MISTERI
ED
ALTRE SOCIETA’ SEGRETE DI
SPAGNA
PER
CON NOTE STORICHE ED UNA INTRODUZIONE
di Manuel de Quendias
E CON ESTRATTI DI UNA LETTERA
RELATIVA A QUEST’OPERA
DI
Edgardo Quinet
Volume Quarto
Milano
Francesco Pagnoni , editore-tipografo
1867
Principali chiavi di ricerca per
trovare, in ogni tempo e luogo, tracce di Claudio Della Valle e dei suoi lavori
su Google o altri principali motori di ricerca.
Inserire, comprese le virgolette:
“Claudio Della Valle” – “Il Canto della Sorgente” – “Il
luogo di Geremia” – “Della resurrezione dei morti”
“In nome del pane” – “Lettera a un cristiano mai nato” –
“Sulla via del ritorno” –
“Riflessioni ed ipotesi sull’Apocalisse di S. Giovanni”
XXXIX.
Un complotto.
Non rimaneva più nel palazzo della Garduna che il maestro, Gioachino, Manofina, la sua compagna e i tre signori.
Alcune torcie si
estinguevano lentamente, la sala immensa diveniva più oscura, e la notte
avanzata dava maggior solennità a quella riunione misteriosa.
Erano due ore dopo mezzanotte.
Il maestro aprì allora un
gran baule di querce posto in un angolo della sala, ne tolse un registro di
cartapecora giallo ed unto, un vasetto di piombo pieno d’inchiostro, ed una forte
penna d’oca malamente temperata; quindi chiuse il baule che gli serviva ad un
tempo da armadio e da tavolo, e dopo aver disposto sul suo coperchio diversi
oggetti che ne aveva cavati, andò verso la porta per assicurarsi s’era ben
chiusa.
La stanghetta della
serratura non era, per certo, entrata bene nella sua bocchetta, perché
nell’istante in cui Mandamiento stava per spingere colla sua mano vigorosa
quella enorme massa di querce, per chiuderla intieramente, questa si aprì quasi
da sé medesima, ed un nuovo personaggio entrò nel palazzo della Garduna. Era
Josè.
Avvertito da Gioachino, ei
s’era recato in quella riunione. Alla vista del fraticello, Estevan mandò un
grido di rabbia: e volgendosi verso Gioachino, gli disse con voce cupa:
“Tu m’hai tradito,
miserabile!” Il taverniere non si turbò menomamente, e rispose con tono più
tranquillo:
“No, signore, non v’ho
tradito.” Era un tal espressione di verità nella fisionomia di Gioachino, che
Estevan ne fu colpito. Nello stesso tempo Mandamiento ignorando il motivo di
quella visita notturna, riceveva il Domenicano con tutto il rispetto dovuto al
favorito del grand’inquisitore.
“Che brama Sua Reverenza?”
domandò finalmente il maestro alquanto allarmato.
“Parlare a questi tre
signori,” rispose Josè.
Mandamiento inarcò il
sopracciglio.
“Che vuole questo
fraticello?” domandò piano Valero ad Estevan. “Ora lo sapremo,” rispose il
giovane conte. Così dicendo si avanzò verso il monaco. Josè gli porse amichevolmente
la mano.
Estevan non la prese; ma guardando il fraticello in
volto gli disse:
“Non bastava l’avermi
tradito; volete anco perdermi, non è vero?”
“Io non vi ho tradito,”
rispose Josè, con accento soave e mesto; “vengo a consolarvi ed a porgervi
aiuto.”
“Ma Dolores?” proseguì
Estevan, la cui gelosia si risvegliava intensa e crudele in presenza di colui
del quale sospettava; “Dolores! Che ne avete fatto?”
“Dolores vi sarà resa sana e
salva,” continuò il Domenicano.
“Sì, perché io la libererò,”
esclamò impetuosamente Estevan “le vostre perfidie non m’illudono più, don
Josè; e se volessi in questo momento,” proseguì con amarezza, “se volessi!…vedete,
don Josè? voi siete stato imprudente…qui siamo cinque contro di voi, e questi
uomini mi sono affezionati.”
“La prova che non vi temo,”
rispose Josè, “è che io sono venuto, e son venuto solo. Se io avessi tradito, a
che dovrei cercarvi? Qual bisogno ho io di voi? Credetemi, Estevan, non siate
sconoscente verso i vostri veri amici; il loro soccorso vi è necessario, ed
essi ve l’offrono con tutta la sincerità della loro anima.”
“Per bacco!” esclamò ad un
tratto don Rodrigo; “è il fraticello che m’ha salvato l’altro dì dal furore dei
suoi confratelli. – Reverenza!” continuò avvicinandosi a Josè, “permettetemi di
ringraziarvi del soccorso che m’avete prestato, or sono due giorni, alla
taverna della Buona Ventura. Io ho ricuperato intiera la mia ragione,
e voglio provarvelo.padre mio.”
“La ragione non consiste nel
dire delle cose sensate,” rispose freddamente Josè, “ma nel dirle a tempo ed a
proposito; quando si semina sulla pietra, gli augelli mangiano il seme, e non
produce nulla a quegli che ha seminato. Le vostre declamazioni vi faranno
bruciar vivo, credetemi.”
“Ciò non seguirà,” replicò
Valero; “l’Inquisizione mi crede pazzo.”
“L’Inquisizione potrebbe
alfine avvedersi che voi siete un pazzo pericoloso, e trattarvi come tratta i
savii.”
“Ebbene!” esclamò Valero, “
che m’importa? Il martirio è una bella gloria.”
Per la seconda volta dacché
conosceva Josè, Estevan era vinto da quella semplicità sì vera, da
quell’incanto d’attrazione che scorgevasi in tutti i tratti del monaco: gli
porse la mano a sua volta in atto franco ed amichevole; Josè la prese e la
strinse con affezione, dicendogli colla sua voce dolce ed incantevole:
“Siamo amici…amici fino alla
morte…io lo merito…Un giorno forse Josè vi sarà carissimo.”
Estevan esitava ancora; un
dubbio crudele l’angustiava.
“Don Josè,” disse
finalmente, “ancora una cosa: se volete convincermi, rendetemi Dolores e suo
padre , ed io vi crederò.”
“Pensate a voi,” disse Josè,
“che il Sant’Uffizio renda così facilmente le sue vittime?”
“No, ma Josè il favorito
dell’inquisitore, fa quel che vuole nel Sant’Uffizio.”
“Josè può molto,” rispose il
favorito, “ma non può rendervi un uomo a cui son state rotte e bruciate le
membra.”
“Che dite?” domandò
vivamente Estevan.
“Dico che Manuel Argoso ha
subito ieri la tortura del fuoco e quella dell’acqua; dico essere impossibile
ch’io lo salvi, poiché non può camminare.”
“Ma Dolores! Dolores!” gridò
il misero giovane in una inesprimibile angoscia.
“State tranquillo sul suo
conto; Dolores non ha subito alcuna tortura, ed io la libererò. Se dopo
l’atto-di-fede non la trovate a casa di Giovanna, fate di me quello che volete,
don Estevan… Io non sono poi un avversario da temersi,” aggiunse con
quell’accento profondo di tristezza che sembrava essere caratteristica della
sua indole.
“Giurate di rendermi
Dolores?” domandò Estevan. “Il giuramento è stato inventato dai bricconi,”
rispose Josè; “io non giuro, ve lo prometto.”
“Signori!” esclamò il
giovane Vargas, “all’opera e conveniamo dei nostri mezzi. Trattasi di liberare
don Manuel Argoso o di morire. Ecco un aiuto che il cielo ne manda,” aggiunse
accennando Josè.
“Un fraticello!” disse
l’acre Valero; “ a che può egli servire in una congiura?”
“Io confesso tutti i
giorni,” rispose Josè.
“Bene! Bene!” disse Valero,
“dimenticava che voi combattete nelle tenebre[1].
“Iddio cangia il male in
bene,” rispose Josè.
“Siete pazzo?” disse piano
don Ximenes ad Estevan, “volete consegnarci a questo inquisitore?”
“Iddio cangia il male in
bene,” ripeté Estevan.
“Ebbene è piaciuto a Dio di
cambiare questo inquisitore in una buona e generosa creatura che ci servirà con
tutto il suo potere… State dunque tranquillo, don Ximenes, e non temete nulla.
Orsù, maestro,” proseguì volgendosi verso Mandamiento, che attendeva in un
canto il risultato di quel conciliabolo, “siete pronto a mettere a mia
disposizione tutte le vostre forze?”
“Le nostre forze,” rispose
il maestro, “possono essere più o meno considerevoli, secondo le esigenze dei
mandatari ed il salario offerto alla confraternita.”
“Non è questione di salario,
io pagherò generosamente.”
“Il nostro fratello
Gioachino ha parlato, mi pare, di dugentomila reali,” aggiunse Mandamiento.
“Non è abbastanza, maestro?
Non potete, per questa somma, mettere in campagna tre o quattrocento persone?”
“Dove volte che le trovi?”
osservò piano don Ximenes.
“Ne troverà ventimila al
bisogno,” disse Josè.
“Ebbene, maestro, lo
potete?” riprese Estevan.
Il maestro rifletté alcuni
istanti, poi rispose:
“Lo posso, signor cavaliere;
ma bisogna aggiungere ventimila reali per le spese de’ viaggi, poiché sarò
obbligato di far venire dei fratelli dalle città circonvicine[2].”
“I ventimila reali li darò
io!” esclamò don Ximenes de Herrera.
“In questo caso,” disse
Mandamiento, “le vostre signorie vorrebbero farmi questa promessa in iscritto?
Allora scrivo l’ordinazione sul registro della confraternita.”
“Facciamolo pure,” disse
Estevan.
Il maestro prese allora nel
suo registro un foglio di carta, e, presentando la penna s don Estevan:
“Scrivete signor cavaliere,”
gli disse.
Estevan scrisse:
“Io, Estevan, conte de
Vargas, m’obbligo e prometto di pagare a Mandamiento, maestro della
confraternita della Garduna, la somma di dugento ventimila reali, il giorno successivo
all’atto-di-fede che avrà luogo il 4 di giugno dell’anno corrente.
Siviglia, il 27 maggio
dell’anno 1534.
Estevan conte de Vargas.
E più in basso don Ximenes
scrisse :
Io pure mi obbligo e prometto di pagare la detta somma al signor Mandamiento, in mancanza di don Estevan de Vargas, il giorno dopo a quello sopra indicato.
Ximenes de Herrera.
“Basta, signori. ora tocca a
me prendere nota della vostra ordinazione,” continuò il maestro
e scrisse sul suo registro:
“Ordinazione fatta alla
confraternita della Garduna dal signor Estevan de Vargas, il 27 maggio 1534.
1° Disporre a favore di
detto signore di quattrocento membri della Garduna, tanto postulanti e novizi
quanto bravi, coperte e sirene che nel loro genere sono ugualmente utili alla
confraternita e concorrono alla prosperità.
2° Disporli il giorno del
prossimo atto-di-fede in maniera da oscurare il grande inquisitore…
“Cancellate; io non ho detto
questo,” interruppe Estevan; “lo porterete via solamente; non omicidii, signor
Mandamiento.”
“No, certo,” disse anco
Josè, “tu lo porterai via, e lo condurrai nei sotterranei scavati sotto il tuo
ricovero. Guardati dall’ucciderlo.”
“Cancellate, cancellate la
parola oscurare,” aggiunse Estevan.
Il maestro finse di
cancellare con la sua penna priva d’inchiostro, poiché aveva avuto cura di
nettarle sulla sua veste senza che nessuno se ne accorgesse.
Quindi riprese:
“…Disporli in maniera da
portar via il grande inquisitore, e liberare l’antico governatore di Siviglia,
ingiustamente condannato dall’Inquisizione. E dopo averlo
liberato, condurre il governatore alla Garduna per consegnarlo nelle mani
di don Estevan de Vargas.”
“O nelle mie,” interruppe
Josè.
“E’ sua signoria che
comanda,” disse il maestro. “S^,S^,” disse Estevan, “scrivete: o fra le mani di
sua signoria don Josè, elemosiniere di Sua Eminenza il grande inquisitore.”
“Questo è tutto?” continuò
Mandamiento.
