Nell'autobiografia
del maestro e filosofo Abelardo Historia Calamitatum Mearum
(Storia
delle mie disgrazie), la presenza di Eloisa con il suo amore e i suoi
discorsi sottili e appassionati, occupa un quinto dell'opera: poco, se
misurata con il metro dei romantici per i quali è la vicenda d'amore a
dare grandezza ai due personaggi, tanto, se lo misuriamo sull'egotismo
dell'autore e sulla tendenza misogina di quei tempi. E ricordiamo l'altra
pagina, quella appena citata, così importante da spingerci a supporre un
filo di doloroso amore lungo tutta la vita dei due protagonisti.
Sicuramente lungo tutta la vita di Eloisa. Quali erano stati i ricordi della giovane donna in quei dieci anni trascorsi
all'Argenteuil?
Le sue prime parole,
scritte verosimilmente nel 1132, si riferiscono ai primi anni di vita
sigillata nel silenzio e ci dicono che Eloisa non poteva dimenticare.
Ascoltiamola: "Anche quando dormo immagini ingannevoli mi perseguitano;
persino durante la messa, quando la preghiera deve essere più pura, i
turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima. lo sono
costretta ad abbandonarmi a queste fantasie incapace persino di pregare.
Invece di piangere, pentita per il passato, sospiro rimpiangendo quello
che ho perduto. Ho davanti agli occhi sempre e soltanto te, l'amore che
abbiamo avuto, i luoghi dove ci siamo amati, i momenti dove siamo stati
vicini. Mi sembra di essere li ancora e neppure nel sonno riesco a
calmarmi. Talvolta da un leggero movimento del mio corpo o da una parola
che non sono riuscita a trattenere tutti capiscono i miei pensieri".
Eloisa
era dunque ancor giovane, "facile preda", come lei scrive, "delle
lusinghe del piacere già gustato e il ricordo stesso dell'amore vissuto
raddoppiava il desiderio". Era stata una passione grande, esaltata da
una vicinanza intellettuale e dallo stesso clima di popolarità e successo
in cui vivevano maestro e allievo. Abelardo ricorderà nella sua biografia
che nelle strade, in quei giorni felici, gli studenti passavano cantando
le canzoni da lui composte per Eloisa. La ragazza aveva allora sedici anni, lui era vicino ai quaranta.
Nel
quadro dei ricordi della sua Historia,
Abelardo parla in modo
contraddittorio dell'inizio del loro amore. Uomo di successo, professore
amato dagli allievi (lo sarà sempre nella vita, anche dopo la tragedia),
afferma che la "grazia divina lo guarì dalla superbia umiliandolo e
dalla lussuria privandolo dei mezzi con i quali esercitarla".
Una frase brutale, che mette sullo stesso piano amore e
sesso, come quando più avanti scrive quasi con freddezza di aver studiato
una strategia, assedi e manovre, per far cedere Eloisa. Ma subito dopo
afferma che "bruciava d'amore".
Scrive la parola "amore", con "voluttà" e lui, professore di
logica, non era tipo da usare le parole a cuor leggero.
La sua
innamorata, più tardi, rovescerà questo ricordo forse con un'ultima
astuzia (una "lusinga tipicamente femminile", commenterà il
Petrarca).
"Ecco
quel che penso e tutti sospettano: i sensi e non l'affetto ti hanno legato
a me, ti attraevo fisicamente ma non ero veramente amata da te.
Quando
il desiderio si è spento, con esso sono scomparse tutte le prove di
affetto con le quali nascondevi le tue reali intenzioni".
Eloisa
scrivendo tanti anni dopo, ha dunque guardato alla sua vicenda in due modi
diversi. Appartiene all'Eloisa nell'aria brillante di quei giorni felici
la festosa esaltazione: "Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi
in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il
capo quando ti incrociavano per la via [ ... ]. Quale regina, quale donna
potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Avevi due cose in
particolare che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il
fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu
eri [...]. Eri giovane, bello, intelligente".
E' invece dell'Eloisa
silenziosa monaca da molti anni l'amara protesta di non essere mai stata
veramente amata, ma solo desiderata fisicamente. Ai giorni tristi della
separazione è congeniale il lamento per la sensualità di Abelardo, per
quello che la donna considera "l'aspetto esteriore" e inferiore del suo
amore. Lamenti, puntigli, svalutazioni molto comprensibili nella pena
della solitudine, ma contraddetti da altre parole e ricordi: "Componevi
per me quasi come per gioco quelle canzoni amorose che, divulgate
dappertutto per la soavità delle parole e la bellezza della musica, ti
resero famoso anche fra la folla dei semplici (...). Le donne
sospiravano e poiché le canzoni celebravano il tuo amore per me, anche il
mio nome divenne famoso e io ero invidiata in tutti i paesi (...)".
