MISTERI

DELL’INQUISIZIONE

 

ED

 

ALTRE SOCIETA’ SEGRETE DI SPAGNA

 

PER

V. De Fréréal

 

CON NOTE STORICHE ED UNA INTRODUZIONE

 

di Manuel de Quendias

 

E CON ESTRATTI DI UNA LETTERA

RELATIVA A QUEST’OPERA

DI Edgardo Quinet

 

Nuova edizione Italiana

 

Volume secondo

 

 

Milano

 

Francesco Pagnoni , editore-tipografo

 

1867

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
Trascrizione dagli originali, in due e quattro volumi, pubblicati in lingua italiana nel 1847 a Parigi, e nel 1867 a Milano.
Quest’opera pregevolissima è oramai di Pubblico Dominio e di libera circolazione (freeware), essendo trascorsi oltre 70 anni dalla morte dell’autore.

 

A cura di Claudio Della Valle    http://web.tiscali.it/geremia2000

 

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Inserire, comprese le virgolette:

“Claudio Della Valle” – “Il canto della Sorgente” – “Il luogo di Geremia” – “Della resurrezione dei morti” – “In nome del pane” ­­­­– “Lettera a un cristiano mai nato” – “Sulla via del ritorno” – “Riflessioni ed ipotesi sull’Apocalisse di S. Giovanni”

 

 

 

 

 

XIII.

Un miracolo.

 

Si rammenterà il lettore che Enrico, governatore della nobilissima città di Siviglia per la grazia di monsignore Arbues aveva segnalato i primi giorno della sua potenza con arresti numerosi.

Alcuni uomini rimarchevolissimi, dotti e pii dottori in teologia, donne spiritose, amabili, dal cuore forte, dall’anima energica e potente, giacevano nelle prigioni del Sant’Uffizio sotto il semplice sospetto di luteranismo. Allarmato non per lui, ma per coloro che amava, di questa recrudescenza di persecuzioni, l’Apostolo aveva impegnato Estevan ad allontanarsi per alcuni giorni di Siviglia; egli stesso desiderava visitare i suoi poveri. Partirono dunque insieme, e si diressero dal lato di San Lucardo. Ecco perché Dolores non aveva trovato nessuno nella casa dell’Apostolo. Era costume di quell’uomo di Dio di fare, di tanto in tanto, delle escursioni nei numerosi villaggi dell’Andalusia; ivi la sua tolleranza, confondendo tutte le sètte e tutte le professioni, accoglieva egualmente gli ebrei ed i cristiani, i moreschi ed i gitani: consolava gli uni, svolgeva gli altri dal male, gl’incoraggiava tutti, e spandeva su tutti egualmente i doni della sua inestinguibile carità[1].

In tutta l’Andalusia il nome dell’Apostolo era un talismano magico; bastava pronunziarlo per veder subito sorridere tutti i labbri, e tutti gli occhi, alzarsi verso il cielo con espressione di riconoscenza. Così, quando da un villaggio all’altro si spargeva la voce che egli avea incominciato il suo giro, tu avresti veduto lungo il cammino molte povere donne con i loro figliuoletti in braccio, le quali attendevano il passaggio del santo per essere le prime a ricevere la benedizione, e quando avevano potuto toccare l’orlo della sua veste, si credevano al sicuro di tutti i mali. L?Apostolo aveva un bel dir loro con dolce autorità:

“Non è a me che bisogna rendere omaggio, io non sono che polvere come voi, ma a Dio, che è lassù e che vi parla per mia voce.”

Il popolo, sempre un po’ idolatra nelle sue adorazioni, trovava molto più semplice di prosternarsi avanti quest’uomo, che lo colmava di beni, e che vedeva, che davanti a Dio che non vedeva.

“Figlio mio,” diceva l’Apostolo a Estevan, stupefatto della sua dolcezza e della docilità di quegli uomini grossolani, i quali divenivano agnelli dopo che il santo aveva loro parlato; “vedete quanto sarebbe facile il rendere questi uomini probi e pii, se, invece di abbrutirli col terrore e di inasprirli con le torture, si disponessero a forza di benefizi e di dolcezza a credere in Dio e nella sua provvidenza. In luogo di ciò, si riempie il loro cervello di superstizioni; si tormentano tanto e si fa loro sì poco bene, che non credono più se non che ai demoni e all’inferno, di cui si da loro un saggio sulla terra. Privi di felicità, di consolazioni e di speranze divengono ad un tempo fanatici, deboli e crudeli.

“Come potrebbe essere altrimenti?” rispose Estevan: “questi uomini non possiedono nulla, i monaci han loro tutto carpito[2], e ciascun giorno l’inquisizione toglie a questi infelici il solo bene che loro rimane, la libertà di coscienza. Sarebbe sì facile tuttavia di render felice questo popolo sì ardente e sì poeta!”

“Meglio ancora di questo,” disse l’Apostolo: “egli è intelligente e probo; il suo spirito è di un singolare miscuglio di gaietà, di finezza e di buon senso naturale che gli rende agevole ogni seria meditazione. Questo popolo è capace di comprender la vita nel suo scopo più largo ed elevato, la fraternità universale. Ebbene! questi uomini, naturalmente probi, leali ed amanti, si convertono in vili ed ipocriti, peggio ancora in delatori! ed io pure, sì, io non devo la mia sicurezza che all’abito che porto. Laico, avrei fatto loro il medesimo bene, avrei predicato loro la stessa morale, ed essi mi avrebbero riguardato come un luterano od un illuminato, ed avrei pagato con la vita il mio zelo per la loro felicità e per la verità; ma io era prete, io era monaco; e un monaco può ingannarsi?”

“Guardatevi, Padre mio,” rispose Estevan con amaro sorriso; “monsignore Alfondo Manriquez e monsignore Arbues potrebbero non rispettare il vostro abito, come il grande inquisitore Torrequemada, d’odiosa memoria, non rispettò la dignità episcopale dei vescovi di Calahorra e di Segovia[3].”

“Torrequemada era un genio crudele,” disse l’Apostolo con un sospiro; “ma almeno al suo brutale fanatismo, alla sua crudeltà inesorabile, non aggiungeva la più infame lussuria[4]. Il fanatismo l’avea reso pazzo, perché, altrimenti, la crudeltà d’un uomo potrebbe trascorrer tant’oltre? e dopo che il grande inquisitore aveva pronunziato la sentenza di un infedele, il severo Domenicano Tommaso di Torrequemada s’inginocchiava umilmente davanti al suo crocifisso, si dava la disciplina, e lacerava il suo corpo per espiare tutte le eresie del regno di Castiglia[5].”

“Oh padre mio! fra qualche secolo, se l’umanità progredisse, come deve farlo, si vorrà credere a tutti questi orrori mischiati a tante follie?”

“Senza dubbio, figlio mio, ma per deplorarli; gli errori del passato saranno scuola per l’avvenire. verrà tempo in cui tutti gli uomini leggeranno il Vangelo, ed allora tutti avranno il diritto di dirsi gli uni gli altri: - Siamo vostri fratelli; perché ci trattate come stranieri?”

“Quando tutti gli individui di una nazione conoscono bene il codice delle leggi che li governa è ben difficile che si danneggino gli uni gli altri. meglio ancora quando questo codice è il vangelo, questa guida dell’anima, allora l’anima è bene governata, ed è raro che le azioni non lo siano. Laddove regna l’ignoranza, regnano pure il disordine, la superstizione, la follia, tutti quei flagelli che fanno della terra un inferno abitato da demoni e dai dannati.”

mentre si trattenevano così, l’Apostolo e il suo compagno arrivarono ad un villaggetto fabbricato sulla cima di una montagna, come se ne incontra spesso in Ispagna. case basse, per la maggior parte dipinte in rosso ed in verde, erano poste tortuosamente in due file sulla vetta della montagna, formando in tal guisa una strada irregolare, terminata da una chiesuccia, il cui campanile si alzava più di quaranta piedi al di sopra delle abitazioni. Quando i due viaggiatori vi arrivarono, tutto era tranquillo. Era quasi notte; i contadini tornati, tornati dai campi, si occupavano in silenzio della cena; dal fondo delle case s’innalzava un profumo piccante di pasticcio, ed alcuni pastori salivano lentamente la montagna riconducendo le capre all’ovile.

L’Apostolo non era venuto che una o due volte nel villaggio, ed i fanciulli, che hanno ordinariamente la memoria leggiera, non lo riconobbero.

Estevan e l’Apostolo traversarono dunque la maggior parte della strada senza che alcuno venisse a disturbarli nel loro cammino.

Ma mentre passavano davanti ad una casa bassa, l’esterno diroccato della quale annunziava la più orrenda miseria, si fermarono simultaneamente, colpiti da un insieme straordinario di voci giovani, virili, vecchie e capreggianti, fresche e rozze. Era certamente molta gente in quella casa, doveva accadervi uno strano avvenimento.

i viaggiatori ascoltarono per alcuni istanti; tutto ad un tratto udirono una vocina chiara, che diceva con accento di compassione femminile:

“Questo povero Paolo stava tanto bene stamattina!”

“Qui v’ha qualcuno che ha bisogno di noi,” disse l’Apostolo, spingendo la porta tarlata che cedé subito.

Estevan entrò con lui.

In una cattiva baracca, in cui la luce del giorno penetrava appena, e il suolo ineguale e fangoso era coperto d’avanzi d’ogni genere, una ventina di gitani, uomini e donne, fanciulli e fanciulle, circondavano un uomo vestito dei suoi abiti da festa ed assiso sopra una seggiola in singolare attitudine. Quest’uomo era pallidissimo, e pareva che dormisse.

L’intiera compagnia dei gitani, presieduta dalla regina di quelle strane corporazioni, circondava il gitano che si era assiso. Al giunger dell’Apostolo e del suo compagno il cerchi non si ruppe; ma la regina, che venerava molto il monaco, gli fece portare uno sgabellino di legno in forma di tripode, unica seggiola che fosse rimasta in quella camera. Estevan rimase in piedi.

“Che significa ciò, Padre mio?” domandò egli all’Apostolo.

“Quest’uomo è morto, ed essi fanno la cerimonia dei funerali; guardate.”

Un gitano s’avanzò verso il morto, e gli pose un mandolino fra le braccia. Quindi ad alta voce, e senza vergogna, si accusò di tutti i delitti che avea commesso dopo la morte dell’ultimo fratello defunto della compagnia. Dopo che ebbe finito quella singolare confessione; il gitano interrogò il morto:

“Su,” gli disse, “se ho fatto male, la tua musica mi renda sordo, se ho fatto bene, non fiatare, ed io mi crederò assoluto.”

Come si penserà facilmente, il morto non obbedì alla prima di queste ingiunzioni, ed il gitano si ritirò sgravato di coscienza, come un usuraio che ha ricevuto l’assoluzione promettendo di restituire tutto quello che ha rubato.

“Quale barbarie!” disse a voce bassa Estevan. “Aspettate, figlio mio,” disse l’Apostolo “non è ancora finito.”

Infatti ciascuno dei membri della compagnia fece a sua volta la confessione, e tutti rimasero pienamente rassicurati sull’enormità dei loro delitti, il defunto li aveva assolti, e si credevano tutti innocenti come colombe.

La camera era illuminata da torcie di ragia; l’Apostolo, che per l’epoca in cui viveva avea profonde cognizioni di medicina, ma che aveva soprattutto quel dono di seconda visione, privilegio esclusivo di alcuni uomini di genio, l’Apostolo esaminò attentamente il morto.

“Quest’uomo ha membra molto pieghevoli,” disse piano ad Estevan; “ed il suo colore non ha subito la minima alterazione; soltanto è pallidissimo.”

“E’ vero, “disse Estevan;” che si mise ad esaminarlo a sua volta.

Ma bentosto non fu loro altrimenti possibile di darsi a queste osservazioni fisiologiche; un ragazza si mise a ballare davanti al morto un ballo lascivo ed animato; a poco a poco tutti i membri della compagnia si misero a ballare l’un dopo l’altro; quindi si presero per mano, e formarono un cerchio attorno al morto. Cominciarono dal muoversi lentamente ed in cadenza, come se avessero voluto mettersi la passo e abituarsi al tempo; poscia la danza divenne più rapida, s’innalzarono l’un coll’altro girando attorno, ed animandosi così per gradi, terminarono col girare sì presto, che sarebbesi detto una compagnia di demoni trasportati nello spazio da una potenza invisibile[6].

Tutto ad un tratto quella compagnia furiosa si fermò, mandando grandi urli: il morto era stato rovesciato dalla sua seggiola, era caduto nel mezzo del cerchio formato attorno ad esso, sopra una ragazza, che, meno lesta delle altre, aveva attaccato la sua sciarpa ai bottoni di metallo della veste del defunto. La gitana indietreggiò con un moto d’orrore, ed il morto andò a battere il viso contro terra.

“Gesù!” gridò la regina; “qual disgrazia. povera Maria, che Paolo sia caduto su di te!”

“Sì,” dissero le altre, “ecco che grandi sciagure l’attendono, e forse la morte: ammenoché tu non voglia passare la notte presso Paolo.”

“Io passare la notte sola con un morto!” gridò la gitana spaventata; “io passare la notte con Paolo per vedere tutti i diavoli dell’inferno venire a ballare davanti a lui e portarlo via[7].”

“Resterei io con te, povera Marietta,” disse un giovanotto che dava tenere occhiate alla gitana, “ma allora ciò non ti conterebbe nulla.”

“Oh! io ho troppa paura,” disse la gitanella piangendo; “preferisco il morire, se Paolo lo vuole.”

mentre i gitani dibattevano così questa grave questione, l’Apostolo si era slanciato corso il morto, e, inchinandosi verso di lui per rialzarlo, si era avveduto che, cadendo, Paolo si era fatto nel viso una leggera ferita, e che questa ferita gettava sangue.

“Silenzio figliuoli!” esclamò egli ad alta voce; “quest’uomo non è morto: aspettate!”

Le grida cessarono come per incanto, e tutti i gitani rimasero incatenati al loro posto da uno stupore indescrivibile: avevano ballato senza timore attorno al morto, e avevano paura di un uomo che resuscitava.

Aiutato da Estevan, l’Apostolo assise Paolo sulla seggiola, e traendo dalla sua tasca destra una boccetta, che non lasciava mai, fece respirare dei sali al malato, mentre Estevan gli fregava forte le mani per richiamarvi il calore e la vita.

A capo di alcuni minuti il gitano aprì gli occhi; la faccia si colorò subitaneamente, la reazione minacciava di recare un attacco di apoplessia.

Il monaco allora eccitò la ferita del gitano per farla gettar sangue, ed ordinò ad Estevan di fregargli gli arti inferiori.

Bentosto il malato respirò liberamente, aprì con lentezza i gravi suoi occhi, e volse i suoi sguardi attorno a sé con stupore.

Egli era salvo.

Non era stato che uno svenimento, seguito da un letargo, cagionato da un eccesso di ebbrezza. Ma nel rivedere vivo colui del quale avevano celebrato i funerali, gli zingari si gettarono in ginocchio, ed i più giovani si misero a correre per la strada gridando che il santo aveva fatto un miracolo. Il resuscitato stesso, ancor debole e potendo appena sostenersi, baciò le mani dell’Apostolo, dicendogli:

“io era morto, e voi mi avete chiamato dai luoghi delle tenebre.”

“Non fui io,” disse l’Apostolo; “fu Iddio.”

“Padre mio,” gli domandò Estevan in lingua latina per non esser compreso, “perché lasciate lor credere che quest’uomo fosse morto, e che sia resuscitato?”

“Figlio mio,” rispose il santo, questo popolo non è ancor maturo per la verità. Se si cercasse di spiegargli in una maniera naturale il fenomeno che è accaduto, griderebbe alla magia, e ci prenderebbe per stregoni. Lasciategli dunque la sua schietta fede, che è la sola consolazione. Credetemi, Estevan, rischiare la ragione di un popolo, migliorarlo con la scienza è l’opera di più d’un giorno, soprattutto quando già da lungo tempo si sono falsati i suoi istinti naturali. Si dipinge facilmente sopra un tela bianca, ma sopra una tela già dipinta, bisogna prima cancellare i colori per porvene dei nuovi.”

“Bisognerà dunque che questo popolo resti in un’eterna ignoranza?”

“No, figlio mio, no; lasciate filtrar l’acqua goccia a goccia, che finirà per iscavarsi il letto.”

Tuttavolta, al rumore del miracolo che era succeduto, gli abitanti del villaggio avevano abbandonato le loro case; i ragazzi stessi si erano, malgrado il loro appetito, allontanati dalla cucina per veder il santo che aveva resuscitato il morto.

Dopo aver lasciato qualche limosina ai gitani, ed averli esortati a rinunziare al furto e all’omicidio, esortazioni che essi ascoltavano sempre con emozione, ma che scordavano ben presto in forza della loro selvaggia natura, delle loro radicate abitudini, ed anco della difficoltà che avevano a vivere altrimenti,  l’Apostolo uscì per andare nel villaggio a portar soccorsi e consolazioni ai malati ed agli afflitti, ed a regalare loro alcune monete; benefizio prezioso per quei poveri servi dei monasteri, che avevano pane e minestra, ma denaro giammai; così molte volte quelle povere persone conservavano come reliquie i soldi che erano dati loro dall’Apostolo; essi li foravano e ne facevano bottoni di cui ornavano le loro giubbe di velluto[8].

I viaggiatori non ebbero la pena di entrar nelle case: una folla si precipitò davanti ad essi; ma all’avvicinarsi del santo si aprì in due file per lasciare libero il passaggio. Ed egli, fermandosi dinanzi a ciascuno, lo interrogava sulla sua famiglia, sui suoi bisogni e sulle sue sofferenze; a coloro che gli sembravano malati od afflitti dava rimedi e conforti; ai malvestiti qualche danaro per comprare abiti. Ma predicava egualmente a tutti l’obbedienza e la rassegnazione; “perocché,” diceva egli, “la mormorazione e la irritazione dell’anima non rimediano a nulla: ciò non serve che a rendere i mali più gravi.”

L’impetuoso Estevan, malgrado le sue dottrine filosofiche, che tentavano ad una riforma più attiva, non poteva impedirsi di ammirare la profonda sapienza dell’Apostolo.

“Così,” pensava fra sé medesimo, “dovrebbero essere tutti riformatori, sobrii, perseveranti nell’azione, pazienti al resultato: così solamente si rigenera un popolo.”

Il passaggio dell’Apostolo nel mezzo di quella popolazione entusiasta ed oppressa, fu una scena commovente, un raggio di sole caduto sulle tenebre di quelle anime semplici, ma ardenti.

“Francesca,” diceva un giovane a sua moglie, “nostro figlio sarà bello e forte; l’Apostolo l’ha guardato ed ha baciato il suo manino.”

“La raccolta sarà buona,” diceva un altro, “l’Apostolo è venuto a visitarci nella stagione in cui le spighe cominciano ad empersi.”

“Il fuoco del cielo rispetterà la mia casa,” sclamava un terzo; “l’Apostolo si è fermato, passando, davanti alla porta.”

“Dio vi benedirà perciocché siete buoni,” disse loro il santo, “e voi sarete felici perciocchè non farete male da alcuno.”

“Padre, “ gridò piangendo una giovane che portava sulle sue braccia due fanciullini gemelli, “mio marito è stato messo in prigione dal Sant’Uffizio perché era Moro convertito, ed aveva mancato alla messa per custodirmi il giorno in cui ho messo al mondo questi due figli.”

L’Apostolo alzò verso il cielo un mesto sguardo. “Abbi pazienza, figlia mia,” disse alla povera donna, “il tuo marito ti sarà reso: abbi confidenza in Dio che ti consolerà, ed io avrò cura di te, intendi?”

“E’ veramente un santo,” disse piano una vecchia, “ei non ha paure dell’Inquisizione.”

“Donna,” disse l’Apostolo che l’avea intesa, “coloro che credono veramente in Dio non hanno paura di nulla.”

Così terminò quella giornata.

Estevan e la sua guida accettarono alcune provvigioni di cui fu riempiuta la loro saccoccia, e che trovarono il mezzo di pagare centuplicatamente; poscia si allontanarono, accompagnati dalle benedizioni, per andare a nottare in una di quelle capanne che i pastori innalzavano sulla cima delle montagne onde passarvi l’inverno col loro gregge.

 

 

 

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XIV.

Josè.

 

 

Ritorniamo a Dolores, che abbiamo lasciato sulla via della taverna. Giunta all’estremità della strada dei Gitani, le fu facile riconoscere l’insegna della buona ventura, che era scritta in grossi caratteri sul muro: malgrado l’oscurità nascente, Dolores non poteva ingannarsi.

V’era ancora poca gente; alcuni monaci vuotavano, chiacchierando, il loro bicchiere di vino pajarete, e ad un estremo della tavola un uomo ed una donna, molto malvestiti, mangiavano un pezzo di pane nero con alcune cipolle crude; avevano dinanzi ad essi due bicchieri di stagno ed una misura di vino del più ordinario.

Le candelette accese contro il muro gettavano il loro dubbio chiarore nell’oscurità della sala.

La calma che vi regnava, rassicurò alquanto la figlia del governatore.

Esitò tuttavia alcuni minuti, perché non vedeva la Graziosa, e non sapeva a chi dirigersi; ma essa comparve bentosto all’ingrasso della cucina. Allora Dolores, armandosi di coraggio, spinse la porta, e si avanzò verso la giovine ostessa.

Quando le fu vicina, allontanò i lembi della sua mantiglia, e la graziosa la riconobbe bentosto. Ma Dolores aveva pure, dal suo lato, riconosciuto la fanciulla che aveva servito di messaggera nell’orribile complotto di cui era vittima, e indietreggiò con un moto d’orrore.

La Graziosa la guardò allora senza parlare, con aria supplichevole, e, con presenza di spirito tutta sua propria, le prese vivamente la mano, e finse d’abbracciarla.

“Oh! sei tu mia buona Anna!” prese a dire con tuono scherzoso; “chi avrebbe detto che io avessi la felicità di vedere oggi questa cara cugina! Vieni dunque,” aggiunse, trascinando Dolores nella stretta ed oscura stanza dove cuoceva il pasticcio; “Vieni, che parleremo della mia buona zia e dei tuoi fratelli, mia cara Annina. Quanto son contenta di vederti!...”

Durante questo flusso di parole la Graziosa aveva sottratto Dolores agli sguardi delle persone della taverna, e Dolores che poteva reggersi appena, tanto era commossa, si assise sopra una seggiolaccia di paglia che si trovava in un canto.

“Rassicuratevi, signora,” le disse piano la sorella di Gioachino, mettendosi quasi in ginocchio, “rassicuratevi, e non temete niente: io darò la mia vita per salvarvi. Ma,” aggiunse,  vedendo che Dolores riprendeva un poco di confidenza, “fingete di ciarlare con me come se foste mia cugina; bisogna ingannare gli spioni.”

In quel momento un monaco domandò una boccia di vino; la Graziosa, vispa e lesta, si affrettò a servirlo.

“Povera cugina,” disse ad una donna che cenava all’estremo di una tavola, “quanto è gentile d’essere venuta a vedermi!” Ma la donna a cui la Graziosa indirizzava quelle parole era la sola a cui Dolores non fosse sconosciuta, quella donna era la Colubrina, e nel momento in cui la figlia del governatore era entrata nella taverna, la sirena l’aveva riconosciuta.

Manofina, che tale era l’uomo che cenava presso di lei, aveva minor memoria; le donne sole posseggono quella perspicacia di percezione rapida come il pensiero.

La sirena sorrise dolcemente, ma senza dir nulla. Alcuni istanti dopo, Manofina volle ritirarsi, la Colubrina si avvicinò allora all’ostessa, che si era avanzata sul davanti della sua porta per vedere se il fratello tornava.

“Graziosa,” le disse ella, “abbi cura della tua cugina; e se avesse bisogno di me o di Manofina, tu sai dove trovarci.”

La Graziosa guardò la sirena meravigliata. “Io conosco la tua cugina,” aggiunse a voce bassa la giovane zingara, appoggiando sulla parola cugina.

“Colubrina,” le rispose la Graziosa, “guarda come parli.”

“Andiamo,” disse la zingara con un aggraziato moto delle spalle, “di che hai paura? una protetta dall’Apostolo! io l’amo quanto te...rammentati soltanto ciò che ti ho detto; se hai bisogno di noi; vieni a cercarci. Addio.” Il bravo e la sua compagna si allontanarono.

“Fanne dunque veder la tua cugina, Graziosa!” disse un monaco panciuto, mezzo ubriaco; “è bella quanto te?”

“Oh! povera fanciulla! lasciatela tranquilla,” rispose la Graziosa, “essa è timida come pecorella.”

“Ma ciò non impedisce d’esser vezzosa.”

“La vedrete quando avrà dormito,” disse la Graziosa, accomodando i suoi vasi; “ essa ha fatto molte leghe a piedi, ed è stanchissima.”

L’arrivo di una numerosa schiera d’operai, i quali venivano a cenare, pose fine a quel colloquio. Il monaco continuò a bere. La Graziosa, dopo aver servito tutti i suoi ricorrenti con una vivacità ed una lestezza rimarchevole, profittò dell’occupazione generale che succede sempre al cominciamento di un pasto, e dal rumore che facevano, mangiando, tutte quelle mascelle affamate, per parlare a voce bassa con la figlia del governatore.

“Graziosa,” le domandò Dolores, che un poco aveva dimesso della sua prima diffidenza, “conosci il monaco Josè?”

“Gesù! se lo conosco!” ella disse; “è un santo, signora... quantunque porti l’abito dell’Inquisizione,” aggiunse molto piano. “E’ venuto ieri da me,” proseguì l’ostessa, “e mi ha avvisata che se voi lo cercaste bisognerebbe andarlo a trovare.”

“Ah!” disse Dolores, respirando più liberamente, “ei non m’ha dunque ingannata!”  

“Ed a me,” disse la Graziosa, quasi piangendo, “avete almeno perdonato?”

“Sì,” disse Dolores, “io ti perdono, quantunque tu mi abbia fatto molto male.”

“Oh! io non sapeva quel che faceva; obbediva e non altro; se conosceste quello che bisogna fare per conservare la vita!”

“Povera fanciulla!” va, ti chiamano, non occuparti di me; servi i tuoi ricorrenti, affinché non s’avveggano di nulla.”

La Graziosa ritornò nella sala, e servì a ciascuno quello che domandava, poscia tornò presso Dolores. La figlia del governatore era eccessivamente pallida; non aveva preso nulla in tutto il giorno.

“Dammi qualche cosa,” disse all’ostessa; “io muoio di fame.”

“Gesù,” disse la Graziosa, “perché non dirlo prima, signora? tutto ciò che io ho qui è a vostra disposizione.”

Nell’istesso tempo le servì una tazza di cioccolata, che teneva sempre pronta, in caso che un monaco, volendo rinfrescarsi nel passare, venisse a domandarla.

Dolore aveva appena terminato quella leggera refezione, che un rumore insolito si fece udire nella sala: essa mise fuori un poco la testa.

Tutti si erano alzati con un movimento spontaneo di rispettosa deferenza. Il favorito dell’inquisitore era entrato nella taverna. I Francescani stessi non temevano di dare al giovane Domenicano quella pubblica testimonianza di sommissione e di rispetto.

Josè passò, fiero e superbo, nel mezzo di quelle persone inchinate, e il suo labbro inferiore si contrasse sdegnosamente; la sua figura esprimeva il più profondo disprezzo.

Ei camminò diritto verso la cucina. Dolores alzo verso lui il suo bel viso, esprimente tristezza ed angoscia.

“Gia qui?” disse Josè riconoscendola.

“Gia?” rispose con dolcezza, “questa parola, padre mio, somiglia ad un rimprovero. Vi pentireste della protezione che mi avete accordata?”

“No, certamente, povera fanciulla,” disse il fraticello; “ciò che ho promesso lo manterrò volentieri; ma non vi stupite della mia sorpresa; non mi avete detto ieri che avevate un asilo?”

“Io lo credeva, padre mio; ma sono maledetta come Caino: colui che io cercava era partito, morto forse; ho passato la notte fra i cespugli, e questa sera mi sono con gran fatica procurato questi umili abiti per non essere riconosciuta.”

“Ed avete agito prudentemente, figlia mia; piucché mai voi siete esposta, ma io vi provvederò, e niuno, lo spero,” aggiunse sorridendo con amarezza, “niuno sospetterà che il Domenicano Josè abbia dato asilo ad una donna perseguitata dall’Inquisizione.”

“Padre mio,” disse Dolores alquanto inquieta, poiché le accadevano da qualche tempo cose sì straordinarie, che le era ben permesso di dubitarne;

“Padre mio, dove volete dunque condurmi?”

“Diffideresti di me, Dolores?” le domandò Josè fissando sovr’essa il suo sguardo ardente e pieno di franchezza.

“Oh!, perdonatemi,” disse ella giungendo le mani, “ma ciascun passo che fo nella vita, mi conduce ad un abisso, e tuttavia!… oh! io vi credo, io vi credo!” esclamò essa; “se voleste tradirmi, non mi guardereste così.”

“Povera innocente fanciulla! non hai tu altra garanzia della mia buonafede, che la franchezza del mio sguardo? sai tu che io non sono di coloro che nascondono un cuore di tigre sotto i lineamenti di un angiolo? non hai niente di più, neppure un presentimenti secreto, il quale ti dica che la tua causa è la mia, e che io ti difenderò come se tu fossi mia propria sorella, e come se il medesimo seno ci avesse portati?”

“Fate di me ciò che volete,” disse la figlia del governatore, mettendosi quasi in ginocchi di quell’uomo singolare.

Due lacrime amare, corrosive, di quelle lacrime lungo tempo contenute, le quali spuntano una volta o l’altra, e suo malgrado, dal cuore più energico, scesero lentamente dalle lunghe palpebre di Josè sulle sue guance pallide ed alquanto macilente.

“Voi piangete, Padre mio!” disse la fanciulla, intenerita: “oh! voi pure non avreste dovuto nascere in questo secolo di ferro.”

“Iddio,” rispose Josè, “ci getta quaggiù quando vuole e per ciò che vuole, per perseguitare o per soffrire; e di colui che soffre fa talvolta lo strumento della sua eterna vendetta. Ecco forse perché tu ed io viviamo in questo secolo, Dolores.”

“Mio Dio!” disse ella, “la vostra tristezza mi spaventa; e pertanto io ho fede in voi, e verrò dovunque vorrete condurmi…e poi,” aggiunse con un po’ di esitazione, “avrei un’altra cosa da domandarvi.”

“Parla,” disse Josè, che quasi indovinava il suo pensiero.

“Io era la fidanzata a don Estevan de Vargas.” “Lo so,” rispose Josè, soffocando un doloroso sospiro, “sii tranquilla; don Estevan è in sicurezza.”

“Voi l’avete salvato?” esclamò essa con gioia.

“No, non sono io che l’ha salvato, è la giustizia eterna; Dio è il padrone che comanda, io non sono che la mano che obbedisce.”

“Oh! Padre mio” siate benedetto per avermi conservato il mio Estevan.”

Tutto questo si diceva a bassa voce nella cucina della taverna; la Graziosa andava e veniva, distribuendo volta a volta ai suoi commensali vivande o vino, pezzi di tonno fritto nell’olio, sardelle fresche e pane che sorpassava in bianchezza quello del resto della Spagna; e tale era il rispetto per la santa Inquisizione in generale e per gl’inquisitori in particolare, che niuno pensò a trovare inconveniente quella lunga conversazione del fraticello con la cugina della Graziosa.

In quel momento Gioachino entrò nella taverna. Josè lo prese a parte.

“Gioachino,” gli disse, “mentre tua sorella è occupata, seguimi con questa fanciulla fin all’uscita della città.”