“Mi pare che basti,” disse
don Rodrigo; “ben inteso, signor Mandamiento, che nulla sarà da voi trascurato
per il buon successo di questa intrapresa.”
“Signor cavaliere,” rispose
il capo, “non contate nulla il nostro onore e la nostra reputazione, che
sarebbero compromessi da una sconfitta di questa natura?”
“Aggiungete,” disse don
Josè: “Ritenere il grande inquisitore nei sotterranei della Garduna, fintanto
che don Josè permetta a Mandamiento di porlo in libertà.”
“E’ inutile,” rispose il
maestro; “quando avrò fatto dell’inquisiore quello che debbo farne, vostra
signoria ne disporrà a suo talento.
“Io m’incarico di lui,”
disse Manofina, che per rispetto alla nobile assemblea, era rimasto taciturno
fino a quel momento.
“Io ti darò le istruzioni a
questo riguardo,” disse Mandamiento, volgendogli uno sguardo significativo.
“Bene! Bene! Maestro, le
vostre istruzioni saranno eseguite.”
“Ora, signori,” disse
Valero, “a voi il rimanente.”
“Fino al momento,” disse a
sua volta Josè, “silenzio assoluto.”
“Il giorno
dell’atto-di-fede,” aggiunse don Ximenes, “troviamoci coi nostri amici agli
sbocchi della piazza.”
“I miei garduni non hanno
che far nulla con voi,”
disse Mandamiento;
“credetemi, signori, non vi ci mischiate. Trattasi di liberare il governatore,
non è vero? Io me ne incarico, i miei bravi ed io faremo tutto.”
“Però,” disse Estevan, “se
una mischia venisse a impegnarsi, bisogna che noi possiamo aiutarvi all’uopo.”
“E’ inutile, signori;
preparate il popolo soltanto; non perché ci aiuti, ma perché ci lasci fare;
questo basterà.”
“Una rivoluzione generale
avrebbe salvato tutte le vittime,” osservò Valero.
“Oimè, questo garduno ha
forse ragione,” disse il giovane Vargas, sospirando; “forse dovremo lasciarlo
fare.
“Sì, egli ha ragione,” disse
Josè, “un’aperta rivoluzione non servirebbe, in questo momento, che a
raddoppiare le crudeltà dell’Inquisizione e ad aumentare il numero delle vittime.
Credetemi, le precauzioni sono prese per difendersi all’uopo; truppe numerose
sono pronte e non è giunto ancora il giorno di poter lanciare questo povero
popolo in una insurrezione. Trattasi di saperlo governare; usiamo astuzia, non
audacia. Dimenticate che l’imperatore Carlo V deve assistere all’atto-di-fede,
e che numerosa milizia l’accompagna?”
“Don Josè ha ragione,”
aggiunse don Ximenes de Herrera: “una rivoluzione in quel giorno somiglierebbe
ad una cospirazione contro il re, e noi vogliamo attaccare soltanto
l’Inquisizione.”
“Ebbene! signori, che
decidiamo?” domandò Valero.
In quel momento fu battuto
un gran colpo alla porta della sala. Tutti trasalirono.
Mandamiento, senza
sconcertarsi, spinse una colonna mobile, la quale, girando su se medesima,
scoperse un’apertura che metteva in un’altra sala debolmente illuminata: era il
gabinetto del maestro.
“Entrate tutti là,” disse.
Ubbidirono. Mandamiento
rimise al suo posto la colonna, e corse verso la porta.
Aprì, ed era la Graziosa. Essa si precipita tutta il lacrime nella
sala.
“Che cos’è stato, Graziosa?”
disse il maestro, “è bruciata forse la tua casa?”
“Dov’è mio fratello?”
domandò essa tremando.
Mandamiento riaprì il
nascondiglio.
“Non temete nulla, signori,”
disse, “non v’è nessun pericolo, potete uscire.”
Rientrarono tutti nella
sala.
“Oh! Signori,” gridò la
Graziosa,” se sapeste qual disgrazia è accaduta!” E la gitana, soffocata dalle
lacrime non poteva parlare.
“Che c’è dunque?” dissero
tutti ad una voce.
“L’Apostolo, signori, il
padre di Siviglia…”
“Ebbene, finisci.”
“Arrestato! Arrestato
dall’Inquisizione!” proseguì con voce interrotta dai singulti.
“O Dio vendicatore!” esclamò
Estevan.
“L’hanno arrestato all’uscir
della predica,” continuò la sorella di Gioachino, “ sotto pretesto che aveva
predicato delle eresie.”
“Ebbene, don Estevan,” disse
Valero, “risparmiate il buon Pietro Arbues! Risparmiate il re che permette tali
iniquità1”
“Don Rodrigo, verrà la
nostra volta,” rispose Estevan; “la forza dell’uomo consiste nel saper
attendere.”
“Maestro,” egli disse a
Mandamiento, “voi agirete solo coi vostri garduni, v’impadronirete
dell’inquisitore e di Manuel Argoso…Noi, signori, pensiamo a preparare il
popolo; sarà facile prepararlo per questa causa, che è sua.
“Non scordate di assicurarvi
della persona di Pietro Arbues,” soggiunse Josè.
“Vostra Reverenza stia
tranquilla,” rispose Mandamiento, “Sua Eminenza non si salverà.”
Stabilite le cose in tal
guisa, i tre signori e Josè uscirono insieme dal palazzo della Garduna.
________________________
XL.
Il sermone all’angolo delle
strade.
Era il quattro di giugno dell’anno 1534. Erano suonate cinque ore del mattino.
La popolazione di Siviglia
erasi desta più di buona ora del consueto. Un grande avvenimento teneva tutti
gli animi sospesi. Era il giorno dell’atto-di-fede.
Giorno di festa solenne e
sacro, nel quale nessuno doveva lavorare, ma pregare.
A quell’ora un compagnia di
giovani nobili, aventi alla lor testa don Rodrigo de Valero percorrevano le vie di Siviglia, ragionando fra loro con
aria di mistero e fermando talvolta le persone del popolo che incontravano.
Parlavano loro per alcuni minuti; quindi i popolani si allontanavano con aria
pensierosa e preoccupata, come se avessero ricevuta un importantissima
confidenza.
La fisionomia dei cavalieri
era cupa e meditabonda: camminavano a due a due, fermandosi talora in circolo
per comunicarsi un’idea; quindi riprendendo il corso della loro passeggiata,
continuavano la loro propaganda popolare, scopo unico di quella escursione sul
mattino.
Qualche cosa di
misteriosamente terribile, come quelle sorde convulsioni della natura che
precedono l’uragano, agitava il popolo di Siviglia.
Profondamente esacerbato
dalle insinuazioni di Valero, di Estevan e dei loro amici; sedotto fino nel
santo tribunale dell’eloquenza insidiosa di Josè, che dal suo lato aveva operato
nelle tenebre, il popolo di Siviglia, quasi tutto composto di marrani, di
moreschi o d’ebrei apparentemente convertiti, il popolo aspettava con una
collera concentrata il giorno dell’atto-di-fede reale. Stanco delle odiose
persecuzioni che pesavano su di lui, stanco della sua longanimità, la quale non
aveva servito che ad aumentare l’audacia e la crudeltà dei suoi oppressori, era
in quello stato d’esacerbazione in cui la più lieve scintilla serve a destare
un grandissimo incendio.
Tale era stato il risultato
ottenuto dall’accorto Valero. In quel momento poteva realizzarsi per lui la
predizione che aveva fatta alcuni giorni innanzi uscendo dalla taverna.
-Questo popolo farà quello
ch’io vorrò. –
Valero era stato aiutato nei
suoi maneggi dai giovani signori che l’accompagnavano in quel momento, anime
ardenti, riscaldate dal grande e sublime amore della libertà. Figlia del cielo
sì di sovente incompresa, l’uomo non adora il più spesso in sua vece che un
idolo vano e adornato, opera imperfetta delle sue proprie mani.
Ma quelle grandi anime
spagnole non adoravano una vana parola, un’immagine ingannevole; la vera
libertà figlia del cielo, era l’oggetto dei loro voti e delle loro speranze, la
libertà protettrice e tollerante, quella vergine sublime, sorella della carità
cristiana, la quale cuopre com’essa i poveri ed i fanciulli coi lembi della sua
candida veste, li nutrisce, li consola, e manda il suo soffio divino sulle ali
del genio abbattuto e scoraggiato dicendogli: -Avanti! Avanti! Io sono pronta
ad aprirti la strada e a sostenerti.-
Vergine celeste, amante dei
grandi cuori di tutte le età, era dessa che animava quei baldanzosi cavalieri
spagnuoli, i quali per tanto tempo lottarono contro la tigre inquisitoriale.
“Coraggio, coraggio, amici
miei,” diceva Valero, “noi otterremo l’intento: questa giornata checché ne dica
don Estevan, non sarà infeconda per la felicità della Spagna.”
“Ah!” rispose Estevan, “
perché non posso versare nel cuore del popolo la convinzione che mi anima, e
renderlo in un giorno quello ch’io spero che sia fra qualche secolo, libero,
cioè felice! Una sola cosa mi affligge… Questo popolo buono, semplice e
credulo, a cui è stato detto, tu proteggerai oggi coloro che salveranno il tuo
antico governatore, questo popolo crede per ciò solo di fare un gran passo
verso la libertà… e non fa che servire un interesse personale.”
“Raddoppiare l’odio del
popolo verso i suoi oppressori,” disse don Ximenes, “è già servirlo, è
prepararlo a quella grande e generale rivoluzione che tosto o tardi avrà luogo
contro un potere iniquo e spietato. Nel gran processo d’un popolo contro i
suaoi oppressori, ogni causa particolare si lega alla causa comune.”
Mentre parlavano così, trovaronsi nella via fermati da un
gruppo di monaci mendicanti mezzi ebbri. Questi monaci uscivano da una taverna
in cui avevano passata la notte.
Molti fra loro erano giovani, ed i loro volti foschi e lucenti, portavano l’impronta della golosità oziosa, e dell’abuso dei beni terrestri.
Che bisogno avevano di
mettersi in pena? Tutto il mondo lavorava per essi.
Questi monaci erano bruni in
viso, il loro collo nervoso e la loro andatura, alquanto superba, accusavano il
vigore e la libertà delle razze del deserto, dalle quali sono scesi gli abitanti
dell’Andalusia e di Valenza. Questo tipo s’è conservato fino ai giorni nostri;
mettete un burnus ad un monaco spagnuolo, e ne avrete un beduino.
Essi avevano abiti sordidi,
mani luride, e tutto quello che si vedeva della loro persona manifestava
l’assenza completa di ogni cura esteriore. L’espressione dei loro occhi, audace
ed ambigua ad un tempo, disgustava il pudore ed inspirava lo spavento.
La loro barba nera o grigia
somigliava ad un prunaio, era inoltre tutta cosparsa di grani dell’elleboro,
polvere fina e rossastra di cui si faceva uso allora alla maniera del tabacco,
che fu conosciuto più tardi sotto Caterina de’ Medici. Questa polvere
d’elleboro è chiamata oggi tabacco di Spagna. I monaci di Spagna ne facevano un
enorme consumo. Tuttavia sapevano, al bisogno, gettare un denso e vasto manto
d’ipocrisia sulla turpitudine della loro anima.
Quantunque un po’ ebbri, a
misura che l’aria fresca arrivava al loro viso, riprendevano tutta la loro
ragione, e potevano nascondere il loro stato.
Eravi molta gente nella
strada.
“Fratelli,” disse il più
attempato dei monaci, “oggi è giorno dell’atto-di fede, noi non possiamo
scegliere un miglior circostanza per propagare la santa fede cattolica.
Fermiamoci qui: io esorterò il popolo.”
Così parlando, il monaco
accennava una larga pietra piana, addossata ad una casa e sormontata da una
nicchia in cui la pietà degli abitanti della casa aveva posta un’immagine della
Vergine, davanti alla quale manteneva costantemente un lume.
Il monaco montò sulla
pietra, fece un gran segno di croce, pregò alcuni istanti davanti all’immagine,
poscia volgendosi verso il popolo ch’erasi affollato intorno a lui, lo benedisse,
e si preparò a cominciare il suo sermone.
In quel momento Valero
l’interruppe.