Anche
l'oramai vecchio e malato abate Pietro Abelardo sì lascia sfuggire:
"Abbiamo
attraversato tutte le fasi dell'amore e se in amore si può inventare
qualcosa noi lo abbiamo inventato. Il piacere che provavamo era tanto più
grande perché prima non l'avevamo conosciuto e non ci stancavamo mai
(...) aprivamo i libri ma si parlava più di amore che dì
filosofia, erano più i baci che le spiegazioni [ ... ]. L'amore
attirava i nostri occhi più sovente che la lettura ai libri (...)".
Erano
dunque ì due anziani ex amanti ancora immersi dopo la lunga separazione
nega disputa amorosa? E allora si erano capiti? Certamente si erano amati
e anche allora avevano ragionato d'amore.
Una coppia come la loro, maestro e allieva, non era cosa rara. Carteggi e
poemi dell'epoca moltiplicano davanti ai nostri occhi questa immagine che
è anche un topos: lei bella e giovane, lui maturo e famoso, nutriti
ambedue di filosofia,
si amano completamente. Chi parla è sempre la donna che a voce chiara
afferma che il suo amore è vero, non mosso da avidità di ricchezza e di
onori, dalla vanità e dalla sensualità.
E' amore fondato sul valore dell'amato, come insegnava Cicerone nel
suo De amicitia, livre de chevet del secolo per il chierico e per
la dama. Amore nato dunque da virtù, amore che non si cura dì sé ma
solo dell'altro, singolare mescolanza di libera scelta e di resa fatale di
fronte all'eccellenza dell'oggetto amato. Eloisa del resto di questo era
consapevole: "Quale filosofo poteva vantare una fama pari alla tua [ ...
] quale sposa, quale vergine non si consumava quando non c'eri e non
diventava di fiamma quando le eri accanto?".
Ma in
quel rapporto amoroso c'era dell'altro, una attitudine tipica della
cultura medievale per cui il singolare poteva contenere l'universale e
l'individuale, divenuto simbolico, alludere al contesto più ampio. Ogni
situazione diventava in tal modo significativa, senza che la verità del
momento venisse cancellata. Nella coppia maestro-allieva la donna
rappresenta l'anima che cammina sulle vie della sapienza aiutata
dall'amore per la filosofia: studiare, leggere insieme e amarsi trasporta
la vicenda erotica a un superiore livello di immaginazione e forse di
intensità.
I due,
Eloisa e Abelardo, si amarono di fronte alla città senza discretio,
anzi con spavalderia: non misero in pratica nessuno degli accorgimenti che
l'amante cortese usava per nascondere i suoi amori e l'identità della
dama, in questo stupendamente fuori dal loro tempo e ben consapevoli,
soprattutto Eloisa della loro singolarità.
Ma
ciò non poteva avvenire senza conseguenza. Scriverà Abelardo: "D'altra
parte mano a mano che mi lasciavo trasportare dalla passione avevo sempre
meno tempo per i miei studi filosofici e trascuravo anche la scuola.
Andare a far lezione mi riusciva penoso e anche faticoso perché le mie
notti erano dedicate all'amore e le giornate allo studio. Facevo lezioni
trascurate e prive di entusiasmo: non dicevo nulla di originale e frutto
del mio ingegno, ma soltanto cose suggerite dalla mia lunga pratica. Mi
limitavo a ripetere quello che avevo trovato con il mio ingegno nel
passato [. .. ] le uniche cose nuove erano le mie canzoni d'amore, quelle
canzoni ancor oggi cantate in molte regioni da coloro ai quali la vita
sorride come allora sorrideva a noi [ ... ]".
Dall'Historia sembra
dunque di indovinare che le canzoni vennero dopo, a conquista avvenuta, e
non per addolcire la resa di Eloisa. La ragazza non gli aveva già ceduto
nelle notturne veglie di studio quando studiavano "Parlando d'amore"?
Abelardo spontaneamente, imprudentemente, dichiarava nei canti il suo
amore per la ragazzina, lui, il maestro le cui vicende non potevano non
interessare tutta la Parigi di allora.
La
reazione della famiglia di lei fu immediata: lo zio tutore li scoprì e li
separò.