“Si fatta la volontà di Vostra Beatitudine,” rispose Gioachino, inchinandosi; “ma volete traversare tutti e due la sala, che è piena di gente?”

“Tu ed io la traverseremo soli,” rispose Josè; “la fanciulla passerà dalla porticina di dietro.” V’era, infatti, in quella specie di cucina una porta che comunicava con l’altra salettina bassa, dove dormiva la guardia, e che si apriva in un angiporto.

Il Domenicano uscì dalla taverna, sempre accompagnato dai saluti rispettosi della nobile assemblea. Gioachino lo raggiunse nella strada alcuni minuti dopo.

Fecero insieme il giro della casa, e rientrarono per il vicolo. Dolores era pronta a partire. Disse addio alla Graziosa, e seguì Josè, che serviva loro di guida, perché Gioachino ignorava in qual luogo li conducesse.

“Voi, almeno, non avete paura?” disse Josè, stringendo la mano tremante di Dolores Argoso.

“Vedete,” disse appoggiandosi al suo braccio con nobile confidenza. uscirono tutti e tre dalla taverna, e nessuno si avvide del loro passaggio.

 

 

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XV.

La badessa delle Carmelitane

 

Mentre accadeva nella taverna della buona ventura questa scena di mediocre importanza, ma necessaria allo sviluppo della nostra istoria, un incidente di altro genere aveva luogo nell’abbazia delle Carmelitane.

La badessa, uscita da una casa quasi principesca, quella dei duchi di Lerma[9], ed eletta perciò a tal carica, malgrado la sua giovinezza, signoreggiava in quel momento in mezzo ad alcune sue favorite; signoreggiava è la parola più acconcia, perché quest’umile figlia di san Francesco occupava una larga poltrona di velluto, innalzata sopra un soglio di alcuni scalini, e sormontata da un baldacchino con frange d’oro.

Vicino ad essa era il pastorale, insegna della sua dignità. Dalla sua cintura pendeva sulla sottana di stoffa bruna un lungo rosario di filograno e di smeraldi, del quale ciascun Pater era rappresentato da una perla di oriente grossa come una piccola nocciuola; finalmente nel suo petto brillava una gran croce d’oro cesellata, e ciascun moto della sua mano bianca e delicata faceva scintillare l’enorme gemma dell’anello abbaziale, formata da un solo diamante della più bell’acqua.: un diamante senza prezzo, tolto dalle miniere di Gloconda o di Visapour.

La badessa aveva circa ventiquattro anni, era donna di statura mediocrissima, che pareva grande, tanto superbamente portava le spalle, tanto la sua bella testa si staccava diritta e ferma sul più grazioso collo del mondo. la sua carnagione, di un pallore roseo, più bianca di quella che ordinariamente è la carnagione delle Andalusiane, era divenuta più candida ancora all’ombra del chiostro, ed i suoi occhi, di un turchino scuro, brillavano di uno splendore metallico sotto due lunghi sopraccigli neri come l’ebano. Tuttavolta, la fisionomia della badessa non aveva altro tipo distintivo che un orgoglio di razza ed una gran disposizione alla sensualità: tendenza visibilmente indicata da due labbra rosse e voluttuose, contornate da una leggiera lanugine, quasi tanto nera quanto quella dei sopraccigli, di un’estrema finezza.

ma la passione dominante della badessa era l’orgoglio; essa era tenera soprattutto delle prerogative del suo grado; il suo affetto era tutto intiero per coloro che sapevano meglio lusingare la sua vanità aristocratica; voleva esser regina anco nel chiostro.

Attorno a lei, sopra seggiole bassissima, le sue favorite chiacchieravano, occupandosi dei lavori di ago, ricamimagici che non potevano uscire che dalle mani di una religiosa. Alcune, per maggiore umiltà, eransi assise su gli ultimi scalini del trono, quasi sotto i piedi della badessa; era una muta adulazione molto accorta; il santo gregge conosceva il debole della sua superiora.

Un grande avvenimento occupava in quell’istante la religiosa oziosaggine di quelle sante figliuole: era la di sparizione di Dolores.

“Chiara,” diceva la badessa ad una giovane religiosa assisa vicino a lei, “comprendete voi perché quella fanciulla abbia abbandonato il convento, dove io la trattava come una sorella?”

“No, in verità, Madre,” rispose la Carmelitana, “ammenoché non fosse stata rinchiusa qui per sottrarla ad un amore mondano, al quale sarà ritornata.”

“Era di una modestia esemplare,” disse la badessa; “e, malgrado i suoi modi alquanto altieri e riservati, aveva un carattere adorabile. Credeva veramente di poterla affezionare al nostro umile gregge, e questa speranza era tanto meglio fondata, in quanto che mi era stata condotta da un santo, il monaco più puro della Spagna.”

“Qual danno che sia andata a perdersi nel mondo!” disse una novizia, il cui occhio scintillante era lungi dall’esprimere una calma perfetta dei sensi e dell’anima; “ove sarà più felice che fra noi?”

“Figlia mia,” rispose Francesca di Lerma, “benedite Iddio, che, strappandovi al medesimo pericolo, vi permette di passar qui pacificamente la vostra vita.”

La giovine reclusa soffocò un sospiro, sforzandosi di dare al suo volto l’espressione del contento. Però avrebbe preferito alle sante delizie del chiostro l’indipendenza e la lieta libertà della vita mondana.

“Convenite, Madre mia,” proseguì essa, spiegando sulle ginocchia una larga striscia di stoffa bianca, seminata di fiori d’oro di una delicatezza infinita, che terminava di ricamare, “convenite che questo è un bel paliotto, e che nessun convento di Siviglia potrà vantarsi di averne uno uguale.”

“Ammirabile, invero!” rispose la badessa; “ornerà degnamente la nostra cappella il giorno della vostra professione, figlia mia. Ma che avete là, Caterina?” proseguì indirizzandosi ad una monaca giovanissima che sfogliava sotto il suo velo un volume grossolanamente stampato, e adorno di incisioni più grossolane ancora del testo. La monca arrossì leggermente, e nascose il volume nella sua tasca.

“Mostratemi ciò che avete,” disse severamente la badessa.

“Datele, via, quel libro, sorella!” dissero le altre, la curiosità della quali era vivamente eccitata. Caterina era la prediletta della badessa a cagione del suo carattere amabile, ma specialmente della grande fortuna, e dell’alta posizione della sua famiglia: Caterina porse un libro con aria dispiacente, e le sue compagne poterono leggere sulla coperta queste parole, stampate a grossi caratteri: La Santa Bibbia. Era una bibbia protestante, tradotta in spagnolo e stampata in Olanda.

“E’ un libro di devozione,” disse Chiara; “valeva la pena di metterci tanto mistero?”

“Sì, ma è una bibbia luterana,” disse la badessa, meno ignorante e curiosa quanto le altre; “donde l’avete avuta, Caterina?”

“Da un fratello di mia Madre, signora; ei l’aveva recata a Fiandra, dove comandava un reggimento. Mio zio era molto partitane della religione riformata; perciò quando mia madre insisté per farmi monaca, mio zio, che vi si era lungamente opposto, mi diede questo libro dicendomi: -Nipote mia, tu non resterai sempre rinchiusa; quando la riforma del gran Lutero sarà penetrata in Spagna, le monache saranno libere e potranno maritarsi come hanno fatto in Alemagna.”

“Oh madre! qual sacrilegio!” esclamarono le recluse, che ascoltavano con incredibile avidità.

“Silenzio, Caterina!” disse Francesca, “ciò è imprudente a dirsi, figlia mia.”

“E’ molto lungi di qua l’Alemagna?” domandò l’ignorante Chiara.

“Oh! certamente,” rispose Caterina; “e noi saremo morte quando Lutero verrà.”

“Taci, taci!” gridò l’impetuosa Francesca, il cuore della quale palpitava violentemente al solo pensiero della libertà, tanto era ardente e vivace quella donna, sì poco fatta per l’abnegazione e l’indolenza claustrale, che aveva cercato un alimento alla sua incredibile energia nell’esercizio del dispotismo monastico.

“Oh!” pensò in sé stessa,” la libertà per noi pure!… ma noi saremo morte innanzi che giunga,” mormorò piano, ripetendo le parole di Caterina.

“Nostra Madre è pensosa,” disse Chiara a voce bassa.

Un gran colpo di campanello rimbombò alle orecchie delle recluse.

“Chiara,” disse la badessa, subitamente richiamata a sé stessa, “Vedete dunque cos’è questo; io non attendo visite a quest’ora.”

“Cosa può esser ciò?” mormorò la truppa oziosa, per cui il più leggiero incidente era una grave occupazione, tanto quella esistenza claustrale si passa in ciance futili, in strepiti mistici, in vane esaltazioni; tanto vi si spreca il tempo e la vita.

            Chiara prese il piatto nelle mani della conversa, e, malgrado gli sforzi delle altre monache, che tutte insieme avevano allungato il braccio per afferrare il fortunato piatto, Chiara, più grande delle altre l’alzò al di sopra della sua testa; giunta appié al trono, salì leggermente i gradini fino all’ultimo, e là, inginocchiandosi davanti alla badessa, le presentò il piatto[10]. La badessa prese la lettera, ruppe il sigillo di cera verde, e dopo aver letto le prime linee, si alzò in piedi dalla sua seggiola.

“Sorelle,” disse, “andiamo incontro a monsignore il grande inquisitore Arbues, che ne fa l’onore di visitarci.”

Ad un cenno della badessa la conversa uscì. Allora col pastorale alla mano Francesca di Lerma andò innanzi e, seguita dalle sue elette, s’avanzò fino alla porta esteriore del convento per ricevere Sua Eminenza.

Essa non s’era degnata di far avvertire il resto del gregge. In un governo dispotico il re ed i suoi favoriti formano lo Stato.

Giunta alla porta del chiostro, Francesca di Lerma la fece aprire a due battenti. Nello stesso tempo monsignor Arbues discese dalla sua carrozza; era solo (non essendosi fatto accompagnare che dai suoi servi). Josè aveva finto di esser malato per dispensarsi da quella visita.

Il lettore sa dove era andato.

L’inquisitore si avanzò verso le monache, e quando ebbe messo il piede sulla soglia, la badessa s’inginocchiò dinanzi a lui per ricevere la sua benedizione. Tutte le monche la imitarono, poscia Francesca di Lerma riprese il cammino della gran sala, che, non ha guari, occupava, e facendo avanzare due larghe poltrone a frange d’oro, fece assidere monsignore Arbues, e si assise ella stessa di faccia a lui. Era costume della badessa di conservar così almeno l’eguaglianza del grado di faccia al grande inquisitore. Pietro Arbues, puntigliosissimo in fatto d’etichetta, si contentava di sorridere a quella sottigliezza; avrebbe sofferto dalla badessa delle Carmelitane ben altre usurpazioni ancora sui suoi diritti  e prerogative, e fu tempo in cui serebbesi volentieri assiso sull’ultimo gradino di quel bel trono dorato, sì ben tenuto dalla vezzosa Francesca di Lerma. Ma quel giorno Pietro Arbues era cupo e severo, e col suo occhio altiero sogguardò, con aria di scontento, quell’assemblea femminina. La badessa comprese che accadeva qualche cosa di straordinario.

“Sorella,” disse finalmente l’inquisitore, “io ho da parlarvi da sola; fate, vi prego, ritirare le suore che sono qui.”

            La badessa fece un cenno, e la truppa velata disparve come una nube d’uccelli. Pietro Arbues andò ad assicurarsi da sé medesimo se le porte erano ben chiuse, poscia tornò ad assidersi preso la badessa.

“Signora,” disse con accento freddo, “l’ultima volta che io ho visitato questa comunità vi ho dimandato se non avevate altre monache o novizie ch’io non avessi ancor veduto; m’avete risposto di no, io credo.”

“E ciò era vero, monsignore; non v’era qui alcuna monaca che non fosse conosciuta da Vostra Eminenza..”

“No,” proseguì Pietro Arbues; “ma  vi era un donna che mi avete nascosta.”

“Io non ve l’ho nascosta, monsignore,” rispose Francesca di Lerma; “essa era qui quando ci avete fatto l’onore di visitarci, ecco tutto; e siccome non era né monaca né novizia, io non ho creduto parlarne a Vostra Eminenza.”

“E se fosse precisamente questa donna che io cercassi?”

“Ecco una cosa di cui io non avrei mai sospettato,” disse la badessa con un poco d’ironia.

“Fine ai sarcasmi, signora,” disse l’inquisitore con asprezza; aveva le passioni troppo violente per contenersi lungo tempo, e giungere al suo scopo con destrezza. “Questa donna è qui ed io voglio vederla.”

“Bisognava dirmi ciò più presto, monsignore; questa donna, o meglio questa ragazza, è partita senza che io possa comprendere perché se ne sia andata, perciocché ho avuto per essa ogni sorta di riguardi.”

“Partita!” gridò l’inquisitore stupefatto, “partita!…oh! voi m’ingannate, signora. Dolores Argoso è qui, e voi me la mostrerete subito, intendete?”

“Dolores Argoso?” riprese Francesca; “non è questo il nome della fanciulla che era presso di me, monsignore; essa si chiamava semplicemente Maria; era un’orfana affidatami da un santo predicatore, Giovanni d’Avila, soprannominato per tutto l’Apostolo dell’Andalusia.”

“Giovanni d’Avila!” disse l’inquisitore con voce amara; “io non mi stupisco più se tutto ciò torna a danno contro di me, Giovanni d’Avila appartiene ai Carmelitani Scalzi, tutti questi mendicanti di san Francesco sono nostri nemici.”

“Cosa vi ha fatto Giovanni d’Avila, monsignore?” disse Francesca, che per un malignità femminile si compiaceva di irritare la collera dell’inquisitore.

“Che cosa mi ha fatto, signora!” voi domandate ciò che fanno a me, grande inquisitore della provincia, tutti questi monaci predicatori, i quali a danno di Roma, simulano di seguire ed insegnare il Vangelo meglio di noi? questi umili orgogliosi, che fanno al popolo una religione sì larga, che la santissima Inquisizione lor sembra una tirannia, il nostro zelo una crudeltà?”

“Eh! che v’importa, monsignore,” disse la badessa; “essi hanno la parola, voi avete il potere; essi predicano nel deserto; credetemi, non v’inquietate tanto della propagazione della dottrina.”

“Ma questa donna, questa ragazza,” riprese il Domenicano, “fatela dunque venire, signora! io vi dico che essa è qui, e che io voglio vederla.”

“Monsignore,” replicò la badessa con un poco di dispetto, “ho detto a Vostra Eminenza che questa fanciulla era disparsa: Vostra Eminenza mi farà l’onore di credermi sulla parola?”

“Francesca!” gridò l’inquisitore, fissando sulla badessa uno sguardo irritato.

“Pietro Arbues!” riprese ben tosto Francesca di Lerma, il cui viso si accese ad un tratto di collera e di gelosia, “hai tu dunque pensato che io dovessi essere la guardiana delle tue innamorate? questa ragazza è partita, che t’importa? falla cercare da’ tuoi birri, da’ tuoi famigliari! manchi dunque di spie in Siviglia da non trovar una donna che ti fugge?”

“Dolores è qui, ed io voglio vederla!” gridò Pietro Arbues con voce tonante.

“Dolores Argoso non è qui,” rispose la badessa con rabbia fredda e concentrata; “e se vi fosse, io non ve la consegnerei, intendete monsignore?”

“Per Cristo! avete la temerarietà, signora, di scherzare con l’Inquisizione? Sai tu quello che io posso, e quello che io sono, Francesca di Lerma? lo sai tu?”

“Io so che voi siete un prete abominevole,” gridò Francesca esasperata; “un monaco impudico, il quale non cerca che soddisfare le sue passioni brutali a qualsiasi prezzo.”

“Olà! Francesca di Lerma, santa badessa delle Carmelitane, che direbbe a voi la Spagna se conoscesse la vostra dissolutezza?”

“Oh! è vero,” ella disse con un gesto di spavento, “è vero, io sono una miserabile che nasconde il vizio sotto il suo abito, e che fra le mura del chiostro cova senza timore le passioni divoratrici che Dio le ha dato…ma chi dunque ha depravato l’anima mia? chi mi ha detto, quando tremante ed umiliata, io mi accusava umilmente ai tuoi piedi del ricalcitrar della carne: -Dio permette che si soddisfacciano i bisogni dei sensi, purché sia con me?[11]Chi m’ha detto questo, Pietro Arbues? chi ha passato sui miei rimorsi la sua scellerata ed ingannevole morale per appianarli, come la falce al livella l’erba dei campi? chi ha acceso nel mio seno quelle passioni ardenti che nel tempo della mia innocenza non si rivelavano a me, che quai lampi subitamente repressi dalla mia coscienza? Tu, sempre tu, le inclinazioni sfrenate hanno alimentato le mie; tu, che io ho avuto la debolezza d’amare!….”

Durante questo energico discorso della badessa delle Carmelitane, l’inquisitore vide sopra una seggiola la bibbia protestante che Caterina aveva dimenticato di portar via. Egli lesse rapidamente il titolo impresso sulla coperta: a tal vista un lampo sinistro refulse nei suoi occhi, e, stimolato da un pensiero infernale, prese il libro e lo nascose sotto la sua tonaca. Poscia, alzando gli occhi su Francesca, troppo esaltata per essersi avveduta di questo stratagemma, Pietro Arbues cominciò a considerare con aria singolare di concupiscenza e di ammirazione quella donna ardente ed appassionata, che la collera rendeva più bella ancora. Un vivo rossore animava la carnagione bianca e pura di Francesca, ed i suoi occhi scintillavano di una luce sì viva, che sarebbesi detto uscirne de’ lampi.

La collera dell’inquisitore si calmò un momento a quest’abbagliante spettacolo. Mai Francesca di Lerma non gli era sembrata sì bella. Il viso austero di Dolores, la cui espressione casta e severa allontanava i desideri in luogo di destarli, non poteva lottare in quel momento con la bellezza incomparabile della badessa delle Carmelitane. Per un uomo carnale il confronto tornava a tutto vantaggio di Francesca; e poi Dolores era assente. Gli uomini che vivono per i sensi non hanno gli occhi dell’anima, il presente ha tutto l’impero di essi, e quello li domina che fa vibrare le fibre materiali del loro essere.

“Oh! quanto sei bella, Francesca!” esclamò Pietro Arbues, che la contemplava da qualche istante con muta ammirazione. Quella passione sfrenata conveniva alla sua natura selvaggia, ed il miscuglio di rimorsi che vi si lasciava intravedere, era una pungente attrattiva in più.

“Bella peccatrice!” continuò egli prendendo fra le sue la candida mano della monaca, che la collera aveva reso fredda come il marmo.

“Pietro,” disse la monaca, cadendo in ginocchi pallida e sorpresa da una subitanea reazione; “Pietro, io ho paura…paura dell’inferno!…”

“Pazza,” disse il prete, “si può aver paura dell’inferno quand’uno è in cielo!”

Una nube passò sugli occhi della badessa smarrita…

Pietro aveva obliato Dolores…

 

 

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XVI.

La melopia[12].

 

Dopo che ebbe visitato con Estevan i villaggi più poveri dei dintorni di Siviglia, l’Apostolo si risolse di limitare là il suo viaggio. Era inquieto per Dolores, e la festa della Pentecoste era vicina, epoca in cui si celebrava d’ordinario un atto-di-fede; temeva che fosse giunto il momento in cui bisognerebbe, non salvare il disgraziato governatore di Siviglia, (Giovanni d’Avila non osava sperarlo), ma tentarlo almeno, e consolare la sventurata sua figlia se i suoi sforzi riuscissero infruttuosi.

Estevan divideva tutti i timori dell’Apostolo, ed i pericoli che li attendevano a Siviglia erano una debole considerazione per quei due uomini coraggiosi. Non temevano di perdere la loro libertà, che in quanto era utile alla salvezza degli altri.

Si avvicinavano dunque alla città moresca, a piedi tutti e due, come i profeti della giudea, ingannando le loro inquietudini e la lunghezza del cammino in forza di considerazioni gravi e religiose, animandosi l’un l’altro a seguire coraggiosamente il loro pellegrinaggio terrestre. La foga di Estevan piegava sotto la dolce autorità di Giovanni d’Avila; il giovane apprendeva da lui a lottare con pazienza e con rassegnazione.

Erano circa a sei ore della sera.

Immensa popolazione circolava per le strade; era l’ora in cui gli innumerevoli monasteri di Siviglia distribuivano la melopia ai mendici ed ai vagabondi della città. Dopo che i monaci avevano tolto tutto a quei disgraziati, era il meno che potessero dar loro da mangiare.

Estevan e l’Apostolo si trovavano in quel momento in faccia a un convento dei monaci della Mercede[13].

La folla era grande nella strada, poiché non mancavano mendici in Siviglia, e nel suo ardore ad esser servito per primo, ciascuno cercava di aprirsi un passaggio a spese del suo vicino, di maniera che quella folla compatta chiudeva intieramente il passaggio.

“Fermiamoci un istante,” disse Giovanni d’Avila; “aspettiamo che quei poveri affamati siano pasciuti; continueremo poi la nostra strada.”

Si ritirarono di alcuni passi; e andarono rasente al muro per veder tutto senza disturbare alcuno. A poco a poco quell’agglomerato d’uomini divenne più compatto; si serravano gli uni contro gli altri parlando ad alta voce, e in fretta: non si udiva che un rumore sordo e confuso di voci discordi, fra cui il tuono che dominava maggiormente era quello di una collera impaziente; sarebbesi detti altrettanti cani ringhiosi che aspettassero il loro pasto. Tutto ad un tratto quello spiacevole mormorio si cangiò in mormorazioni di giubilo vive e prolungate: quella massa d’uomini parve non formare altrimenti che un corpo immenso con centinaia di teste dirette verso il medesimo abbietto da una sola volontà.

La porta del convento erasi aperta.

Due fratelli laici, giovani e robusti, portavano su di un grosso bastone passato nei due anelli un enorme paiolo di rame, ove bolliva ancora la diletta melopia. Allora avresti veduto tutte quelle braccia e tutte quelle mani agitarsi convulsamente, alzando in aria la scodella di legno destinata a ricevere la profenda. Grida rauche, urli feroci accolsero l’apparizione di quella vivanda: sarebbesi detto che tutti quei disgraziati si gettassero sopra insieme per divorarla; ma in quell’istante comparve un terzo frate laico. Questi era armato di un enorme cucchiaio da minestra, e vestito di una tonaca sì sporca, che non se ne poteva più distinguere né la stoffa né il colore.

“Ai vostri posti!” gridò con voce tonante.

Bentosto ciascuno si pose in fila mormorando fra i denti; sarebbesi detto il grugnire di un cane a cui sia stato tolto un osso.

“Ve n’è per tutti, state cheti,” gridò nuovamente il frate dispensatore.

Quest’asserzione fece tacere, come per in canto, tutte quelle voci mormoranti. La distribuzione cominciò. E siccome tutte le scodelle erano della stessa grandezza, niuno poteva lamentarsi, v’era una imparzialità completa nella distribuzione della melopia, corruzione di mesclopia (mescolanza). Ed invero era la mescolanza più immonda, il rifiuto della tavola dei monaci, dei residui rosi e masticati, bolliti in acqua con un poco d’olio o dei pezzi di lardo. Bisognava essere cane o gitano per toccarla.

Ma la fame, la fame!…e tutte quelle persone avevano fame.

Per ciò era un piacere vederle mangiare la loro porzione senza maggiore disgusto che noi non abbiamo ad inghiottire un’eccellente minestra; ma a chi sapeva il fondo delle cose, faceva pure pietà il vedere quel povero popolo di Spagna ridotto di tal guisa dalla più degradante di tutte le miserie.

“Quale strano miscuglio!” esclamò ad un tratto Estevan, che cercava invano indovinare di che si componesse quel brodetto di tutti i colori che non aveva alcuna forma distinta, e che esalava un odore nauseabondo di grasso bruciato e di olio rancido. “Sì strano infatti,” rispose Giovanni d’Avila con tristezza, “se sapeste di che si compone!”

“Di che dunque, Padre mio?” lo sapete voi?”

“Quando i monaci hanno pranzato,” proseguì l’Apostolo, “essi gettano a quel povero popolo gli ossi che non vogliono, come si getterebbero ai cani. I fratelli laici ammassano in quel paiolo che vedete là, tutto ciò che la sensualità dei monaci fa loro rigettare al margine del loro piatto, gli ossi mezzo rosicati, le teste dei pesci, le zampe dei volatili, gli asparagi, di cui non fanno che magiare la punta, tutto ciò, in una parola, che vien da loro rifiutato. Fra questi avanzi si trova sempre qualche cosa da masticare; poi si taglia del pane in quel paiuolo, vi si versa dell’acqua ed un poco d’olio; tutto ciò bollito a fuoco per un quarto d’ora, si chiama la melopia, la quale fa vivere un quarto almeno della popolazione della Spagna.

“Quale indegnità!” esclamò Estevan.

“Ciò non è tutto,” continuò Giovanni d’Avila, “i monaci non si contentano di governare la miseria dei poveri, perché i poveri non han più nulla da dar loro, e questo pasto immondo, ch’essi gettano loro ogni giorno, non è che una sembianza di restituzione per tutti i beni che han loro derubato; sono i ricchi che si possono governare con vantaggio: per costoro i monaci hanno inventato la melopia interna.”

“Che cos’è questa?” domandò Estevan.

“Figlio mio, quando un ricco è malato fa chiamare il suo medico, ma più sovente egli consulta eziandio il suo confessore. –Io soffro, dice il malato. –Fate un voto, risponde il confessore. –Questo voto consiste, per ordinario, a vivere di elemosine durante un certo tempo. Ebbene in tutti i conventi di Spagna v’ha una tavola sanamente ed abbondantemente servita, alla quale vengono a mangiare gratis tutti coloro che han fatto voto alla melopia. Una dieta sana e regolata produce d’ordinario felici resultamenti; la sanità del ricco migliora, e nel terminare il suo voto lascia una larga ricompensa al convento, benedicendo Dio che si è degnato di guarirlo. Ecco come s’impiega la religione, figlio mio[14], ecco come questi farisei vendono la grazia di Dio, la quale non si ottiene che per la preghiera, la purità del cuore o le lacrime del pentimento. ecco come falsano lo spirito di un popolo generoso, entusiasta, amante del meraviglioso, che cerca per tutto miracoli, che gli si fanno vedere per mezzo di grossolani sotterfugi; come se la creazione intiera non fosse un eterno miracolo! come se la mano invisibile, che fa tutto muovere, avesse bisogno di mezzi umani per compiere la sua suprema volontà!”

Mentre l’Apostolo terminava queste parole, arrivò un mendico, che, armato della sua larga scodella, veniva a prendere la sua parte del pranzo comune.

“E’ finita, non ve n’è di più,” gli disse un giovane che inghiottiva la sua porzione con una voracità indegna d’un Andalusiano[15].

“Tanto peggio per la melopia,” rispose fieramente il vagabondo, guardando l’assemblea con uno sdegno superbo. E si mise a cantare come se avesse fatto il miglior pasto del mondo. “Pover’uomo!” disse Estevan, “ei dunque non mangia questa sera? bisogna convenire che quel povero è molto infelice.”

“Non tanto quanto potreste crederlo; l’Andalusiano  è poeta per essenza, ma tardo, indolente e contemplativo, come in tutti gli esseri in cui domina la immaginazione. Per lui i bisogni del corpo son pochi, la materia è subordinata allo spirito; così, in mancanza di alimento alle facoltà della sua intelligenza, si immerge in una immensa oziosaggine, o si abbandona ad un vagabondaggio inaudito, secondo le alternative di ardore o di apatia che succedono d’ordinario nelle ricche organizzazioni. Aggiunge a questo un immenso orgoglio, nato dalla coscienza che ha del suo proprio merito; i cattivi trattamenti non lo domano, questi non fanno che sottomettere la materia. Tali persone attendono il regno dello spirito, il solo che possa sviluppare i loro buoni istinti e le loro virtù naturali.”

“Qual danno,” disse Estevan, “qual danno di lasciare abbrutire queste vive immaginazioni di tal guisa, queste anime esaltate e generose, se fossero dirette verso il bene!”

“Senza dubbio, figlio mio; è questo un delitto di lesa maestà divina, è un misconoscere la grandezza di Dio in esseri formati alla sua immagine; abbrutire, avvilire il popolo, è rovinare una nazione dalle fondamenta; è preparare sordamente la mina che un giorno finalmente scoppia in rivoluzioni ed in guerre civili.

“Padre mio,” disse ad un tratto Estevan, guardando con ammirazione la bella figura dell’Apostolo, raggiante di tristezza, di santa collera e di amore per l’umanità; “Padre mio, perché dunque vi siete fatto monaco?”

“Per lottare,” rispose Giovanni d’Avila, “per conoscere a fondo la piaga nascosta che divora la Spagna, e portare la mia pietra al nuovo edifizio che deve elevarsi un giorno sulle rovine del fanatismo e della persecuzione[16].

“Ma i tempi non sono arrivati,” esclamò con dolore, “e troppe nubi nascondono ancora il sole della libertà, perché possa rischiarare la Spagna…non importa,” proseguì con entusiasmo; “la rigenerazione di un popolo è l’opera lente dei secoli: l’uom non raccoglie sempre i frutti dell’albero che ha piantato. Guai a colui che non semina che per sé, e spera la sua ricompensa quaggiù!”.

“Padre mio, disse il giovane, “voi non somigliate alla maggior parte dei riformatori, i quali di ordinario, lavorano per sé e per la gloria, senza pensare seriamente alla felicità di coloro che vengono a rigenerare.”

“Figlio mio, quello solo è degno d’esser chiamato riformatore, il quale fa astrazione da sé medesimo, ed apporta felicità agli uomini a spese pure della sua propria felicità, e, se abbisogna, a costo della sua vita. Io non conosco che un riformatore degno di questo nome, questi si chiama Cristo. Noi tutti che lavoriamo a propagare questa sua sacra dottrina o a ristabilirla quando è stata falsata, non siamo che suoi mandatari.”

Il popolo aveva finito il suo pasto. A poco a poco la via era divenuta libera. Giovanni d’Avila proseguì il suo cammino con Estevan.

Mentre si avvicinavano ad un gruppo di mendici, occupati ad improvvisare delle strofe[17] dopo aver vuotata la scodella, Giovanni d’Avila si sentì fermare per la manica del suo vestito, e, volgendosi, riconobbe la sirena.

“Perdoni, Vostra Beatitudine,” disse la giovane; “ma io sono stata presso di lei, e non ho trovato nessuno.”

“Che c’è dunque?” domandò Estevan, comprendendo che si trattava di Dolores.

“Sappia, Vostra Reverenza,” proseguì la Colubrina, indirizzandosi sempre all’Apostolo, “che la giovane signora che ella ha preso sotto la sua protezione, è venuta alcuni giorni sono, alla taverna della Graziosa.”

“Come mai!” gridò l’Apostolo, “Dolores avrebbe lasciato il convento delle Carmelitane?”

“Non lo so,” disse la sirena, “ma fatto sta che l’ho veduta co’ miei occhi entrare nella taverna.”

“Ne sei sicura?” domandò Estevan con inquietudine.

“Come della mia morte, signore, io l’ho perfettamente riconosciuta, quantunque fosse vestita come una donna del volgo, ed il suo viso fosse pallidissimo.”

“Oh Dio mio! qual nuova sventura l’ha colpita?” “Corriamo, Padre mio!” gridò Estevan.

“Imprudente!” disse l’Apostolo, “non sapete voi che la taverna è il luogo ove i famigliari dell’Inquisizione si danno appuntamento? andrò solo o meglio, ci manderemo prima questa giovane.”

