privatamente col
più celebre maestro di Francia sarebbe un'esperienza memorabile».
Abelardo aveva saputo che lo zio era un taccagno. «Niente di più
facile -gli aveva risposto-. lo do lezioni private a Eloisa, tu mi
ospiti nella tua casa». Era andata così.
Ma Eloisa e Abelardo già
dalla prima sera non avevano aperto un libro. I loro occhi si erano
incontrati, le mani si erano cercate, lui aveva cominciato a frugarle
fra le vesti, prima lei non voleva, poi voleva sempre di più, infatti
volevano tutti e due e non riuscivano a staccarsi.
Una passione
travolgente, un ansimare di corpi sul pavimento della casa dello zio,
che intanto dormiva o li credeva intenti a studiare. Una felicità senza
fine. Lei diceva: «farò tutto quello che tu vuoi, puoi chiedermi
l'anima», mentre lui balbettava: «non mi è mai accaduto, ero
stato finora casto come una colomba, sono un chierico sai», e
allegra lei rispondeva: «che importa, i chierici non fanno voti di
castità», così che lui bisbigliava: «io sì, perché volevo
fare carriera ecclesiale, perché solo così potrò insegnare e stare
tranquillo, avere la mia prebenda, la casa... ».
Ma
si era dimenticato di tutto, non gli importava più niente, a scuola
arrivava assonnato, le sue lezioni avevano perso lo smalto, e infatti:
«Che cosa gli succede?», si erano chiesti preoccupati i suoi scolari.
Non era stato difficile scoprire la tresca: Eloisa e Abelardo si
guardavano sperduti e smemorati anche in pubblico, alle lezioni stavano
vicini, si toccavano.
Così era scattata la gelosia degli scolari.
«Bisogna farla finire», si erano detti, «non è ammissibile che per
colpa di una mocciosa noi perdiamo un uomo così: per non dire di tutti
i nostri soldi». Avevano spifferato tutto allo zio: così è, gli
avevano detto; e per punizione lo zio aveva cacciato Abelardo di casa e
rinchiuso Eloisa: d'ora innanzi non avrebbe fatto un passo da sola.
Eloisa e Abelardo si vedevano di
nascosto ogni notte. Lei faceva segnali con una candela, lui trovava un
chiavistello aperto e una porta ben oliata: e così potevano amarsi, sì
perdevano nella loro passione. Finché lei non era rimasta incinta e
lui, di notte, le aveva portato una tonaca da novizia, e così
travestita l'aveva rapita e portata in Bretagna, da sua sorella, a
partorire Astrolabio.
Erano tornati, e immediatamente lui si era
presentato a Fulberto e «sposo Eloisa», aveva detto deciso. Lo zio
sembrava placato, ma al momento delle nozze era tornato una furia
perché il Maestro aveva preteso una cerimonia segreta nella chiesa del
monastero d'Argenteuil: all'alba e senza testimoni. «Così potrai
sempre dire che non vale, che non è mai avvenuto», protestava lo zio.
Abelardo rispondeva che era un chierico e non poteva dare
pubblico scandalo, e se voleva continuare a insegnare era necessario
tenere la moglie nell'ombra. Eloisa era d'accordo, e ripeteva convinta:
«Farò tutto quello che dici pur di non perderti».
E poiché lui aveva
detto: «d'ora innanzi mi aspetterai di notte nel convento d'Argenteuil,
vestita da novizia perché le altre monache non devono sapere che siamo
sposati», lei aveva accettato. Li aiutava la badessa, amica di lui, e
si incontravano nel refettorio mentre le altre cantavano in giardino o
pregavano prima di spegnere il lume e andare a dormire.
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volesse lavare
l'onta col sangue. «Con quelle nozze che neppure si sa se sono
avvenute, ha offeso l'onore di mia nipote; e anche il mio, visto che ne
sono il tutore», aveva concluso mettendo in mano una borsa di monete a
due sicari che di notte erano penetrati nella casa di Abelardo e
l'avevano evirato con un coltello per castrare cinghiali.