“Monaco!” gli disse, “tu
dovresti aspettare di aver dormito per predicare, invece di venir qui, dopo una
notte di crapula, a profanare la parola di Dio. Non sai che tutto ciò che passa
per labbra impure diviene impuro?”
il monaco guarò con una
collera indicibile colui che ardiva apostrofarlo così.
“Non ci badate, reverendo,”
disse uno degli altri monaci; “è Valero il pazzo; egli ha il diritto
d’insultare tutto il mondo.”
“Che fai tu qui a
quest’ora?” proseguì indirizzandosi al vecchio signore.
“Vengo a vedere come gli
scribi ed i farisei sono seduti sulla cattedra di Mosè,” replicò severamente
don Valero.
“Miserabile pazzo! Voui
tacere?” gridarono i monaci.
Valero continuò con enfasi
profetica, guardando il popolo meravigliato di tanto ardire.
“Tutte le cose che vi dicono
d’osservare, osservatele e fatele; ma non le loro opere, perché essi dicono e
non fanno.”
“Vuoi tacere?” ripeté il
predicatore.
“Lasciatelo,” disse il
popolo, “lasciatelo parlare.”
Valero proseguì senza
sconcertarsi:
“Essi legano insieme
fardelli insopportabili, e li pongono sulle spalle degli uomini, ma non
vogliono muoverli col loro dito.”
“Fratelli,” continuò il
predicatore, “in questo giorno di glorificazione per il Nostro Signore, in cui
la chiesa trionfante riporta vittoria sulle eresie ce desolano la terra…”
“Serpenti! Razza di vipere!”
interruppe Valero, “voi fate morire i giusti ed i profeti; ed il sangue dei
giusti e dei profeti ricadrà su di voi!”
Queste energiche parole,
tolte dal Vangelo,, ebbero un’eco immenso nel popolo. Pochi erano quelli della
folla che non avessero in cuore una viva piaga che quelle parole toccavano
dolorosamente. Un sordo mormorio girò attorno ai monaci, e se non si diede loro
la baia, fu perché in quel momento un’interna tristezza si mescolava allo
sdegno ed alla collera del popolo; ei sentiva il bisogno di vendicarsi
grandemente, come fa talvolta quando è stanco di soffrire.
“Rodrigo de Valero dimentica
le frescherie della sua vita passata,” disse il predicatore con sarcasmo.
“Rodrigo si è pentito, e
Iddio gli ha perdonato,” replicò il vecchio signore; “ma voi avete la coscienza
del male, e tuttavia perseverate nel male. Guardatevi! La collera di Dio si fa
qualche volta aspettare, ma è certa, perciò andrete tutti là dove sono pianti e
stridori di denti[3].
“Il vino e le donne non
fanno mai degli eretici[4],” dissero i monaci in
cattivo latino; “l’inferno è per gli eretici.”
“Andate!” gridò loro Valero,
“depositari infedeli della legge di Cristo, voi, il cui cuore è pieno di rapina
e d’intemperanza, andate a tosare le pecore che il buon pastore portava sulle
spalle, per arricchirvi delle loro spoglie. Andate, vampiri, a suggere il
sangue di coloro che sono immersi nel sonno.”
“Il pazzo è più ragionevole
di noi tutti,” disse alcuni popolani.
“Questi monaci sono
ubriachi,” aggiunsero altri, “andiamo via di qua.”
Il gruppo di popolani e
popolane che s’era formato intorno al predicatore si dileguò subito, e si
disperse nelle strade.
I monaci, vedendosi privi
d’uditori, si allontanarono mormorando tra’ denti, e gettando sguardi d’odio a
quello che chiamavano il pazzo. L’orologio della cattedrale suonò otto ore.
Seguì un gran tumulto nella
folla che ingombrava le vie, il popolo si portò verso il palazzo
dell’Inquisizione.
Si vedeva un gran numero di
persone, le quali non si perdevano di vista, poiché si cangiavano fra loro
sguardi d’intelligenza.
Alcuni si accostavano
pronunziando a voce bassa queste due parole.
“Dio e libertà.” Tutte
queste persone erano del complotto.
Scorrevano tra la folla,
aiutandosi coi gomiti per aprirsi un passaggio; e quando il popolo era arrivato
davanti al palazzo dell’Inquisizione, erano giunti a trovarsi alla testa della
folla avida e curiosa di quelle lugubri tragedie sì di sovente rinnovate, delle
quali si pasceva come d’uno spettacolo.
La processione usciva in
quel momento dal palazzo dell’Inquisizione.
I carbonai aprivano la
marcia; erano in numero di cento, e ognuno di essi era armato d’una picca e di
un moschetto[5].
Veniva quindi una gran croce
bianca, vessillo dei figli di San Domenico de Guzman, portata da un monaco
dell’Ordine; poi gli stessi Domenicani vestiti delle loro lunghe tonache e del
manto pio. Sul loro petto, nel mezzo dello scapolare nero che cadeva
fino ai loro piedi, spiccava un gran croce bianca[6]; un lungo rosario pendeva
dalla loro cintura. Questa sacra milizia era innumerevole, i Domenicani
pullulavano in Ispagna.
Dopo di essi veniva il duca
di Medina-Cœli, il quale portava, secondo il privilegio accordato alla sua
famiglia, il grande stendardo della fede[7]. Era una bandiera di
damasco purpureo, sulla quale erano state ricamate da un lato le armi di
Spagna, dall’altro una spada nuda circondata da una corona di lauro, con questa
iscrizione: Justitia et misericordia.
Appresso al nobile duca
venivano i grandi di Spagna ed i famigliari affezionati[8] dell’Inquisizione.
Questi ultimi erano in gran
numero. Il potere più iniquo ha sempre numerose creature: il terrore e l’interesse
personale sono grandi veicoli, e l’egoismo è la lebbra dell’umanità.
La folla guardava silenziosa
sfilare il corteo. I monaci ed i famigliari camminavano umilmente a testa bassa
borbottando a fior di labbra le sublimi preghiere della Chiesa cristiana,
divenute insipide e non espressive passando per la bocca impura di quegli
uomini dal cuore di ghiaccio. Essi conoscevano a fondo il formulario dei
devoti, ma nulla delle pratiche della vera pietà…
Il popolo riamanea, suo
malgrado, muto ed esterrefatto in presenza di quelle pompe della morte.
Bentosto comparvero i
condannati, che erano in numero di cinquanta.
Procedevano confusi uomini
con donne, vecchi con fanciulli, senza distinzione di rango né di sesso.
Prima venivan le vittime
condannate a leggiere penitenze; esse erano vestite d’un sanbenito di
tela con una gran croce di sant’Andrea sul petto. La loro testa era scoperta, ed i loro piedi nudi si ammaccavano
nelle asprezze della strada. L’attitudine di quei poveri infelici era triste ed
umiliata; sentivano che, quantunque scappati alla morte, l’Inquisizione li condannava
ad una infamia eterna. Non osando distruggere la loro vita materiale, essa
annientava la loro vita morale; e queste si chiamavano leggiere penitenze[9].
Dietro le prime vittime
venivano i condannati alle galere, alle fruste ed alla prigionia[10].
Dopo queste procedevano i
condannati al fuoco, i quali mercè una tardiva confessione, avevano ottenuto il
favore dello strangolamento. Portavano un sanbenito il quale era dipinto
di diavoli e di fiamme rovesciate. La loro testa era coperta da una coroza alta tre piedi.
Coloro che dovevano essere
bruciati vivi venivano gli ultimi. Il loro sanbenito, era pure coperto
di figure diaboliche, ma le fiamme erano ascendenti. Portavano essi pure la coroza.
Ogni condannato portava in mano un torcetto di cera gialla.
Coloro che erano dannati a
morte, venivano scortati da due famigliari e da due frati. Erano generalmente
magri, pallidi, lividi; molti non potevano camminare che con l’aiuto dei monaci
e dei famigliari, i quali piuttosto che sorreggerli, li portavano.
Era una processione di
agonizzanti che andava incontro alla morte.
Fra costoro lo sventurato
Manuel Argoso veniva ultimo.
Colpito in tutte le sue
membra, indebolito dai suoi dolori morali, dal regime del carcere, dalla
tortura dall’acqua, in conseguenza della quale molti vasi eransi rotti nel suo
petto, ed avevano provocato delle emottisi, Manuel Argoso non camminava; i suoi
piedi, arsi fino ai nervi, non potevano sostenerlo. Era portato da due famigliari.
Due monaci domenicani, che l’aiutavano pure a camminare, l’esortavano con voce
melata a convertirsi, ma l’infelice conte di Cevallos sembrava aver perduto
perfino il sentimento dell’esistenza.
Il suo viso ferreo e livido
aveva già il colore della tomba, ed i suoi occhi vitrei, fissi senza
espressione, avevano quella direzione obliqua che prendono gli occhi dei
moribondi, nel momento in cui, pronti a lasciare la terra, volgono forse lo
sguardo verso un’altra parte.
Chi può penetrare i misteri
dell’agonia e della morte, di quell’ultima lotta fra la forma terrestre e
l’uomo immateriale?
Alla vista del loro antico
governatore, di quell’uomo giusto, dolce e caritatevole che avevano amato come
un padre, le persone del popolo si sentirono commosse e intenerite fino alle
lacrime, ma non ardivano manifestare a viso scoperto la loro compassione. Molti
abbassavano la testa sulle loro mani congiunte, per nasconder così le lacrime
che involontariamente sfuggivano loro dagli occhi.
Nel momento in cui i
condannati al fuoco uscirono dalle prigioni, i garduni, confusi nella folla,
armati d’un rosario d’una lunghezza molto edificante, ed avendo alla
loro testa Mandamiento, sfilarono in processione ai due lati delle vittime, e
seguirono devotamente il corteo pregando con fervore. Due bravi, forti e
robusti, si tennero vicini al governatore, molti novizi camminavano davanti e
dietro di essi, pregando e dando tutti i segni esteriori della più profonda
pietà.
Un gran numero di garduni
eransi mischiati fra i popolani; costoro, preparati da Estevan e dai suoi
amici, si prestavano, senza saperlo a questo complotto misterioso; si separavano
da sé stessi senza dir nulla ogni volta che un garduno aveva bisogno di andare
o di venire liberamente secondo il posto che voleva occupare. A misura che la
processione sfilava, nuovi garduni si ponevano devotamente a i due lati.
Comparvero finalmente le
ultime vittime, quelle che sfidavano la tortura e le fiamme, cioè i morti…[11]. Neppure a questi erasi
voluto lasciar la pace della tomba. Non potendo ardere la loro carne, ardevano
le loro ossa e la loro effigie. Erano chise in alcune casse; e statue di
cartone, immagini di coloro che non erano più, venivano portate nel luogo del
supplizio per essere poste sul rogo.
L’Inquisizione sarebbe
andata a cercare le sue vittime nel paradiso o nell’inferno per soddisfare la
sua santa vendetta!
Tutto il tempo che aveva
durato il passaggio dei martiri, un profondo e religioso silenzio aveva regnato
nella folla; essa seguiva con occhio avido ed intenerito il loro cammino lento
e penoso. Era cosa triste ed orribile ad un tempo il vedere quei monaci empi e
fanatici, con un crocifisso nelle mani e parole di pace sulle labbra, esortare
le vittime della loro barbarie in nome di Colui che sulla croce perdonò ai suoi
carnefici.
Oh1 come in quei tempi
odiosi di fanatismo e d’oppressione religiosa compievansi queste profetiche
parole dell’Uomo-Dio:
-Io non sono venuto a portar
la pace sulla terra, ma la spada[12]-.
Il divino riformatore
prevedeva tutto quello che i suoi discepoli di tutte le età avrebbero dovuto
soffrire dagli scribi e dai farisei, schiatta impura che si
perpetua per l’affigliazione, e non per la creazione, e si pasce di
cadaveri come i vermi del sepolcro…
Bentosto un grande scalpitio
di cavalli annunziò la presenza degl’inquisitori.
I Consiglieri della Suprema,
gl’inquisitori ordinari, ed i membri del clero, formanti un’immensa cavalcata,
venivano dopo i martiri. Il grande inquisitore chiudeva la marcia, scortato
dalle sue guardie del corpo.
Josè era alcuni passi avanti
a lui.