“Colubrina,” disse, volgendosi verso la sirena, “va subito da Gioachino, e torna a dirmi ciò che è accaduto alla signora Dolores.”

“Dove troverò Vostra Beatitudine?”

“A casa mia,” rispose Giovanni d’Avila; “va, figlia mia, e Dio ti accompagni. La sirena partì come fulmine. Estevan e Giovanni d’Avila affrettarono il passo per giungere più presto a casa di quest’ultimo.

 

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XVII.

La cavalcata.

 

Presso la gran piazza di Siviglia, in una via appartata che scorre lungo uno dei lati della cattedrale, si vedeva una casetta bassa, le cui mura di mattoni rossi e certi ornamenti di architettura attestavano che era stata fabbricata nelo stesso tempo che l’Alhambra[18].

Si entrava in questa casa per una porta centinata, stretta e bassa, e niuna apertura apparente le dava luce sulla strada. Tuttavia, alcuni piedi al di sopra della porta era praticata un’apertura quadrata assai larga, per potervi passare la testa, e che si chiudeva internamente per mezzo di una massa di mattoni riuniti della stessa dimensione dell’apertura, la quale veniva chiusa sì perfettamente, che nessuno avrebbe sospettato nel muro questa apertura, che si chiudeva come una tomba.

La casa non aveva che un sol piano, un terrazzo in cui non si vedeva mai nessuno, e al di dietro un giardinetto chiuso da mura sì alte, che dalle case vicine lo sguardo non potesse penetrarvi. Quel giardino, o meglio quel pozzo, poiché ne aveva la forma, era pieno di verdura e di fiori che crescevano malgrado l’assenza del sole, tanto l’aria è calda e la terra feconda nell’Andalusia. Si diceva che quella casa fosse appartenuta, al tempo dei Mori, ad un Santone. Nell’epoca in cui accadevano gli avvenimenti da noi narrati, era abitata da una donna già attempata, molto religiosa, molto assidua alla chiesa, ma che non riceveva nessuno, fuorché un giovane prete Domenicano, che si supponeva essere il suo confessore.

Dapprima aveva destato meraviglia una vita così solitaria; ma siccome quella donna era in regola in faccia all’Inquisizione, si era terminato con attribuire il suo carattere solitario ad una devozione eccessiva, e niuno s’avvisava di biasimarla. Non si sapeva da qual paese fosse venuta; abitava la casa del Santone già da alcuni anni. Tuttavia si giudicava dal suo vestire e dalle sue maniere che fosse Spagnuola puro sangue.

Era mezzogiorno.

In una salettina, che dava sul giardino, due donne parlavano fra loro, occupandosi d’opere d’ago. Una di esse, che aveva più di cinquant’anni, era dotata di una fisionomia dolce e grave, esprimente profonda tristezza; un segreto doloroso sembrava gravare su quella fronte pallida, tutta coperta di bianche capelli; una lotta lunga e crudele aveva solcato quel viso che poteva essere stato sì bello e curvato leggermente quell’alto personale. Questa donna si chiamava Giovanna, ed era la padrona di casa. L’altra, nel fiore della prima giovinezza, pareva trista ed abbattuta quanto essa; era Dolores.

Tale era l’asilo in cui Josè l’aveva nascosta. Giovanna era la nutrice del giovane Domenicano.

“Non ho veduto mio figlio ieri,” disse ad un tratto la vecchia: “sarebbe forse malato il mio povero Josè?”

“Verrà oggi senza dubbio,” replicò la figlia del governatore; “non m’ha promesso di recarmi notizie dell’Apostolo?”

“E lo farà, siate tranquilla,” disse Giovanna; “il mio Josè ha un cuore angelico; ei non ha fatto mai che del bene.”

Così dicendo, Giovanna asciugò due lagrime che scorrevano sulle sue guance rugose.

“Andiamo, figlia mia,” proseguì smettendo il suo lavoro, e posando sulla sua seggiola; “è tempo di pranzare; lasciate dunque il vostro drappo, e ponetevi a tavola.”

“Non ho fame,” disse modestamente Dolores.

“Ma bisogna mangiare per vivere…per avere la forza di vivere,” proseguì amaramente la vecchia. Nel medesimo tempo disponeva sopra una tavola angusta alcune vivande semplici ma abbondevoli, riso in minestra, agnello arrostito e frutta. Dolores si alzò lentamente, e andò ad assidersi davanti la tavola piuttosto per ubbidienza, che per bisogno.

Faceva caldo, tutto in quel momento era silenzioso attorno alla casa, ed in quel ritiro, sì ben chiuso, uno si sarebbe potuto credere lungi dalla città. Tutto ad un tratto il suono di una banda strepitosa rimbombò da lontano.

Dolores trasalì sulla sua seggiola, e mandò lungi da sé le vivande che le venivano apprestate.

“Che avete??” domandò Giovanna con premura; “che avete, figlia mia?”

“Ascoltate!” disse Dolores Spaventata, fissando i suoi occhi vaganti ed esterrefatti sul viso di Giovanna; ascoltate, madre mia, non udite?…”

La banda rimbombò di nuovo più rumorosa e più animata, perché si avvicinava, ed a quel rumore si mescolava uno scalpitio di cavalli.

“Ebbene!” disse Giovanna fingendo di non comprendere; “che v’importa di questo rumore, figlia mia?”

“Questo rumore, madre mia, è quello che annuncia la marcia trionfale dell’Inquisizione, non comprendete, il re dei carnefici[19] passeggia nelle strade annunziando alla città che la sua mano non è rimasta inattiva, e che ha fatto la sua messe di vittime per il prossimo atto-di-fede; non udite, madre mia?…”

“Credo che v’inganniate,” disse Giovanna tremando.

“Oh! No, non m’inganno, ascoltate,”

La cavalcata era giunta sulla gran piazza, ed il rumore degli strumenti, più sonoro e più distinto, arrivava ora ai loro orecchi.

“Venite, venite!” gridò Dolores, trascinando la vecchia e forzandola a seguirla al primo piano della casa; “venite a vedere, madre mia!”

E giunta nella camera che dava sulla strada, e dalla quale potevasi vedere una parte della gran piazza, Dolores tolse prestamente la pietra che chiudeva l’apertura praticata nel muro.

“Che fate? Gran Dio!” esclamò la vecchia.

“Non temete, madre mia, niuno se ne avvedrà; essi hanno troppo da fare a guardare il corteo dell’inquisitore.”

Giovanna allora, trasportata essa pure della curiosità, guardò attraverso l’apertura. La piazza era piena di gente.

Il grande inquisitore Pietro Arbues, coperto da una lunga veste violetta, e montato sopra un cavallo bianco della razza più pura, che camminava pomposo sotto il suo cavaliere, si avanzava seguito dal suo corteo. La bella figura dell’inquisitore, fiera, superba ed espressiva, il suo aspetto personale, che sdegnava di curvare, imponevano al popolo, quanto la sua dignità.

Pietro Arbues era apertamente e francamente despota a forza d’audacia, poiché non vi era al mondo anima più perfida della sua, quando le passioni l’esigevano. Ma nella vita ordinaria disprezzava troppo gli uomini, stimatasi troppo superiore per discendere fino all’ipocrisia.

Facevano seguito a Pietro Arbues[20] gli altri inquisitori a cavallo come lui, ma vestiti di nero. Una truppa di guardie del corpo scortava quella cavalcata.

Il popolo s’inchinava e s’inginocchiava sul passaggio del santo corteo: i volti divenivano pallidi, ed un silenzio di morte regnava in quella folla inginocchiata.

Giunto nel mezzo della piazza il grande inquisitore si fermò. Poscia con voce sonora, che crecava di render pia e convinta.

“Fratelli,” disse, “fra un mese la santissima Inquisizione farà giustizia degli eretici che disonorano la divina religione del Nostro Signore. Un grande atto-di-fede avrà luogo per celebrare i successi del nostro gran re Carlo V. in Fiandra, ed il suo zelo contro l’eresia. Pregate, fratelli, perché Dio ci sveli tutti gli eretici, anche coloro che non lo sono nel fondo del cuore, e denunziate voi stessi quelli che conoscete se volete meritare le indulgenze promesse a questo effetto da Sua Santità il papa.”

“Oh mio Dio!” gridò Dolores. “che diverrà di mio padre?”

Il popolo non rispose al proclama dell’inquisitore, che con grandi segni di croce.

La banda suonò di nuovo.

“Padre mio!” ripeté la figlia del governatore, agitandosi nella camera come un’insensata.

“Calmatevi,” disse Giovanna, “tra poco verrà Josè, non temete nulla.”

Dolores tornò alla finestra. Il corteo lasciava la piazza, e si avvicinava alla casa.

“Toglietevi dunque di là!” disse Giovanna spaventata; ora passeranno di qua, e vi vedranno. Dolores, Dolores, ascoltatemi!”

Ma Dolores non l’ascoltava. Con gli occhi invisibilmente attaccati sull’inquisitore, sembrava che volesse leggere sul viso di lui la sorte di suo padre e la sua.

Il corteo era quasi sotto la casa.

Dolores aveva sempre il viso volto verso la strada. La camera era molto oscura. Tuttavia nella penombra in cui si trovava il profilo delicato della giovane si disegnava vagamente sul muro dell’apertura. Nel passare, Pietro Arbues alzò la testa; ma in quel momento Giovanna, prendendo Dolores per la vita, riuscì ad allontanarla dalla finestra. L’inquisitore trasalì sul suo cavallo; fissò di nuovo i suoi sguardi sull’apertura in cui quell’incerto sembiante gli era comparso, ma più pronta del lampo Giovanna aveva riposta la pietra. Invece dell’apparizione che lo aveva colpito, Pietro Arbues non vide più che un muro uniforme, una casa senza finestre. Ei si credette in balia di un sogno, e volgendosi verso un famigliare ch’era ad alcuni passi dietro di lui.

“Sai tu,” gli disse; “a che appartenga quella casa?”

I famigliari sapevano tutto.

“Eminenza, è la casa di una povera vedova, a cui don Josè fa l’elemosina.”

“Son pazzo,” pensò l’inquisitore “ma io vedo questa donna per tutto.”

Il corteo proseguì il suo cammino.

Giovanna depose sopra un seggiola Dolores svenuta. Il suono della musica si perdeva allontanandosi. Dolores era sempre priva di sentimento.

Inginocchiata davanti ad essa, Giovanna le strofinava vivamente le mani, e le bagnava il viso con acqua fresca.

Sola e non osando chiamare nessuno, essa principiava a concepire delle inquietudini, quando la porta esteriore della casa si aprì con un rumore leggero, qualcuno montava la scala con passo rapido.

“Sia benedetto Iddio,” gridò Giovanna, “questo non può essere che Josè.”

Infatti era Josè; nel momento in cui entrava nella camera Dolores aprì gli occhi, mandando un lungo sospiro.

“Che è accaduto, nutrice?” domandò Josè.

“Padre mio! Padre mio!” gridò Dolores, vedendo il giovane Domenicano; “don Josè! vedete bene che vogliono uccidere mio padre!”

“Rassicuratevi, Dolores, “ disse Josè con dolcezza, “chi vi dice che si voglia uccidere vostro padre?”

“Non ho udito testé quelle grida di morte? Non si è proclamato un prossimo atto-di-fede!”

“Che prova ciò?” replicò il giovane Domenicano. “Se vostro padre fosse designato per farne parte, non son qua io per vegliare?”

“Oh! Voi m’ingannate, don Josè, la vostra pietà crudele v’impegna a nascondermi la verità. Non so forse che l’inquisitore ha sete del sangue di mio padre, e che lo farà morire!”

“Calmatevi ed ascoltatemi,” disse Josè, avvicinandosi alla fanciulla.

“No, io non vi credo!” gridò con esaltazione crescente; “non portate voi pure l’assisa dell’Inquisizione? Ebbene! Lasciatemi, io non ho bisogno di voi per salvare mio padre; anderò a gettarmi ai piedi di monsignore Arbues; abbraccerò le sue ginocchia; pregherò e piangerò tanto, che se la sua anima non è dura come uno scoglio, si lascerà intenerire, e mi renderà mio padre.”

“Povera insensata!” disse Josè con voce amara, guardando Giovanna che piangeva; “gli inquisitori han forse un’anima? Sanno essi ciò che vuol dire avere un padre, una madre, un’amante, una sorella? Qual mai affetto ha fatto scuotere le loro viscere di marmo? Conoscono essi adunque altre sensazioni, che desiderii lascivi, feroci e spietati; delirii mostruosi di una lussuria sfrenata, sete di sangue, spettacoli d’agonia?”

“Anderò! Anderò!” ripeteva Dolores, più infiammata ancora a quella pittura terribile, ma palpitante di verità.

Nello stesso tempo si alzò sostenuta dall’esaltazione e respingendo Giovanna che cercava di calmarla stringendola dolcemente fra le braccia.

“Lasciatemi,” ella disse, “voi siete tutti collegati per ingannarmi; voi mi avete rinchiusa qui come in una prigione, perché il rumore degli avvenimenti non potesse arrivare fino a me; ma Iddio ha sventato i vostri progetti, ed io ho saputo ciò che volevate nascondermi. Lasciatemi dunque, lasciatemi libera, con qual diritto mi tenete qui prigioniera?” esclamò gettando sul giovane Domenicano uno sguardo fiero e di corruccio.

Josè si tacque; egli era commosso e pallidissimo. Giovanna lo guardò con aria che voleva dire: questa povera fanciulla diviene pazza.

“E’ più felice di me!” disse piano Josè.

Giovanna, lasciando allora Dolores, andò ad assidersi all’altro estremo della camera.

La fanciulla, vedendosi libera, si fermò, e si mise a considerare Josè, il cui viso pallido e bello faceva fremere di pietà.

Giovanna piangeva, que’ due esseri sofferenti somigliavano più a vittime, che a carnefici. L’occhio di Dolores perdette tutto il suo splendore; si gettò, stanca, sopra una seggiola: quel grande accesso di collera era terminato. Josè allora le si avvicinò.

“Perdonatemi,” ella disse; stendendogli la mano; “io sono stata ingiusta; il dolore toglie la ragione; perdonatemi, don Josè, ma ve lo dichiaro ora con calma, la mia risoluzione è irrevocabile: voglio andare a gettarmi a’ piedi del grande inquisitore, io lo debbo; debbo tentar tutto per salvare mio padre, e non si dirà mai che sono stata vile.”

“Voi non lo farete, Dolores!” escalmò con forza il giovane Domenicano.

“Oh!” disse Giovanna, “abbiate pietà di voi stessa.”

“Io non temo nulla,” rispose la giovinetta con nobiltà: “ho forse paura della morte io?”

“Ma voi avrete paura dell’infamia!” gridò energicamente Josè; “non conoscete dunque l’inquisitore di Siviglia?”

“Oh! È vero,” rispose spaventata, “io non aveva pensato a questo.”

“Ebbene,” continuò Josè, “seguite dunque i miei consigli; seguiteli, Dolores o, per l’anima mia, siete perduta!… lasciate agire i vostri amici, basta una vittima; vi perdereste senza frutto, e questo sacrificio non servirebbe a nulla per colui che volete salvare.”

“Oh! Se almeno sapessi dov’è Estevan!” disse la figlia del governatore con una disperazione ineffabile.

“Lo saprò io, ve lo prometto. Estevan è, come me, occupato di voi sola: siate dunque tranquilla, e contate sopra di noi: Voi siete qui in sicurezza,” aggiunse, “non vi provate ad uscire; è il solo luogo di Siviglia in cui l’Inquisizione non verrà a cercarvi.”

Malgrado le consolazioni di Josè, Dolores restò immersa in un profondo abbattimento.

“Tornerò bentosto,” le disse, lasciandola, il giovane Domenicano. Giovanna l’accompagnò fino alla porta esterna.

“Mia buona Giovanna,” disse Josè, “invigila bene su questa fanciulla, guarda che non esca giammai…abbastanza vi sono vittime come questa,” proseguì con amarezza.

“O mio nobile figlio!” disse la nutrice, serrandolo con forza contro il suo petto, “che Dio benedica il vostro coraggio!”

“Ti sembra adunque che io sia indebolito?” replicò vivamente il monaco.

Giovanna non rispose, ma essa volse la testa per nascondere le lacrime.

“Non temer di nulla, “gridò Josè, stringendole la mano con energia, “non temer di nulla, Giovanna, io arriverò al mio scopo!…”

 

 

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XVIII.

La collera del popolo.

 

 

Era già notte.

Lasciando Dolores, Josè si diresse verso il palazzo dell’inquisitore. Bisognava, per arrivarvi, attraversare la strada in cui dimorava il governatore di Siviglia. Avvicinandosi a questa, Josè fu sorpreso di vedere, a quell’ora, un grande radunamento di popolo assediare gl’ingressi del palazzo del governatore.

Un rumore vago d’imprecazioni e di minacce, proferite da voce rauca, sorda e terribile, correva come soffio di tempesta fra quei gruppi irritati.

Sarebbesi detto il sibilar del vento in una foresta di quercie.

Non grida acute, non quei rumori varii e discordanti, che in Francia scoppiano nelle sommosse ed esalano subito la collera di un popolo, che si evapora in tal modo presto come fumo.

Il popolo di Spagna, sì oppresso, sì paziente, sì tranquillo, faceva udire sotto la torsione più forte il rumore del ramo che si vuol rompere, e che resiste. E di più, non era per sé stesso che quel popolo reclamava in quel momento i diritti dell’umanità e della giustizia: egli sapeva soffrire e morire senza lagnarsi; protestava contro un atto iniquo dell’Inquisizione. Aveva nel cuore il sentimento del giusto  e dell’ingiusta, e se ha tollerato per tanto tempo il giogo del dispotismo, è che al di sopra del potere umano, che lo perseguitava,gli si mostrava un potere più grande, quello di Dio, e questo popolo, che non sapeva di Dio se non quel tanto che gli avevano insegnato i suoi persecutori, adorava quell’essere sovrano tale quale gli veniva mostrato, e sottomettevasi senza mormorazione, a coloro che riguardava come suoi ministri.

Non era l’intelligenza che mancava agli Spagnoli, era la luce, e la luce non si lasciava giungere fino ad essi: ecco perché la Spagna si è dibattuta per tanto tempo nei lacci inestricabili dell’ignoranza e dei pregiudizi.

Tuttavia, malgrado le più grandi persecuzioni, lo spirito di investigazione, che tende incessantemente verso la verità, si è sempre agitato nell’anima retta ed intelligente degli Spagnuoli; e in mezzo alle torture stesse dell’Inquisizione e del dispotismo dei re, ha mandato talvolta scintille brillanti, che di tempo in tempo hanno rischiarato la Spagna di luce fuggitiva: emanazioni divine, frammenti del grande insieme, che si manifestano alla terra sotto forme e nomi umani, come vigili sentinelle appostate nella vita delle nazioni da colui che governa il mondo, per impedire ad un gran popolo di perire ed inabissarsi nelle tenebre dell’ignoranza.

Una quantità di uomini e donne esaltate si avanzavano verso il palazzo del governatore di Siviglia, illuminato da una sola lampada.

La notte era oscura.

Quella massa vivente si avanzava in modo lento, quindi era brutalmente respinta sopra sé medesima da un’altra folla che veniva dal lato opposto; sarebbesi detto le ondulazioni dei marosi. Andavano verso il palazzo del nuovo governatore. Il popolo di Siviglia, stanco dell’amministrazione iniqua di Enrico, aveva finalmente concepito il desiderio di vendicarsi. Questa collera del popolo, sorda; contenuta, ma perseverante, implacabile, era spaventevole a vedersi.

La sommossa era stata sì subitanea; sì poco rumorosa, che non vi era stato tempo di opporle la forza armata; avanzatasi verso il palazzo del governatore come quelle trombe invisibili che cadono sulla terra con la rapidità del pensiero.

Tuttavolta alcune guardie accorrevano da diversi lati, e qua e là dei cupi garduni guardavano la sommossa senza prendervi parte, pronti a vendere i loro soccorsi al maggiore offerente.

“Donde viene questo assembramento?” domandò Josè ad un familiare del palazzo, che accorreva in tutta fretta, mandato da Sua Eminenza per assicurarsi del fatto.

“Reverenza, non è altro che una vecchia ebrea che è stata arrestata.”

“Reverenza,” gridò una coraggiosa donna del volgo, che aveva udita la risposta del famigliare, “quest’ebrea era buona cattolica quanto voi e me; ma aveva un servitore infedele, che ha scacciato ignominiosamente ed egli l’ha denunziata come eretica giudaizzante[21].”

“Come chiamate voi questa donna?” domandò Josè.

“Maria di Borgogna, Reverenza; ha più di ottant’anni, ed è una santa che dava tutto il suo bene ai poveri. Noi la chiamavamo nostra madre; ecco perché, quando si è saputo ch’era nelle prigioni del Sant’Uffizio, ci siamo tutti portati al palazzo del governatore; perché è lui che l’ha fatta arrestare.”

Il famigliare stava per dare ordini contro la donna del volgo; Josè gli fe’ cenno di ritirarsi: non era il momento di usare violenza. Il famigliare si diresse da un altro lato, procurando di passare fra quella densa folla, che gli opponeva un ostacolo quasi insormontabile; ma si propose di non dimenticare il volto della donna imprudente che si era espressa con tanta temerarietà.

“Io vi consigli,” disse a bassa voce Josè a quella coraggiosa Andalusiana, “di lasciare Siviglia al più presto possibile, le parole di poco fa potrebbero costarvi caro.”

“Lo credo,”  disse guardano il giovane Domenicano, e sorridendo amaramente; “siete inquisitore voi pure!”

“Io sono indulgente, e amo questo popolo che soffre,” disse Josè, “va, o povera donna, e non temere di me.”

La folla si faceva più furiosa e più densa davanti al palazzo del governatore. Alcuni, armati di leve di ferro, cercavano di scuotere la porta accuratamente barricata, mentre gli altri, alzando in aria i loro terribili coltelli d’Albacete si preparavano ad una mortale difesa. Le ragazze stesse, stringendo con la mano dritta il loro pugnale affilato, si gettavano avanti, furiose ed animate da un sentimento d’indignazione, impossibile a dipingersi.

Era bello e terribile il vedere tutte quelle cere brune, i cui occhi scintillanti gittavano per tutto quasi orribili lampi, e quelle labbra animate, che, a ciascuna parola di collera aprendosi per metà, lasciavano vedere denti bianchi e splendidi come quelli della tigre.

Il carattere africano si era ridestato. Il sangue ardente dei Berberi del deserto, non ancora intiepidito, attraverso otto secoli di generazione nelle vene degli Andalusiani, bolliva ancora come lava.

L’odio, l’odio profondo, amaro, divoratore, li spingeva invincibilmente alla rivolta. Avevano detto finalmente : Basta! e si scagliavano da disperati contro quel governatore iniquo che il capriccio del grande inquisitore aveva imposto alla città. Quell’uomo uscito dal volgo, che schiacciava ed opprimeva il volgo.

Enrico, nascosto nel suo palazzo, d’onde non ardiva uscire; Enrico, così vile al momento del periglio, come crudele nella prosperità, attendeva tremando, un soccorso che non veniva.

Ciascun colpo di leva, che scuoteva la porta del palazzo, rimbombava come suono di morte nel cuore di quel miserabile.

Inginocchiato nella sua camera, davanti un’immagine della Madre del Salvatore, quell’ammirabile statuetta ch’aveva ornato il verginale oratorio di Dolores, l’antico famigliare dell’Inquisizione, il confidente di Pietro Arbues, mormorava, tremando, parole non intelligibili, vano e simulato formulario di tutti coloro che adorano Dio solamente con le labbra. Enrico si batteva il petto, accusandosi di peccati puerili, senza pensare in quel momento supremo e terribile di domandare a Dio di assolverlo dei suoi delitti.

Come i pagani di un giorno, Enrico in un accesso di fervore inspirato dal timore della morte, promise alla Madre del Salvatore cento vittime di più per anno agli atti-di-fede- della Inquisizione; fu l’unica espressione del suo pentimento.

La porta del palazzo, massa pesante di legno, seminata di chiodi di ferro, cedeva sotto i colpi raddoppiati di mille braccia robuste ed accanite; e siccome non v’era stato il tempo di suonare la campana d’allarme per avvertire le truppe, erano seicento uomini del popolo arditi e determinati contro cinquanta famigliari o birri accorsi qua e là gli uni in seguito agli altri.

Ben presto ai colpi sonori e ripetuti diretti contro la porta, successe uno scricchiolio di legno e di ferro: la porta aveva ceduto, ed abbandonando i cardini che la sostenevano, cadde contro il pavimento con un rumore spaventevole.

In quell’istante un cupo silenzio successe, come per incanto, al grido di trionfo mandato dal popolo al vedere la porta abbattuta. Quegli uomini, non ha guari sì accaniti, restarono immobili davanti a quella barriera spezzata; niuno osò varcare la soglia del palazzo del governatore.

Donde veniva quel miracolo sì agevolmente operato?

E’ che ad una delle estremità della via dove cominciava l’adunamento, Giovanni d’Avila era subitamente comparso.

“Che fate?” gridò con voce grave e tuonante, avvezza a rimbombare nelle basiliche; “dove andate, insensati?…fermatevi!…”

Quella parola era corsa di bocca in bocca; ed al nome dell’Apostolo il furore di quel popolo, cedendo come un vento d’oragano alla voce dell’Eterno, erasi cambiato in adorazione. Il popolo si era ricordato che Giovanni d’Avila gli aveva raccomandato la pazienza, e promesso il cielo in ricambio.

Quel nobile e valente popolo di Spagna non si ribellava per turbolenza, per inquieto desiderio, per vana bravata, no; era tranquillo e grave; la pazienza e la mansuetudine aveva sede in quelle anime coraggiose. Quel popolo aveva avuto per un momento la collera di un leone che vien torturato, e si era rivoltato, ruggendo, contro la mano che non cessava di martoriarlo; ma alla prima parola di dolcezza era ritornato alla sua grande e magnifica obbedienza, l’obbedienza dell’essere forte che compie un dovere. La Sapgna è stata sempre eminentemente cristiana. E se non le si fosse imposto il fanatismo a forza di rigori e di persecuzioni, sarebbe stata forse la nazione della terra la quale avrebbe più religiosamente conservato lo spirito sacro del Vangelo.

Per poco che siansi studiati gli Spagnuoli, ciò è facile a comprendersi; la base del carattere spagnuolo è una semplicità piena di grandezza. Ora, che di più semplice e di più grande ad un tempo del Vangelo?

Giovanni d’Avila s’avanzò senza sforzi nel mezzo di quella folla, poco prima impenetrabile; tutti si scostarono al suo avvicinarsi.

“Figli miei,” disse loro, “perché vi rivoltate? Qual bene ve ne verrà?”

“Padre,” disse uno di essi, “è stata arrestata Maria di Borgogna, che nutriva i nostri figliuoletti .”

“Dio ve la renderà,” rispose il santo; “forse rivoltandovi sperate di salvarla?”

Nello stesso tempo un uomo armato d’enorme mazza di ferro, si avanzò davanti all’Apostolo. Quest’uomo sembrava essere uno di capi della rivolta:

Giovanni d’Avila riconobbe Manofina.

“Che fai tu qui?” domandò il sant’uomo con dolcezza.

“Voleva vendicare una vittima,” rispose il bravo senza sconcertarsi; “noi veniamo ad uccidere questo miserabile Enrico, che ci è stato dato per governatore.

“Non bisogna uccider nessuno,” disse Giovanni d’Avila.

“Per costui non vi sarebbe stato un gran male,” rispose il bravo: “un briccone di questa specie…ma poiché Vostra Beatitudine non lo vuole…”

“E’ Iddio che non lo vuole, figli miei; ritiratevi, e lasciate a Dio la cura di vendicarvi.”

Quegli uomini, poco fa sì feroci, erano tornati docili come agnelli.

Mentre si allontanavano in silenzio, senza fare più alcuna manifestazione ostile, alcuni birri si avvicinarono pr arrestare alcuno di essi.

“Che fate?” gridò il sant’uomo; “volete dunque punire il leone perché è stato generoso? Ritiratevi, voi non avete bisogno d’armi, tutti sono tranquilli, non lo vedete?”

Gli emissari dell’inquisizione, cedendo loro malgrado, all’influenza di quell’uomo straordinario, provarono un istante di esitazione.

In quel momento Josè, uscendo dalla folla, fece cenno agli emissari; a quell’ordine muto si allontanarono come ombre.

Malgrado la sua immensa carità, Giovanni d’Avila gettò uno sguardo di scontento e di diffidenza sul favorito dell’inquisitore. In quell’epoca i Domenicani ed i Francescani non avevano ancora fatto alleanza[22].

Erano, in generale, crudelmente nemici; Giovanni d’Avila, ad onta della sua santità, non si difese forse da un sentimento involontario di avversione e di repugnanza alla vista del giovane Domenicano. Ma Josè si avvicinò a lui con aria confidente e tranquilla:

“Padre mio,” gli disse, “quella che voi cercate è in sicurezza.”

Giovanni d’Avila trasalì; credeva che Dolores fosse stata arrestata dall’Inquisizione.

“Padre mio,” ripeté Josè, guardandolo con dolcezza, “non vedete sul mio viso ch’io vi dico la verità?”

“Rendetemi dunque quella povera fanciulla.” Disse Giovanni d’Avila; “Estevan ed io l’abbiamo pianta abbastanza.”

La sirena non aveva potuto dir nulla, la Graziosa aveva ricusato di dire ciò che era stato di Dolores.

“Domani a mezzanotte,” riprese Josè, “io vi aspetterò sulla spianata vicino alla fontana.”

Josè disparve; ma ad alcuni passi di distanza si rivolse per considerare la bella statura di Estevan ed il suo nobile profilo, che si staccava nettamente nel chiaroscuro di una notte d’estate. A tal vista un sospiro profondo sollevò il petto del giovane Domenicano, e due lacrime ardenti scesero da’suoi occhi.

Giovanni d’Avila non parlò ad Estevan di quello incontro; voleva andar solo a quell’appuntamento, dove forse temeva un inganno.

Anco quella notte Enrico dormì tranquillo.

 

 

 

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XIX.

L’amuleto del grande inquisitore Torrequemada.

 

 

 

 

Entrando nel palazzo inquisitoriale, Josè si recò presso il grande inquisitore. Pietro Arbues era solo nella sua camera, ma al di fuori eransi raddoppiate le guardie, perché quel rumore di sommossa sì rapidamente acquietato, il cui rimbombo era appena giunto fino a lui, l’aveva talmente spaventato, che gli sembrava a ciascun istante veder la porta del suo appartamento forzata dagli assassini. Egli aveva la viltà della iena, che fugge la luce, e non si pasce che di cadaveri.

Assiso davanti ad una piccola tavola d’ebano, incrostata di madreperla, opera preziosa del principio del risorgimento, Pietro Arbues, con la testa appoggiata nelle sue mani, considerava con profonda attenzione una strana gemma incastonata nell’oro cesellato.

Era un dente di liocorno che aveva appartenuto a Tommaso di Torrequemada, il fondatore dell’Inquisizione moderna in Ispagna, quel monaco feroce, la cui crudeltà sorpassò talmente tutti i limiti che lo stesso papa Alessandro Borgia ne fu spaventato. Quella reliquia, caduta, non si sa come nelle mani di Pietro Arbues, aveva, si dice, la facoltà di fare scoprire e di neutralizzare i veleni[23].

Pietro Arbues aveva talmente imitato Torrequemada nelle sue barbarie, che l’imitava pure nella sua superstiziosa prudenza: quel dente di liocorno non lasciava mai la sua camera.

All’avvicinarsi di Josè, l’inquisitore alzò la testa. “Ebbene, Josè, quali notizie?”

“tutto è tranquillo, monsignore; i vostri birri han fatto meraviglie, ed i rivoltosi sono stati bentosto dispersi.”