Ma era ancora il tempo dell'amore:
"La separazione materiale
avvicinò ancor più i nostri cuori e l'impossibilità di soddisfare il
nostro amore ci infiammava ancor più; perfino la consapevolezza dello
scandalo irrimediabile ci aveva resi insensibili allo scandalo stesso. La
nostra colpa ci appariva trascurabile di fronte alla dolcezza del piacere
reciproco".
Eloisa
aspetta un bambino e scrive a Pietro piena di entusiasmo, senza timori
sorprendendoci ancora una volta con la sua dichiarazione di gioia. Nella
gravidanza non vedeva certamente un motivo per un matrimonio: è
verosimile invece che vi scorgesse il segno chiaro e splendido del suo
legame con Pietro.
Come
in un moderno romanzo popolare, Abelardo rapisce Eloisa e la porta fin
nella lontana Bretagna in casa della sorella. Dopo la nascita del bambino,
lo zio Fulberto, impazzito per la vergogna, pensa di uccidere l'amante
colpevole, poi accetta la richiesta di perdono fatta da Abelardo, confuso
e sconvolto, e l'offerta di un matrimonio riparatore. Un'offerta, si
direbbe, fatta con una certa condiscendenza dal giovane e ambizioso
professore: "gli feci una proposta che andava al di là di ogni
sua speranza, dicendomi pronto a sposare la ragazza che avevo sedotto a
patto che ciò avvenisse in segreto".
A
questo punto, meravigliandoci ancora una volta, Eloisa entra con
prepotenza in scena e dichiara ad alta voce il suo parere, rifiutando il
matrimonio con ragionamenti che possiamo leggere nelle due versioni,
quella di Abelardo e quella di lei. Sostanzialmente coincidenti, la
seconda ha sfumature che Petrarca nella sua lettera troverà "assai
femminili".
Ma
gli eventi precipitano verso la tragica conclusione. Eloisa si rassegna al
matrimonio che non vuole «non osando dispiacere oltre al suo amato» e
dichiara: "Non ci rimane che perderci l'un l'altro e soffrire più di
quanto abbiamo amato". Abelardo anni dopo scriverà: "In questo fu
profetessa".
Il matrimonio clandestino non li mette al sicuro, dal
momento che la famiglia di Eloisa per ottenere completa riparazione
divulga il segreto, benché la giovane donna giuri mentendo che le nozze
non sono mai avvenute. Esasperato, Abelardo la rapisce ancora una volta e
la porta al fatale Argenteuil vestita da monaca. Fulberto e i suoi vedono
un ripudio offensivo e un tradimento della parola data: di notte, dopo
aver corrotto un servo, fanno sorprendere nel sonno dai sicari Pietro e
"lo puniscono con la più crudele delle vendette, tagliando quella
parte del corpo che era stata strumento del suo peccato".
Una
vendetta, ai nostri occhi di moderni, spettacolare e odiosamente gratuita,
ma in quel tempo una vendetta familiare, quasi doverosa, da parte
dell'offeso, secondo la consuetudine della legge non scritta, non
frequente ma neppure eccezionale. Il diritto consuetudinario preferiva la
vivida concretezza della pena corporale a quella traslata e pecuniaria,
conservando comportamenti antichi e mantenendo nel profondo della società,
già nuova dei XII secolo, un sistema di rapporti che avevano lo stesso
prestigio della legge scritta. Tuttavia Abelardo viveva in una posizione
sociale privilegiata e, per quanto comprensibile, la vendetta di Fulberto
non fu approvata: "la moltitudine dei chierici e dei maestri si lamentò;
si lamentarono i cittadini giudicando questo atto come un'offesa fatta a
loro". Le donne piansero perché "avevano perduto un così bel
cavaliere".
Molti
anni dopo Abelardo ha dimenticato quei primi momenti di collera e
ribellione e sublima la tragedia nel significato positivo che doveva avere
nel disegno divino per la sua salvezza. Ma Eloisa anche dopo tanto tempo,
dal suo chiostro silenzioso, giudicherà il delitto ingiusto e
incomprensibile. "Mentre ci abbandonavamo felici alle gioie dell'amore la
severità divina ci risparmiò, ma appena la nostra unione divenne
legittima con il matrimonio ecco che la collera divina ci colpì in piene;
(...) Il castigo che hai subito non te lo sei meritato: hai patito per la
tua legittima sposa ciò che di solito è conseguenza di un amore illecito
con un'adultera (.. ). A peccare eravamo stati in due, ma tu solo hai
pagato, tu che eri meno colpevole perché ti eri abbassato fino a me (...)".