A misura che la cavalcata
sfilava, alcuni garduni si posero ai due lati sempre borbottando e pregando.
Nel momento in cui passò il grande inquisitore, Manofina, seguito dalla sua
fedel Colubrina, si mise umilmente a camminare al suo fianco, pregando con
maggior fervore degli altri.
Alcuni momenti dopo si udì
un prolungato abbaiamento; era il segnale che avvertir doveva Mandamiento che
la processione era uscita per intiero. Allora il maestro, che era il punto di
mira dei garduni, fece un gran segno di croce, e baciò la medaglia del suo
rosario.
Aveva appena fatto questo
segno convenuto, che i due bravi, i quali erano vicini al governatore,
allontanarono con violenza i famigliari che lo sostenevano, portarono via Manuel
Argoso nelle loro braccia di ferro, mentre i novizi tenevano i famigliari, ed
evasero colla rapidità della folgore.
La folla si divise da sé
stessa per favorire la loro fuga; ed i garduni disparvero come per incanto
nelle tortuose vie di Siviglia.
I monaci che scortavano il
governatore, non che coloro che avevano veduto il colpo, spaventati e timorosi
d’una rivoluzione, gettarono lungi il crocifisso, e vollero fuggire; ma la
folla eransi chiusa attorno ad essi, sicché fu loro impossibile l’uscire.
I garduni erano
prudentemente evasi l’uno dopo l’altro, il resto della compagnia aveva
continuato a pregare seguendo la processione. Il grande inquisitore, troppo
lontano, non si era accorto di nulla. Un nuovo abbaiamento si udì alcuni passi
distante da Manofina.
Bentosto il bravo, colla
rapidità d’un daino, saltò sulla groppa del cavallo che portava il grande inquisitore,
colpì Pietro Arbues col suo pugnale nel mezzo del dorso, discese poi sì
prestamente, e si allontanò con tanta rapidità, che rimase impossibile vedere
chi aveva fatto il colpo[13]. La folla si era divisa là
pure per favorire la figa del bravo; ma nel momento in cui Manofina scendeva da
cavallo, la sirena, prendendo vivamente pel braccio uno sgherro del
Sant’Uffizio, si pose a gridare. “E’ lui, è l’assassino! Egli voleva uccidere
il grande inquisitore!” ed essa lo riteneva con tutte le forze delle sue
piccole mani nervose per dare il tempo a Manofina d’allontanarsi.
Questo avvenimento era stato
sì rapido, che appena coloro i quali camminavano immediatamente davanti
all’inquisitore avevano potuto avvedersene. Josè solo, attento a tutto quello
che accadeva, aggrottò il sopracciglio in aria di scontento nell’istante in cui
Manofina colpì l’inquisitore.
Pietro Arbues ricevendo un
colpo che doveva necessariamente esser mortale, non erasi neppure scosso.
Gl’inquisitori ed il clero non si erano rivolti che alle grida della sirena;
allora si affollarono intorno a Pietro Arbues.
Ma egli fiero e tranquillo
guardandoli con un sorriso di trionfo:
“Non è nulla,” disse a
coloro che l’interrogavano, “un empio ha voluto uccidermi, ma Iddio mi
protegge,” soggiunse con aria ipocrita; “il pugnale non ha forato che la mia tonaca.”
Ed in fatti mostrò una
leggiera lacerazione nella sua veste violetta che solamente manifestava
l’attentato di Manofina. A quella vista un lampo di rapida gioia brillò nello
sguardo di Josè.
“Dio ha fatto un miracolo in
favore di Sua Eminenza!” esclamarono alcuni monaci.
Ed il popolo, quel povero
popolo semplice e credulo, tornò a venerare colui che testè malediva, poiché credette
ad un intervento divino a favore del suo carnefice.
Il popolo ignorava che
Pietro Arbues portava una corazza sotto i suoi abiti[14]. Tuttavia gli sgherri
avevano arrestato colui che Colubrina aveva indicato come l’assassino, e
l’amante di Manofina si mischiò allora alla folla delle altre donne che
pregavano seguendo la cavalcata. Niuno pensò a denunziarla, benché non si
credesse estranea a questo tentativo d’assassinio sulla sacra persona
del grande inquisitore di Siviglia; oltre a ciò l’azione di Manofina era stata
sì rapida, che nessuno avrebbe voluto credere al testimonio dei suoi propri
occhi, e molti dicevano in sé medesimi: “Quegli che ha accusato questa donna è
forse il colpevole.”
Tutto ciò fu molto rapido,
l’ordine della processione non ne fu turbato. Soltanto fu inviato un famigliare
a Sua Eminenza il grande inquisitore, onde notificargli il rapimento di Manuel
Argoso.
A tal nuova Pietro Arbues
inarcò il sopracciglio, e disse freddamente.
“Bene, nulla deve arrestare
o turbare questa augusta cerimonia. Orsù, non bisogna far aspettare Sua Maestà.
Dopo l’atto-di-fede faremo ricercare e perseguitare i colpevoli.”
La processione riprese il
suo cammino interrotto per un istante.
In questo tempo un monaco
Domenicano era uscito con gli altri dal palazzo dell’Inquisizione; quindi,
invece di seguire la processione, s’introdusse fra la folla e arrivò nella via
in cui abitava Giovanna. Giunto davanti alla porta della casa moresca, l’aprì
con una chiave che teneva in mano, entrò e chiuse la porta dietro di sé.
Quel monaco era Dolores.
Josè aveva mantenuto la sua
promessa.
_____________________
XLI.
L’atto-di-fede.
Mentre la processione usciva dal palazzo del Santo Uffizio, la piazza maggiore in cui l’atto-di-fede doveva aver luogo si empiva a poco a poco di persone.
Sul lato più largo della
piazza, davanti al palazzo, o piuttosto alla casa occupata dal re e dal suo
seguito, la quale apparteneva al duca di Medina-Cœli, eransi eretto un palco lungo
cinquanta piedi ed elevato fino all’altezza della loggia reale.
A destra del palco e su
tutta la sua larghezza elevavansi un anfiteatro destinato ai consiglieri della
Suprema e agli altri Consiglieri di Spagna.
Al di sopra di quegli
scalini vedevansi il seggiolone destinato al grande inquisitore.
Questo seggio era molto più
alto della loggia del re. L’inquisitore rappresentava il potere papale,
che è al di sopra di tutte le potenze terrestri.
Un secondo anfiteatro,
destinato ai condannati, elevavansi a sinistra in faccia al primo.
Nel mezzo, dicontro alla
loggia del re, ve n’era un terzo piccolissimo, sul quale eransi poste due
gabbie, in cui ciascun condannato era rinchiuso mentre gli si leggeva la sentenza.
Dicontro a queste gabbie
vedevansi due seggiole.
A pié del primo anfiteatro
si ergeva un altare. Vicino all’altare era piantata una croce verde coperta di
velluto nero[15]. Numerosi Domenicani, inginocchiati, pregavano con umile fervore;
altri dicevano messe continuamente, in maniera che il Santo Sacrificio fosse
celebrato senza interruzione. Quei monaci erano là fino dal giorno innanzi
digiunando e pregando per la redenzione delle vittime[16].
Nel mezzo della piazza,
sopra un largo e permanente palcodi pietra, potevasi contare quindici roghi
formati di legno resinosi, di materie oleose e di paglia, perché la combustione
fosse più rapida. Ogni condannato aveva il suo: era il letto ardente su cui
doveva terminare la sua terribile agonia.
Ai quattro angoli di quel
palco, quattro grandi statue di terra cotta erano ivi situate come immobili
sentinelle. Intorno a ciascuna di queste statue eransi elevati quattro mucchi
di legno infiammabilissimo. Tali preparativi di distruzione erano terribili a
vedersi. Il luogo in cui si elevavano i roghi chiamatasi il Quemadero.
L’imperatore Carlo V
occupava già la loggia reale. L’abito del re era semplice e severo, ma
elegante, non differiva in nulla da quello dei signori della sua corte.
Frattanto riconoscevasi di leggieri al colore rosso della sua barba,
particolarità considerevole che distingueva il re cattolico di Spagna, il
figlio della casa d’Austria, e che gli era comune con l’ultimo sovrano di
Granata, Boabdil, il re dell’Alhambra, il quale versò amare lacrime quando,
spogliato del suo regno ed esiliato da Granata, si fermò per gettare un ultimo
sguardo sulla diletta città[17]. Carlo V eziandio amò
Granata, vedesi ancora presso l’Alhambra il magnifico palazzo incominciato dal
vincitore di Fez.
Un gran numero di dame,
riccamente abbigliate, occupava le real loggia.
I palchi destinati al popolo
si empivano rapidamente. Dopo il ratto del governatore, la folla che non aveva
più interesse di curiosità a rimaner vicina alla processione, erasi tosto
portata verso il luogo da cui poteva sperare di soddisfare il suo gusto
naturale per gli spettacoli e per le esecuzioni: gusto depravato, comune in
tutti i popoli, e che l’incivilimento soltanto, un incivilimento bene inteso,
avrebbe il potere di fare scomparire, sviluppando presso quelle nature alquanto
selavaggie i sentimenti morali a scapito degli istinti fisici.
Nel momento in cui la
processione arrivò sulla piazza maggiore, Carlo V, malgrado la sua deferenza
per il Sant’Uffizio, aggrottò subito il sopracciglio con aria di malcontento.
L’incredibile attività di spirito dell’imperatore non si acconciava con un
ritardo.
Finalmente ei respirò,
vedendo che la cerimonia era per cominciare.
I carbonai si schierarono
sul teatro alla sinistra della loggia reale. I Consiglieri dello Stato
occuparono, secondo l’ordine di gerarchia, i gradini che loro erano destinati.
In questo tempo i condannati
fecero il giro del palco, e passando sotto la loggia del re, andarono ad
assidersi sull’anfiteatro della sinistra. I frati ed i famigliari che li accompagnavano,
rimasero al loro fianco continuando a sostenerli e ad esortarli.
Il duca di Medina-Cœli si
pose, secondo il suo diritto, nella loggia reale.
Il suo genero, il duca di
Mondejar, membro del Consiglio di Castiglia, prese posto fra i consiglieri.
La figlia del conte,
Isabella, sedeva fra le dame poste presso Sua Maestà; l’attitudine di questa
giovane era mesta ed abbattuta: un profondo dolore la divorava.
Finalmente il grande
inquisitore salì a sua volta gli scalini che conducevano al suo trono, al di
sopra del Consiglio della suprema, e si assise con una trionfante umiltà sul
largo seggiolone che gli era stato preparato, dominando così i più grandi
dignitari del regno ed il re medesimo, che aveva la bontà di soffrirlo.
Bentosto un profondo e cupo
silenzio regnò in quella folla immensa.
Un prete domenicano, vestito
dei suoi ornamenti sacerdotali incominciò il sacrifizio della messa.
Era uno strano spettacolo
Monaci di tutti gli Ordini,
milizia innumerevole, che per poco formava il quarto della popolazione,
pregavano umilmente inginocchiati; la folla in quel momento, sotto l’influenza
di un sentimento indefinibile, misto di terrore superstizioso e di devozione
fanatica, curvava la testa battendosi il petto. Ciascuno poneva cura innanzi
tutto, a mostrarsi zelante e devoto, che a non comparirlo v’era molto pericolo.
La messa continuò così fino al Vangelo. In quel momento tutti si alzarono.
Un monaco Domenicano montò
in una delle seggiole poste ai due lati delle gabbie di legno elevate nel mezzo
del teatro. Nella seconda si pose il relatore del Santo Uffizio, o lettore
dei giudizi.
Allora il grande inquisitore
discese dal suo seggiolo; arrivato a pié dell’anfiteatro, Josè, suo
elemosiniere, pose una mitra d’oro sul
capo di Pietro Arbues, e lo vestì d’una cappa; poscia l’inquisitore si avanzò
fino alla loggia del re. Alcuni ufficiali lo seguivano, portando la croce, un
libro dei vangeli ed un altro libro che conteneva la formola del giuramento che
doveva prestare il sovrano.