L'urlo che si
era levato dal giaciglio del celeberrimo chierico aveva svegliato l'île,
tutta intera. Era un urlo disumano, un pianto di dolore e di vergogna,
il disperato lamento di un uomo che non poteva subire punizione più
grave: infatti, come le puttane e gli attori, gli eunuchi non potevano
neppure entrare nelle chiese.
All'urlo che aveva lacerato l'aria si
erano svegliati anche gli scolari del maestro ferito, e i loro lamenti
erano ancora più alti. Poi, d'improvviso, Abelardo era sparito:
dileguato nel nulla. «E'
partito», aveva raccontato sconsolato il suo
servo. «Per la vergogna ho deciso di rinunciare all'insegnamento, di
farmi monaco, di ritirarmi in un deserto e lì pregare il Signore, da
solo», aveva scritto Abelardo a Eloisa. E le aveva imposto di scordarlo
per com'era stato finora, di rinnegare il loro amore, di pentirsi del
peccato che avevano commesso insieme: che lui già aveva scontato con
l'evirazione, mentre lei non l'aveva ancora pagato, ma che doveva pagare
facendosi suora.
«In clausura, in clausura», le aveva comandato
scomparendo nella desolata pianura dello Champagne, dove si era
costruito una capanna e lì viveva in preghiera e solitudine, come un
eremita. Pietrificata dal dolore e dalla sorpresa, Eloisa aveva
obbedito: per paura di pentirsi era andata correndo incontro al vescovo,
strappandogli di mano il velo dell'ordinazione e gettandosi sul
pavimento della chiesa per la consacrazione di sé alla sepoltura
perpetua: da viva.
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e
qualche volta si erano anche incontrati. E per vent'anni si erano fatti
del male, perché diversa era stata l'accettazione del loro distacco
dopo un così grande amore.
Sentendosi colpevole di atti «vergognosi e
osceni», nella solitudine del convento del Paracleto fondato nello
Champagne, Abelardo espiava sublimando l'amore per Eloisa e rivolgendosi
a lei non più come donna, ma come monaca. Mentre Eloisa non riusciva
a staccarsi dal ricordo terreno del loro amore.
E se Abelardo oramai
pensava a Eloisa soltanto in vista di una felicità ultraterrena, Eloisa
lo pungolava con pressanti e continue richieste di andare a trovarla, o
di scriverle, ricordandogli implacabilmente il sacrificio che aveva
fatto per lui seppellendosi nella clausura: «Perché io sono qui non
per amore di Dio ma per amor tuo, perché me l'hai ordinato: e Dio
che legge non solo nei cuori ma anche nei visceri, questo lo sa», gli
ripeteva.
Un rapporto tormentato, la storia di un addio imposto da un
uomo potente a una donna che l'aveva subito per amore, ma senza
convinzione e con l'assoluta certezza della propria innocenza: «Poiché
tutto quello che ho fatto per te e con te io l'ho fatto per amore, non
per lascivia».
Una corrispondenza drammatica, dove Eloisa e Abelardo si
confrontavano senza pietà sul loro passato, ma soprattutto sul loro
presente, vissuto in maniera diversa ma egualmente crudele, disumana.
Vent'anni era durato il loro distacco, perché prima di morire Abelardo
aveva chiesto di essere seppellito nel monastero dove Eloisa era stata
sepolta da viva. «E aspettarti per un abbraccio definitivo ed eterno,
fino al giorno dei giudizio divino», le aveva scritto.
Vent'anni dopo
moriva anche Eloisa. La tomba fu aperta, la donna fu adagiata accanto ad
Abelardo: e sul cartiglio marmoreo fu scritto che erano una monaca e un
monaco, ma anche moglie e marito.
Edgarda
Ferri (Lo Specchio)
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