In
un comprensibile stato di confusione, "più per vergogna che per vera
vocazione", Abelardo cerca rifugio, lui professore e maestro di città
abituato alla popolarità e alle aule della scuola di Parigi, in un
monastero, nella vicina Abbazia di Saint-Denis.
"Da
filosofo del mondo, dice, diventerò filosofo di Dio". Ma prima si
preoccupa del destino di Eloisa e lo fa senza ascoltarla, con prepotenza
che si può comprendere, ma non giustificare: Eloisa ubbidisce ancora una
volta e «per suo comando prende il velo» all'Argenteuil. A un anno dal
loro incontro, i nostri due personaggi sono completamente cambiati:
Abelardo, prima giovane professore di successo, è ora un monaco malandato
e incerto; Eloisa, ragazza appassionata e studiosa, non ancora ventenne è
una monaca disperata.
A
distanza di dieci anni dalla loro separazione, dopo la donazione del
piccolo Paracleto, i due sposi si incontrano e riprendono a vedersi con
una certa frequenza e gran conforto, lo confesseranno entrambi. Abelardo,
predicatore famoso e affascinante, chiama la folla al piccolo monastero:
grazie alle sue prediche le cerimonie si fanno più frequenti, i
visitatori numerosi e le donazioni più generose. Ma Abelardo vede
soltanto i meriti della sua "sorella in Cristo, Eloisa". "Ella, che
per volere del Signore era a capo della comunità, divenne carissima agli
occhi di tutti: i vescovi la amavano come una figlia, gli abati come una
sorella, il popolo come una madre. Tutti ammiravano la sua religiosità,
la sua saggezza, la sua impareggiabile bontà e pazienza (...). In un solo
anno ella riuscì a ottenere per il benessere del suo monastero quello che
io in cento anni non sarei mai stato capace".
La
giovane donna, aveva appena trent'anni, visse allora giornate serene,
forse quasi felici: per la prima volta dopo la lunga separazione
riascoltava l'insegnamento del suo maestro e amante.
Ma
la maldicenza gettava sospetti e disagio sui loro incontri: il vecchio
maestro mai amato di Abelardo, Roscellino, lo accusava di "raccogliere
denaro con il prezzo del suo insegnamento per portarlo correndo alla sua
puttana", di ostentare nel sigillo del suo anello di abate una figura a
due teste, di uomo e di donna, in omaggio
a
Eloisa. La violenza volgare delle accuse e dei sospetti non si adattano al
Pietro di quegli anni, mutilato, quasi timoroso, come sarà chiaro nelle
lettere che scriverà qualche anno dopo a Eloisa, persino dalla forza del
sentimento che la donna ancora gli dimostrava.
Quest'immagine
di Pietro, malato, insicuro e infelice, è più verosimile dell'altra
dipinta malignamente dal maestro-rivale. Del resto la fama di Eloisa
badessa integerrima è confermata più tardi dalla testimonianza di Pietro
il Venerabile, abate di Cluny; il silenzio sull'argomento dell'ostile
Bernardo di Clairvaux, che proprio in quei tempi visita il Paracleto e che
mai avrà una parola contro la donna nel fiume di lettere e accuse che
rovescerà poco più tardi contro Abelardo, tutto questo contraddice la
maldicenza di Roscellino.
Ma
la malignità lascia il segno: è un Abelardo lucido, ma debole ad
affermare che "coscienza e buon nome sono due cose differenti: la prima
serve a se stessi, la seconda agli altri". La vera risposta alle accuse
la ritroviamo nell'autobiografia quando, narrando di quei giorni che
avrebbero potuto essere cosi sereni e operosi, con lo stile che gli è
proprio, accumula testimonianze autorevoli sulla presenza importante delle
donne vicino al Cristo, agli Apostoli e ai Padri. Gerolamo è il suo
esempio preferito ed Eloisa si presenterà in una lettera come una "nuova
Marcella": occorre ricordare che Gerolamo fu per le sue pure amicizie
femminili anche lui bersaglio delle malelingue. Al Paracleto "fra le
sorelle che potevo aiutare vegliando su di esse come un padre [ ... ] là
mi sentivo meglio, tanto più che la mia presenza sembrava utile, venendo
incontro alla loro debolezza". Così scrive.
Una
nuova e definitiva separazione era prossima: Abelardo accetta di divenire
abate in un monastero lontano. Le lettere che i due, oramai separati per
sempre, si scambiarono sono fra le più celebri testimonianze d'amore e di
filosofia.
M.
T. Fumagalli Beonio Brocchieri
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