Pietro Arbues passò i primi
gradini dell’anfiteatro fino al quarto in modo da essere sempre posto più in
alto del monarca. Là si fermò, e con voce potente e sonora, volgendosi
all’imperatore cattolico:
“Sire,” gridò egli, “Vostra
Maestà giura di proteggere la fede cattolica romana, di estirpare le
eresie e di sostenere con tutto il suo potere reale le procedure
dell’Inquisizione?”
Il fiero imperatore si alzò
in piedi, scoprì la sua fronte reale, davanti alla quale si scoprivano tutte le
altre fronti, e rispose con voce ferma:
“Lo giuro!…”
Allora il grande
inquisitore, volgendosi verso l’assemblea, ed interpellandola collettivamente,
gridò in modo da essere inteso a tutte le estremità della piazza:
“Voi tutti, figli della
Chiesa di Roma, che siete qui presenti, giurate ciascuno secondo la vostra
capacità ed il vostro potere di difendere, di proteggere la fede cattolica
apostolica e romana? …di perseguitare e di denunziare gli eretici e di prestare
il vostro soccorso a tutti gli atti dell’Inquisizione?”
“Lo giuriamo!, lo giuriamo!”
risposero in coro migliaia di voci. Questa volta la popolazione di Siviglia era
riunita sulla piazza e nei dintorni.
“Bene, bene!” disse
l’inquisitore, facendo un gesto colla mano, “ora silenzio, ed ascoltate.”
Pietro Arbues risalì
lentamente i gradini dell’anfiteatro e riprese posto nel suo seggiolone.
Il Domenicano che doveva
predicare fece un gran segno di croce, e cominciò così il suo sermone:
“Fratelli,-Inquisitio
superior regibus, l’inquisizione è superiore ai re, perocché il potere del
cielo è al di sopra dei poteri della terra, l’Inquisizione è la porta del
paradiso. L’acqua viva ne sgorga, e noi dobbiamo tutti bagnarne i nostri cuori
come terre aride, senza di che lo Spirito santo ci aprirà la bocca come a
Balaamo ed a Caifas. Infatti, fratelli, l’Inquisizione è santa e al di sopra
dei re, superior regibus, perocché risale alla creazione del mondo ed
all’origine della torre di Babele[18]. A queste parole
l’imperatore fece il viso arcigno, ed ebbe gran pena a contenere lo sdegno che
gli cagionava quel ridicolo sermone. tuttavia non disse nulla, non volendo
alienarsi il Sant’Uffizio. Egli aveva in quel momento molti nemici fra i
riformati e non voleva crearsene di nuovi fra i cattolici. Non era più il tempo
in cui rispondeva alle violenze del papa con violenze maggiori.
Lasciò dunque il predicatore
continuare a suo talento quella singolare apologia dell’Inquisizione, che durò
quasi venti minuti; dopo di che, terminata la messa, fu cominciata la lettura
delle sentenze.
I primi due condannati, che
furono rinchiusi nelle gabbie di legno, furono Francesca di Lerma e l’infelice
Herrezuelo, che abbiamo già veduto figurare nella seduta inquisitoriale in cui
figurò Francesca.
Herrezuelo, forte e
coraggioso fino alla morte, rifiutò costantemente le esortazioni del confessore
che gli era stato assegnato, e quando, giunto nel mezzo della gabbia in cui doveva
udire la sua sentenza, il prete gl’indirizzò nuove esortazioni, ei lo respinse
dolcemente, dicendogli:
“Io vi abbandono il corpo,
lasciate almeno l’anima tranquilla.” Poscia udì la sua condanna senza
impallidire, e tornò al suo posto.
Non fu così di Francesca;
questa povera giovane sentì venir meno il suo coraggio in faccia al supplizio:
e siccome era ignorantissima ed incapace di discernere il falso dal vero in una
religione, le prime impressioni della sua giovinezza tornarono a dominare nella
sua mente, e forse quella fisica costituzione, molle e sensuale, provò uno
spavento troppo grande dell’atroce supplizio che le era destinato. Giunta nella
gabbia di legno, e nell’istante in cui il relatore pronunciava quelle parole bruciata
viva: “No! Viva no,” esclamò l’infelice badessa; “mi pento, voglio morire
da buona cristiana.”
“Sia lodato Iddio!” disse
l’inquisitore, “ecco un’anima salvata.”
Le sue viscere non furono
commosse dall’agonia di quella donna sventurata, ch’egli aveva perduta.
Due nuovi condannati
succedettero ai primi.
Uno di essi era un vago e
nobil giovane di Verona. Disceso da una delle prime famiglie d’Italia aveva
reso eminenti servigi all’imperatore Carlo V; dotto e ricchissimo, era nemico
dell’Inquisizione. Si chiamava don Carlos de Seso. Passando davanti alla loggia
reale, don Carlos gettò all’imperatore uno sguardo il cui rimprovero si
mischiava ad una profonda pietà. Quello sguardo pareva dire:
“Ecco quegli che è chiamato
il grande!…”
Quando fu inginocchiato
nella gabbia, domandò inchiostro e carta per scrivere la sua confessione. Un
sergente dell’Inquisizione[19] gli portò subito quello che
desiderava. Dopo aver scritto, don Carlos lesse ad alta voce, ma con gran
dispiacere dell’inquisitore, quella confessione era fatta ad imitazione della
celebre confessione d’Ausburg[20].
“Basta! Basta!” gridò
l’inquisitore per obbligare la silenzio il celebre riformista; ma don Carlos
proseguì con voce sonora:
“Dichiaro che voglio morire
nella religione di Lutero, che è la vera fede del Vangelo, e non già nella
religione romana, dottrina corrotta, che il clero cattolico ha acconciato ai
suoi vizi!”
“Si ponga lo sbavaglio a
quest’uomo,” disse Pietro Arbues, “egli scandalizza la Chiesa di Cristo.”
Si eseguirono gli ordini
dell’inquisitore, e don Carlos de Seso, obbligato a tacere, ascolta leggere la
sua sentenza senza impallidire.
Intanto nella gabbia
accanto, Domenico de Boxas, quel vecchi prete Domenicano che mostrò tanto animo
nella udienza già descritta, serbava un ostinato silenzio,m e ricusava di
rispondere al monaco che lo esortava. Quando fu giunto il momento di leggere la
sua sentenza, ascoltò fino all’ultimo senza pronunziar parole, senza
manifestare alcun timore della morte, ma scendendo dal palco, si volse verso il
re gridandogli:
“io muoio per la difesa
della vera fede del Vangelo, che è quello di Lutero.”
Mentre don Carlos de Seso e
Domenico de Boxas scendevano il palco per andare al Quemadero, i tormentatori,
armati di grandi chiodi e d’un martello, si accostarono ad una gran croce di
legno che era sul palco, appoggiata su due grandi panche.
Allora furono condotti
dinanzi a questa croce dieci eretici giudaizzanti, condannati alle fiamme.
Questi infelici posero ciascuno un mano sulla croce. E questa mano vi fu spietatamente
inchiodata, in espiazione, dicevano gl’inquisitori, della crocifissione di Gesù[21].
Quando il chiodo penetrò
nelle loro carni, gli sventurati mandarono un grido terribile, ma i
tormentatori non ne furono commossi, essi continuarono ad inchiodare colla
maggiore calma del mondo. In questo stato le povere vittime udirono le loro
sentenze. Non furono schiodati che per condurli alla morte.
Vennero quindi un prete ed
il suo domestico, poi due frati[22] condannati alle fiamme ed
allo strangolamento; poi, finalmente, venne la volta di coloro che rano
condannati alle galere, alla prigione perpetua, o solamente alla frusta.
Fra costoro vedevasi
Guglielmo Franco, quel disgraziato marito, condannato ad una prigionia perpetua
per non aver voluto soffrire in sua casa un prete che gli aveva sedotta la
moglie.
Mentre leggevasi la sentenza
di questi ultimi i condannati al fuoco erano tornati al loro posto.
Il popolo raddoppiò
l’attenzione ed il raccoglimento. Il re Carlo V era cupo e pensieroso, un gran
pensiero sembrava occupare in quel omento quello spirito profondo, quel genio
ardito che non avrebbe forse che un torto, quello cioè, di sottomettere troppo
gli uomini e le cose al suo particolare interesse: l’eccesso del suo dispotismo
e della sua ambizione lo rese sempre schiavo. Nato con uno spirito retto, vasto
e giusto, Carlo V si sottopose quasi costantemente alle esigenze di Roma,
perciocché credette necessario il concorso di Roma al mantenimento della sua
possanza. Errore gravissimo dei re, che in ogni tempo gli ha perduti.
Lo spettacolo terribile d’un
grande atto-di-fede, al quale Carlo V assisteva per la prima volta, gli faceva
in quel momento indovinare una gran parte degli abominevoli abusi della
Inquisizione, sui quali era stato dì di sovente ingannato[23]. Forse in quel momento covava
già nel suo animo quel progetto che eseguì un anno più tardi, di togliere al
Sant’Uffizio la reale giurisdizione, e di esiliare l’inquisitore generale di
Castiglia, Alfonso Manriquez.
Alcuni pretendono che quel
gran re inclinasse negli ultimi anni della sua vita verso le dottine riformate,
che aveva combattute sì vivamente, e che dopo la sua morte si trovasse nella
cella del frate di S.Giusto una quantità d’iscrizioni che tutte manifestavano
una tendenza molto pronunziata verso la religione luterana.
Finalmente il relatore aveva
terminato la lettura delle sentenze. Il prete continuò la messa.
Terminata, Pietro Arbues si
alzò dal suo seggio, e pronunziò ad alta voce l’assoluzione di coloro che si
erano pentiti[24].
Frattanto tutti quelli che
erano stati condannati a leggiere penitenze tornavano alla prigione del Santo
uffizio, scortati dagli arcieri della Santa-Hermandad.
Intanto le infelici vittime
condannate alle fiamme erano arrivate al luogo del supplizio. Pietro Arbues,
sempre fiero e superbo sotto l’umile aspetto di prete pareva più del re
medesimo. Ei godeva in quell’istante d’un doppio trionfo di crudeltà e di
vanità. Tuttavia il rapimento del governatore di Siviglia lo preoccupava
spiacevolmente. La vendetta gli fuggiva quando appunto stava per essere
soddisfatta. Il feroce Domenicano sognava già nuovi supplizii per la coraggiosa
fanciulla che gli aveva resistito. Tutta la sua collera si portava su Dolores.
L’insensato ignorava che in quel momento stesso la sua preda gli sfuggiva.
Josè scrutava collo sguardo
quella fisionomia sulla quale era avvezzo a leggere da molto tempo. Josè, cupo
e sdegnoso, nascondeva sotto una completa impassibilità i battiti violenti del
suo cuore; ma chi avesse considerato attentamente la sua fisionomia avrebbe di
leggieri veduto brillare nei suoi grandi occhi la febbre interna che lo
divorava.
Attore in lungo e terribile
dramma, ei camminava a gran passi verso lo scioglimento,m e all’avvicinarsi di
quell’istante supremo, il suo volto, per lo innanzi sì bello, assumeva qualche
cosa di tragico, di fatale, d’inspirato.
Gli occhi del fraticello
seguivano con una incredibile attenzione tutti gli incidenti dell’atto-di-fede.
Nel momento in cui le
vittime salivano insieme al Quemadero, una specie di singhiozzo convulso uscì
dal petto del favorito, i suoi occhi si velavano di una nube, e Josè
s’inginocchiò, coprendosi il volto collemani per nascondere una lacrima
involontaria sotto l’apparenza di un atto religioso.
Il re abbandonò allora la
loggia reale.
Quando rientrava nei suoi
appartamenti, la figlia del duca di Mondejar si gettò alle ginocchia di Carlo
v, e, tutta in lacrime, alzò verso di lui le sue mani supplichevoli.
“Che vuoi da me, figliuola
mia?” domandò il re sorpreso.
“Grazia! Sire, grazia per il
mio fidanzato, che è nelle prigioni del Sant’Uffizio!”
“Figlia mia,” disse il re
intenerito da quel dolore così vivo, “ben piccolo è il mio potere presso la
Santissima Inquisizione, io credo che il migliore intercessore che tu possa avere
in quest’affare si è il tuo avo, il duca di Medina-Cœli, che è qui presente.”