“Sia lodato Iddio!” gridò l’inquisitore… “e quel povero Enrico non ha sofferto alcun male?”

“Alcuno, monsignore; non hanno fatto che rompere la porta del suo palazzo; Enrico è in questo momento sicuro quanto può esserlo Vostra Eminenza.”

“Non han dunque avuta intenzione di dirigersi verso il palazzo inquisitoriale?”

“No, monsignore; chi oserebbe assalire il grande inquisitore di Siviglia?”

“Io non rischio nulla, non è vero Josè? non oserebbero assalirmi. – Forse,” proseguì Pietro Arbues, “ho fatto male ad innalzare Enrico nel posto difficile di governatore? Quest’uomo manca di forza e di risoluzione?”

“Non tanto quanto Vostra Eminenza può crederlo.”

“Ma è uomo da nulla, ignorante, ordinario.”

“Che importa, monsignore, vi è affezionato; e credetemi, la toga di governatore sta bene sulle sue spalle quanto su quelle d’un altro.”

“Il popolo piange  Manuel Argoso,” disse Pietro Arbues. “quest’uomo aveva una tolleranza colpevole per gli eretici ed i cristiani tiepidi; perciò tutti l’amavano.”

“Ecco perché si rivoltano contro Enrico, monsignore, non vi è che un mezzo di rimediare a questo: è di raddoppiare il rigore.”

“Sì, bisogna che queste sommosse finiscano; bisogna che l’Inquisizione di Spagna stenda il suo dominio sul mondo, e s’innalzi anco al di sopra della potenza dei papi. Bisogna che la lebbra dell’eresia disparisca per sempre dalla superficie del globo.”

“E che il globo intiero appartenga all’Inquisizione,” aggiunse Josè, tra il serio e lo scherzoso.

“Bisogna,” proseguì l’inquisitore, “che le ceneri degli eretici fecondino la terra, e ce la rendano piena di delizie. I beni di questo mondo, come quelli del cielo, appartengono di diritto ai veri cattolici; essi soli sono degni di goderne; e non vi perverranno che a forza di perseveranza e di rigori salutari.”

“Monsignore, più l’Inquisizione immolerà eretici o malvagi cattolici, più diverrà forte e potente.”

“Senza dubbio,” disse l’inquisitore con un riso feroce, “vi ho provveduto, Josè; noi avremo quasi centodiciotto condannati al prossimo atto-di-fede.”

“Cinquanta più che nell’ultimo, monsignore.”

“Che farete del vecchio governatore di Siviglia?” proseguì Josè negligentemente.

“Lo tratterò come merita, questo eretico luterano,” gridò l’inquisitore, esasperato dalla memoria dei suoi vani tentativi contro Dolores.

Josè, come si vede, lusingava abilmente le passioni di Pietro Arbues; si vede pure che l’Inquisizione non era, come si è voluto sostenere, mossa solamente da un’ardente fanatismo.

La sua crudeltà indicibile, implacabile come la fatalità, non era certamente il resultato di uno zelo eccessivo, cieco, per la gloria del cattolicismo: Aveva veramente un altro veicolo. L’interesse della religione non veniva che in seconda linea, o piuttosto la religione stessa serviva di maschera e di pretesto all’ambizione sfrenata, alla sete di ricchezze degl’inquisitori.

Non si può credere al fanatismo assoluto, alla fede cieca, che presso gl’insensati o le intelligenze ottuse; gl’inquisitori non erano certamente né pazzi né stupidi: volevano dominare, ecco tutto; volevano regnare, e nella loro astuta politica avevano compreso che la sola corona che non si romperà giammai è la corona di spine dell’Uomo-Dio; ecco perché ne avevan fatto scudo al loro regnar dispotico, perché si erano fatti un’egida del divino nome di Cristo, rendendolo correo delle loro iniquità.

“E’ tempo,” proseguì Pietro Arbues, “di raccogliere l’eredità che ci ha lasciato il nostro santo fondatore Torrequemada.”

In quel momento l’inquisitore si avvide che Josè, come fanciullo, scherzava col dente di liocorno che era sulla tavola.

“Guardati dal toccarlo, figlio mio,” disse Pietro Arbues, togliendoglielo dolcemente dalle mani, “è una preziosa reliquia che non dobbiamo profanare: è dessa che ha costantemente protetto la vita, del beato Torrequemada, e che ora protegge la mia.

“Come mai questo gioiello è caduto nelle vostre mani, monsignore?”

“Per eredità; io discendo per linea materna, quantunque indiretta, dalla medesima famiglia del primo grande inquisitore di Castiglia.”

Josè si tacque, e si affrettò a rimettere il dente di liocorno al posto da cui avealo tolto. Lo scetticismo del monachetto non escludeva una leggera superstizione; aveva ancor troppo l’ardente immaginazione dei Mori per non credere alla virtù di un amuleto.

“Josè,” riprese l’inquisitore, “poiché ora tutto è tranquillo in Siviglia, sono d’avviso che facciamo insieme una refezioncella per gustare un eccellente vino di Lacryma-Christi che mi è stato mandato dal nunzio del papa.”

“Non ho fame,” rispose Josè con noncuranza.

“Non importa, figlio mio, questo vino delizioso risveglierà il tuo appetito. Suona dunque e chiedi che ci servano.”

Josè non ebbe il tempo di eseguire gli ordini dell’inquisitore che un famigliare entrò premurosamente, e rimise una lettera a Sua Eminenza.

“Donde viene?” domandò Pietro Arbues.

“E’ il governatore di Siviglia che la invia,” rispose il famigliare.

Pietro Arbues ruppe il sigillo di quella lettera e la lesse rapidamente.

Monsignore,” gli scriveva Enrico, “la badessa delle Carmelitane è fortemente e gravemente malata, ed ha fatto domandare un Francescano per confessarla. Ho creduto mio dovere prevenirne Vostra Eminenza. Il monaco dovrebbe recarsi questa sera stessa al convento, poiché sembra che il caso sia urgente.Ecco tutto ciò che ho potuto sapere. La mia lettera, scritta da due ore, non ha potuto essere mandata più presto a Vostra Eminenza, a cagione della sommossa che ha turbato la città e minacciato la mia vita.

“povero Enrico!” gridò l’inquisitore, il cui viso aveva, durante quella lettura, espresso la più violenta collera, “qual zolo per il mio servizio!”

“Vedete monsignore,” disse Josè, senza sapere di che si trattasse.

“Per Cristo!” proseguì Arbues, “questa donna è ardita. Far domandare un miserabile Francescano quando io sono il suo confessore; doveva aver ricorso ad altri fuor che a me? Si, comprendo,” mormorò egli a voce bassa, “costei ha paura della morte, e forse!…oh! ma vi è tempo ancora…questa pazza potrebbe compromettermi, bisogna che io la veda subito. Olà!” disse chiamando i suoi famigliari:; “si appresti la mia lettiga, ho bisogno di uscire.”

Poscia, volgendosi verso Josè, che cercava invano d’indovinare ciò che accadeva nell’animo di Pietro Arbues, “Josè,” disse, “un affare importante mi chiama altrove. La badessa delle Carmelitane muore, e reclama da me i soccorsi della religione, ti lascio, addio.”

Pietro Arbues si slanciò fuori della sua camera, discese rapidamente la scala di marmo del suo palazzo, salì nella lettiga ed uscì. Arrivando alla porta del convento, un frate Francescano varcava la soglia, e si avanzava verso l’inquisitore.

Quando furono in faccia l’uno dell’altro, Pietro Arbues gittò uno sguardo rapido sul viso del frate; malgrado l’oscurità si riconobbero. Pietro Arbues guardò fisso il monaco.

“che siete venuto a far qui?” gli domandò con accento severo.

“A salvare un’anima,” rispose il Francescano.

Quel monaco era Giovanni d’Avila.

L’inquisitore gli gettò uno sguardo pieno d’odio, varò rapidamente la porta del chiostro.

Quando giunse al capezzale della badessa, Francesca di Lerma, rassicurata dalle dolci parole dell’Apostolo, sembrava gustare un istante di calma. Essa non era seriamente malata; ma quella donna spassionata e robusta, attaccata ad un tratto da un male che abbatteva le sue forze, aveva avuto paura della morte ed orrore della sua vita depravata.

Non potendo confidarsi al complice delle sua colpe, del quale temeva la violenza, aveva fatto chiamare Giovanni d’Avila, la cui santità le inspirava una confidenza senza limiti; ed in una confessione sincera l’infelice donna avea versato in seno a quell’Apostolo della verità i rimorsi che divoravano l’anima sua.

Oh! Come l’uomo di Dio dovette versar lacrime di sangue sulla Chiesa di Cristo, indegnamente profanata, a quelle confessioni di un’anima tremante e lacerata, che sfuggivano dalle labbra dell’altera badessa delle Carmelitane!

La malattia aveva abbattuto quel carattere indomabile, ed il rimorso, sola virtù che rimane a coloro che hanno molto peccato, il rimorso l’avea ricondotta al pentimento. Malgrado le perfide insinuazioni e le menzogne che Pietro Arbues aveva impiegato per persuaderla che non faceva alcun male, Francesca non era stata mai rassicurata, ed aveva certamente peccato in cognizione di causa.

“Signora,” disse l’inquisitore quando fu rimasto solo con la malata, “perché avete domandato un altro confessore fuori di me?”

A quella voce ben cognita, Francesca di Lerma si volse prontamente e con un lungo sguardo percorrendo l’inquisitore dai piedi alla testa, fe’ con le labbra, senza rispondere, un segno di disprezzo e d’ironia.

“Non sapevate, sorella,” continuò Pietro Arbues, con voce dolce, “che io ho il potere di assolvervi?”

“avanti di assolvere gli altri,” rispose lentamente Francesca di Lerma, “coprite la vostra testa di cenere, monsignore; abbassate il vostro orgoglio nella polvere, e pregate in ginocchio sulla nuda terra, perché Iddio vi perdoni i vostri delitti. Con qual diritto parlate di assolvere gli altri, voi che avete tanto peccato?”

“Povera anima perduta,” riprese l’inquisitore, “vi possono esser limiti ai nostri diritti ed ai nostri poteri spirituali? Non siamo noi gli unti del Signore? E vi ha forse qualche cosa nel mondo che possa cancellare il nostro sacro carattere?[24] Non aveva io dunque più il diritto di sciogliere le anime dai lacci del peccato? Il prete, per indegno che sia,” proseguì con finta umiltà, “non è meno il rappresentante di Gesù Cristo, e voi non avete compromesso gli interessi della Chiesa confessandovi ad un monaco scelto fra i Francescani, che sono i nostri più mortali nemici?”

“Questo monaco è un santo, monsignore: ei m’ha consolata e riconciliata con Dio. Lasciatemi dunque morire in pace, e non v’inquitate più dell’anima mia.”

Quindi, rivolgendosi dall’altro lato, Francesca cuoprì  la sua testa col suo panno, come se avesse voluto mettere fra se e l’inquisitore il sudario della tomba.

Pietro Arbues vide bene che quell’anima era sinceramente ritornata aDio, e che il suo impero sopra di essa era finito. Ma da abile inquisitore, gettando sulla sua collera un manto di dolcezza e di umiltà, si ritirò senza violenza, senza far vedere per nulla il suo scontento; e siccome giudicò che la malattia di Francesca non fosse mortale, si propose d’impedire che potesse rivedere Giovanni d’Avila.

La conversione di Francesca era divenuta per esso un terribile giudizio.

 

 

 

 

 

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XX.

L’appuntamento.

 

 

L’ora dell’appuntamento dato da Josè a Giovanni d’Avila si avvicinava. Estevan aveva cenato con l’Apostolo, e suo malgrado, quest’ultimo non aveva potuto dissimulare una penosa preoccupazione insolita della sua fisionomia serena, quantunque abitualmente meditativa.

Già inquieto sulla sorte di colei che amava, Estevan temè che Giovanni d’Avila gli nascondesse dolorosi secreti. Tuttavia non osò interrogarlo, forse in conseguenza di quella umana debolezza che ci fa ad un tempo desiderare di sapere e temere di conoscere una sventura.

Giovanni d’Avila serbava, suo malgrado, un insolito silenzio. Estevan seguitava con occhio inquieto i minimi moti della sua fisionomia.

“Padre mio,” si azzardò a dire finalmente, “non avete dunque saputo nulla dell’infelice governatore di Siviglia? Il suo processo non è ancora incominciato, e non potremo far nulla per salvarlo?”

“No,” disse Giovanni d’Avila, “il processo di Manuel Argoso non è cominciato, e quando sarà tempo, non sapete che io v’avvertirò? Fino a quel momento statevi nell’oscurità e nel ritiro. Ignorate qual pericolo vi sarebbe per voi a sfidare l’Inquisizione?”

“Io la sfiderò, quando sarà necessario,” rispose Estevan con voce tranquilla.

“Ebbene! Dunque serbate il vostro coraggio per il giorno della lotta; voi ne avrete bisogno.”

Nello stesso tempo Giovanni d’Avila, vedendo che la povere della clepsidra posta sulla tavola era quasi intieramente esaurita, uscì senza dire parola, come era solito fare. Ma quantunque in quel giorno nulla fosse avvenuto di straordinario, Estevan, inquieto e tormentato,lasciò l’apostolo allontanarsi d’alcuni passi, quindi uscì a sua volta, chiuse la porta della casa, e col favore dell’oscurità seguì Giovanni d’Avila in distanza per non esser veduto.

Arrivato presso la fontana che è in facciata alla cattedrale, Giovanni d’Avila si fermò. José l’attendeva.

Assiso sul margine della fontana, col viso appoggiato sopra una delle sue mani bianche ed affilate, li giovane Domenicano aveva una grazia indicibile in quella positura melanconica. Solo, nel mezzo di quella vasta spianata, ombreggiata da molti aranci, al rumore dell’acqua che cadeva mormorando in un gran bacino di marmo, Josè erasi un momento abbandonato all’estasi di un sogno misterioso e profondo. Era per lui senza dubbio uno di que’ momenti in cui gli accidenti della vita, vani sogni che già appartengono al passato, compariscono in gruppo dinanzi a noi come una realtà vivente; ovvero, spiegandosi l’uno dopo l’altro vaghi e confusi, passano sotto i nostri occhi come una fantasmagoria, e ridenti o terribili, ci fanno volger la testa con disgusto, tanto offrono di vuoto all’anima insaziabile dell’uomo. Qual è allora fra noi colui che vorrebbe a costo delle medesime prove ricominciar la sua vita?

Giovanni d’Avila aveva fatto pochissimo rumore avvicinandosi alla fontana; tuttavia Josè l’udì, ed alzandosi dalla pietra in cui era assiso, andò incontro all’Apostolo.

Alcuni passi distante da essi, Estevan, nascosto fra gli aranci che circondavano la fontana, aveva potuto avvicinarsi senza essere inteso. Qual fu la sua sorpresa vedendo Giovanni d’Avila parlare con un Domenicano!

“Padre mio,” disse Josè, inchinandosi davanti all’Apostolo dell’Andalusia,”io avrei voluto risparmiarvi questo cammino, ma non poteva venir presso di voi senza divenir sospetto….all’Inquisizione,” soggiunse abbassando la voce, “ciò che vi avrebbe nuociuto impedendomi di servirvi.”

Josè parlava con tanto candore, v’era tanta nobiltà ed entusiasmo nella sua voce, e sulla sua bella fronte pallida, giovane e mesta, la quale brillava come un marmo scolpito alla luce argentina della luna, che Giovanni d’Avila, il quale aveva egli pure tutto il candore degli uomini di genio, perdé quasi tutta la diffidenza che gli inspirava un abito di Domenicano.

Fra quelle due anime elette la scintilla magnetica era scoppiata.

“Ebbene, Dolores?” disse vivamente l’Apostolo. Al nome di Dolores un lieve rumore fece muovere le foglie degli aranci, come se il vento le avesse agitate.

“Oserete seguirmi?” domandò il giovane Domenicano con voce dolce.

“Perché non l’oserò io?” rispose Giovanni d’Avila, il cui coraggio era inaccessibile al timore; “io vi seguo,” soggiunse con voce sicura; “conducetemi, fratello mio.”

“No, vostro figlio, Padre mio,” disse Josè, volgendosi con atto pieno di trasporto e di grazia, e congiungendo le sue mani davanti all’Apostolo; “vostro figlio, che avrà bisogno delle vostre preghiere…”

Giovanni d’Avila si sentì commosso, poiché Josè gli inspirava un sentimento indefinibile; egli esercitava sopra di lui pure quel fascino irresistibile degli esseri belli, nobili ed entusiasti.

“seguitemi, Padre mio,” riprese il giovane Domenicano, allontanandosi, “non dobbiamo andare molto lungi.

Infatti dopo alcuni minuti essi erano davanti alla porta della casa moresca in cui abitava Giovanna. Josè levò allora una chiave dalla sua tasca, aprì quella porta, ed entrò per primo; ma quando Giovanni d’Avila stava per varcarne la soglia, Estevan, che non era stato veduto, si avanzò vivamente presso di lui, e gli disse con voce quasi supplichevole:

“Padre mio, se vi sono pericoli da correre, lasciatemi dividerli, e lasciatemi pure rivederla, poiché è vero che essa ci è resa.”

“Almeno lo spero,” disse Giovanni d’avila, “vi voleva risparmiare forse un inganno; ma poiché sapete tutto, venite.”

Nello stesso tempo, volgendosi a Josè, che aspettava al di dentro, che aveva un po’ avanzato la testa per vedere quale ostacolo arrestava Giovanni d’Avila.

“Io non entrerò senza mio figlio Estevan,” disse l’Apostolo.

“Estevan! E sì, entri, padre mio, e la rivegga.” Quando furono entrati Josè richiuse diligentemente la porta.

Dolores e Giovanna aspettavano nella sala terrena. Dolores, prevenuta da Josè, corse incontro al suo liberatore, ma quando vide Estevan, che non attendeva, un pallore profondo cuoprì il suo viso, e cadde abbattuta sul divano d’onde si era alzata: una sì grande emozione l’aveva oppressa!

“Dolores,” disse Giovanni d’Avila, avvicinandosi alla fanciulla, “bisogna essere forti nella gioia come nel dolore; in questi tempi malvagi colui che si lascia curvare da tutti i contrari eventi è bentosto abbattuto e schiacciato.”

Alla dolce vista dell’Apostolo, Dolores ritornò in sé, e mirando Josè, lo ringraziò con lo sguardo.

Josè volse la testa per nascondere una lacrima che, suo malgrado, era spuntata dai suoi occhi.

Ma dopo questa prima emozione accordata al più vivo sentimento dell’anima, Dolores ebbe vergogna di non aver, come sempre, dato il primo pensiero al disgraziato suo padre, e guardando Josè con inquietudine:

“Don Josè,” gli disse, “quando s’instituisce il processo di mio padre?”

“Dopodomani, vi dico,” rispose Josè; “lo so dal grande inquisitore, che non ha segreti per me.”

“Ebbene!” gridò Dolores con angoscia, “che bisogna fare per salvare mio padre? Non abbiamo ancora fatto nulla per questo.”

“Perché non vi era niente da fare,” rispose il Domenicano.

“Ed ora?” domandò la fanciulla.

“Ora occupiamoci di cercargli dei testimoni; è il solo mezzo di salvarlo.”

Dolores non rispose, ma rifletté un istante in sé medesima e sembrò prendere una risoluzione; poscia, indirizzandosi a Giovanni d’Avila:

“Padre mio,” ella disse, “voi gli servirete da testimone, non è vero?”

“Senza dubbio, “rispose Giovanni d’Avila; non vi affliggete per questo, siate tranquilla quanto lo potete, ciascuno di noi ha bisogno di tutto il suo coraggio. Lasciate dunque agire i vostri amici con tutta libertà, senza affliggerli con i vostri dispiaceri.”

In quel momento, mentre Dolores prestava tutta la sua attenzione alle parole dell’Apostolo, Josè entrò nel giardino come per considerare alcuni fiori, e fece un lieve cenno ad Estevan, che lo seguì senza affettazione. Quando furono assai lungi per non poter essere intesi:

“Don Estevan,” disse Josè, “noi non salveremo mai il governatore con la testimonianza; cerchiamo dunque un mezzo più efficace.”

“Io non ne conosco altri,” rispose gravemente il giovane filosofo, troppo prudente per dichiarare il suo intimo pensiero ad un uomo che non conosceva.

“Tuttavia,” replicò vivamente il Domenicano, “se questo mezzo fallisse, che fare?”

“Spero nella giustizia di Dio,” rispose Estevan. Josè sorrise amaramente, e prendendo la mano del giovane Vargas, gliela strinse vivamente nella sua:

“Don Estevan,” egli disse, “voi diffidate di me; che ho fatto per meritare questa ingiustizia? Ho incontrato un giorno sul cammino la vostra fidanzata, che accorreva smarrita al palazzo dell’inquisitore per domandare la grazia di suo padre; che posso fare di più perché voi abbiate fede in me? Perché diffidate?”

“Voi siete un Domenicano,” rispose Estevan con franchezza.

“Io ne porto l’abito,” rispose Josè.

“Convengo,” disse Estevan, “che tutto in voi inspira la confidenza; dalla vostra fisionomia traspare verità; ma è mia la colpa se oggidì in Spagna bisogna diffidare anco dei suoi più cari amici?”

“Giovanni d’Avila ha avuta confidenza con me,” rispose semplicemente Josè,

“l’avrò io pure,” disse Estevan, tendendogli la mano.

“Ebbene, provatemelo, don Estevan; rispondetemi con franchezza: se non possiamo riuscire a salvare il governatore con la testimonianza, qual mezzo volete voi impiegare?”

“Non lo so,” rispose Estevan con esitazione. Josè comprese che egli aveva un’intenzione occulta.

“Sollevare il popolo, portar via il governatore, durante l’atto-di-fede…colpire il grande inquisitore,” disse vivamente il Domenicano.

Estevan lo guardò con aria di diffidenza.

Josè comprese che aveva indovinato il segreto pensiero del giovane Vargas.

“Questo mezzo non sarebbe buono che in un caso intieramente disperato,” rispose Estevan; ma la sua fisionomia smentiva la prudenza delle sue parole. Josè l’aveva indovinato.

Il fraticello non insisté maggiormente; ma, riconducendo Estevan presso la sua fidanzata, gli disse con accento tenero e pieno di candore:

“Don Estevan, checché accada contate sopra di me per la vita e per la morte.”

“La prova verrà,” disse mestamente Estevan.

“Oh Estevan! Voi non avete un alleato più fedele di me, e in questa lotta io lascerò forse la vita…allora crederete,” riprese l’altro con dolcezza.

Estevan era giovane; e si commosse, e forse era per dichiarare a quell’uomo singolare, che lo faceva stupire ed affascinare ad un tempo, tutto il suo pensiero.; ma mentre rientravano nella sala terrena fu battuto vivamente alla porta della strada.

“Siam traditi!” pensò Estevan.

Giovanni d’Avila guardò Josè come per leggergli sul viso; ma né il Domenicano, né Dolores mostrarono la minima sorpresa.

Giovanna andò ad aprire.

Era Gioachino, che veniva tutte le sere alla stessa ora a prendere gli ordini di Josè, e a rendergli conto di quelli che aveva ricevuto la sera innanzi. Alla vista di quel volto amico, tutti i timori si calmarono.

“Che c’è di nuovo, mio bravo Gioachino?” domandò il giovane Domenicano. “Reverenza,” rispose la guardia esitando, “Il governatore di Siviglia…”

“Comparirà fra due giorni davanti al tribunale,” disse Josè, “lo so; e poi?”

“Io sarò di guardia alla porta del suo carcere,” disse Gioachino.

“Oh!” esclamò Dolores con ansietà, “voi dunque potreste?…”

“Io non sarò solo,” rispose Gioachino, comprendendo il suo pensiero.

“Ebbene,” pensò Dolores, “poiché nessuno può nulla per lui, io sola debbo salvarlo…”

Giovanni d’Avila si alzò per uscire.

“Dolores,” disse Estevan a voce bassa, “io morrò o salverò vostro padre.”

“Siate benedetto, Estevan!” ella rispose.

“Figlia mia,” disse a sua volta Giovanni d’Avila, “siate prudente, contate sui vostri amici, e non uscite sotto alcun pretesto.”

Dolores abbassò la testa senza rispondere, poiché non voleva né mentire, né prometter nulla. I suoi occhi non si staccarono da quelli d’Estevan, che quando la porta di strada fu chiusa dietro di lui.

Estevan, Josè e l’apostolo si allontanarono insieme. Josè gli accompagnò fino al ponte di Triana; là si separò da essi.

Gioachino li aveva seguiti a qualche distanza. Josè si volse e si avvicinò alla guardia.

“Gioachino,” gli disse, “sorveglia con cura tutti i passi di don Estevan de Vargas, e quali essi siano, vieni ad avvertirmi all’istante.”

“Reverenza…” rispose Gioachino, esitando, “è per suo bene senza dubbio che volete così? Un amico dell’Apostolo.”

“Sii tranquillo, mio povero Gioachino; ho mai fatto male ad alcuno, di’?”

“Oh! Voi siete buono come gli angeli del cielo,” rispose la guardia, “io farò tutto quello che vorrà Vostra Reverenza.”

 

 

 

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XXI.

Il viaggio.

 

 

Sorgea il sole; i suoi primi raggi, d’un giallo pallidi misto a color rosa, macchiavano di riflessi cangianti la nebbia leggiera che cuopriva ancora le cime della Sierra-Morena; sarebbesi dette migliaia di pagliucole brillanti, gittate sopra un velo bianco.

Due viaggiatori seguivano lentamente un cammino arido, tagliato nel fianco delle montagne, talvolta sì stretto che appena sembrava possibile che un camoscio potesse posarvi i piedi, ed il più spesso sovrapposto  a spaventevoli precipizi, la cui profondità destava le vertigini. Qua e là alcuni pini torti maritavano la loro trista verdura al color granitico delle rupi; ovvero, per un bizzarro contrasto un rosaio selvaggio si innalzava, tutto coperto di rose fiorite, sull’arduo pendio dei precipizii, dei quali l’occhio non osava misurare la vertiginosa profondità. I viaggiatori erano in quel momento pervenuti ad una delle più alte cime della Sierra-Morena. Si volsero allora dal lato d’oriente, ed il sole rischiarò in pieno il loro volto.

Il più attempato dei due non aveva più di trent’anni, ma la sua fronte era sì grave, si piena di quella dolce austerità che brillò sul viso dell’Uomo-Dio, che sarebbesi potuto, a primo aspetto, crederlo già arrivato alla piena maturità dell’età sua.

Guardandolo con attenzione si vedeva che solo le vigilie laboriose, la rinunzia alle cose terrene, e l’abitudine alla meditazione, avevano marcate di un sigillo particolare di profondità e di saggezza la fisionomia di quell’uomo, che portava l’umile abito di Francescano.

L’altro viaggiatore, molto più giovane, avendo al più di venti anni, offriva col suo compagno un contrasto tanto più considerevole, in quanto, differenti di fisionomia, di costumi e di carattere, quei due uomini si toccavano frattanto per un punto unico che avvincerà costantemente gli uomini, anche i più disparati d’opinioni e di pensieri; essi avevano un’eguale lealtà di carattere. Inoltre professavano la medesima dottrina; e se le inclinazioni dell’uno pendevano sovente da un alto contrario a quelle dell’altro, almeno agivano sempre nel medesimo scopo e per la medesima causa.

Avevano varcato la gola di Despenaperros una delle cime più elevate di quell’alta ed inaccessibile catena di monti, chiamata Sierra Morena. Stanche ambidue, si assisero.

Dopo essersi riposati alcuni istanti, sentendo la loro respirazione più libera, ed il coraggio tornar loro con la forza, gettarono simultaneamente attorno a loro ad essi quello sguardo profondamente investigatore del filosofo, il quale, nel mezzo delle meraviglie della creazione, cerca costantemente la causa degli effetti, e, ammirando le opere di Dio, vede, per così dire, Dio stesso, tanto le percezioni dell’anima, che sole ci fanno comunicare con lo spirito, divengono allora vive e lucide. Dietro di essi la Sierra Morena propriamente detta alzava la cresta orgogliosa, bianca per la neve di tutti i secoli. Dinanzi ad essi si estendevano i piani desolati della Manica; un poco a sinistra, ed indietro, la voluttuosa Andalusia mostrava con orgoglioso contrasto i suoi campi d’olivi, e le sue vigne verdeggianti ed i suoi cedri fioriti.

Più lungi, a dritta, era la Sierra Nevada, la Sierra Elvira e gli Apuxarras, continuando quella catena di montagne inaccessibili che inviluppano le due Castiglie come fra un’immensa barriera di granito.

Poscia, finalmente, varcando col pensiero il lungo spazio che li separava, ancora essi cedettero veder le Castiglie, quel sanctum della Spagna mai conquistato dagli stranieri; le Castiglie dall’aspetto bizzarro e variato, in cui serpeggiano il Tago dalle onde dorate, e il Manganare dall’onde argentine.

Il quel luogo elevato i viaggiatori dominavano la Spagna intiera…Considerando quel ricco e bel paese, un pensiero amaro si mischiava alla loro ammirazione…Laggiù sotto i loro piedi, in quei piani fertili usciti dalla mano di Dio, un potere iniquo e brutale toglieva agli uomini il libero godimento dei beni della terra e di lor medesimi, e la felicità che è un diritto della vita.

“Ecco lo scopo del nostro viaggio,” disse tutto ad un tratto il frate, stendendo la mano all’orizzonte, verso un punto in cui il solo pensiero poteva arrivare perché era perduto nello spazio.

“Mio Dio! Mio dio!” gridò dolorosamente il giovane laico, “giungeremo noi a tempo?…e soprattutto perverremo noi a commuovere il cuore del re?”

“Abbiate fiducia,” rispose il frate, “perché tormentarvi innanzi di una cosa incerta? L’impeto nuoce sempre al successo delle intraprese, con la calma si giunge a tutto. Il gran segreto della vita è di sapere attendere, e di non fare dell’avvenire incerto un tormento positivo per il presente. L’anima si affatica e si snerva in quelle apprensioni continue, in quelle inquietudini premature. L’uomo forte attende di pié fermo gli avvenimenti senza temerli; ei passa sovente per insensibile, mentre è solamente coraggioso.”

“Oh Padre mio!” disse il giovane con amarezza, “si vede bene che niun rancore giunse fino a voi, e che, rinunziando alle gioie terrestri, avete pure rinunziato alle miserie dell’umanità, che vi siete isolato nella vostra regola religiosa come in un deserto, e che, non vivendo più della vita comune, non potete comprenderne i dolori.

“Figlio,” riprese dolcemente il Francescano, “pensate voi che l’apostolato sia una emissione d’egoismo e di durezza? Non è forse per entrare più addentro con lo spirito nelle miserie dell’uomo che abbiamo abbracciato delle miserie volontarie? Guai a colui che comprende altrimenti la missione di prete, a colui che l’autorità evangelica riduce ad una potenza temporale, di cui fa uso a profitto delle sue proprie passioni, invece di impiegarla al ben essere e alla consolazione di tutti! L’apostolato non ha altro scopo. Colui che ne usa altrimenti misconosce i doveri del suo ministero. Quale, infatti deve essere la nostra vita? Esser pronti ognora a versar il sangue pei nostri fratelli, a soccorrerli, a consolarli nelle avversità, a render loro la vita più dolce con la speranza di una vita migliore. Credete voi, figlio mio, che colui il quale rinunzia  alle dolcezze della famiglia particolare per dedicarsi alla felicità della grande  umana famiglia sia un egoista od un vile? No, non lo pensate: il sacrificio è una virtù che viene da Dio, e Dio solo ne comparte la forza!”