“Sire,” rispose il vecchio
signore, “quegli che esser doveva mio genero ha disonorato il suo titolo di
cavaliere, di gentiluomo e di cristiano, il Sant’Uffizio ha incrudelito contro
di lui, e don Carlos si è fatta giustizia da sé medesimo, schivando con la morte
l’infamia del supplizio: ei si è spezzata la testa conto le mura del suo
carcere[25].”
A questa crudel risposta del
gran porta-stendardo, Carlo v non poté reprimere una esclamazione di orrore e
di pietà: l’infelice donzella era caduta colla faccia contro terra, e priva di
sentimento.
Medina-Cœli fece un cenno, e
due donne trasportarono la sventurata Isabella.
Il re si allontanò in
silenzio con sembiante di profonda mestizia. Le esecuzioni stavano per
incominciare.
Era uno spettacolo terribile
e pieno di laceranti emozioni.
Ciascuno dei condannati era
inginocchiato a pié del rogo che doveva divorarlo.
I frati col crocifisso nelle
mani pregavano, ed esortavano le vittime con un persistenza inaudita. Nessuno
erasi ancora confessato.
I dieci eretici giudaizzanti
salirono i primi sul rogo. Quattro di essi furono rinchiusi nelle statue[26], gli altri sei si
lasciarono legare con un gran coraggio; la tenacità naturale alla nazione
israelitica, congiunta al loro inalterabile attaccamento alla fede dei loro
padri, inspirava loro in quell’istante supremo l’eroismo dei martiri. Bentosto
un fumo denso e nerastro si alzò attorno a quelle dieci vittime, i carnefici
armati di una torcia avevano posto fuoco ai roghi.
Alla vista delle fiamme che
cominciavano ad elevarsi, le due giovani monache condannate morire come
luterane si volsero angosciose verso il loro confessore:
“Padre mio! Padre mio!”
gridarono esse, “confessateci, noi vogliamo convertirci.”
Il frate s’inginocchiò verso
di esse, udì quella confessione strappata dalla paura e dalla violenza, quindi
pronunziò le parole di pace sul capo di quelle due vittime, la meno giovane
delle quali aveva venti anni. I tormentatori le condussero allora presso
Francesca di Lerma, la quale pure doveva essere strangolata. La badessa delle
Carmelitane era di un estremo pallore, la sua carnagione, una volta sì bianca e
sì pura, era chiazzata di macchie turchiniccie, e i suoi grandi occhi, sì vaghi
e sì altieri, avevano perduto quello splendore che li faceva somigliare a due
magnifici zaffiri.
Le due altre giovani vittime
che dovevano morire dopo di lei erano già pallide e ghiacciate, ed un tremito
convulsivo agitava le loro membra; l’agonia era incominciata, il carnefice
aveva poco da fare.
Due tormentatori si
avvicinarono ad esse, le acconciarono sul cavalletto, ve le legarono,
applicarono il cerchio di ferro attorno al loro collo bianco e delicato..
poscia il carnefice girò violentemente la vite…
I condannati chinarono la
testa in avanti con una convulsione generale: i loro occhi si fecero fissi, il
loro viso divenne rosso, violetto, quindi livido… si udì un lieve rantolo… e
tutto fu finito; esse aveano cessato di soffrire.
L’agonia di Francesca [non]
fu più lunga. Nel momento che il carnefice le poneva il cerchio di ferro
intorno al collo, la badessa, ricuperando una subitanea energia, stese le braccia
verso l’anfiteatro; il suo occhio, rianimato un istante, scintillò di una
selvaggia energia; e gridò, guardando l’inquisitore:
“Prete indegno! Sii malede…”
L’ultima sillaba di questa parola si perdé nell’ultimo respiro di Francesca. Il
carnefice aveva sì fortemente girata la vite, che la vittima spirò
sull’istante.
Non lungi dal rogo che
consumava i residui delle tre monache, don Carlos de Seso ed il coraggioso
Herrezuelo respingevano con una invincibile risoluzione le istanze dei confessori.
Don Carlos, già legato al
palo, era stato liberato dallo sbavaglio. Il prete, inginocchiatosi allora
innanzi a lui sul rogo medesimo, presentandogli il crocifisso, gli disse varie
volte:
“Figlio mio, confessatevi
per essere assoluto.”
“Lasciatemi in pace,”
rispose don Carlos. Poscia, volgendosi verso i tormentatori, gridò loro con
voce sonora:
“Ponete il fuoco…”
I carnefici obbedirono, e
don Carlos disparve fra torrenti di fumo.
A pochi passi di distanza si
strangolava Domenico di Boxas e due altri preti, ai quali al momento di essere
bruciati era venuto meno il coraggio e si confessarono. Vedendo la viltà di
Domenico, che aveva come lui abbracciato la dottrina di Lutero, don Carlos, già
attaccato dalle fiamme, fece un gesto di disprezzo come per dirgli:
-Tu sei un vile, bisogna
avere il coraggio della propria convinzione.-
In quell’istante il
domestico d’uno di quei preti, legato al palo ed attaccato alle fiamme che
avevano già arso le corde da cui era legato, si lanciò fuori del rogo; ma
vedendo sul palco il padrone, che era stato strangolato, e don Carlos che si
lasciava bruciare tranquillamente, risalì coraggioso sul rogo gridando ai
carnefici con tutta la sua forza:
“Della legna! Della legna!
Mettete della legna, io voglio morire come don Carlos de Seso.”
Herrezuelo salì allora sul
rogo.
Indarno il frate l’esortava
a convertirsi. Herrezuelo non rispondeva che con amaro sarcasmo; già le fiamme
cominciavano ad attaccarlo; ma egli pareva essere insensibile, ed il suo volto
non manifestava nulla delle sue atroci sofferenze. Uno degli arcieri che
circondava il rogo, irritato da tanto coraggio, immerse la sua lancia nel corpo
del licenziato. Il sangue scorse a torrenti da questa larga ferita, ed il
nobile Herrezuelo spirò con una calma eroica[27].
Alcuni riconciliati, e
condannati a portare perpetuamente il sanbenito di tela colla croce di
Sant’Andrea, riprendevano tristi il cammino della loro abitazione: morti ormai
civilmente, cadaveri viventi, destinati ad alimentare il terrore che inspirava
il Sant’Uffizio, muti testimoni del suo abbominevole dispotismo!
Lunghi getti di fiamme si
elevarono allora verso il cielo in strisce rossastre, inviluppati da torrenti
di fumo denso e nauseabondo. L’odore fetido dei cadaveri bruciati si mescolava
all’odore resinoso del legno di pino e di larice che serviva ad alimentare i
roghi.
I preti ed i monaci inginocchiati, pregavano sommessi
battendosi il petto; ed il popolo, pure inginocchiato, restava abbattuto da una
impressione di terrore e di pietà.
Di quando in quando grida
orribili e prolungate, rantoli, pianti, sospiri uscivano dal mezzo di quelle
sinistre ecatombe, dall’interno delle statue ardenti ove erano rinchiusi gli infelici
ebrei, uscivano di tanto in tanto urli sordi e laceranti…qualche cosa di simile
alle grida d’angoscia che si eleveranno dalle viscere dell’inferno…quale
ripetizione di quell’immenso concerto d’agonia.
Un silenzio di morte ragnava
fra il popolo!…
Ad intervalli la voce sonora
dei preti, dominando quei diversi rumori, faceva udire un versetto del De
profundis o del Miserere: lugubre salmodia che si mischia alle umane
lamentazioni, ai rantoli degli agonizzanti, ed al sordo rumore delle fiamme.
Poi, adagio adagio le fiamme
si abbassarono, i sospiri, i lamenti, le grida divennero più deboli e più rare;
il popolo lasciò lentamente la piazza!… i grandi corpi dello stato si allontanarono.
Tutto era finito.
Era surta la notte.
Il clero ed i monaci erano
rimasti gli ultimi.
Allora dall’alto del suo
trono più che reale, Pietro Arbues poté contemplare il Quemadero, che in
quell’istante somigliava ad un immenso braciere seminato qua e là di macchie
nerastre.
Grandi getti di fumo
s’incrociavano nell’aere, simili a grandi nubi oscure. Nel mezzo dei roghi,
alcuni rami di larice che terminavano di consumarsi, gettavano ancora pallidi
lampi su quella profonda oscurità. Pietro Arbues contemplò con infernale
delizia quella vasta arena di distruzione. Re della morte, ei signoreggiava sul
niente.
Poi mormorò, alzando gli
occhi al cielo, quelle terribili parole del Salmista:
“Levisi Iddio, ed i suoi
nemici saranno dispersi: e quelli che l’odiano, fuggiranno innanzi al suo
cospetto. –Tu li dissiperai come si dissipa il fumo; gli empi periranno per la
presenza di Dio, come la cera è strutta per lo fuoco.”
L’inquisitore ed il clero
lasciarono il teatro delle loro nequizie. Così terminò quella memorabile
giornata.
XLII.
Un martire.
Quando i due bravi ebbero portato via il governatore, s’internarono rapidamente negl’inestricabili giri delle vie di Siviglia, le più anguste e le più tortuose del mondo.
Il popolo s’era sì ben prestato alla loro fuga, che innanzi che avesser potuto raggiungerli gli sgherri della Santa-Hermandad, essi erano giunti davanti alla porta di Giovanna. La quale porta erasi aperta davanti a loro come da sé medesima, e dei bravi e del governatore non si ebbe più traccia: nessuno aveva potuto seguirli, né vedere in qual luogo si rifuggissero.
Estevan, Dolores e Giovanna attendevano insieme l’esito di questo avvenimento; era Giovanna che, avendo veduto arrivare i bravi carichi del loro prezioso fardello, aveva loro aperto la porta.
I bravi deposero con inaudite precauzioni il padre di Dolores sopra un largo divano che trovavansi nella sala: Manuel Argoso non dava più alcun segno di vita. Le sue braccia e le sue mani pendevano inerti lungo il suo corpo, quasi ghiacciato; i suoi occhi erano intieramente chiusi, il suo volto scolorito, e le sue membra, rotte in molti punti, erano coperte di piaghe sanguinose e di cicatrici chiuse per metà. La sua fronte, per lo innanzi coperta ancora d’una foresta di capelli neri, era divenuta quasi calva per lo intiero, e ciò che rimaneva attorno alla tempia, aveva preso quel color grigio che non è il candore della vecchiezza, e quella pieghevolezza molle ed inerte, testimone sicuro d’una completa atonia e di una prossima disorganizzazione.
Le sue unghie erano cresciute smisuratamente, ma erano divenute giallastre e molli come quelle d’un fanciullo o d’uomo che esce dal bagno.
Vedendo suo padre in quello stato, Dolores non poté reprimere un grido doloroso. Era essa medesima così pallida ed indebolita dalle sofferenze della prigione, che non poté resistere a quest’ultimo colpo; essa cadde sulle sue ginocchia dinanzi al divano sul quale Argoso era disteso, e colle labbra aride e scolorate, baciò la livida mano del genitore, quella mano diletta e rispettata che l'aveva tante volte benedetta.
Ma l'infelice governatore non rispose a quella figliale espansione: la mano che Dolores premeva rimase muta e ghiacciata in quelle della fanciulla.
“Oh Estevan! Estevan!” gridò essa con crescente terrore, “vedete, ei non risponde neppure alle mie carezze!…La sua mano è fredda… il suo cuore non batte più… Estevan! Ma ditemi dunque che mio padre vive ancora!…”
Estevan colpito da quel dolore nuovo ed imprevisto, dalle disperazione di colei che amava, Estevan che era rimasto preso da stupore vedendo il viso livido e ferale del governatore, si avvicinò timidamente, e pose la mano sul cuore di Manuel Argoso. Batteva ancora, ma così debolmente e a si lungi intervalli, che vedevasi bene essere quelle le sue ultime pulsazioni.
Dolores seguiva tutti i moti d’Estevan con occhi pieni d’angoscia e velati di lacrime.
Ma ei non ardiva parlare, rimaneva timido e dubbioso; aveva paura di quell’immensa disperazione, di quel santo dolore d’una figlia che, dopo tanti sforzi e rassegnazione, non ritrovava suo padre che per stringere fra le braccia un cadavere.
“Ebbene?” domandò essa finalmente, tremando, “ebbene
Rispondetemi dunque, Estevan… parlate, che debbo sperare?
“Il suo cuore batte ancora,” disse il giovane: “bisognerebbe fagli respirare dei profumi.”
“Tenete, tenete,” disse Giovanna, tirando fuori dalla sua tasca una boccia di cristallo di ròcca, guarnita d’una borchia d’oro cesellato, piena di arabi profumi, vivificanti e salubri; prodotti preziosi dell’alchimia di quei tempi, assai più avanzata, specialmente presso gli Orientali, di quello che si crede generalmente oggigiorno.
Dolores prese vivamente la boccia, e ne fece respirare l’odore a suo padre.
Manuel Argoso fece un leggiero movimento di testa: i suoi occhi, fino allora chiusi, si riaprirono a metà.
Dolores mandò un’esclamazione di gioia, e sollevando fra le sue braccia la testa adorata del suo genitore, la adagiò più comodamente sui cuscini di velluto.
“O Estevan! Egli vive,” disse la giovane, animata dalla speranza.
Manuel Argoso aveva in fatti aperti gli occhi, ma, come quelli dei ciechi-nati, guardavano e non vedevano; un’ombra li cuopriva. Tuttavia quella nube sembrò dileguarsi a poco a poco. Manuel Argoso parve avere un lieve percezione di ciò che accadeva attorno a lui, l’udito era il solo organo che presso di lui fosse rimasto inalterato. Fu pure il primo che si ridestò in quella organizzazione vicina a disfarsi. Ei volse la testa dal lato in cui si parlava, cercando senza dubbio di raccogliere le sue idee fuggitive, e di rendersi ragione del luogo in cui si trovava.
Bentosto le sue labbra si aprirono….ei mormorò debolmente. “Il fuoco…” Credeva di essere all’atto-di-fede.
Tutti tacquero ed ascoltarono nel più profondo silenzio.
“Figlia mia…. Estevan….” disse il governatore molto piano, mentre i sguardi fissi ai suoi figli inginocchiati a lui innanzi, erravano dall’uno all’altro senza riconoscerli.
“Padre mio!” esclamò Dolores.
“Silenzio!” disse Estevan, “ecco la vita che ritorna.”
“Tenete,” disse Giovanna, “fategli prendere questo cordiale.”
Ed essa presentò a Dolores, in una coppa d’argento, del vino d’Alicante, vecchio di dieci anni, mescolato ad una leggiera tintura d’aloe.
Dolores bagnò le labbra di suo padre: poscia introdusse a gran fatica nella sua bocca alcune goccie del cordiale .
Questo benefico liquore parve rendere un po’ di vita a quel corpo quasi immobile e freddo. Il viso del governatore ch’era sì pallido si colorò in un subito di un rossore fuggitivo, i suoi occhi incerti si fermarono sul volto di Dolores con una ineffabile espressione d’amore e di rammarico. Aveva riconosciuto sua figlia.
Sorrise debolmente con indicibile tenerezza; poscia il suo sguardo si rivolse lentamente da Dolores a Estevan e Giovanna.
“Dove sono?” mormorò finalmente.
“In casa d’amici, di veri amici,” rispose Dolores, “voi siete salvo, padre mio, e bentosto lasceremo la Sapgna.”
“Sì, sì…lasciatela al più presto,” disse Manuel, con voce che andava sempre più ad indebolirsi.
“Con voi, padre mio,” disse Estevan, inginocchiandosi davanti al governatore, al lato della sua diletta Dolores.
Vedendoli così, Manuel Argoso parve provare una gioia suprema. Malgrado la debolezza estrema delle sue membra, rotte dalla tortura e già irrigidite dalla morte, alzò le sue braccia, prese la mano di sua figlia, la pose in quella di Estevan, e mormorò con una espressione di gioia celeste:
“Io vi benedico, non vi separate mai, e fuggite…fuggite…”
“Con voi? Con voi?” riprese Dolores piangente.
“Sì… trasportate le mie ceneri…eglino le getterebbero la vento…addio…amatevi sempre…”
Quelle parole interrotte dagli ultimi sospiri dell’agonia, avevano esaurito ciò che rimaneva di vita a quel corpo spossato.
Manuel Argoso richiuse gli occhi, la sua testa s’inchinò, il suo corpo si contrasse per una leggiera convulsione, e la gelida mano della morte troncò sulle sue labbra un nome incominciato. Era quello di sua figlia.
Dolores non gettò un grido, non versò una lacrima; si rivolse ad Estevan cogli occhi asciutti, colle labbra pallide e tremanti, e unendo le mani con aria supplichevole, gli disse guardando il padre ch’era spirato:
“Ei ci seguirà, non è vero?”
“Dappertutto,” rispose Estevan.
Dolores baciò devotamente la pallida fronte del suo genitore, quindi gettò sul volto un gran velo di tela batista che le fu presentato da Giovanna.
Josè giunse in quel momento.
All’attitudine delle persone che occupavano la camera, comprese subito quello che era accaduto, e le sue mani si contrassero con un movimento energico di turbamento e di collera.
La sua vista cagionò una profonda tenerezza a Dolores, i suoi occhi fino allora rimasti asciutti ed ardenti si bagnarono di meste lacrime; si gettò, piangendo, sul seno di quell’amico fedele che l’aveva salvata; poscia, con un gesto di muto ed eloquente dolore, gli mostrò il defunto che sembrava dormire in un’attitudine calma e tranquilla.
“Io ho fatto tutto quello che ho potuto, mio Dio!” disse Josè intenerito.
“Lo so,” ella rispose; “avete esposto la vostra vita per salvarci, perocché se l’Inquisizione avesse scoperto…”
“La mia vita!” interruppe il fraticello, con aria di sdegno e di scoraggiamento, “che cos’è la mia vita, ed a che può servire?”
Estevan condusse il monaco in un’altra camera per non turbare il religioso silenzio della morte. Dolores rimase inginocchiata davanti al cadavere di suo padre.
“Don Josè,” disse Estevan quando furono soli, “quegli che or non è più ci ha ordinato di lasciare la Spagna; perseguitati come siamo, questo è forse difficile tuttavia…”
“Ci provvederò,” disse Josè.
“Egli ci ha ordinato di portare con noi la sua salma.”
“Questa cura eziandio mi riguarda,” rispose il fraticello; “voi partirete fra tre giorni, questo tempo mi è necessario per preparare tutto. Fino a quel momento tenetevi nascosti; non vi mostrate in Siviglia, la vostra vita ne sarebbe compromessa. La tigre che l’ha risparmiata per un capriccio potrebbe, per un capriccio contrario, privarvi della libertà.”
“Sì” disse Estevan, “come ha fatto verso…”
Josè guardò Estevan con aria significante: ei non voleva far conoscere a Dolores l’arresto di Giovanni d’Avila.
“Ma,” disse Estevan, “voi parlate di un capriccio di Pietro Arbues, l’inquisitore spero che sia nelle mani di Mandamiento. La Garduna manca raramente di eseguire le commissioni affidatele.”
“La Garduna ha male eseguiti i vostri ordini,” disse Josè, “essa non ha portato via l’inquisitore, ha voluto ucciderlo; e siccome egli porta una corazza, Manofina ha fallito il suo colpo. Pietro Arbues è libero, Pietro Arbues è furioso, e la sua collera si estende a tutto quello che l’avvicina. Che sarà poi quando conoscerà la fuga di Dolores? Perciò siate prudenti, e soprattutto siate pazienti, tre giorni passano presto.”
“Talvolta sono molto lunghi,” disse Dolores avvicinandosi ad essi per sapere qual partito avevano preso.
Le crude esigenze della loro posizione vietavano loro di dare un libero corso al loro santo dolore. Questo è ciò che i grandi infortunii hanno di più amaro; essi non lasciano neppure il diritto di affliggersi in libertà.
“E’ vero,” disse Josè, ripetendo la frase della fanciulla, “tre giorni sono talvolta molto lunghi! e pertanto bisogna saper aspettare. –Oh! Dolores, nel mezzo dei mali che vi colpiscono, una consolazione vi rimane, un amico di tutta la vita, scelto e benedetto dal vostro genitore. Credetemi, l’avvenire può ancora sorridervi, e fra le vostre gioie non mancherà neppure la vendetta, questa serva di Dio, che assume di sovente forma umana per compiere i voleri del suo divino padrone, ed allora si chiama giustizia!… Iddio, eterno distributore di Giustizia, non ha obliate le iniquità di Pietro Arbues. Egli lo colpirà sul suo trono d’oro, nel mezzo alle pompe della sua lussuria e della sua sfrenata vanità…”
“Don Josè, voi mi fate paura,” disse la tremante Dolores; “voi siete cupo e terribile come la fatalità.”
“Io sono forte come la giustizia,” rispose Josè; “ma,” soggiunse con amaro sorriso, “la mia anima è triste e desolata come il deserto. Io non godrò che nel giorno della punizione, allorquando Dio alzerà la sua gran voce per gridare: - Basta! Basta! Dileguati dal teatro de’ tuoi delitti; io sono stanco di omicidi e persecuzioni.”
Così parlando Josè era bello e terribile come l’angelo dell’Apocalisse, Estevan e Dolores si sarebbero quasi prosternati davanti a lui. Ma per una di quelle subitanee transazioni che gli erano naturali, Josè, richiamando ad un tratto Giovanna, che era nell’altra stanza, le disse:
“Tienti pronta a seguirci fra qualche ora.”
Poi si allontanò, promettendo di tornare a prenderli quando fosse tempo.
La sera stessa, fra undici ore e mezzanotte, Estevan, Dolores e Giovanna arrivarono alla porta di Mandamiento.
Due bravi andavano avanti per servir loro di scorta. Due altri venivano dietro ad essi a qualche distanza; questi ultimi portavano sulle loro spalle un grande baule di legno legato con corde. Portavano quel baule con precauzioni inaudite e con una specie di rispetto.
Due novizi li scortavano per dare l’allarme in caso di bisogno.
Di quando in quando Dolores si voltava per assicurarsi che il prezioso baule li seguiva, e che nulla fermava il cammino dei garduni.
Giunti alla porta di Mandamiento, i due primi bravi batterono nel modo convenuto, il maestro aprì, e le sette persone ed il baule furono misteriosamente introdotti nel palazzo della Garduna.
_________________________
XLIII.
Un
ultimo giorno di dissimulazione.
La
stessa sera Josè era solo in casa sua.
Assiso
davanti ad una tavola, coperta di libri ascetici, ei contava l’uno dopo l’altra
e sommava di mano in mano, dopo aver inscritto il totale di ciascun valore
sopra un pezzettino di carta bianca, un enorme quantità di lettere di cambio
che aveva prese presso un banchiere ebreo[28].
Era
il patrimonio del fraticello.
“Bene!”
disse con allegrezza, dopo aver terminato le sue operazioni di calcolo: “questo
può essere ora trasportato dove si vorrà, e quei poveri giovani avranno di che
vivere.”
Poscia
ripose accuratamente quei fogli in un piccolo portafogli di stoffa rossa, vi aggiunse
una lettera che aveva scritta, un anello d’oro che tolse dal suo dito, e dei
capelli in un medaglioncino.
Ei
legò quindi il tutto con seta verde, che sigillò con cera dello stesso colore.
Ciò
fatto depose il portafogli in una tasca posta sotto la fodera della sua tonaca.
Prese
pure un pezzo di carta sul quale scrisse il latino:
“Voi
sarete giudicato domani, ma il vostro arresto non è stato comunicato al Consiglio
della Suprema. Far valere questa mancanza di forma; il Sant’Uffizio sarà
obbligato a porvi in libertà.”
“Questo,”
disse parlando fra sé medesimo, “bisogna farlo giungere a Giovanni d’Avila
domani avanti l’udienza.”
Ed
introdusse la carta nella manica della sua tonaca.
“Andiamo!”
proseguì, “ancor poche ore da portare questa pesante catena di dissimulazione e
di menzogna! Ancora alcune ore di fatica, e la mia vendetta sarà compiuta! Non
ho io finora adempito al mio divisamento con coraggio? Non ho servito,
compiacente e docile, le passioni ed i vizi di questo mostro che decima
l’Andalusia? Non ho fatto al suo nome una sanguinosa aureola, insegna sinistra
che chiama l’odio e la rivolta? Non ho
lentamente scavato colle mie deboli
mani l’abisso che deve inghiottirlo? O Inquisizione! Non sono riuscito a
renderti abbastanza infame ed esosa nella persona del più scellerato de’ tuoi
membri, perché la Spagna, sollevandosi tutta come un sol uomo al segnale ch’io
le darò, rovesci per sempre questo colosso insaziabile?…non importa! Io farò
cadere la prima pietra di questo edifizio di morte, mi segua la Spagna se non
le manca il coraggio!”