“Oh Padre mio!” riprese il giovane, “perdonatemi, io sono ingrato ed ingiusto; vi debbo tutto, e vi oltraggio: il dolore mi toglie la ragione. Voi siete un’eccezione sublime. Ma ditemi,” proseguì egli con quell’amaro scetticismo che danno talvolta i grandi infortuni, “dove sono i discendenti degli apostoli? Ho un bel cercarli attorno di me in tutta la Spagna, che formicola di monaci, io non vedo che mendicanti serviti, od abietti oppressori.”

“Figlio mio,” rispose il Francescano, con voce severa, “voi siete troppo giovane, ed avete poca esperienza per giudicare così in una maniera assoluta. Riconosco come voi gli abusi della chiesa di Spagna; piango tutti i giorni sui mali che ne risultano, lotto contro di essi con tutte le mie forze; ma quando, rientrando in me medesimo, mi prostro ai piedi dell’eterno, offrendo i miei combattimenti, le mie preghiere, le mie lacrime, io dico talvolta con dolore, ma con rassegnazione: -Ciò è forse nei disegni di Dio.-”

“No, no, ciò non può essere,” esclamò impetuosamente il giovane, “Dio grande e magnanimo; Dio, la cui essenza divina si compone d’amore, può egli permettere che si opprima in suo nome coloro ai quali ha dato un’anima immortale, scintilla di sé medesimo?”

“Figlio mio,” disse il frate, molto imbarazzato da questa domanda, ma troppo fermo nella sua fede per cercare di addentrarsi nei misteri che la sua ragione non poteva comprendere; “figlio mio, egli è cosa certa che Dio ha creato l’uomo per la felicità, e che la felicità è nella perfezione. Noi tendiamo incessantemente verso questo unico scopo: forse non vi si giunge che per il dolore, forse le generazioni che seguiranno hanno bisogno del sangue e delle lacrime dei loro padri, come noi abbiamo avuto bisogno del sangue di Gesù Cristo; e forse anche per coloro che soffrono, Dio, che è la sorgente dell’eterna giustizia, tiene in serbo anco per questa vita dei guiderdoni incomprensibili.

“Nei tempi di persecuzione l’uomo, sempre al cospetto del martirio, vivendo giorno per giorno, si attacca poco alle cose della terra, si abitua a vivere con lo spirito, e da questa grande meditazione dei popoli escono talvolta quei sublimi insegnamenti che rigenerano le nazioni. Cessiamo dunque di mormorare, lottiamo con perseveranza; la sommissione volontaria ai decreti di un essere onnipotente, ma infinitamente buono, porta con sé magnanime consolazioni. Non è ad una fatalità cieca che si obbedisce, ed è un essere intelligente e pieno d’amore, che pone sempre il bene al lato del male, e spesso il bene nel male stesso per forza di combinazioni superiori, talvolta oscure per le nostre limitate intelligenze, ma che conducono sempre, io ve l’accerto, ad uno scopo segnato innanzi nella sua eterna volontà.”

Il giovane laico non rispose, ma considerava in silenzio quell’uomo giovane, bello e grave, che fornito dei doni più preziosi dell’intelligenza e della fortuna, aveva rinunziato ai vari onori di questo mondo per vivere della sola vita dello spirito, e contribuire con tutto il suo potere, con tutte le sue facoltà all’edifizio della felicità sociale, non di quella fragile felicità basata sopra utopie paradossali, ma di quella felicità certa, eterna, infallibile, che, ad onta delle sventure, della sofferenza e della morte, nasce nel cuore dell’uomo che abbraccia con ardore una fede consolante, e vive, per così dire, anco quaggiù di quella vita che è al di là della tomba.

Quantunque questo giovane fosse stato nutrito in sentimenti purissimi e cristianissimi, l’ardore naturale di un sangue giovanile e spagnuolo,  l’esistenza tutta cavalleresca che menavano i signori di quell’epoca, avevano malgrado il suo gusto naturale per le meditazioni filosofiche, dato un giro vivace e marziale all’espressione delle sue opinioni e delle sue idee. Fatto per abbracciare tutti i grandi pensieri religiosi od umanitari, mancava ancora al giovane filosofo la pazienza che sopporta e non sorpassa giammai l’ordine naturale degli avvenimenti. Nobile, egli era nel morale un lottatore ardito ed intrepido, che, sicuro sempre della sua forza, attacca di fronte tutti i suoi nemici ad un tempo, ed invece di combatterli ad uno ad uno, di assicurare la sua vittoria con la lentezza stessa della lotta, corre superbamente pel suo impeto il rischio della disfatta.

Ciò spiega forse la sconfitta costante in tutti i secoli della Spagna filosofica e liberale nelle sue lotte contro la Spagna oltremontana.

Non è il coraggio, non è la perseveranza che sono mancati ai difensori della libertà di coscienza, è la prudenza d’Ulisse, e la diffidenza degli uomini e degli avvenimenti, quella accortezza che partecipa quasi dell’astuzia. Essi avevano il valore dei leali cavalieri, combattevano alla luce del giorno col petto scoperto contro nemici tenebrosi, chiusi nell’ignoranza e nel fanatismo del popolo, come il bandito nelle macchi della strada; nemici che non si difendevano durante il combattimento, ma che colpivano vilmente il loro avversario per di dietro tostochè era stanco di combattere.

Quest’abitudine al tradimento era da lungo tempo nei costumi della chiesa romana; essa non combatte mai per legioni; non presenta al nemico che scaramuccie; le lascia consumare le sue forze a perseguitare antagonisti innumerevoli, invisibili, che sembrano fuggire e moltiplicarsi sotto i suoi passi; e quando lo crede abbattuto, allora si alza in massa come un sol uomo, e manda il suo grido terribile di trionfo, che va a rimbombare fino agli ultimi limiti del mondo.

“Son già cinque giorni,” disse il giovane, “che abbiamo lasciato Siviglia; quanto vi è ancora da qui a Madrid?”

“otto giorni di cammino almeno,” rispose il Francescano.

”E in questo tempo l’avvoltoio inquisitoriale lascerà la sua preda, e forse quando ritorneremo sarà già troppo tardi.”

“State tranquillo,” disse il frate, “l’Inquisizione non procede con tanta fretta, essa beve l’ultima goccia di sangue delle sue vittime innanzi di abbandonarle al carnefice… Orsù, coraggio” continuò, vedendo approssimarsi le guide che conducevano le loro mule, lasciate indietro per varcare le montagne a piedi.

I viaggiatori si alzarono; scendendo gli stretti sentieri del pendio settentrionale della montagna, raggiunsero le loro guide, battevano con fatica fra le rupi la via che conduceva in Castiglia, appena indicata dalla traccia dei viaggiatori, e dove è oggi una magnifica strada reale che si avvolge in spirale fino alla cima della montagna, e con giri e circuiti uguali conduce dalla Castiglia in Andalusia, e dall’Andalusia in Castiglia. Nell’epoca in cui accadevano queste cose era molto più malagevole, ma il coraggio non mancava ai nostri viaggiatori.

Si rimisero dunque in via, e, ora sulle loro mule, ora a piedi, discesero la montagna per guadagnare la Carolina, ove giunsero la stessa sera.

In questi due viandanti i nostri lettori han senza dubbio riconosciuto Estevan de Vargas e Giovanni d’Avila.

 

 

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XXII.

Il tribunale.

 

Era un giorno tristo e lugubre, un giorno di seduta inquisitoriale. La grande sala del tribunale era stata aperta. Questa sala era un vasto quadrato lungo, parato di nero.

Verso il fondo si stendeva da una parte all’altra una tavola semicircolare. Dietro a questa tavola, coperta in tutta la sua lunghezza da una fitta rascia nera, si vedeva un seggiolone di velluto nero, sormontato da un baldacchino della medesima stoffa.

Era il seggio del presidente o grande inquisitore.

Al di sopra del baldacchino pendeva, addossato al muro, un gran crocifisso d’avorio sopra un fondo nero. Due altri seggi, del medesimo colore del baldacchino, si elevavano ai due lati del seggiolone del presidente; erano destinati agli inquisitori consiglieri che componevano il tribunale.

Sulla tavola a destra era un campanello, dall’altro lato un gran libro degli Evangeli aperto, e nel mezzo, davanti al presidente, un quaderno di carta bianca, sul quale inscriveva le sue note particolari.

Dirimpetto al Cristo, al di fuori della tavola si elevava un banco, o piuttosto bastone triangolare, montato su quattro piedi in isquadra, che serviva di seggio agl’inquisiti.

Finalmente alla destra del presidente, al di fuori pure della tavola, si stavano i birri e quattro uomini mascherati, coperti da una lunga veste di tela nera, con la testa coperta da un cappuccio della medesima stoffa, forati nei punti corrispondenti agli occhi, al naso ed alla bocca; quattro uomini di un aspetto spaventevole, poscia, a sinistra, due cancellieri, assisi davanti ad un tavolino, scrivevano sotto la dettature del presidente, o secondo i suoi ordini, o sotto quella dei testimoni.

Pietro Arbues, vestito del suo grand’abito da monaco, ornato della croce bianca che brilla sul petto dei figli di san Domenico, Pietro Arbues, assiso sul seggio di presidente, volgeva attorno a sé uno sguardo sinistro.

I suoi due assessori, indifferenti alle tempeste che si agitavano nel cuor di quell’uomo feroce, ma animati dal medesimo spirito di dominio, attendevano in un ipocrito raccoglimento il giungere dell’accusato. Niuna emozione interiore si mostrava sul loro volto inumano; essi ignoravano i combattimenti e le incertezze del giudice, diviso fra l’obbligo di punire un colpevole ed il timore di colpire un innocente. Le loro sentenze erano dettate in antecedenza. Colpire, colpire senza interruzione: tale era la loro divisa; eglino non temevano che di assolvere, e non assolvevano mai volontariamente.

Verso il fondo della sala stavano dei monaci di differenti Ordini, testimoni ordinari di quelle solennità, ed alcuni grandi di Spagna venduti all’Inquisizione, che Pietro Arbues, aveva invitati con biglietti: poiché non era un accusato volgare che stava per comparire; era un nobile e potente signore, un buon cattolico, accusato di eresia, che i suoi pari stavano forse per vedere condannato senza ardire di pronunziare una sola parola in sua difesa.

Un silenzio spaventevole regnava in quella lugubre assemblea; sarebbesi detto un convoglio funebre, tanto quei volti diversi portavano un’impronta uniforma di tristezza e di morte.

Ma bentosto un leggiero movimento, quasi impercettibile, accadde in quella cupa assemblea; gli sguardi si diressero lentamente verso la porta: l’accusato, condotto da due birri, era entrato nella sala. Era un uomo grande e pallido, d’una cinquantina d’anni circa. I suoi capelli d’un nero cupo, ma di cui la metà erano imbianchiti, ornavano una fronte vasta, in cui aveva sede la lealtà piuttosto che il genio; il suo occhio, franco ed aperto, avea l’espressione leale e cavalleresca d’un vero figlio di Castiglia, ed una grande rassegnazione religiosa, carattere distintivo dei cristiani di Spagna, temperava l’espressione d’amarezza e di rancore che velava la fisionomia di quell’uomo. Era inoltre debole e dimagrito da un soggiorno di più di due mesi nelle prigioni dell’Inquisizione.

Si avanzò a passi lenti nel mezzo delle sue guardie, e giunto in faccia al presidente, cercò attorno a sé un seggio per riposarsi; ma no vedendo che quella specie di stanga triangolare, su cui il tribunale faceva assidere le sue vittime, le di lui labbra si aprirono ad un leggiero sorriso amaro e sarcastico. Egli si assise come poté su quel seggio bizzarro d’inquisitoriale invenzione[25]. Poscia, alzando la testa senza orgoglio, ma con incredibile dignità, fissò su Pietro Arbues uno sguardo chiaro e penetrante, che avrebbe fatto abbassare gli occhi a qualunque altro, fuorché ad un inquisitore.

Pietro Arbues lo sostenne senza cambiare fisionomia, ed indirizzandosi all’inquisito:

“Accusato,” gli disse, “alzatevi e giurate sul Vangelo di dire la verità.”

L’inquisito si alzò lentamente, si avvicinò alla tavola, e, posando la mano sopra il libro santo, disse con voce ferma e vibrante:

“Giuro in nome di Gesù Cristo e del suo santo Vangelo di dire tutta la verità.”

“Adesso il vostro nome?” proseguì l’inquisitore.

“Paolo Gioachino Manuel Argoso, conte di Cevallos, grande di Spagna di seconda classe, e governatore della città di Siviglia per la volontà del nostro diletto re Carlo V.”

“Lasciate i vostri titoli,” disse l’inquisitore, “essi non vi appartengono più.[26]

Manuel Argoso non ripose; ma il suo labbro inferiore si alzò sdegnosamente: il puro sangue di Castiglia s’era in lui rivoltato.

“La vostra età?” domandò il presidente.

“Cinquant’anni,” rispose il governatore.

“Manuel Argoso,” proseguì Pietro Arbues, con voce lenta, metallica, aspra; “Manuel Argoso, siete accusato d’aver ricevuto presso di voi un giovane uscito da una schiatta eretica; un giovane che professa sentimenti opposti alle dottrine della santa Chiesa cattolica romana, e di non averlo denunziato.”

“Monsignore, io non so quello che volete dire.” Rispose gravemente Manuel Argoso.

“Non denunziar l’eresia è incoraggiarla,” proseguì l’inquisitore. “Non avete potuto ignorare che Estevan de Vargas, discendente da famiglia moresca, è tutt’altro che puro cattolico; ; e non solamente l’avete ricevuto in casa, ma gli avete promessa in isposa la vostra unica figlia.”

A questa parola un sospiro doloroso sollevò il petto dello sventurato governatore, e videsi una lacrima scorrere lungo la sua pallida gota, ma tosto rimettendosi:

“Monsignore,” rispose, “il giovane Estevan de Vargas discende da uno di quei nobili cavalieri abenceragi, i quali si sottomisero volontariamente alla religione di Gesù Cristo, e si riconobbero sudditi del re Ferdinando d’Aragona, e della grande Isabella, la nostra gloriosa sovrana[27]. Questi cavalieri ricevettero dai nostri re gl’istessi privilegi di cui godono i signori Casigliani; perché diniegheremo loro ogni diritto che si sono legittimamente acquistati già da un secolo?”

“Colui che ottiene un diritto s’impegna in un dovere,” osservò l’inquisitore, “e da che manca a questo dovere,  il suo diritto diven nullo. Don Estevan de Vargas, professando dottrine contrarie ai santi canoni della Chiesa, perde la sua salvaguardia di buon cattolico; è in difetto d’eresia, e chiunque fa alleanza con lui è reputato eretico e degno delle pene inerenti a questo delitto.”

“Monsignore,” disse gravemente Argoso, “vi giuro sul mio onore che mai don Estevan de Vargas non ha pronunziato davanti a me parola che non fosse degna di pio cristiano e di leale cavaliere; come dunque sarei complice d’un delitto che non esiste?”

“Egli nega!” disse l’inquisitore con aria di compassione, volgendosi verso i suoi consiglieri come per consultarli con lo sguardo.

I consiglieri fecero un gesto d’orrore, alzando gli occhi al cielo con aria ipocrita.

Questa pantomima era loro famigliare, e sostituiva in essi la rettitudine del giudizio e la logica della parola, che nessuno fra essi possedeva.

I cancellieri scrivevano le domande e le risposte.

Pietro Arbues sembrava riflettere.

Accadde un lungo silenzio, nel quale quell’anima impetuosa ed appassionata eransi profondamente raccolta in sé medesima per trovare quelle dolci intonazioni, quello sguardo devoto e tenero, quelle parole piene di dolcezza evangelica, solo linguaggio usato fra gli inquisitori, e dal quale nessuno fra loro si allontanava mai sotto alcun pretesto ed in veruna circostanza, sia che questo fosse uno degli statuti della loro regola[28], sia che questa dolcezza ipocrita non fosse che un raffinamento di crudeltà; poiché invano ci si vorrebbe far persuasi che essi facessero il male con convinzione, e che quella studiata mansuetudine, congiunta a tanta barbarie, fosse il resultato del loro zelo per la religione, e di una tenera pietà per le vittime che si credevano obbligati di torturare così.

La depravazione dei loro costumi risponde vittoriosamente a tutte le apologie che potrebbesi intraprendere in questo argomento. L’intiera purezza del cuore è la sola garanzia della sua bontà.

Finalmente, guardando il governatore di Siviglia con aria di compunzione:

“Figlio mio,” disse Pietro Arbues, “voi mi vedete sinceramente afflitto dell’ostinazione che il nemico del bene ha messo in voi. Io vi ho amato in Dio, e nel mio zelo per la santa causa della Chiesa, nella mia amicizia sincera per la vostra persona, prego il Signore che vi mandi lo spirito di pentimento, affinché, riconoscendo le vostre colpe, ne facciate abiurazione solenne, e ritorniate nel retto sentiero che conduce al cielo.”

“Padre mio,” rispose Manuel Argoso, con aria tranquilla, “Dio m’è testimonio che io non ho mai avuto un solo pensiero che fosse contrario alle leggi del santo Vangelo, e che io l’ho sempre seguito con amore e confidenza.”

“Ma voi confessate che avete avuto delle relazioni con un moresco,” soggiunse insidiosamente l’inquisitore.

“Don Estevan de Vargas non è un moresco,” rispose il governatore; “egli è buon cattolico quanto voi e me, monsignore.”

“Dio del cielo!” gridò l’inquisitore, “lo spirito maligno l’accieca, ed egli insulta la nostra santa religione.”

“Monsignore,” obiettò a voce bassa uno dei consiglieri, “egli confessa le sue relazioni con Estevan de Vargas.”

Pietro Arbues fece un movimento di testa, che voleva dire: Bene, mi servirò di questo. –“Fratello,” proseguì indirizzandosi all’accusato, “negherete voi pure di aver educato vostra figlia a sentimenti contrari al vero spirito della religione cattolica, e che essa siasi occupata di quello studio pernicioso che ci viene dal Nord e che si chiama filosofia?”

“Lo nego,” rispose il governatore.

“Potete provarlo?” domandò l’inquisitore.

Manuel Argoso si volse verso l’assemblea, che occupava la parte inferiore della sala, e vedendo alcuni nobili, i quali ai tempi della sua fortuna frequentavano abitualmente la sua casa, “Signori,” gridò, “quale di voi verrà a rendere testimonianza della verità, ed affermare che né Manuel Argoso né la sua figlia, la nobile Dolores, non hanno giammai avuto altre massime che quelle del vangelo? Voi tutti sapete questo, signori, perché la mia anima vi era aperta come la mia casa.”

Il governatore attese invano una risposta; tutti restarono muti, con gli occhi inclinati verso terra, ché temevano di lasciar intravedere la minima traccia di intenerimento o di pietà.

Manuel Argoso lasciò ricadere tutteddue le braccia con una espressione di scoraggiamento che sarebbe impossibile a dipingersi, poi, volgendosi vivamente verso l’inquisitore, e , come illuminato da subitanea inspirazione; “Monsignore,” esclamò, “ io mi appello a voi stesso; voi venivate tutti i giorni nella mia casa, e della vostra doppia qualità di amico e di ministro di Dio dovete, meglio di tutti, conoscere i miei veri sentimenti, e specialmente quelli di mia figlia.”

“Io non era il suo confessore,” rispose il Domenicano, con voce glaciale.

“Oh, monsignore!” disse Manuel Argoso, con accento da intenerire una rupe; “monsignore, Dolores pure è accusata d’eresia? Dolores è prigioniera come me?”

“Non è questione di vostra figlia in questo momento,” rispose l’inquisitore, che voleva a bella posta prolungare le incertezze di quel padre infelice, “l’accusa cade sopra di voi, Manuel Argoso; confessate il vostro delitto se volte meritare il perdono del cielo e quello della santa Chiesa.”

Il governatore non rispose; il suo occhio, avido e febbricitante, interrogava quello di Pietro Arbues; cercava d’indovinare su i suoi lineamenti la sorte che riserbava a sua figlia, ma invano, la fisionomia dell’inquisitore non mostrava altro che una spaventevole durezza di cuore, circondata da un’aureola, d’ipocrita dolcezza.

“Mia figlia! Che cosa avete fatto di mia figlia?” gridò il governatore, congiungendo le mani supplichevoli; “rispondetemi, monsignore, ve ne scongiuro; ditemi che nulla la minaccia, ed io potrò tutto soffrire.2

“Manuel Argoso,” disse l’inquisitore con voce lenta e dolce, “non è momento d’occuparvi d’affezioni terrestri; pensate a Dio ed alla vostra salute, e lasciate alla Provvidenza la cura di vegliare su coloro che vi sono cari.”

Malgrado la simulata dolcezza delle sue parole, il viso dell’inquisitore esprimeva una volontà inflessibile. Il padre di Dolores comprese che non vi era da sperar nulla da quell’anima di ferro: curvò la testa sul suo petto,e, rassegnandosi con un eroismo degno dei primi martiri, “Sia fatta la volonta di Dio!” pensò egli, e serbò il silenzio.

“fratello,” gli disse l’inquisitore, con la voce più dolce, “confessate almeno che siete stato tentato dallo spirito maligno. Noi deboli creature, non fuggiamo sempre alle sue insidie, malgrado le migliori intenzioni. Ebbene! Fratello, diteci che il suo potere fatale vi ha sottomesso; che siete stato più cieco che colpevole; e, mitigando per voi il rigore delle pene terrestri, procureremo allo stesso tempo di salvare la vostra anima dalla perdizione.”

Il governatore non rispose.

“Confessate almeno che avete preso piacere ad udire le massime filosofiche ed anticristiane di cui il luteranismo infesta l’Europa.”

“Io non so che cosa sia il luteranismo,” rispose il governatore, “non me ne sono mai occupato…bisogna, invero che Lutero sia un grand’uomo per mandare così sossopra il mondo.”

A quest’ardita risposta l’assemblea intiera fremé di terrore, poiché aveva veduto un lampo sinistro splendere sugli occhi del grande inquisitore. Molto meno di questo era necessario per far condannare un uomo dall’Inquisizione.

“Disgraziato! Egli bestemmia!…” gridò Pietro Arbues; “egli si tradisce!” soggiunse piano… gli altri due inquisitori si scambiarono uno sguardo d’intelligenza.

“E’ dunque vero,” proseguì Arbues, “che venite accusato con ragione di professare segretamente le massime del nemico di Dio, e d’essere l’ammiratore di Lutero?”

“Come posso ammirare un uomo che non conosco, e sguir le sue massime?” rispose il governatore; “ son esse dunque migliori delle mie? La sua religione è forse migliore di quella che mi è stata insegnata? E, d'altronde, chi mi accusa? Nominatemi il mio accusatore affinché possa confonderlo.”

“La carità cristiana non lo permette[29],” rispose il presidente. “Confessate, figlio mio, confessate, e pentitevi, è il solo mezzo di salute che vi rimane per l’altra vita.”

“Io non ho altro da dire,” rispose il governatore; “non ho che a pregare Iddio, il quale conosce la mia innocenza, di svelarla a tutti e di convincerne i liei giudici. –Qualunque sia il nemico che mi accusa,” continuò, “giuro in faccia a Dio, il quale mi vede e mi sente, che è un infame calunniatore; e dichiaro che mia figlia Dolores è un angiolo. Sia maledetto colui il quale osasse attentare alla purezza della sua vita! - Ora,” soggiunse, “sia fatta la volontà di Dio sopra di essa e sopra di me; ho confidenza in colui che protegge gli innocenti!”

Poi si ebbe un bell’opprimerlo di domande insidiose e molteplici: Manuel Argoso tenne un silenzio imperturbabile: fu impossibile di farlo parlare.

“Disgraziato! Egli lo vuole,” disse Pietro Arbues, con accento d’ipocrita commiserazione.

E volgendosi verso gli uomini mascherati, che si tenevano immobili come spettri alla destra del tribunale, stese la mano in avanti, disegnando col dito l’inquisito.

Un fremito glaciale corse nell’assemblea; bentosto vi regnò un terribile silenzio; nessun rumore si fece sentire nell’ambiente sonoro di quell’immensa sala: sarebbesi detto che tutti quegli esseri viventi fossero diventati di pietra.

Solamente i quattro uomini mascherati sembrarono staccarsi dal suolo come fantasmi, scorrere lentamente e senza rumore sull’intavolato; poi giunti presso l’accusato, lo afferrarono, lo alzarono quasi sotto le braccia, senza che facesse un sol moto, e disparvero con lui per un porta laterale.

 

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XXIII.

La camera del tormento.

 

 

Nel mezzo d’una vasta rotonda, in un profondo sotterraneo rischiarato da due pallide fiaccole, quattro uomini mascherati circondavano un’altr’uomo, mesto e debole, che si sosteneva a pena, ed a cui la vista infievolita rendeva penoso ed affaticante il lugubre chiarore di quel luogo funebre.

Un’aria umida e densa riempiva come nebbia infetta quelle regioni sotterranee da cui esalava un odore fetido e sepolcrale.

In quella specie di grotta, intorno alle muraglie ineguali e bagnate dall’acqua che scorreva attraverso la molle pietra, vedevasi appesi gli stromenti  di tortura: infernale ritrovato dell’ascetica e feroce immaginazione dei monaci, il cui solo aspetto faceva fremere.

Vedevansi colà cavalletti, calzari di ferro, chiodi di una dimensione enorme, corde di tutte le grossezze; poscia in un canto, allato di un cavalletto, un braciere ardente che rifletteva le sue fiamme rossiccie  e azzurrognole nella profondità di quell’angolo oscuro.

Era spaventevole a vedersi.

Si discendeva in quel luogo infernale per una quantità di piccoli scalini tortuosi, coperti di muffa e su cui si scivolava a ciascun passo sopra scorrevole poltiglia. Ma i servitori dell’Inquisizione avevano, come suol dirsi, il piede marino. Essi conoscevano i più piccoli anditi di quello spaventevole labirinto, in cui avevano condotto Manuel Argoso lasciando la sala del tribunale, ed in cui li ritroviamo adesso con l’infelice accusato, aspettando l’arrivo del grande inquisitore[30].

L’antico governatore di Siviglia erasi lasciato guidare o piuttosto portare, chiudendo gli occhi per non vedere la strada che gli si faceva percorrere; ma i carnefici essendosi fermati nel mezzo della camera del tormento (così si chiamava l’antro tenebroso), l’inquisito aprì gli occhi, volse attorno a sé uno sguardo inquieto, e quando non vide altro che la figura velata degli uomini sinistri che in quell’inferno terrestre compivano l’ufficio di demoni, e si chiamavano i tormentatori, quando ebbe contato uno dopo l’altro gli orribili strumenti di tortura che lo circondavano, la sua fantasia, indebolita dal digiuno e dalla reclusione, divenne preda di un’allucinazione bizzarra. Nella sua fede di religioso cristiano credette aver lasciato questo mondo, ed esser giunto in quel luogo orribile del quale parla il Vangelo, in cui sono lacrime e stridor di denti.

Deve far meraviglia che in tali momenti, e nel mezzo di una simile fantasmagoria, l’Inquisizione abbia ottenuto le abiurazioni e le confessioni più strane e più contrarie al carattere degli uomini di cui faceva le sue vittime?

Pietro Arbues arrivò finalmente, seguito da un secondo inquisitore e dal notaro apostolico. L’accusato era in piedi in mezzo alla camera del tormento. All’aspetto del suo giudice tornò al sentimento doloroso della realtà; alzando gli occhi verso il cielo, come per implorarlo, vide che al di sopra della sua testa, nella volta, erasi fissata una forte puleggia, nella quale passava una solida corda di canape, che cadeva fino ai suoi piedi. Involontariamente fremé.

I quattro uomini mascherati stavano in silenzio presso di lui.

Pietro Arbues e l’inquisitore che l’accompagnava, si assisero sopra delle seggiole per assistere a quella lugubre scena, conformemente al diciottesimo articolo del codice dell’Inquisizione, il quale voleva che uno o due inquisitori, assistiti dal notaro apostolico, fossero sempre presenti alla tortura per registrare le dichiarazioni dell’accusato.

Manuel Argoso, benché avesse il coraggio delle anime forti, non poté difendersi da un terrore profondo; pensava a sua figlia, la quale avrebbe forse dovuto subire le medesime prove, e tutto il suo coraggio l’abbandonò. Se avesse potuto risparmiargliele confessando delitti immaginarii, non avrebbe esitato un sol momento; ma sapeva bene che una simile confessione la perderebbe invece di salvarla. Richiamò dunque a sé tutta la sua energia, e si preparò a soffrire.

Ad un cenno del grande inquisitore i tormentatori spogliarono l’accusato de’ suoi abiti, e lo lasciarono nudo fino alla camicia.

Allora Pietro Arbues, avanzandosi verso di lui: “Figlio mio,” gli disse con dolcezza, “figlio mio, confessate i vostri delitti, e non contristate la nostra anima perseverando nell’errore e nell’eresia; risparmiateci il dolore di obbedire alle leggi giuste e severe della santissima Inquisizione, trattandovi con tutto il rigore che esse reclamano.”

Manuel Argoso non rispose, ma gettò sull’inquisitore uno sguardo fisso, freddo ed acuto, uno sguardo che sfidava la tortura.

“Confessate,” proseguì Pietro Arbues, con una incredibile persistenza, ma sempre con voce piena d’unzione e di mansuetudine. “Noi siamo i vostri padri in Dio; ed il solo desiderio di salvare la vostra anima ci guida. Orsù, figliuol mio, una confessione sincera può sola salvarvi nell’altra vita, e risparmiarvi in questa le giuste vendette di Dio; confessate adunque, confessate il vostro peccato.”

“Io non posso confessare un delitto che non esiste,” rispose il governatore.

“Figlio mio,” proseguì il giudice, “io mi rattristo della vostra impenitenza, e supplico il Signore di toccare la vostra anima, che senza la grazia sarebbe infallibilmente perduta; poiché il demone la tiene in suo potere, e v’inspira questa colpevole ostinazione nel male. Pregate adunque con me, se vi è possibile, perché Dio abbia pietà di voi, e vi mandi la luce dello Spirito Santo.”

Nello stesso tempo Pietro Arbues, inginocchiandosi a terra a lato del paziente, borbottò a voce bassa un’orazione non intelligibile, con aria devota ed intenerita. Poscia fece, uno dopo l’altro, molti segni di croce rapidi, si batté umilmente il petto, e restò alcuni minuti col viso appoggiato sulle mani giunte.

In quel momento il feroce inquisitor di Siviglia non era che un umile Domenicano che pregava e piangeva per i peccati degli altri.

Finalmente si alzò.

“Disgraziato schiavo del demonio,” disse allora, indirizzandosi all’accusato. “Dio si è degnato esaudire le mie umili preghiere, e schiudere i vostri occhi alla luce della nostra fede!”

“La mia fede è sempre la stessa,” rispose Argoso, “essa non ha variato mai un solo istante, come l’ho ricevuta da mio padre, che era un pio cristiano, così la porterò nella tomba.”

“Dio mìè testimone che non vi ho colpa,” disse il giudice, alzando gli occhi al cielo; “via,” proseguì, guardando i tormentatori, “applicategli la corda…”

A queste parole l’accusato chiuse gli occhi; un sordo bisbiglio risuonò nelle sue orecchie; un sudore freddo inondò le sue membra, e fremé fino nelle sue viscere.

I tormentatori tirarono a sé la fune che pendeva dalla vòlta.

“Voi continuerete la tortura finché giudicheremo convenevole di farla cessare,” continuò l’inquisitore, “ e se in questo tempo sopravvenisse all’accusato, sia un  lesione, sia la frattura di un membro, sia anco la morte, protesto davanti a tutti che la colpa dev’essere imputata a lui solo…”

“Ed ora sia fatta la volontà di Dio,” soggiunse stendendo la mano verso i carnefici.

Bentosto i quattro uomini mascherati si impadronirono dell’infelice governatore, e gli legarono le mani dietro il dorso con un capo della corda che pendeva al di sopra della sua testa, poscia, prendendo l’altro capo, alzarono col mezzo della puleggia, il paziente fino all’altezza della volta, e lo lasciarono ricadere ad un tratto fino alla distanza di mezzo piede dal terreno. Lo sventurato restò mezzo svenuto da quella terribile scossa.

I tormentatori attesero per qualche minuto che fosse ritornato in sé stesso; ed appena ebbe riaperto gli occhi ricominciarono quella crudele ascensione, e lo lasciarono ricadere con violenza come la prima volta. Questo supplizio durò un’ora[31]. L’infelice governatore non aveva proferito lamento, soltanto il suo petto, affannoso e soffocato, mandava un respiro roco e frequente, simile al rantolo dell’agonizzante. I suoi occhi, secchi e vitrei come quelli dei moribondi, sembravano doversi chiudere all’ultimo sonno. La corda che serrava i polsi della mano, era sì penetrata nelle carni, che il sangue del torturato essendosi sparso per tutto il corpo; la camicia, il solo abito che gli fosse lasciato, era sporca di un fango sanguinolento, poiché il suolo era terroso ed umido, e, finita la tortura, l’infelice governatore, sciolto dai suoi lacci, era caduto a terra come una massa inerte; le sue ossa slogate ed i suoi muscoli contusi non potevano più sostenerlo.

Era uno spettacolo lacerante ed orribile il vedere quell’uomo forte, grande e robusto, ancora nel vigore dell’età, annichilito da un’atroce tortura, e tormentato innanzi d’essere giudicato.

Che non dovevasi attendere da un giurisprudenza che imponeva agl’inquisiti simili prove!

Ma gl’inquisitori non avevano viscere; essi regnavano per la tortura. Si pascevano d’agonia.

“Che si riconduca quest’uomo nella sua prigine,” disse Pietro Arbues, con aria afflitta, “basta per oggi.” E volgendosi verso l’inquisitore consigliere: “Fratello,” disse, “non dimenticate questo sfortunato nelle vostre preghiere.”

Tale era la maniera d’agire degl’inquisitori in faccia alle loro vittime; essi coprivano l’abominevole durezza del loro cuore sotto le apparenze ipocrite d’una profonda pietà.

Due birri alzarono nelle loro braccia l’infelice governatore. Manuel Argoso non dava più segno di vita.

 

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XXIV.

Le carceri dell’Inquisizione.

 

Era mezza notte.

Tutti dormivano in Siviglia, eccettuati forse gl’infelici prigionieri rinchiusi nella carceri dell’Inquisizione.

Agli ingrassi di quell’oscuro edifizio, chiamato prigione della fede, nulla rischiarava l’oscurità della notte. Regnava un silenzio di morte; quelle tombe che racchiudevano dei vivi erano troppo profonde perché le grida delle vittime agonizzanti potessero giungere al di fuori.

Due persone si avanzavano a passo furtivo verso la prigione, un monaco e una donna.

La notte era sì oscura ed i loro abiti sì cupi, che neppure una spia avrebbe potuto distinguerli contro la muraglia annerita che seguivano appoggiandosi alle pareti per guidarsi nell’oscurità.

Giunsero bentosto alla porta della prigione; il monaco batté un colpo secco e sonoro, benché leggiero, con una chiave che teneva in mano; nel medesimo istante la porta girò lentamente sui suoi cardini come per magia.

Il monaco e la donna furono introdotti all’interno.

Nessuna luce rischiarava i loro passaggio, e poiché furono entrati, la porta si richiuse dolcemente senza scricchiolare su’ suoi cardini, diligentemente unti per l’avanti.

“Oh! Io tremo,” disse a voce bassa la compagna del frate.

“Rassicuratevi, Dolores,” rispose Josè, “rassicuratevi; con me non avrete nulla da temere.”

La fanciulla s’appoggiò sul braccio del Domenicano per sostenersi, poiché il suo cuore batteva con violenza. Il carceriere aveva in questo tempo accesoun lanterna cieca.

“Reverenza,” disse indirizzandosi al monaco, “ove debbo condurre Vostra Paternità?”

“Al carcere del governatore di Siviglia; va, e cammina avanti di noi.”

Il carceriere esitò un istante; egli sapeva con qual barbarie sarebbe trattato dall’Inquisizione se si scuopriva che aveva introdotto una donna nel carcere d’un prigioniero.

“Ebbene” disse Josè, “tu esiti?”

“Reverenza!…”

Il favorito del grande inquisitore fece un cenno imperativo, Il carceriere andò bentosto innanzi, senza ardire di parlare. Il monaco e la fanciulla lo seguirono.

Avanti di giungere al luogo sotterraneo ove il Santo Uffizio teneva le sue vittime, discesero per una scala a chiocciola di circa cinquanta scalini.

Un odore nauseante, insopportabile, esalava da quei luoghi infetti. Il fraticello e la sua compagna si sentirono soffocati e presso a svenire; la delicatezza dei loro organi rendeva loro quell’odore intollerabile[32]. Tuttavia Josè, più coraggioso, sostenne col suo braccio Dolores, pallida e quasi priva di sensi.

“Oh!” Gridò la fanciulla con angoscia, fermandosi sull’ultimo gradino della scala, “qui dunque abita mio padre!…”

“Coraggio!” disse a voce bassa il Domenicano, “coraggio, voi ne avete bisogno!”

In quel momento una porta pesante di ferro si aprì con fatica, lasciando sfuggire fuori uno sbuffo d’aria sì densa e sì fetida, che somigliava a fumo.

“E’ qui, Reverenza,” disse il carceriere, rimettendo al monaco la lanterna cieca che teneva nelle mani, “entrate, ma, in nome del cielo! Non fate rumore e non vi trattenete molto.”

“Allontanati,” disse imperiosamente Josè, prendendo la lanterna dalle mani del carceriere; “no debbo ascoltare obiezioni da te.”

Il carceriere obbedì e si ritirò in un angolo oscuro del corridoio sotterraneo.

Allora, al chiarore incerto e vacillante della lanterna, Josè cercò di guidare Dolores in quella profonda oscurità. Passarono la soglia di quella porta angusta, e dopo che i loro occhi si furono un poco abituati alla dubbia luce che li circondava, nel fondo del carcere, largo dieci piedi su dodici, sopra uno strato che ne occupava la metà, videro un uomo disteso come addormentato. Quest’uomo era l’antoco governatore di Siviglia.

Era solo; gli altri cinque prigionieri che d’ordinario abitavano quella spelonca, capace solamente di tre persone, erano morti l’uno dopo l’altro durante o appresso la tortura.

L’infelice Argoso, più forte e più coraggioso, aveva resistito alle terribili ascensioni da lui subite, alcune ore dopo essere stato riportato nella sua carcere era tornato alla vita ed al dolore. Nel momento in cui sua figlia entrò nella prigione, un leggiero sonno l’aveva sottratto al supplizio di abitare in quel luogo immondo. Alcuni vasi di terra, destinati a soddisfare i bisogni naturali, e che non si vuotavano che ogni settimana, esalavano attorno a lui un odore intollerabile. Quella orribile spelonca non riceveva luce che da una specie d’abbaino esistente nella parte superiore del muro a livello della strada, ed era sì umida, che la stuoja su cui dormiva il prigioniero, era intieramente muffata, e sen’andava in pezzi. Quando la prigione era piena, lo strato si trovava troppo piccolo, onde i detenuti meno deboli dormivano sulla terra fredda e fangosa:; tali erano i luoghi in cui l’Inquisizione racchiudeva le sue vittime[33].

Dolores si avvicinò dolcemente allo strato su cui dormiva suo padre, e, giungendo le mani con un’espressione di dolore ineffabile, lo considerò per alcuni istanti; tuttavia non poteva vedere il suo viso, voltato dalla parte del muro ed appoggiato sopra uno dei suoi bracci; sembrava sì tranquillo che non osò svegliarlo. Ma avvicinandosi a sua volta, Josè urtò in una mezzana di terra che incontrò nel suo passaggio. Al rumore che fece cadendo, il governatore alzò la testa; era sì pallido e sì cambiato, che sua figlia sola poteva riconoscerlo.

“Padre mio!” gridò Dolores con gemito doloroso. Gli si gettò, singhiozzando, sul seno, e tenendolo fra le braccia col sublime entusiasmo della tenerezza e del dolore, lo strinse contro il petto.

Ma lo sventurato padre non rispose a quella stretta; suo malgrado un lamento lacerante sfuggì dalle sue labbra: la figlia aveva, abbracciandolo, risvegliati i cocenti dolori delle sue membra slogate.

“Che cos’hai?” esclamò essa, provandosi di sollevarlo fra le sue deboli braccia.”

“Nulla, non ho nulla, mia diletta Dolores,” disse egli sforzandosi di sorridere: “oh! Io sono felice di rivederti!”

Josè indovinò tutto; aggrottò il sopracciglio, facendo un gesto energico d’indignazione, e mormorò a voce bassa:

“Oh! Se avessi saputo questo, mio Dio.”

Manuel Argoso faceva vani sforzi per rialzarsi; le sue braccia paralizzate dalla sofferenza, le sue ossa slogate, ed i suoi muscoli contusi, rimanevano inerti, e ricusavano d’obbedire agli sforzi della volontà.

Sua figlia, il solo essere che egli amava al mondo, la sua figlia che aveva creduto di non rivedere mai più, era là dinanzi  a lui, nella sua prigione, ove era discesa come per miracolo, e non poteva stringerla con amore contro il suo seno; non poteva che balbettare parole senza seguito, interrotto da singhiozzi e da lacrime.

Quella morte esteriore che lo colpiva vivo era un’indicibile tortura. I suoi occhi non potevano saziarsi di contemplare sua figlia, ei la esaminava minutamente con un amore appassionato, con la tenerezza santamente puerile di una madre, ma senza parlare; sospiri tumultuosi gonfiavano il suo petto, il suo grande occhio, oscuro, brillante e febbrile, nella sua orbita profonda si velava di lacrime, e le sue labbra tremavano, agitate da moti convulsi.

“Oh! Tu sei dunque libera!” esclamò finalmente con un’espressione di gioia sì vera e sì trista, che il cuore di Josè vibrò come un metallo sonoro; un fremito glaciale corse nelle sue ossa, e con un atto involontario cadde alle ginocchia del governatore.

“Chi è questo monaco?” domandò Manuel Argoso.

“Un angiolo, padre mio,” rispose Dolores; “un angiolo che ci ha riuniti.”

“Troppo tardi!” mormorò il governatore.

“Perché troppo tardi?” replicò la fanciulla; “tu soffri, ma noi ti slaveremo.”

Essa non comprendeva che di quell’uomo robusto l’Inquisizione aveva fatto un cadavere.

Josè non si contenva più. Lacrime amare gonfiavano il suo seno; la sua indignazione lo uccideva.

“Disgraziata figlia!” gridò egli con isfogo, “non vedete che hanno rotto le sue membra!”

“Tacete, tacete!” gridò vivamente il padre.

Non era più tempo; Dolores aveva tutto compreso. Colpita, abbattuta, si gettò in ginocchio davanti alla stuoia su cui era coricato il suo infelice padre; sollevò dolcemente le sue membra contuse, le cuoprì di baci e di lacrime; le sembrava che, a forza di tenerezza, avrebbe potuto rendere a suo padre la vita che gli era stata tolta.

Ma finalmente, vedendo che i suoi sforzi erano inutili, e che l’infelice governatore, sempre immobile, non viveva che per il dolore, si volse con collera verso il Domenicano:

“Voi lo sapevate,” ella disse, “e non me ne avete avvertita!”

“Se l’avessi saputo,” rispose Josè, “non vi avrei condotta qui; sono stato ingannato come voi, Dolores; è stata applicata la tortura immediatamente dopo l’interrogatorio, ciò che non si fa quasi mai; e voi sapete che ieri sono stato costretto ad assentarmi da Siviglia.”

“Oh mio Dio! Essi l’hanno ucciso,” mormorò dolorosamente la fanciulla. E coprendo le mani di suo padre di baci convulsi:

“Vedete, don Josè ei non può più fare alcun passo, e l’hanno abbandonato così in questa prigione infetta senza neppure medicare le sue ferite. Oh padre mio! Come avete potuto vivere in questa tomba?”

“Calmati, figlia mia,” disse dolcemente il governatore; i miei mali non sono irrimediabili; guarirò, rassicurati.”

“Sì, guarirete,” ella disse con risoluzione, “perché io resterò qui per curarvi. - Chi oserà strapparmi dappresso di lui?” gridò la fanciulla con nobile entusiasmo, gittando attorno di sé uno sguardo sublime”Io,” rispose Josè, “io, che voglio slavarvi tutti e due.”

“Voi me lo avete già detto,” ella disse, “e frattanto vedete in qual stato l’hanno ridotto. Voi tutti m’ingannate, io non ascolto che me stessa, voglio restar qui!”

“Dolores,” disse il fraticello, “credetemi, non cedete a questa inutile esaltazione, restate libera per salvar vostro padre. Non si riprenderà così presto l’istruzione del processo. Non sapete che Estevan e Giovanni d’Avila s’occupano dei mezzi di strapparlo all’Inquisizione?”

“Mi hanno dunque cercato dei testimoni!” domandò Manuel Argoso con voce debole.

A quella parola di testimoni la figlia del governatore si rammentò di un progetto che già l’aveva occupata.

“Don Josè,” disse rivolgendosi verso il giovane Domenicano, “mi assicurate voi che le ferite di mio padre possono guarire?”

Josè, che aveva alcune cognizioni in chirurgia, toccò, l’uno dopo l’altro le membra del prigioniero.

“Ve lo giuro,” rispose; “fra pochi giorni vostro padre potrà camminare: le sue articolazioni sono state rimesse.”

“Ebbene,” proseguì Dolores, dissimulando il suo pensiero pel timore che Josè le impedisse di metterlo in esecuzione, “aspetterò il ritorno di Giovanni d’Avila.”

“Don Manuel,” disse il fraticello, indirizzandosi al governatore, “non vi affrettate a mostrarvi guarito: ritardate, per quanto è possibile, un secondo interrogatorio, laciate ai vostri amici il tempo di giungere…Dio avrà pietà di noi,” continuò con una cupa esaltazione, “ed il giorno della vendetta non è lontano!”

“io posso sopportar tutto,” rispose il governatore, “la mia figlia è libera: e voi non ci tradirete!” soggiunse guardando Josè con sembiante indefinibile.

Manuel Argoso aveva paura di quell’uomo che portava la livrea dell’Inquisizione.

“Io gli debbo la libertà,” disse vivamente Dolores che comprendeva i timori di suo padre, “è egli che mia ha salvata dal disonore e dalla morte, sperate in lui…e voi, don josè,” disse ella con dolcezza, “perdonate le mie ingiustizie e le mie rivolte, oh! Io soffro tanto, mio Dio!”

“io pure ho sofferto,” rispose amaramente il giovane Domenicano; “ecco perché m’interesso per voi e vi perdono.”

In quell’istante alcuni passi risuonarono sulla stretta scala che conduceva alle prigioni.

Josè nascose con prestezza la lanterna cieca sotto il suo mantello, e guardando il governatore e sua figlia:

“Neppure un parola,” disse, “aspettate.”

Un amaro sentimento di dubbio attraversò il cuore di Manuel Argoso; malgrado la confidenza di sua figlia: temeva un tradimento: tuttavia non dimostrò nulla.

Il rumore continuò ancora per alcuni minuti. Coloro che discendevano la scala passarono davanti alla porta del carcere dove il governatore era rinchiuso, poscia si allontanarono d’alcuni passi; la porta d’un carcere vicino si aprì, si richiuse, fu risalita la scala, e non si udì più nulla, fuorché singhiozzi convulsivi che la grossezza dei muri non poteva intercettare.

I birri del Sant’Uffizio avevano terminata una spedizione notturna.

“ancora un vittima!” disse amaramente Josè.

“una donna!” soggiunse Dolores, fremendo; “lìho riconosciuta dalla voce.”

“va, va!” gridò il governatore, “l’aria di questa prigione è contagiosa; ritorna alla libertà, o mia Dolores, noi ci rivedremo, va!”

“Si, ci rivedremo, padre mio, perché io ritornerò;” disse la fanciulla, interrogando Josè con lo  sguardo.

“Qui no,” disse vivamente il governatore, “qui no, io te lo proibisco, fa tutto quello che potrai per liberarmi, ma, in nome del cielo! Non ritornar qui.”

“venite, venite,” disse Josè, “egli ha ragione; non si è mai sicuri nelle prigioni del Sant’Uffizio.”

“Non ancora, oh! Non ancora!” diceva Dolores, attaccandosi a suo padre, che non poteva più lasciare.

“E’ forza,” proseguì il fraticello, impiegando quasi la violenza per distaccarnela. “Addio don Manuel, sperate, voi avete degli amici, essi vi salveranno.”

In quel momento il carceriere aprì la porta del carcere e disse a Josè:

“Reverenza, conducete via questa fanciulla, ve ne supplico; essa non è sicura qui, ed io rischi la mia vita; ve ne scongiuro, conducetela via.”

“addio, padre mio; non bisogna far ricadere la nostra sventura sopra altri: addio, e fatevi animo,”soggiunse piano, abbracciandolo per l’ultima volta.

Dolores e Josè uscirono, la porta del carcere si rinchiuse sul prigioniero.

 

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XXV.

Una gran festa a Siviglia.

 

Era un giorno di gran gala a Siviglia.

I balconi facevano mostra dei loro splendidi arazzi di seta, o dei bei tappeti di granata. Erasi elargito verso il popolo; fino dallo spuntar del sole, del vino di Pajarete usciva a grandi fiotti dalla fontana della Spianata.

I gitani, i mendici ed i frati avevano fatto un’ampia raccolta; perché in Spagna i giorni di festa il buon popolo spagnuolo era, come suol dirsi, la provvidenza dei frati e dei gitani. Ciascuna di queste caste sapeva alla sua maniera governare la di lui credulità, o la di lui dabbenaggine: i frati col mezzo delle reliquie da baciarsi; gli altri predicendo la buona fortuna, e dando amuleti alle ragazze: tutte cose importanti che non rimanevano mai senza premio. L’immaginazione del popolo, quella folle e vivace maga, sì ardente in quei climi meridionali, non si è mai sottratta ai furbi, ed i furbi non vi sono mancati giammai. Perché non si sono trovati uomini gravi, animati dal santo amore dell’umanità, che abbiano saputo volgere a bene quella tendenza al meraviglioso, poetizzare, per così dire, la filosofia, rendere la ragione e la verità incantevoli a forza di vestirle con poesia bella e sublime, e finalmente ottenere nel bene quello che il fanatismo aveva ottenuto nel male, dominare, cioè le masse a fine di renderle felici, come regnava su di esse per la loro eterna sventura?

Questo giorno verrà senza dubbio: la lotta è cominciata, il genio dell’avvenire stende già le sue ali sulla Spagna. Possa egli, come lo spirito santo di Milton, fecondare quel vasto abisso per tanto tempo immensurabile, e da quel profondo caos di passioni e di pensieri diversi far risplendere l’eterna scintilla!

Ma torniamo a Siviglia.

Era, come abbiamo detto, un giorno di festa straordinaria. La bella città andalusiana aveva con giubilo deposto per un giorno le gramaglie che abitualmente la cuoprivano. Molti cuori sanguinavano, senza dubbio, profondi dolori o amari risentimenti vivevano nell’anima degli Andalusiani; ciò non ostante, quei giovani spensierati della più bella contrada dell’universo, quei figli del piacere, che sono più artisti e più poeti senza saperlo dei più grandi scrittori e dei cantori più celebri, erano tornati pazzamente alla loro canzone diletta, al loro voluttuoso ballo. L’Inquisizione era dimenticata, dimenticati i morti, dimenticati i birri, dimenticato il terrore; i sivigliani, ritornati musici, poeti ed amanti, cantavano e danzavano con delirio; non vivevano più che del momento presente, e, cosa strana, quella festa, oggetto di sì vivo entusiasmo, era una festa in onore dell’Inquisizione.

La nobile città di Siviglia celebrava l’arrivo nelle sue mura del duca Medina‑Cœli, gran porta stendardo della fede[34], venuto a tenere il suo posto in un atto-di-fede reale che doveva aver luogo per celebrare uno di quegli innumerevoli piccoli trionfi di Carlo V, il quale ne aveva avuti sì grandi contro il protestantismo d’Alemagna: trionfi il più spesso seguiti da sconfitte, miscuglio di bene e di male, di alleanze e di defezioni che dopo la lega si Smalkald[35], tennero tanto tempo l’Europa in sospensione, e fecero dubitare chi sarebbe il vincitore, se Roma o Lutero; trionfi i quali servirono tante volte di pretesto alla chiesa Romana, per moltiplicare i roghi.

La notte era venuta bella e stellata, come al solito. L’aria serena e profumata, l’eccitazione della danza e del vino della fontana avevano portato un aumento di esaltazione fra il popolo di Siviglia. Mai la Jacara non era stata ballata sì di buon animo, né la canzone cantata con più voluttuoso abbandono. E’ vero che il duca di Medina‑Cœli, che pagava la festa con i suoi denari erasi mostrato grande e generoso signore: aveva largamente fornito di che bere ai gentiluomini, ai Moreschi ed agli accattoni della città.

Ma mentre il popolo gioiva nelle strade, bisognava bene che i signori ed i grandi di Spagna, avessero la loro parte in quella festa nazionale.

I gentiluomini di Siviglia ben pensanti (vale a dire i servitori dell’Inquisizione), divertivansi adunque dal loro lato nelle splendide sale del conte e duca di Mondejar, genero e nipote del potente ed eccellentissimo duca di Medina‑Cœli.

Dopo un sontuoso banchetto, che aveva avuto luogo presso il conte di Mondejar, i convitati, riuniti in una delle magnifiche sale del palazzo, discorrevano assisi su larghi divani di seta, che rammentavano il lusso orientale dei re di Siviglia, fumando deliziosi cigarri, lusso che in quell’epoca non era ancora permesso che ai re ed ai grandi signori[36].

Numerose lumiere di cristallo di rocca, sospese alla soffitta, gettavano nella sala una splendida luce che scorreva in ondulazioni erranti sugli abiti di seta di quei nobili signori.

Niuna donna era stata ammessa in quel divertimento serale, che sarebbesi potuto designare col nome di circolo cattolico inquisitoriale, e del quale il conte di Mondejar era il presidente, salvo tuttavia i rari momenti in cui il suo illustrissimo suocero degnatasi di onorare di sua presenza quella santa riunione.

“Sapete, don Rodrigo, che un nuovo trionfo è stato riportato dal cattolicismo sui protestanti d’Alemagna dovuto alla politica ammirabile del nostro amorevolissimo sovrano Carlo V?”

Queste parole, pronunziate con tutta l’enfasi casigliana da un giovane signore, favorito del duca di Mondejar, che già si veniva additando come suo genero, s’indirizzavano ad un vecchio i cui abiti indecenti e senza grazia contrastavano in un modo singolare con l’eleganza ricercata, benché severa, dei signori che componevano l’assemblea.

Tuttavolta, malgrado la miserabile e sordida apparenza dei suoi abiti, quell’uomo aveva una grande nobiltà di maniera, e quel disordine esteriore sembrava essere piuttosto l’effetto della negligenza, o di un cinismo superbo, che quello della miseria.

La sua fisionomia, rozza ed altiera, svelava il genio, mentre le linee orizzontali che si vedevano sulla vasta fronte, unite ad un aggrottare si sopraccigli particolare, tradivano delle abitudini meditative, innestate sopra passioni tumultuose ed anco disordinate.

Quel volto doveva aver subito la stessa trasformazione di quello di Socrate: l’anima, modificandosi, l’aveva assoggettato a quella metamorfosi, e se lo sguardo ardente ed alquanto obliquo di quell’uomo attestava che era in preda ad un entusiasmo abituale, i contorni decisi de’ suoi lineamenti, la fina ironia de’ suoi labbri e la severità della sua fronte annunziavano che il suo pensiero, lucido e profondo, non aveva nulla di quella instabilità che caratterizza gli insensati, ma che, al contrario, era in lui un diritto e completo sviluppo nelle facoltà intellettuali.

Si volse lentamente verso il giovane che gli aveva indirizzata la parola e lo guardò senza rispondere.

“Ecco, avremo un mese di feste e di divertimenti pubblici,” continuò il giovine signore, “senza contare l’atto-di-fede reale, che sarà certamente di grande effetto, stando alle promesse del programma.”

“State tranquillo, che non vi mancherà niente,” riprese il vecchio, con accento che il suo interlocutore prese per una approvazione, ma che era pieno d’amarezza e d’ironia.

“Niente, infatti,” proseguì il giovane che si chiamava don Carlos; “poiché si assicura che il grande inquisitore ha serbato per questa solennità don Manuel Argoso, l’antico governatore di Siviglia.”

“Un vero cristiano,” disse gravemente il vecchio.

“Hum!” disse don Carlos; “era l’amico intimo di don Estevan de Vargas, e don Estevan de Vargas si è sempre dato aria di filosofia. Egli sa di eretico un miglio lontano; convenitene, don Rodrigo de Valero.”

“Don Estevan ha cuor nobile,” rispose don Rodrigo, “ma ha qualche nemico…non ha voluto giammai servire nella milizia di Cristo. –E voi, don Carlos,” continuò egli con tuono leggermente sarcastico, “siete finalmente giunto a farvi dare il Santo?”

“Non ancora,” rispose tristemente il futuro genero del duca di Mondejar; “ma spero farne stasera un motto a sua eccellenza monsignore il grande porta-stendardo.”

“L’occasione è bella veramente; io vi consiglio di non lasciarla suggire.”

“Come, don Carlos, volete voi divenir famigliare?”

gridò un giovane signore aragonese, venuto per la prima volta in quella illustrissima assemblea.

“Senza dubbio, don Ximenes; oserei, senza di ciò, pretendere la mano di donna Isabella, la figlia del duca di Mondejar?”

“Trista parte per un cavaliere castigliano,” disse l’aragonese, scuotendo la testa.

“Al contrario, bella parte,” disse Valero, con voce stridula, “bella parte, don Ximenes! Essere famigliare dell’Inquisizione?…è lo stesso che essere a cavallo sulla via della fortuna. Portare sotto il suo abito le insegne di quell’Ordine è lo stesso che avere il suo passaporto per i posti più importanti del regno; con quelle si arriva a tutto! Quali case in Ispagna, ditemi, riuniscono più cariche, ricchezze ed onori di quelle di Medina‑Cœli e di Mondejar? Credete voi che se don Manuel Argoso e don Estevan de Vargas fossero appartenuti al Sant’Uffizio, sarebbero oggi, uno sul punto d’esser bruciato vivo, l’altro errante per monti e per valli; e che se il confessore della bella Dolores si fosse chiamato don Pietro Arbues, ovvero don Josè, questa graziosa eretica sarebbe ora povera e vagabonda come una gitana, non avendo neppure una pietra per capezzale?”

“Silenzio!” disse don Ximens, “voi vi perdete, signor Valero.”

“State tranquillo; mi prendono per un insensato.”

Infatti gli altri signori che componevano quella riunione, occupati di gravissimi nonnulli relativi agli affari della religione, non prestavano veruna attenzione ai discorsi di Rodrigo de Valero, del quale non s’inquietavano menomamente, perocché non comprendevano la sua profonda sapienza.

“Credetemi, signore,” proseguì il vecchio, “oggi in Ispagna non vi è che una specie d’onore: appartenere al padrone, e voi sapete che il padrone è l’Inquisizione…- Per l’addietro,” continuò, animandosi a grado a grado, “per meritare il nome di prode cavaliere bisognava sapere rompere una lancia e domare un cavallo focoso. Era reputato leale e buon servitore del re colui che aveva combattuti i Mori sui campi di battaglia. Allora vi era della gloria!…oggidì, signori, non vi sono più Mori da combattere, non vi sono che Mori da denunziare! Non vi è più una nobile e bella regina che vi ricompensi di un sorriso al ritorno dal combattimento, e vi porga la sua candida mano da baciare; vi sono dei monaci che vi benedicono con lurida mano quando avete perduto un fedele servitore del re…; una volta, dopo un giorno di battaglia, gli squadroni si formavano in cerchio, ed un araldo d’armi proclamava per tre volte il nome di coloro che avevano ben combattuto, e per sei volte il nome di coloro che erano morti con l’armi alla mani. Oggidì il nome dei servitori del Sant’Uffizio non è pronunziato da veruno; essi non hanno neppure il diritto di mostrare la loro infamia.”

“Don Rodrigo?” gridò il giovane aragonese, spaventato dalle parole che aveva ascoltate; “sull’anima mia! Io non darei un soldo per la vostra testa.”

“Don Rodrigo de Valero ha un’audacia ed una fortuna inconcepibile,” aggiunse don Carlos; “gli si lascia dire quello che vuole.”

“E’ singolare, non è vero, don Carlos?” replicò il vecchio con maggior amarezza, “poiché se io non mi chiamassi don Rodrigo de Valero, riferendo solamente a Pietro Arbues il quarto di quello che avete udito, sareste sicuro di ottenere la mano di donna Isabella, e sareste iscritto, senz’altra informazione, fra quell’orde di demoni che si chiamano soldati di Cristo[37]. Disgraziatamente io non valgo neppure la pena di una denunzia, e voi perdereste in ciò il vostro tempo.”

Terminando queste parole il veglio lasciò l’assemblea.

Don Carlos arrossì fino alla fronte, e rimase con gli occhi bassi. In quel momento il grande inquisitore entrò nella sala, accompagnato dal duca di Medina‑Cœli.

Il duca era un vecchietto rachitico, malaticcio e di carnagione giallastra. Il suo occhio alquanto rosso, tradiva dei costumi ascetici, aveva il passo ineguale, la voce rauca e troppo forte per sì meschino personale; ciò che produceva un effetto sbizzarrissimo; quando parlava, si credeva ascoltare la voce d’un ventriloquio, tanto quest’organo, smisuratamente sviluppato, era in disarmonia con l’esteriore del duca.

Il grande signore ed il prete salutarono l’assemblea; poi il duca, indirizzandosi a don Carlos:

“Giovine,” disse, “mio genero mi ha parlato di un desiderio da voi espresso; io ne ho detto parola a Sua Eminenza, che, spero, mom vi ricuserà questa grazia.”

“Signor don Carlos,” soggiunse Pietro Arbues. “godo nel vedere il vostro zelo per il servizio di Dio.”

“Orsù dunque, non siate timido,” riprese il duca, “Sua Eminenza conosce il vostro merito; sa quanto il vostro sangue è puro[38].”

Don Carlos non rispose. Questo giovane signore, che due giorni innanzi avrebbe dato tutto per divenire famigliare del Sant’Uffizio, titolo che il duca di Mondejar esigeva da lui per accordargli la mano di sua figlia, vergognava in quel momento di averne fatto domanda.

Il dica di Medina‑Cœli non intendeva la sua esitazione, ed ingannandosi sui veri sentimenti del giovane, si voltò verso il grande inquisitore.

“Monsignore,” disse, “questo giovine cavaliere sarà un caldo difensore della nostra santissima religione.”

Pietro Arbues porse a baciare la mano a don Carlos, e gli disse in tuono dolce:

“Domani, dopo la gran messa, trovatevi alla cattedrale per ricevere il santo di mia propria mano.”

Don Carlo s’inchinò senza rispondere.

In quell’istante un usciere, sollevando un portiera di velluto cremisi, che cuopriva l’ingresso della sala, annunziò ad alta voce:

“Donna Dolores Argoso y Cevallos.”

L’inquisitore trasalì, e vedendo un gabinetto aperto contiguo alla stanza in cui si trovava, vi trascinò il duca di Medina‑Cœli.

In quel momento Dolore entrava nella sala.

All’aspetto di tanata gente la fanciulla si arrestò confusa, cercando con lo sguardo il padrone della casa.

Il duca di Mondejar erasi pertanto alzato al di lei nome; ma vedendo l’inquisitore disparire col duca di Medina‑Cœli, temé sì fortemente di offendere Pietro Arbues, che appena si sentì la forza di fare un passo verso la figlia del suo vecchio amico; restò fermo ed in piedi al suo posto, balbettando per abitudine alcune formole di convenienza.

Dolores si avanzò verso di lui con aria nobile e toccante.

Un mormorio d’ammirazione circolò nell’assemblea, malgrado il terrore che avevasi di un’eretica, tant’era grande il prestigio di quella bellezza sovrumana, unita alla dignità dell’anima.

“Monsignore,” disse Dolores, vedendo il duca di Mondejar impallidire e tremare al suo avvicinarsi, “la presenza di una fuggitiva è dunque sì fatale presso di voi, che essa debba cangiare in tristezza la gioia che anima questa nobile assemblea?”

Il duca le indicò una seggiola senza rispondere, uno di quegli sgabelli scolpiti, sì ricchi e sì duri, mobili già antichi che appartenevano al medio evo, conservati nelle famiglie come una tradizione.

Dopo che si fu assisa, la figlia del governatore rimase alcuni istanti senza parlare. Il duca serbava egualmente il silenzio, un silenzio forzato e pieno d’imbarazzo.

Malgrado il suo coraggio, Dolores si sentì presa da quella timidezza propria delle fanciulle, che, se non è incoraggiata, degenera in una vera sofferenza. La sua fronte si cuoprì di un ardente rossore, essa sentì il suo cuore battere a colpi precipitati nel suo petto, e le sue tremule labbra ricusarono di articolare una sola parola.

I testimoni di quella scena attendevano con una ansietà crescente.

Vedendo Dolores in quello stato il conte di Mondejar provò una estrema compassione per quella giovane e bella creatura, poco prima sì brillante, ora s’ povera, sì abbandonata, e che si presentava a lui sotto l’umile livrea di una fanciulla popolana. Ma il grande inquisitore e duca di Medina‑Cœli potevano, dal gabinetto in cui erano entrati, vedere ed udire ciò che accadeva. La fortuna, la vita d’un signore spagnuolo dipendevano intieramente dall’Inquisizione, ed il duca di Mondejar aveva quel terrore profondo che, bisognava ben dirlo, snervava il carattere nazionale, naturalmente sì nobile, sì cavalleresco, sì affezionato!

Dolores esaminò per alcuni istanti la fisionomia del duca, e non s’ingannò, a quella freddezza glaciale, a quella maschera di bronzo che ricusava di tradire le emozioni dell’anima.

-Mio padre è perduto!- pensò essa…

Tuttavia, risolta a sfidar tutto, ritrovò con grande sforzo di volontà la sua solita energia, e alzandosi dalla sua seggiola con una nobiltà ed una modestia pena di seduzioni:

“Monsignore,” disse, indirizzandosi al duca di Mondejar, “io vedo quanto la mia presenza vi è penosa, e non vi do torto, poiché so bene quanto vi apporta di pericolo. La sventura è tanto contagiosa!…ma non sarà detto che io abbia ricusato il compimento di un dovere. Mio padre geme nelle carceri dell’Inquisizione, mio padre, calunniato senza dubbio,” aggiunse ella arrossendo, poiché non voleva svelare il vero motivo della sua disgrazia, “mio padre sarà condannato come colpevole se i suoi amici non verranno in suo aiuto. – Voi l’avete amato, monsignore,” proseguì essa, “e meglio di ogni altro conoscete la purezza della sua fede: siate suo testimone in questa disgraziata causa, ché la testimonianza di uno dei più puri cristiani di Siviglia confonderà la calunnia e l’impostura: rendete un padre a sua figlia…oh monsignore! Rendetemi mio padre ed io vi benedirò!”

“quando io volessi, un testimone non basta,” rispose il duca di Mondejar, imbarazzatissimo dell’effetto di questa risposta.

Allora Dolores, volgendosi verso l’assemblea con un atto pieno di dolcezza e di grazia:

“Signori,” disse con voce supplichevole e piena di lacrime, “signori, voi tutti avete conosciuto mio padre!”

Un silenzio di morte rispose solo a quel richiamo.

Dolores giunse le mani, e alzò verso il cielo uno sguardo disperato.

In quel momento Rodrigo de Valero entrava nella sala; egli aveva udito ciò che era accaduto.

Con aria fiera e grave si avanzò verso la fanciulla e, salutandola con cortesia:

“Signora,” disse, “io sarò il testimone di vostro padre.”

“Oh! Grazie,” rispose ella, giungendo le mani.

In quel momento un riso glaciale, stridulo, metallico, un riso che somigliava ad una campana d’agonia, uscì dal gabinetto in cui l’inquisitore si era rifuggito; poi, alzando la portiera si lasciò vedere all’assemblea pallida e muta di spavento.

“Rodrigo de Valero,” disse Pietro Arbues, continuando nel suo spaventevole riso, “Rodrigo de Valero non si riceve testimonianza dai pazzi.”

All’aspetto dell’inquisitore, Dolores mandò un grand’urlo e svenne.

Il duca di Mondejar, pallido ed atterrito, non sapeva più qual contegno tenere.

Pietro Arbues lo guardò in una maniera particolare. Il duca sembrò rassicurarsi; egli suonò, due servi accorsero.

“Si trasporti questa fanciulla in casa sua nella mia lettiga,” disse ad alta voce.

I servi obbedirono; trasportarono fra le loro braccia la figlia del governatore, tuttora priva di sensi.

Il duca usciva da un’altra porta. A capo di alcuni minuti rientrò. Il suo viso raggiava.

“Duca di Mondejar,” gli disse l’inquisitore a mezza voce, “quando Iddio chiamerà a sé il duca di Medina‑Cœli voi gli succederete nella carica di gran porta stendardo.”

“Monsignore,” disse Valero, che si era avvicinato, “Dio mi liberi d’andare in paradiso se Vostra Eminenza vi conserva la sua dignità di grande inquisitore.”

 

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XXVI.

La camera di misericordia.

 

La prigione del Sant’Uffizio di Siviglia era situata nella via che chiamasi oggidì Via della Costituzione, e che chiamatasi allora Via dell’Inquisizione.

In tutte le grandi città di Spagna eravi una strada che portava questo nome, ed un edifizio chiamato Palazzo dell’Inquisizione.

In Siviglia il palazzo dell’Inquisizione era un gran monumento quadro, fiancheggiato da quattro torrette, costrutto in mattoni rossi, e incrostato di pietra. Sulla facciata esteriore vedevasi una moltitudine di finestre regolari. Queste finestre non avevano imposte esterne, ma ciascuna di esse era coperta fino alla sua sommità, ed anco un poco più in alto, da un muro che s’innalzava ad angolo retto, appresso a poco come ripari di tavole che si mettono ne’ manicomii, di maniera che dalle abitazioni vicine l’occhio non poteva in alcun modo penetrare nell’interno del palazzo, e quelli che lo abitavano non potevano vedere all’esterno altro che un frammento del cielo della dimensione angusta dell’apertura, che lasciava loro arrivare dall’alto una rara e debole luce.

Nel palazzo dell’Inquisizione si trovavano ad un tempo il tribunale, la cancelleria, le camere del tormento, le camere di misericordia, le camere di penitenza e le carceri; prigioni diverse nelle quali si classavano gl’inquisiti secondo quello che si sperava da essi, e secondo la sorte che veniva loro serbata.

Un accusato ricchissimo andava ad abitare la camera di misericordia: l’Inquisizione lo convertiva al punto che, in una completa rinunzia ai beni di questo mondo, faceva al Sant’Uffizio un dono volontario della sua fortuna, ed usciva, dopo alcuni mesi di reclusione, povero come Giobbe, ma ricco dei doni della grazia, ed avviato al sentiero che conduce al cielo.

Altre volte confidatasi nella camera di penitenza, che descriveremo più tardi, la cura di una conversione difficile. Finalmente, per ultimo espediente, si ricorreva alle carceri, alla tortura ed alla morte.

Le camere di penitenza erano costruite sotto i tetti, nelle torricelle; quelle dette di misericordia occupavano con la sala del tribunale tutto il primo piano; al piano terreno erano la cancelleria e le abitazioni degli impiegati subalterni del tribunale.

Le carceri e le camere del tormento trovavansi, come sa il lettore, sotto terra.

Erano due ore circa del mattino. Le illuminazioni della festa che aveva avuto luogo nella giornata, eransi spente lentamente ad una ad una. Alle danze ed ai canti di gioia era successo un profondo silenzio. Le strade erano intieramente deserte, e alcuni lumi rari, che brillavano ancora da un punto all’altro nell’interno delle case, attestavano soltanto che la città, sveglia per più lungo tempo del solito, non era ancora intieramente addormentata.

Una lettiga chiusa uscì dal palazzo del duca di Modejar, passò lungo la via dell’Inquisizione, che era poco lungi, e non si fermò che davanti al palazzo.

Uno dei servi che accompagnavano la lettiga alzò il pesante martello della porte. Il carceriere aprì. Bentosto il servo gli disse alcune parole a voce bassa. Questi due uomini si avvicinarono insieme alla lettiga, e portando nelle loro braccia una fanciulla svenuta, la trasferirono al primo piano in una delle camere di misericordia. Ivi la deposero sopra un letto, ed il servo si ritirò.

Il custode allora chiuse accuratamente la porta della camera e discese.

“Teresa,” disse a sua moglie, “sali a vedere ciò che accade a quella signora, che sembra più morta che viva.”

Teresa obbedì; salì nella camera in cui era stata deposta la fanciulla, la quale non dava ancora alcun segno di vita.

La moglie del carceriere, creatura limitata e quasi idiota, si assise presso di lei in silenzio, aspettando che piacesse a Dio di richiamarla alla vita.

Tuttavia quello spasimo che durava da quasi tre ore sembrò finalmente giungere al suo termine. La prigioniera fece un movimento, stese le braccia come uno che esce da un profondo sonno, aprì lentamente gli occhi, e sollevandosi sopra un gomito, percorse la camera con occhio stupefatto, ma senza poterne riconoscere i mobili né la disposizione.

Il letto sul quale era coricata aveva un gran cielo quadrato, guarnito di cortine di tela di cotone bianca. Un crocifisso d’avorio si staccava dal muro sopra una croce d’ebano; alcune seggiole comode, ma semplici, un baule scolpito, una tavola dai piedi torti, ed una stuoia di giunco componevano la mobilia. Alcuni libri erano posti sopra uno scaffale d’ebano, al di sopra di un’inginocchiatoio del medesimo legno, e dei fiori, colti dal giorno innanzi, riempivano un gran vaso di terra porosa e rosea, chiamato alcarraza de Valencia, posto nel mezzo della tavola. Inoltre potevasi rimarcare qua e là alcuni piccoli mobili ad uso delle donne di quei tempi; piccoli nonnulla incantevoli e comodi che in tutte le epoche sono come i balocchi dei fanciulli, e che esse preferiscono spesso alle cose più utili.

Questi dettagli sfuggirono alla fanciulla; essa non fu colpita che dall’insieme e dall’aspetto di quella camera, strani per essa, poiché il suo pensiero non era ancora ritornato chiaro e distinto.

“Giovanna?” disse essa, con voce mesta e dolce.

“Io non mi chiamo Giovanna,” rispose l’idiota, che era assisa al suo capezzale, “mi chiamo Teresa.”

La fanciulla guardò allora quella donna, e, non riconoscendo il suo volto mandò un grido di terrore.

“Dove sono io dunque?” gridò essa ad un tratto, con voce piena d’angoscia.

“In prigione,” rispose la stupida creatura.

“In prigione! In prigione, dite? Ma che ho fatto per trovarmi in prigione?”

“Io non lo so; ciò non mi riguarda.”

“Oh! Oh! Mio Dio!” disse la fanciulla, passando le mani sulla fronte come uno che cerca di rammentarsi una cosa ; “che è dunque accaduto oggi e perché son qui adesso? Ah! Sì, sì, ora mi ricordo; sono uscita questa sera dalla casa di Giovanna; nelle strade si ballava…tutti erano contenti!…io era oppressa dal dispiacere…io aveva veduto mio padre morente, e non poteva far nulla per lui; nulla! Nulla!” ripeté con amarezza la disperata… “pertanto ho voluto provare, mi son presentata a’ suoi amici…a quelli che chiamava suoi amici! Io gli ho sorpresi nell’ebbrezza di una festa…io sono tutta ad un tratto comparsa nel mezzo di essi col mio lutto e la mia tristezza…ho pregato, ho pianto, domandando in ginocchio che mi fosse reso mio padre; essi non mi hanno ascoltata. E là nascosto come un traditore, il grande inquisitore spiava le mie parole! Poscia mi hanno consegnata al carnefice, come si farebbe di un assassino, e nella casa di quel nobile duca non ho avuta neppure la salva guardia della ospitalità. Sì!Sì!, è questo,” proseguì richiamandosi a poco a poco alla memoria ciascuno degli incidenti della sera, “il duca di Mondejar ha generosamente pagato con la mia vita un sorriso di Pietro Arbues. Che ora è?” domandò ad un tratto, indirizzandosi alla moglie del portiere.

“Non lo so, signora; ma è già molto che è notte, io dormiva quando voi siete giunta, poiché era molto stanca; oggi è festa, e ci sono venuti tanti prigionieri!”

“Festa davvero?” disse la giovane con ironia, “festa memorabile!, gloriosamente terminata con un infame tradimento. Dolores Argoso era una vittima degna d’essere sacrificata al dio che presiedeva quella solennità!…”

Dolore snon s’ingannava: la più vile perfidia l’aveva infatti abbandonata in potere dell’Inquisizione. Si rammenta il lettore dell’ordine dato dal duca di Mondejar ai suoi servi di ricondurla a casa propria. Quell’ordine dato ad alta voce non era destinato che ad ingannar l’assemblea. Nei pochi momenti in cui aveva lasciato la sala, il nobile duca, avendo perfettamente compreso ad un semplice cenno la volontà dell’Inquisitore, aveva dato nuove istruzioni ai suoi servi, famigliari di bassa condizione; e la figlia del governatore fu immediatamente trasportata al palazzo dell’Inquisizione.

Invece di difenderla da vero cavaliere, il duca l’aveva consegnata al Sant’Uffizio, e tuttavia il duca di Mondejar non era né un vile soldato, né un malvagio signore, né un amico sleale; era semplicemente un uomo che aveva paura del quemadéro. Ma chi potrebbe esprimere l’orrore profondo della fidanzata d’Estevan, di quella nobile eleale fanciulla, che sarebbesi abbandonata al martirio piuttosto che tradire un amico; chi potrebbe dipingere quel dolore amaro, profondo, lacerante in presenza di un sì odioso tradimento?

Il suo primo movimento fu una generosa collera, uno sdegno altiero; nella nobiltà e dignità dell’anima sua, essa resisteva contro ogni ingiustizia ed ogni slealtà; ma a poco a poco, passata questa esaltazione d’un giusto orgoglio, la sensibilità, facoltà tanto più dolorosa presso le donne fiere e passionate quando è congiunta in loro alla debolezza fisica, che più di sovente le condanna all’inerzia; la sensibilità, riprendendo disopra, la rese intieramente al sentimento dei suoi mali, ed essa riguardò quella sua nuova posizione con uno spavento mortale.

La carceriera, mezzo addormentata, chiudeva gli stupidi suoi occhi senza inquietarsi della prigioniera, come se non fosse esistita. Quell’essere privo di intelligenza non aveva la minima percezione dei dolori morali.

Dolores rimase alcuni istanti annichilita sotto il peso di un’orribile certezza: essa non era più libera! Taciturna, con la testa inchinata sul petto, si inabissò in quel pensiero desolante, quindi per un subitaneo ritorno d’insensata disperazione, mandò grandi urli laceranti, e singhiozzi convulsivi.

La guardiana, svegliata ad un tratto, si alzò allora spaventata da quello sfrenato dolore.

“Signore,” disse “non gridate tanto forte; voi non siete tanto sventurata, poiché siete stata messa nella camera più bella del palazzo dell’Inquisizione.”

A questo nome temuto, la figlia del governatore trasalì convulsamente sul suo letto, ed i suoi singhiozzi si calmarono. Il suo terrore era divenuto sì grande, che non osò neppure gemere né lamentarsi. La memoria di suo padre, che aveva veduto la sera innanzi, di suo padre, che era stato colpito, ucciso, senza farlo morire, sorgeva davanti a lei in tutto il suo orrore. Forse le si serbava la stessa tortura, e la morte sarebbe il termine delle loro sofferenze.

Nel mezzo delle sue crudeli apprensioni, una sola idea fu per essa dolce e confortevole: essa moriva martire della sua affezione figliale. La religiosa e magnanima rassegnazione di quell’anima veramente cristiana vinse allora i terrori mortali. Sciolta dalle preoccupazioni terrestri, si alzò più in alto fino a quella speranza sublime, eredità dell’Uomo-Dio, eterno consolatore di quelli che soffrono. Essa avea detto come Cristo, bevendo il suo calice amaro: “Padre mio, sia fatta la vostra volontà!” e la morte non la spaventò più; era per riceverla come pegno dell’eterna vita.

Il suo bel viso, poco prima sì pallido, s’illuminò subitaneamente d’un raggio celeste. Dai suoi grandi occhi, sì ardenti e sì dolci, sembrava uscire una fiamma divina, e le sue mani, bianche e trasparenti, riunite su suo seno, le davano l’aspetto di una di quelle vergini eroine, le quali in Roma morivano per la fede di Gesù Cristo.

“Signora,” disse ad un tratto la carceriera, “poiché non siete morta, non avete bisogno di me: vado a dormire.”

Essa uscì.

Dolores non l’avea udita; il suo spirito vagava in regioni superiori, e le tremule sue labbra mormoravano, a bassa voce, una preghiera a Colui che venne sulla terra per pregare, per soffrire e per morire.

 

 

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XXVII.

Il Santo.

 

Le campane dell’antica cattedrale di Siviglia suonavano a distesa, interrotte da un rumore monotono, per annunziare alla popolazione che la gran messa incominciava. Questa messa, alla quale doveva officiare Monsignore arcivescovo di Siviglia, era uno dei numerosi episodii della gran festa data all’occasione dell’atto-di-fede reale di cui la vigilia, nella serenata del conte di Mondejar, il giovane don Carlos de Herrera ragionava con tanta compiacenza.

Era brillante solennità religiosa, perché, dopo il vangelo, monsignore Pietro Arbues doveva con la sua mano inquisitoriale dare il Santo ad un gran numero di persone, che, senza distinzione di grado inginocchiate dinanzi a lui, dovevano essere arruolate nella santa milizia di Cristo[39].

Sublime eguaglianza davvero! Villani e nobili stavano per essere segnati col medesimo sigillo, assoggettati ai medesimi doveri, chiamati col medesimo nome: Soldato di Cristo.

L’Inquisizione, posando la sua mano potente sulle loro teste, li abbassava tutti al medesimo livello, essa li segnava tutti colla sua stimmata senza distinzione né di grado né di età, come il pastore segna indistintamente le sue pecore.

L’antica basilica dal largo circuito, la cui alta navata, separata da quattro ordini di colonne, rassomigliava ad un foresta di granito, era vestita de’ suoi ornamenti più pomposi. Migliaia di ceri situati i ordine intorno all’altare fino alla volta mandavano torrenti di luce nel sacro recinto. L’ombra gigantesca delle colonne segnava di grandi strisce nere il pavimento, di un marmo bianco opaco, attraverso le innumerevoli vetrate di mille colori la luce esteriore arrivava sì debole, che impallidiva intieramente dinnanzi all’abbagliante chiarore che regnava nella parte alta della chiesa.

Nel coro, dietro l’altar maggiore, larghe panche di quercia, scolpite ed accuratamente pulite, erano già occupate dai canonici della cattedrale, appartenenti quasi tutti all’Ordine di san Domenico.

Nel mezzo dell’altar maggiore un grande ostensorio d’oro massiccio sembrava mandar raggi scintillanti, e affascinando gli occhi, proteggere il Dio che racchiudeva, contro gli sguardi profani.

L’oro, i diamanti ed il cristallo erano dovunque sparsi a profusione come in un racconto di Mille ed una notte. I candelabri erano d’oro massiccio, d’oro il tabernacolo, d’oro il calice, d’oro le ampolle; gli angioli, che ai due lati dell’altar maggiore si coprivano il viso con le loro ali, erano d’oro. Grandi statue d’argento, rappresentanti i molti santi che la Spagna onora, adornavano tutto intorno alla chiesa innumerevoli cappelle innalzate fra gli intercolonnii. Ivi erano più ricchezze che nell’antico tabernacolo degli Ebrei; solamente la nazione ebrea non aveva che una sola arca dell’alleanza, mentre la Spagna aveva centinaia di chiese e di cappelle in cui venivano ad accumularsi sotto forme differenti le ricchezze del nuovo mondo.

Erano spettacolo veramente mitologico e molto acconcio ad esaltare l’immaginazione del popolo: quel misero popolo, che era saziato d’incensi, di luce e di musica per fargli dimenticare la sua schiavitù e la sua miseria.

Così vedevasi accorrere in folla agli ingressi della chiesa, quante volte un cerimonia religiosa era offerta in pasto alla sua poetica oziosaggine, del suo bisogno incessante d’emozioni, della sua ardente e puerile curiosità.

Vedete già nella basilica quelle donne del volgo, inginocchiate, adorne delle loro larghe mantiglie nere? Vedete come si battono il seno a più riprese, sgranellando, con mano quasi convulsa, la corona lucente che pende dalla loro cintola? Scorgete tutti quei piedini andalusiani, che sfuggono sotto la loro corta veste, e quelle mani delicate e brune, ma sì graziose, e quegli occhi neri e brillanti come lo smalto attraverso della rete trasparente della trina che cuopre il loro volto?

Non v’ha contrasto bizzarro e mistico  fra quell’immensa cattedrale, splendida come una sala da ballo, e quelle donne in gramaglie umilmente inginocchiate? Donne, di natura sì ridente e sì gaia, che in quel luogo somigliano ora ad anime penitenti che pregano di quaggiù affinché Dio le lasci arrivare fino a quelle splendide meraviglie che brillano sulla loro testa?

Vedete pure nel fondo della chiesa in un’immensa tribuna quegli uomini che pregano a voce bassa con sembiante unito e contrito? Essi han lasciato alla porta il loro amore per i piaceri e per la danza, essi si prostrano con sentimenti di compunzione dinanzi alla maestà del Dio vivente, che fu rivestito d’una magnificenza mondana!

Sono stati accostumati a non adorare che la materia, la divinità per essi è un altare di marmo e d’oro.

Poi, finalmente, alla gran porta mirate quella densa folla di mendici e di gitani che si comprimono e si urtano per entrare. Andiamo, aprite dunque le porte a due battenti! Lasciate entrare questo popolo vestito di stracci; lasciategli respirare l’odore inebriante dell’incenso; lasciategli saziare i suoi occhi in tutta quella magnificenza! E’ il suo pane, è il pane di lui, che questa sera dormirà digiuno nel suo mantello disteso sopra una pietra gelata; lasciate, lasciate entrare tutte queste persone che non hanno altro tetto fuorché la volta celeste, esse pure vogliono la loro parte delle gioie e dei beni di questo mondo, ed il tempio di Dio è la sala del povero!…

Ma silenzio! Ciascuno or stia tranquillo al posto che ha potuto ottenere. Ecco l’ora del raccoglimento e della preghiera, il prete è appié all’altare.

Era, come abbiam detto, monsignore arcivescovo di Siviglia.

Due diaconi, in cappa ricamata, stavano in piedi a’suoi lati.

Alla destra dell’altare, nell’abside, monsignor Arbues, coperto della veste violetta che egli portava nelle grandi cerimonie, sedeva nel mezzo d’un trono d’oro e di velluto, innalzato sopra dodici scalini, coperti d’un ricco tappeto, che lo innalzavano alcuni piedi al di sopra dell’ostensorio, di maniera che il rappresentante di Dio, signoreggiava più alto del suo padrone[40].

Alla destra del trono, e due scalini più basso, era il seggio dell’arcivescovo.

Nell’altro lato un seggio simile era occupato da Josè, elemosiniere e favorito di Sua Eminenza.

Un gran numero di preti e di frati, in pianete bianche, gialle o ricamate accrescevano lo splendore di quella solennità, ed un gran manto ricamato in oro, di grandissimo peso, copriva le spalle del celebrante.

Non lungi dall’altar maggiore, in seggiole particolari, dame e signori occupavano posti distinti.

Bentosto un gran concerto di voci gravi, rauche, dure all’orecchie, ma di una giustezza perfetta, s’innalzò fino alla volta della cattedrale. Quel canto fermo, la cui monotonia non permette mai alla voce d’infiammarsi del fuoco della passione, quell’insieme di note di petto metodicamente cantate senz’arte e senza trasporto, aveva qualche cosa di straordinario e di lugubre che inviluppava l’anima come un sudario. V’era disaccordo fra le liete magnificenze dell’altare e quella glaciale e cupa armonia. Vi mancava la divina melodia degli italiani, quelle voci stupende e sonore che aggiungono un prestigio divino alla pompa teatrale delle cerimonie del culto romano.

Tuttavia il popolo spagnuolo, poco sensibile, o per dir meglio, poco avvezzo alla musica dotta, pascolava con delizia i suoi occhi, ed il raccoglimento più completo regnava in quella folla inginocchiata.

Ma bentosto un grande movimento accadde nella chiesa, tutti si alzarono in piedi, facendosi un segno di croce.

Erasi al Vangelo della Messa.

L’arcivescovo lo lesse lentamente, poscia andò ad assidersi presso il grande inquisitore sul seggio che gli era destinato.

I diaconi stettero alla parte bassa del trono.

Allora una larga strada si aprì nella folla, ed avresti veduto avanzarsi nel mezzo di essa, senza ostacolo, un gruppo di persone d’ogni specie, che tutte aspiravano al medesimo onore; quel gruppo si diresse verso il trono dell’inquisitore.

Poscia verso la parte bassa, un poco al di fuori della navata, fra il polpaccio che non aveva potuto entrare o situarsi convenevolmente per vedere a bell’agio la cerimonia del Santo, avresti udito i dialoghi più strani.

“Vergine santissima!” diceva un vecchio gitano dalla barba bianca: “guarda quel miscredente di Giannino come sale presto di fortuna. La società della Garduna non l’aveva voluto neppure per farne un gancio, tanto è ignorante e pigro, ed ecco che gli è riuscito d’arruolarsi nella milizia di Cristo.”

“davvero,” gridò una giovane ballerina di nacchere, bruna quanto un’oliva in novembre; “davvero! Giannino va a ricevere il Santo con tutti quei bei signori là?”

“perché no, Concetta!” replicò il vecchi gitano; “non è figlio del buon Dio, come tutti quei bei signori che il cielo guardi?”

“To!to!” disse un’altra “ecco Ramone il mancino; sembra che abbia finito il suo tempo in galera, poiché eccolo là.”

“Dove dunque?” domandò un quarto interlocutore.

“Laggiù, guardate, quel giovane dalla veste color d’arancio, allato di Sua Eccellenza il marchese della Ronca, che si è pure fatto innanzi per ricevere il Santo.”

“Quanti sono?” domandò la gitana.

“Sono troppi per contarli,” rispose il vecchio; “Santa Maria, quale recluta!”

“Essi sono come i soldati del papa,” disse una vecchia scherzando, “non camminano mai in piena luce.”

“Cos’è il papa?” domandò la gitanella.”E’ il maggiordomo del grande inquisitore,” rispose la vecchia, che non aveva un’idea più precisa e più alta del vicario di Cristo.

“Tacete, donne,” gridò un vecchio soldato delle campagne di Fiandra; “voi avete la lingua troppo lunga, e chi tocca il fuoco si brucia.”

“Levateci dunque un poco il cappello, perché ci vegga, signor soldato,” disse un giovane di quindici anni, che non arrivava alle spalle del militare.

“Ne vedrai degli altri, monello,” rispose colui.

In questo tempo gli aspiranti al Santo eransi avanzati fino appié del trono del grande inquisitore. E nella tribuna del duca di Mondejar aveva luogo una animatissima scena, quantunque accadesse a voce bassa, ed i diversi attori di quella avessero tutta l’arte richiesta per serbare un volto impassibile in mezzo ad un vivissimo alterco, e per mascherarsi di tal guisa che niuno potesse comprendere l’oggetto di quelle parole brevi, concise e rapide, scambiate fra loro a voce bassa.

Erano in numero di quattro: il duca di Medina-Cœli, il conte di Mondejar, la giovane Isabella, figlia del conte, e don Carlo de Herrera.

Si rammenterà il lettore che questo ultimo era stato citato da monsignore Pietro Arbues a comparire in quello stesso giorno davanti a lui, affine di ricevere il Santo, e di prestare giuramento nelle sue mani. Si rammenterà pure che don Carlos, dapprima caldissimo per la causa dell’Inquisizione, come un giovane amante è ordinariamente per tutto ciò che può secondare i propri amori, aveva sollecitato l’onore di far parte della sacra milizia; e che frattanto, quell’anima giovane ed ardente, ricondotta al sentimento del vero onore dal nobile sdegno del giovane Ximenes, e dalle severe parole di Rodrigo Valero, aveva ricevuto timidamente, e con un senso d’indicibile vergogna, le premure dell’inquisitore, e le sue promesse di protezione. Tuttavia, trascinato da un ardente amore, certo che il solo mezzo d’ottener colei che amava era quello di obbedire ai voleri del conte di Mondejar, don Carlos era venuto alla messa, incapace di resistere al desiderio di passare alcune ora al fianco d’Isabella. Era venuto là combattuto ad un tempo e trascinato: trascinato da una passione violenta, una vera passione spagnola; combattuta da un’orribile antipatia, nata da quelle poche parole pronunziate a lui innanzi:- Cattiva parte per un casigliano!_

Quelle parole avevano fatto nascere nella sua anima giovanile, ardente e talvolta frenata, una quantità di riflessioni serie e profonde.

Cristiano, gli si diceva:- tu sarai soldato di Cristo, il campione della fede.- Cavaliere, - la sua riflessione aggiungeva: -la tua leale spada di battaglia diverrà schiava di una stola e di un berretto quadro. Avrai venduta la tua libertà; la tua coscienza non ti apparterrà più.-

Poscia, nel suo inesprimibile desiderio di dividere lo sposo da quella che amava, egli diceva a sé medesimo, come per incoraggiarsi: -I più grandi signori di Spagna son divenuti famigliari del Sant’Uffizio;  - e soggiungeva subito: - han fatto bene o male facendo questo?-

Don Carlos non era abbastanza teologo, né sì profondo filosofo da risolvere quelle difficili questioni. Nel suo dubbio un puro istinto, l’istinto di ciò che è retto e giusto, l’avvertiva solamente che don Ximenes aveva avuto ragione di gettare il biasimo sulla sua prima risoluzione, poiché non poteva dissimularsi che famigliare del Sant’Uffizio, bisognerebbe ubbidire ciecamente, essere strumento passivo di quella cosa formidabile che si chiama Inquisizione e sapeva benissimo che non ordinava sempre cose giuste.

Era in queste disposizioni, quando il corteo d’aspiranti al Santo giunse dinanzi al trono dell’inquisitore.

Pietro Arbues con quello sguardo penetrante. Che è passato in proverbio, contò a vista d’occhio gli uomini che erano a lui dinanzi, e non vedendo don Carlos, volse lentamente la testa dal lato della tribuna del duca di Mondejar.

In quel momento il vecchio duca, spingendo il giovane col gomito, gli disse vivamente:

“Ebbene! Don Carlos, è così che mostrate il vostro zelo per il servizio di Dio? Sarete dunque l’ultimo a presentarvi davanti al grande inquisitore?”

“Signore,” rispose il giovane, con voce tremante, “non so, veramente se son degno…”

“Andiamo! Quale scrupolo singolare! Non siete nobile di pura razza? E il minimo miscuglio di sangue moresco ha mai oscurato la vostra nobile arme?”

“Giovane,” aggiunse il duca di Medina-Cœli, parlando piano quanto glielo permetteva la sua voce stridula, “giovane, rispondete così alla mia bontà?”

“Ed io?” aggiunse con uno sguardo eloquente Isabella, “non farete dunque nulla per me?”

Don Carlos fremeva d’onta, d’irresoluzione e di collera. Malgrado l’amore che gli stava a cuore, ei malediva internamente l’idea sortagli nel pensiero di venire a quella cerimonia.

Dall’altro lato il duca di Medina-Cœli ed il suo genero, irritati da quella indecisione, che poteva comprometterli agli occhi dell’Inquisizione, serravano i loro pugni dicendo adagio:

“Ebbene, don Carlos, andate a prendere il posto che vi attende, o vi rinnego per sempre.”

“Oh! Andateci ve ne prego,” disse a voce bassa la figlia del conte di Mondejar con uno sguardo supplichevole.

Nel tempo stesso il duca di Medina-Cœli spingeva il giovane per il braccio.

Don Carlos, smarrito, mezzo pazzo, uscì, barcollando, dalla tribuna, attraversò la folla, che privasi dinanzi a lui, e giunse appié del trono inquisitoriale. Pietro Arbues aveva indovinato tutto, il suo sguardo scintillò della gioia del trionfo.

Don Carlos, con gli occhi bassi e col rossore sul viso, si tenne dietro agli altri, ultimo di quella folla avia d’ifamia inquisitoriale. Allora Josè, nella sua qualità d’elemosiniere dell’inquisitore, si alzò dal seggio dove era assiso, ricevé dalle mani d’un diacono un pacchetto di fogli stampati, ed una scatola contenente una gran quantità di lastre di metallo, sulle quali era inciso un Cristo rovesciato, circondato da un sole.

Poscia gli aspiranti all’affigliazione si avanzarono l’un dopo l’altro; salirono i gradini del trono, e, inginocchiati ai piedi di monsignor Arbues, ricevettero individualmente dalle sue mani una di quelle lastre ed il foglio stampato, che Josè presentava loro di mano in mano.

Questa carta conteneva le istruzioni necessarie ai famigliari per agire in ogni circostanza secondo le regole o le intenzioni del potere a cui si erano dedicati. La lastra di metallo era un segno distintivo, un segno di annodamento e di riconoscimento che serviva loro a ravvisarsi per tutto e ad unirsi in uno scopo comune, qualunque fossero, del resto, le loro antipatie e le loro inimicizie particolari.

Durante questa distribuzione, che durò circa venti minuti, l’inquisitore non aveva cessato di dirigere i suoi sguardi ora sul giovane don Carlos, che stava sempre dietro agli altri in sembiante d’uomo vivamente contrariato, ora verso la tribuna del duca di Mondejar, ove costui serbava un contegno imbarazzatissimo, mentre il duca di Medina-Cœli lanciava sguardi fiammeggianti sulla sua nipote, come per dirle: “Ecco l’uomo che avete scelto!”

Quanto a don Carlos, non ardiva più volgere gli occhi dal lato della sua fidanzata. Ma quando non vi fu più nessuno davanti alui, e che giunse finalmente la sua volta di ricevere il Santo, si avanzò barcollando come un ubriaco fino ai piedi di monsignore Arbues, e ricevé con mano tremante le insegne del suo titolo.

“Don Carlos de Herrera,” gli disse l’inquisitore a voce bassa, “avete qualche cosa da rimproverarvi?”

Don Carlos s’inchinò senza rispondere, avrebbe voluto essere cento piedi sotto terra.

Discese lentamente i gradini del trono, ed andò a mischiarsi alla folla dei nuovi famigliari, la quale erasi posta da sé medesima in semicerchio davanti al trono inquisitoriale. Il più grande silenzio regnava nella chiesa.

Quello spettacolo bizzarro era per la popolazione sivigliana palpitante d’interesse, e fecondo in emozioni diverse. Tutti gli occhi erano invincibilmente diretti verso l’altare maggiore.

Monsignore Arbues, con la sua grazia e la sua maestà consueta, si alzò dal suo seggio dorato, discese altieramente i gradini del trono, come s’addice ad un principe della Chiesa, e, seguito da Josè, che si teneva sempre alla sua sinistra, si fermò davanti a don Crlos, che chiudeva il cerchio alla sua diritta.

Don Carlos arrossì ed abbassò gli occhi; non potè sostenere lo sguardo penetrativo, che monsignore Arbues fissava sopra di lui.

Allora con voce piena, breve, imperativa, che in certe circostanze sapeva sì bene prendere il tuono del comando:

“Don Carlos de Herrera,” disse il feroce Domenicano, “giurate di consacrarvi corpo ed anima al servizio della nostra santissima religione cattolica, apostolica, romana?”

“Lo giuro!” rispose con voce ferma il giovane signore casigliano, non vedendo in quel giuramento nulla che dovesse allarmare la sua coscienza di leale cavaliere.

“Giurate di non prestare mai l’orecchio alle dottrine corruttrici ed appestate di quegli empi del Nord che si chiamano filosofi e riformatori, e di non incoraggiarli in qualunque siasi maniera?”

“Lo giuro!” disse pure don Carlos.

“Giurate di no dar mai asilo né protezione ad un eretico o ad un uomo perseguitato come tale dal santo tribunale dell’Inquisizione?”

Don Carlos alzò, senza rispondere, i suoi grandi occhi spaventati sul volto severo dell’inquisitore; quel giuramento gli sembrava atroce. Monsignore Arbues inarcava il sopracciglio come Giove Olimpico, ed il giovane, dominato da quella superba espressione di dispotismo e di autorità, balbettò con voce inintelligibile:

“Lo giuro!” L’inquisitore parve contentarsene; poscia con tuono breve, incisivo, aggiunse:

“Giurate di perseguitare con la parola e con la spada ogni marrano, moresco, ebreo, cristiano giudaizzante o luterano; di denunziarli al santo tribunale per la maggiore gloria di Dio, e di consegnarli, se fossero vostri ospiti, sia che con le vostre orecchie li abbite uditi proferire eresie, sia che li abbiate veduti commettere azioni indicanti che non sono nel vero cammino della salute, sia che li abbiate solamente in sospetto di no essere attaccati di cuore e di anima alla nostra santissima religione, o che vi siate avveduto che ne abbiano trascurata qualche pratica, sia, infine, che nella loro casa abbiano tollerato qualche negligenza simile per parte d’uno dei loro?”

“Monsignore” monsignore!” disse piano il giovane cavaliere in un’angoscia inesprimibile, “quello che voi mi domandate è uno spionaggio, un…”

Lo sguardo terribile di Pietro Arbues soffocò la parola nella gola del giovane: le sue labbra rimasero mezzo aperte: sarebbesi detto che parlasse piano, ma infatti non articolava nulla. Era soltanto una convulsione della bocca. L’inquisitore parve contentarsen. Continuò sul medesimo tuono.

“Giurate di essere sempre pronto a marciare per il servizio di Dio al primo richiamo dei suoi rappresentanti, foste anco presso un amico morente, foste al capezzale di vostra madre agonizzante?”

Gli occhi del giovane rimasero fissi e spaventati, e i suoi capelli si rizzarono per l’orrore.

“Grazia, grazia, monsignore!” mormorò con voce soffocata.

L’inquisitore e Josè solamente intesero queste parole. Pietro Arbues fece le viste di non intendere.

Soggiunse fermandosi su ciascuna parola:

“Giurate di rinunziare a tutti i legami di amicizia e di famiglia quando si tratterà della causa di Dio?…e di denunziare senza restrizione i vostri fratelli, le vostre sorelle, vostra madre, vostra moglie, vostro padre, ed anco i vostri figli, se veniste a scoprire in essi sentimenti contrari alla nostra santa fede cattolica?”

A quest’ultime parole, don Carlos, reso a sé stesso da un vivo sentimento d’indignazione, alzò la testa in atteggiamento fiero.

“Monsignore,” disse con voce ferma, ma senza strepito, “io non giurerò questo; io non sarò spia ed infame ad un tempo. Tenete,” aggiunse con amara ironia, rendendo all’inquisitore il Santo ed il Cristo che ne aveva ricevuto, “io sono indegno di un tale onore<, serbatelo, monsignore, per un servitore più degno di me.”

Nel tempo stesso si slanciò dal posto ove era, attraversò il cerchio d’uomini che circondava il trono, passò nel mezzo della folla inginocchiata, ed uscì senza voltarsi indietro, come se, volgendosi, avesse temuto di veder la chiesa crollare su di lui.

Il duca di Mondejar ed il suo genero fremettero di spavento e di corruccio. Isabella piangeva senza comprendere ciò che era accaduto, e la folla scandalizzata, aspettava a bocca aperta la spiegazione di questo enigma. Josè solo sembrava impassibile nel mezzo del generale spavento: solamente un riso impercettibile e sarcastico contraeva le commessure delle sue labbra espressive.

Monsignore Arbues alzò verso il cielo uno sguardo inspirato, ed indirizzandosi all’assemblea:

“Fratelli,” disse, “questo giovane era in peccato mortale; egli si è fatto giustizia, giudicandosi indegno di far parte oggi di questa santa cerimonia… preghiamo per lui, fratelli,” soggiunse inginocchiandosi.

Tutti imitarono l’inquisitore. Pregarono circa dieci minuti, nei quali Pietro Arbues ebbe tempo di porre un freno alla sua rabbia e di rendere composta la sua fisionomia. Quando si alzò, il suo viso non aveva più la minima traccia d’emozione né di collera; egli era dignitoso, tranquillo, impassibile: sarebbesi detta una testa di marmo.

Il grande inquisitore ricominciò allora la formula del giuramento alla quale tutti risposero con gioia e senza restrizione.

In quel giorno la milizia di Cristo si arricchì di più di duecento membri.

La stessa sera le carceri del Sant’Uffizio contavano un prigioniero in più.

 

 

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                  FINE DEL VOLUME SECONDO.

 

 

 



[1] Alcuni monaci pii di quei tempi percorrevano la Spagna domandando ai ricchi, dando ai poveri, predicando a tutti le sante dottrine del vangelo, e consolando tutti i dolori. Quella condotta veramente apostolica, era troppo in contraddizione con quella della monacaglia, e con quella degli inquisitori; perciò la monacaglia e l’Inquisizione perseguitavano con accanimento quei monaci caritatevoli.

[2] Nel secolo tredicesimo i monaci del clero figuravano per un centesimo della popolazione di Spagna, che era allora di trenta milioni d’anime; gl’impiegati del governo, comprese le truppe, ascendevano ad un milione circa: potevano ascendere presso a poco a due milioni tra grandi e piccoli proprietari; tutto il rimanente della popolazione era composto di proletari e di mendicanti. I monaci ed il clero possedevano per sé soli un buon terzo della Spagna. (Statistica di Belmonte y Baldivigo.) I monaci ed il clero spagnuolo, grazie alla loro intolleranza e alla loro insaziabile avarizia, hanno ridotto il popolo di Spagna al numero di undici milioni circa. L’inerzia e la crudeltà dei governanti avranno bentosto cambiato la Spagna in un deserto se Dio non ha pietà di quel disgraziato paese.

[3] Questi due vescovi erano figli di ebrei battezzati, ma godevano la stima generale. L’inquisitore Torrequemada li fece sottoporre ad un processo benché, secondo le bolle apostoliche, i vescovi non fossero soggetti alla giurisdizione del Sant’Uffizio. I due prelati si recarono in Roma per appellarsi al papa. Il supremo pontefice rimandò l’affare davanti ad altri vescovi, la decisione dei quali fu favorevole agli accusati. In ricompensa delle persecuzioni che avevano provato, , il papa nominò il vescovo di Segovia all’ambasciata di Napoli , e quello di Calahorra all’ambasciata di Venezia. L’inquisitore non si sgomentò. Torrequemada trovò ancora il mezzo d’intentar loro un nuovo processo, nel quale riuscì a dimostrare che quei vescovi eran caduti nell’eresia, e a farli rinchiudere in un castello, ove morirono dopo esser stati spogliati dei loro beni, e degradati dalla dignità vescovile. (Llorente, Storia dell’Inquisizione.)

[4] In tutti i tempi gli Spagnuoli hanno accusato gl’inquisitori ed altri impiegati del Sant’Uffizio di rendere le donne rinchiuse nelle carceri vittime dei loro trasporti. Questa accusa non è tanto ingiusta quanto hanno preteso i difensori di quel laido tribunale. Dopo la rivolta di Cordova e la fuga dell’inquisitore Deza, il successore di quest’ultimo, Ximenes Cisneros, “volendo porre un termine agli eccessi scandalosi commessi con le donne che erano nelle prigioni, decretò, stando all’avviso del consiglio della Suprema, che ogni persona addetta al Sant’Uffizio, che si rendesse colpevole di simili eccessi, sarebbe punita di morte. Le occasioni di applicare questa legge non sono mancate in seguito; tuttavia essa è rimasta senza effetto.” (Llorente, Storia dell’Inquisizione.)

[5] Il fanatismo di Torrequemada uguagliava la sua crudeltà, o per meglio dire, la sua crudeltà non era che il resultato del suo fanatismo. Ogni qual volta vedevasi obbligato ad agire contro qualche eretico, il confessore di Ferdinando di Aragona, preparavasi col digiuno e colla penitenza. Quest’ultima consisteva a darsi la disciplina finché le carni fossero lacerate e versassero sangue. (Vita di Torrequemada, per Ponzio de Leon.)

[6] Il ballo descritto dall’autore in questo capitolo, è parte della cerimonia chiamata la veglia dei morti. Questa cerimonia ha molto rapporto col Wake degl’iralndesi.

[7] I gitani non professano veruna religione; fingono sempre di seguire quella del paese che abitano, ma sono al tempo stesso le persone più superstiziose della terra. Così un gitano avvezzo a vivere di furti e di baratterie d’ogni genere, non ruberà, né commetterà baratterie il giorno successivo ad una notte nel corso della quale abbia udito il grido d’una civetta; poiché, secondo la superstizione della sua casta, il grido della civetta annunzia ognora un arresto giudiziario, o, per lo meno, faccende colla giustizia. Il gitano non beverà un liquore nel quale sia caduta una mosca, imperciocché, chiunque beve un liquore che annega sarà annegato. Finalmente il gitano che è stato toccato da un cadavere nella veglia, deve passare la notte col morto, ed avere il coraggio di vedere il diavolo che viene a portar via il corpo del defunto, dopo aver ballato intorno a lui, sotto la pena di morire nel corso dell’anno. Così è una grande sventura quando un morto cade durante la danza che la sera del suo sotterramento fanno [cerchio] i suoi parenti ed i suoi amici intorno a lui per guarentirlo dalla vista dei demoni.

[8] I gitani e molte altre persone del poplaccio, in Andalusia, amano farsi dei bottoni con delle monete. I poveri forano gli ochavos, i più agiati forano le monete d’un reale, vi sono ricchi mulattieri e ricchi contrabbandieri che fanno forare parecchie centinaia di monete d’oro di cinque, dieci e venti franchi, onde farne dei bottoni per una sola veste di velluto.

[9] Francesca di Lerma non è un personaggio storico, ma solo un tipo, una personificazione delle badesse di quei tempi, ed anco di alcune dei nostri giorni.

[10] Questo cerimoniale interamente cristiano si è conservato fino ai nostri giorni fra i servi di Gesù Cristo. Le monche della via san Domenico presentano all’umile superiora delle gesuitesse le missive indirizzatele con un ginocchio a terra e con un piatto d’argento nelle mani.

[11] Non è soltanto nel secolo decimosesto, non sono soltanto gli inquisitori che dicono alle loro penitenti: “Iddio permette che si soddisfacciano i bisogni dei sensi, purché sia con uno dei suoi ministri e senza scandalo;” queste parole sacrileghe sono state dette a Tolosa, non sono ancora cinque anni, ad una religiosa del convento di Sant’Antonio dal suo direttore, a cui ella videsi più tardi nell’obbligo d’intentare una causa pei danni dinanzi ai tribunali civili d’Agen e alla corte reale di Tolosa.

 

[12] Vedi nota n° 14

[13] I monaci della Mercede seguivano, come i Domenicani, la regola di Sant’Agostino. Nel suo nascere, l’ordine della Mercede fu utilissimo. I fratelli di quest’ordine si spargevano per tutta la cristianità, domandando ed ottenendo copiose limosine, le quali erano fedelmente impiegate a riscattare i cristiani prigionieri in Barbaria. Alcuni monaci della Mercede, inviati in Algeri, per riscattare i prigionieri, sono riamasti nel posto di coloro dei quali non potevano pagare il riscatto. Alcuni altri nella stessa epoca soffrirono il martirio, ma questo sacrificio sublime non durò lungo tempo. Nel diciottesimo secolo i monaci della Mercede domandavano sempre ed ottenevano copiose limosine, ma invece d’impiegarle al riscatto dei prigionieri, le impiegavano, come il resto dei monaci impiegavano le somme enormi che estorcevano alla pubblica credulità…a ingrandire la loro potenza e ad estendere il loro dominio.

[14] Il convento dei Cappuccini di Madrid era, a mio tempo, il più rinomato per la melopia interna. Un piatto specialmente, mescolanza di fegato, di polmone e di cuore d’agnello, era ricercatissimo dai ghiotti della capitale. Io ho mangiato parecchie volte questa vivanda in numerosa e buona compagnia. Uomini e donne, signori e dame andavano a mangiare quella vivanda presso i cappuccini insieme a borghesi e a mendicanti: gli uni per devozione, gli altri per gusto, alcuni per necessità; ma siccome questi ultimi erano in picciol numero, e gli altri non lasciavano mai il convento senza ordinare almeno delle buone messe, cioè senza lasciare cinque o sei franchi fra le mani del frate elemosiniere, questo caritatevole refettorio diveniva una vera tavola rotonda, alla quale uno poteva assidersi pagando sottosopra cinque franchi. Nel 1816 un bel toreador, chiamato Zapata, corse rischio di rimanere ucciso da un toro, non gli avvenne alcun male. Una giovane e bella duchessa fece nel tempo stesso voto di mangiar la melopia dei cappuccini pel corso di otto giorni, se Iddio avesse salvato il bel Zapata. Sua Eccellenza mangiò infatti la indicata vivanda per otto giorni, dopo i quali il fratello elemosiniere ricevette una somma assai ragguardevole che servì per istabilire una rendita di mille e ottocento franchi, o due messe a due franchi e cinquanta al giorno.

I frati Gerolamiti facevano ancor meglio. Oltre la loro melopia interna, che poteva stare a fronte di tutte le melopie del regno, questi buoni Padri avevano stabilito una taverna ove si forniva vino eccellente di Valdepenas e della buonissima trippa. In ogni domenica gli operai ed i borghesi di Madrid si recavano a migliaia in questo stabilimento. Nel 1824, al ritorno di Ferdinando VII da Cadice, la taverna dei Gerolamiti ha riportato sessantacinque mila e settecentonovantotto reali di utile netto. Io ho saputo ciò dal frate taverniere di quell’epoca. Questo buon frate, emigrato a sua volta nel 1832, continuava il suo mestiere a Rouen, ove vendeva la trippa sotto il pseudonimo di trippa alla moda di Caen.

[15] Fra tutti gli abitanti della Spagna, l’Andalusiano è uno dei più sobrii. Egli vive, per così dire, di sole e di profumi; non si può immaginare quanta poesia e quanta indifferenza per le cose di questo mondo esiste in lui. Un pezzo di pane, un cigarro e molta meditazione, o, per dir meglio, molti sogni; ecco tutto quello che abbisogna all’Andalusiano per essere interamente felice.

[16] E’ giunto per la Spagna il tempo d’innalzare questo novello edifizio.E’ già più d’un mezzo secolo che gli Spagnoli lottano e faticano a ricostruire una Spagna novella sulle rovine del fanatismo monastico e del dispotismo del re. Riusciranno eglino a progredire innanzi? Supereranno finalmente tutti gli ostacoli che la politica machiavellica dell’Inghilterra e la debolezza del gabinetto francese han frapposto alla rigenerazione della Spagna? Gli Spagnoli dovranno versare ancora molto sangue, sopportare molte miserie, ma non torneranno indietro. Un popolo che ha saputo lottare per otto secoli contro i Mori, e che ha terminato di riacquistare la sua indipendenza, non si perderà di coraggio. E’ vero che nelle loro lotte contro i Mori, la religione somministrava forze agli Spagnoli e eccitava l’animo loro; ma la libertà non è la religione dei popoli? Non è l’eredità che Cristo ha lasciato al mondo?

[17] Non havvi Spagnolo, benché non istrutto, il quale non sia fornito della facoltà d’improvvisare delle strofe. Questa facoltà poetica è eredità dei Mori.

[18] Alhambra è una parola composta di due voci arabe, che significano palazzo rosso. Ed invero Alhambra è fabbricato con mattoni rossi.

[19] Dopo Deza, gli Spagnoli chiamavano l’inquisitore generale il re dei carnefici.

[20] La descrizione di questa cavalcata è tale quale si può leggere, nella Storia dell’Inquisizione, Llorente, c. VI, parte seconda.

[21] Praticante la religione degli Ebrei.

[22] Si conosce l’eterna disputa dei Francescani e dei Domenicani sull’argomento dell’immacolata concezione di Maria Vergine. I Domenicani han sempre sostenuto ch’essa ha concepito nel peccato: e per provarlo avrebbero arso tutti i figli si san Francesco, i quali dichiararono immacolata la madre di Dio. Queste gravi dispute, che occuparono sì vivamente i dottori del concilio di Trento, son lungi dall’essere terminate. In Italia, a Roma specialmente, forniscono ancora abitualmente il testo di quasi tutti i sermoni dei due ordini rivali; ma come in tutte le altre guerre havvi un armistizio, queste declamazioni teologiche cessano da ambe le parti il giorno della seconda festa di Natale. In quel giorno i due campi nemici si riuniscono in un sontuoso banchetto, e scordano fra i bagordi e gli stravizi le loro inimicizie di tutto l’anno. Durante il pasto, che si prolunga per tutta la notte, i fieri figli di san Domenico sono i migliori amici degli umili figli di san Francesco.

[23] L’inquisitore Torrequemada aveva infatti un dente di liocorno che credeva realmente dotato della proprietà di fare scuoprire e neutralizzare i veleni. (Llorente, Storia dell’Inquisizione.) Gli inquisitori di Spagna avevano conservato questo pregiudizio dei Mori.

[24] Nulla può cancellare il nostro sacro carattere. Il nostro potere spirituale è sì esteso, che, qualunque cosa ordinassimo di fare ad un penitente, ei non potrebbe commetter peccato obbedendoci. Questa maniera di spiegare la loro potenza è stata impiegata con successo dai malvagi preti quando hanno voluto pervertire un donna.

[25] Quando gli accusati comparivano davanti al tribunale dell’Inquisizione, non era permesso loro di sedersi sopra una panca, ma sull’angolo di un’asta triangolare, appoggiata sopra due X, chiamata potro. Quando un accusato ricusava di fare le confessioni che si esigevano da lui, soventi volte tenevasi assiso od in ginocchio due od anco tre ore sull’angolo del potro. Non era questa una tortura preparatoria? Dico preparatoria, perché gl’inquisitori avevano qualche cosa di meglio.

[26] Qualunque persona arrestata per ordine del Sant’Uffizio perdeva per questo solo fatto tutti i suoi titoli e le sue dignità non ché i suoi diritti civili; no li riacquistava che dopo avere ottenuta l’assoluzione definitiva, il che accadeva rarissimamente. Il primo effetto adunque della persecuzione inquisitoriale era la rovina, il disonore delle famiglia!…e gl’inquisitori ricevansi i difensori della fede catolica!

[27] Don Estevan de Vargas discendeva infatti da famiglia moresca appartenente alla tribù di Venegas. Il padre di don Estevan fu nominato membro del Consiglio di Castiglia da Filippo I nel 1506. Don Estevan aveva un fratello inquisitore, chiamato Pedro de Vargas de la Santa-Cux, che fu il suo più crudele persecutore. Don Estevan non sfuggì all’Inquisizione che lasciando la Spagna.

[28] Ecco ciò che rilegge nella pagina 100 dell’Ultramontanismo di E. Quinet:

-Maniera di dare la corda all’inquisito che ricusa di rispondere, o che non vuol rispondere precisamente.-

“Accade sovente che l’inquisito non vuol rispondere con precisione, “ma lo fa in termini evasivi: Non so, non mi rammento: questo può essere, “non credo; io non devo essere colpevole di tal delitto.

“Egli deve rispondere con parole chiare e precise: Ho detto, non ho “detto, ho “fatto, non ho fatto. In questo caso è mestieri porre in opera la tortura per “avere da lui una risposta assoluta, precisa, soddisfacente e sufficiente. Ma “prima è d’uopo fargli le debite ammonizioni, quindi minacciarlo della corda. “Ed il notaro registrerà le accennate ammonizioni e minaccie. La formola è la “seguente….Benignamente avvertito, benigne monitus…”

[29] L’Inquisizione non nominava mai i testimoni, e con questo mezzo incoraggiava lo spionaggio. (Annali del Sant’Uffizio.)

[30] La descrizione della camera del tormento è fatta secondo quella che può leggersi nella Storia dell’Inquisizione.

[31] Tolgo pure da E. Quinet  una parte della nota [a pagina 101]. “Dopo  averlo fatto sospendere (l’inquisito), s’interrogherà nella sua tortura sull’accennato fatto solamente (sul fatto in questione), mantenendolo sospeso più o meno tempo, ad arbitrio, secondo la qualità della causa, la gravità degl’indizi, lo stato della persona torturata ed altre cose simili, che il giudice dovrà considerare (e che non considerava sempre, almeno in Ispagna), affinchè la giustizia abbia il suo effetto senza che alcuno venga indebitamente offeso. (Maniera di dar la corda, ecc., pag 286 e 287.)

Se nella tortura l’inquisito persiste nella negativa, si terminerà l’esame (il tormento) come segue: i signori inquisitori non potendo ricavare da lui (dall’accusato) nulla di più, ordineranno che l’inquisito sia fatto discendere lievemente dalla corda a cui è sospeso, che sia sciolto, che si ripongano in sito le articolazioni del braccio, che sia rivestito e ricondotto al suo posto, dopo averlo tenuto sospeso una mezz’ora, ed il notaro segnerà….” Questo supplizio il quale non durava a Roma che una mezz’ora, durava in Spagna, più di un’ora, secondo Llorente (Dei supplizi inflitti dall’Inquisizione.)

[32] Annali dell’Inquisizione.

[33] “Le carceri dell’Inquisizione erano sotterranei profondi, vere tombe poste più di trenta piedi sotterra. In ogni prigione lunga dodici piedi e larga otto circa, trovatasi un lettuccio largo quattro piedi e lungo dodici. Ogni prigione conteneva ordinariamente sei o spesso otto persone, tre o quattro delle quali, più robuste, dormivano sul terreno umido, e le altre sul lettuccio. Un vaso, che era destinato a soddisfare i bisogni naturali, e non era vuotato che ogni otto o quindici giorni, stava in un canto, e terminava d’infettare l’aria, già disossigenata in gran parte dal respiro degl’infelici condannati ad abitar questi luogo.” (Storia dell’Inquisizione).

[34] La casa di Medina-Cœli, una delle più illustri di Spagna, godeva tuttavia nel 1820 l’altro privilegio di serbare e di portare lo stendardo della fede nei grandi atti-di-fede ed altre solennità dell’Inquisizione.

[35] Nel 1530, il 28 dicembre, i principi alemanni che avevano adottato le dottrine di Lutero, avendo saputo che i principi cattolici dell’Impero avevano formato, per il sostegno della religione stabilita, una lega, alla testa della quale trovatasi l’imperatore stesso, si adunarono frettolosamente a Smalkald ed ivi conclusero una lega offensiva e difensiva contro ogni aggressore. Per questa lega tutti gli Stati protestanti dell’impero non dovevano che formare un sol corpo. (Meineres, Storia della Riforma, cap. IV.)

[36] Il primo tabacco introdotto in Spagna fu mandato da Fernando Cortes a Carlo V, nel 1519.

[37] Il mezzo più sicuro per ottenere l’onore di essere annoverato fra i famigliari del Sant’Uffizio, era di denunziare qualche personaggio distinto; perciocché i poveri, coloro che non avevano niente da perdere, non avevano a temer nulla dall’Inquisizione. Questo fatto, constatato da tutte le opere che sono state scritte sull’Inquisizione, prova che non era la gloria di Dio né il trionfo della fede che stavano a cuore agl’inquisitori; essi non cercavano che arricchirsi colle spoglie delle vittime, acquistare potenza ammassando ricchezze.

[38] Per un calcolo giustissimo l’Inquisizione bramava d’avere per famigliari uomini di sangue nobile, e vecchi cristiani; con questo mezzo assicuratasi il rispetto del popolo, che tendeva in quel tempo a creder nobile e grande ciò che facevano i nobili, e che non comprendeva come un nobile potesse commettere un’azione bassa ed infame; per essere ammesso all’onore di figurare fra la milizia di Cristo, bisognava almeno giustificare la pressa del sangue, cioè provare che non discendevasi né da Ebreo, né da Moro, né da parenti che fossero stati condannati dalla Santissima Inquisizione (Regolamento sacro delle condizioni essenziali per potere far parte delle milizia di Cristo). Questo stesso regolamento dispensava le donne che volevano servire la Santa Inquisizione di provare la purezza del loro sangue “considerando i grandi servigi ch’esse possono rendere alla causa di Dio.”

[39] Quando l’inquisizione facea un’infornata di famigliari, ciò che accadeva quasi tutti gli anni, alcuni giorni innanzi a tutti gli atti-di-fede solenni, il grande inquisitore, vestito dei suoi ornamenti pontificali, e dopo una messa cantata ed una lunga predica relativa alla circostanza esortava i postulanti a servir fedelmente il Sant’Uffizio, e riceveva l’abominevole giuramento che l’autore descrive in questo capitolo. Ogni nuovo famigliare riceveva una pergamena che conteneva le parole sacramentali e la descrizione esatta dei segni e dei toccamenti per mezzo dei quali dovevasi riconoscere tutti gli agenti del Sant’Uffizio ed esserne riconosciuto. Questi segni, queste parole, questi toccamenti costituivano el santo, o parola d’ordine della milizia di Cristo.

[40] In tutte le solennità nelle quali un inquisitore trovavansi in presenza del re o di Dio, l’inquisitore aveva la precedenza. Nei grandi atti-di-fede il trono degl’inquisitori era sempre più alto di quello del re; nella chiesa il trono inquisitoriale era sempre alla destra e più alto del santo sacramento. L’nquisitore Jabera fece languire due anni nelle prigioni del Sant’Uffizio l’arciprete della cattedrale di Malaga, accusato d’irriverenza verso il Sant’Uffizio, perciocché quest’ecclesiastico, recando il santo viatico ad un moribondo, non erasi fermato per lasciar passare l’Inquisitore. (Dei diritti degl’inquisiti in faccia ad altri membri del Clero.)