“oh!
Mio Dio!” disse quindi, chinando la sua testa fra le mani con sembiante
d’ineffabile abbattimento, “mio Dio! Quale fatica!…quando verrà dunque il
riposo?…quanto è orribile questa giornata!…Oh! tutte quelle fiamme, quelle
grida d’agonia! Mi seguono dappertutto…dappertutto rivedo lividi volti, spettri
ghiacciati…per tutto vedo lui…che io amava…lui che da tanti anni mi grida senza
posa. –vieni! Vieni!…- Oh! I morti partecipano forse all’eterna clemenza di
Dio, e non conoscono che il perdono…Son dunque scellerato io che mi vendico?…”
“No,
no,” proseguì alzandosi con una esaltazione febbrile, “io ubbidisco alla voce
di Dio… Io non sono che lo strumento della giustizia divina!…Attendi, attendi,
o tu che mi chiami; il giorno è vicino, tu mi aspetterai lungamente…”
Ma
quel volto severo, che in ogni muscolo aveva le tracce di una sofferenza o di
un pensiero, s’illuminò ad un tratto; quall’altiera fisionomia, che sembrava
essere la personificazione vivente della collera eterna verso i malvagi,
ritornò come per incanto, dolce e sorridente, quella larga fronte dai
sopraccigli poco innanzi contratti, si spiegò come candida tela sotto il vento,
e la bocca del monaco si atteggiò ad un sorriso.
Fu
battuto alla sua porta. Egli aprì.
Era
Pietro Arbues che veniva a cercarlo fino nella sua camera.
Tornando
dall’atto-di-fede, l’inquisitore aveva conosciuta la fuga di Dolores; e
quell’anima spietata, non ancor sazia di supplizii e di torture, sognava già
nuove vittime.
Pietro
Arbues era pallido ed affaticato, ma l’insaziabilità dei suoi istinti
distruttori sosteneva ancora la sua inestinguibile energia.
Ei
si assise.
E
guardando il suo favorito che rimaneva in piedi dinanzi a lui:
“Josè,”
disse “tutti mi tradiscono oggi.”
“Eccetto
me, monsignore,” rispose il fraticello.
“Tu…sì,
lo so, tu sei il solo fedele, il solo che sappia comprendere i bisogni di questo
cuore che batte con violenza nel mio petto; il solo che non abbia mai
contrariate le mie tendenze. Il solo, almeno, che mi abbia servito senza
interesse. Quanto agli altri, credi che io non comprenda il loro affetto
egoistico? La protezione che loro concedo, l’oro che prodigo loro, i piaceri di
cui gl’inebrio, non mi sono garanzie sicure della loro devozione e della loro
fedeltà? Enrico che ho fatto governatore di Siviglia, gli altri che ho fatto
consiglieri, priori o vescovi!…In verità tutte queste persone non hanno un gran
merito ad essermi fedeli. E pertanto…pertanto…” soggiunse con rabbia, “Manuel
Argoso è stato portato via oggi, e Dolores è scomparsa dalle prigioni del
Sant’uffizio.”
“Che
importa a Vostra Eminenza?” domandò Josè.
“Che
m’importa, tu dici? Per Satana! Io manderò alle galere tutti i carcerieri del palazzo
dell’Inquisizione, farò bruciare questi monaci imbecilli, questi vescovi
insensati…e questo villano rivestito della livrea d’un gentiluomo, che io ho
fatto governatore di Siviglia!”
“Farete
bene,” disse Josè.
“Non
son io dappertutto circondato da traditori?” riprese Pietro Arbues, animandosi
nel ricordarsi l’attentato commesso contro la sua persona; “un uomo si è
incontrato oggi nella folla, il quale ha osato colpire il grande inquisitore di
Siviglia, e questo uomo…quest’uomo era un famigliare dell’Inquisizione.”
“Lo
so,” disse freddamente il favorito.
“Senza
di te, mio buon Josè, senza la tua santa e salutar prudenza, oggi era finita
per me; perciocché debbo la vita a questa corazza ch’io porto sotto la mia
tonaca, dalla sera in cui mi seguisti nella prigione, temendo qualche pericolo
per me.”
“Avevo
torto, monsignore?”
“No
per Cristo! Ed io, ingiusto, mi sono irritato contro di te! Contro di te,
angelo custode della mia vita!”
“La
vita di Vostra Eminenza mi è più preziosa della mia, monsignore – Oh” sì, essa
mi è molto preziosa,” proseguì con uno strano sorriso, “ma perché Vostra
Eminenza si degna inquietarsi per la scomparsa della figlia del governatore?
Che importa a Pietro Arbues una donna di più o dimeno? Che importa ad un
milionario che manchi un doblone al suo scrigno? Credetemi, monsignore, non è
questa la vostra gloria. Queste preoccupazioni dei sensi non servono che ad
ammollir l’animo, a dissipare i forti pensieri, ad estinguere l’energia della volontà.
Voi regnate per la paura. Ebbene! Aumentate la vostra possanza non vi sono
teste da colpire in Siviglia? Questo monaco arrestato or sono otto giorni…”
“Giovanni
d’Avila!” esclamò Pietro Arbues, “oh! Lo voglio far marcire nelle carceri
dell’Inquisizione[29].”
“Ciò
sarebbe mal fatto, monsignore…- Questo monaco,” riprese Josè, “ha predicate
dottrine contrarie alla fede cattolica, bisogna dare un esempio, ed assicurare
il trionfo della religione, che forma la vostra gloria e la vostra potenza, il
papa ed il re ve ne saprai buon grado, tutti e due aborriscono l’eresia di Lutero.
Fate comparire Giovanni d’Avila, ma in una maniera solenne, questa seduta sia
pubblica; lasciate libero ingresso a tutti, ed al cospetto di Siviglia provate
col condannarlo che colui che l’Andalusia chiama l’Apostolo, non è che un
miserabile apostata, un eretico pericoloso.”
A
misura che Josè parlava, il viso dell’inquisitore esprimeva in un modo energico
i diversi pensieri che l’agitavano. Tornato alla grande passione della sua
vita, il dominatore, Pietro Arbues, ascoltava con indicibile compiacenza quel
demone tentatore sotto le forme d’arcangelo, divenuto a forza d’adulazione e di
accortezza, l’anima di tutte le sue volontà.
“Oh!
Tu hai ragione,” disse Pietro Arbues, “tu hai ragione, Josè, io oblio troppo
spesso lo scopo della mia missione quaggiù, io mi lascio troppo facilmente
trasportare dell’impeto irresistibile dei sensi, dal torrente delle mie
divoratrici passioni. L’uomo domina troppo di frequente l’inquisitore, e già
venti volte le imprudenze a cui mi trascina questo temperamento di fuoco mi anno
per poco perduto. Tu sei felice, Josè: i tuoi sensi sono tranquilli come quelli
d’una vergine, o veramente tu li domini colla forza della tua volontà. Tu sei
il solo fra noi a cui non siasi mai potuto rimproverare la minima debolezza.”
“Monsignore,
per regnare sugli altri, bisogna incominciare a regnare sopra sé stesso. Voi
non sarete realmente potente che quando, sapendo reprimere a tempo una passione
od un capriccio, la sottoporrete senza misericordia alle esigenze della vostra
posizione e non vi lascerete dominare da essa.”
“Sei
tu che parli, Josè? tu, che tante volte hai secondato le mie inclinazioni coi
miei capricci, come li chiami?”
“Tutte
le volte che ciò non ha potuto nuocere a Vostra Eminenza, ma solo in questi
casi; oggi, incoraggiare il vostro pazzo amore per questa fanciulla; che
finalmente non è più bella di un’altra, sarebbe un gran tradimento verso di
voi. – Il popolo è malcontento; l’azione d’oggi lo prova abbastanza. Non lo
irritate maggiormente, monsignore, dandovi a perseguitare due fuggitivi, essi
han partigiani fra ‘l popolo. Per il momento lasciateli in pace, se vi sta a
cuore il ritrovarli, vi verrà fatto più tardi; mancan forse crociati[30] in Spagna onde perseguitarli e
ritrovarli? Credetemi, monsignore, cercate piuttosto d’attirare verso un altro
punto l’attenzione di queste masse turbolenti, lusingate il papa ed il re,
mostrando il più rigoroso zelo contro i riformati. Finalmente, monsignore,siate
un sovrano spirituale onnipotente, e non il miserevole schiavo di una donna.”
“Josè,”
disse Pietro Arbues, “s’io fossi re, ti farei mio primo ministro.”
“Il
ministro sarebbe il primo servo di Vostra Maestà,” rispose il favorito.
“Ebbene,”
proseguì l’inquisitore con entusiasmo, “reprimiamo le rivolte di questa carne
indomabile, che a momenti mi rende debole ed indeciso come fanciullo. Siamo
fatti per regnare, e per regnar veramente sappiamo sottomettere le nostre
proprie inclinazioni. Una donna! Che cos’è una donna? Che importa che si chiami
Dolores o Paola, che sia la figlia d’un grande di Spagna o quella dell’ultimo
gitano dell’Andalusia? Essa non è, solamente, che un miserabile trastullo,
indegno di occupare un gran posto nella esistenza d’un uomo.”
“sena
dubbio,” rispose Josè, che al nome di Paola aveva sentito correre un fremito
nelle sue vene, “senza dubbio, una donna non è degna che Vostra Eminenza si
occupi di lei più di alcuni momenti: considerarla altrimenti che qual trastullo
o schiava, sarebbe gran follia. Così dunque domani, monsignore non più tardi di
domani, Vostra Eminenza farà comparire al tribunale questo monaco pericoloso?”
“Sì,
domani,” ripeté vivamente l’inquisitore; “non deggio difendere gl’interessi di
Roma? E qual maggior nemico di Roma di questi preti insensati che riducono
l’apostolato alla semplice osservanza del Vangelo, come se questo codice del
cattolicesimo non fosse una serie di finzioni e d’allegorie che ogni papa, ogni
concilio, ogni dignitario della Chiesa in particolare ha il diritto
d’interpretare a suo talento secondo i bisogni temporali e spirituali del paese
in cui vive, del popolo che governa, secondo anco i propri bisogni. – Morte a
questi innovatori imbecilli, che predicano la libertà al popolo! La è per esso
un alimento malsano, che lo consuma invece di divenirgli salutare. Gesù Cristo
stesso non ha detto: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare? – Le riforme dicono
al contrario: -Togliete al papa il potere che il papa tiene da Dio. – No, no,
essi non riusciranno ad abbattere la cattedra di San Pietro. La Chiesa
incrudelirà contro di essi con una severità ognor crescente, poiché non bisogna
che la mal’erba spenga il buon grano; dieci monaci come Giovanni d’Avila
avrebbero ben presto sollevata la Spagna e scacciata l’Inquisizione.”
“E
tru pure, mio povero Josè,” disse Pietro Arbues, passando la mano sulla fronte ardente
del suo favorito, “ma tu il vedi, io mi lascio sempre trasportare dal torrente
delle mie focose passioni…orsù addio: a domani; vado a pregare un’ora perché lo
Spirito santo si degni di illuminarmi in questa difficile circostanza.”
L’inquisitore
si alzò.
Il
favorito l’accompagnò fino alla porta inferiore della sua camera.
“Monsignore,”
gli disse nel lasciarlo, “domando a Vostra Eminenza il permesso di ritirarmi
nel convento per tre giorni.”
“Sì,
mio buon Josè, comprendo…hai bisogno di raccoglierti…ma tre giorni solamente,
intendi bene; tu sai ch’io non posso far senza di te. Debbo dire la messa, e
predicare la domenica alla cattedrale; sii di ritorno all’ora del sermone.”
“Ve
lo prometto,” disse Josè.
“A
domenica dunque,” ripeté l’inquisitore.
“A
domenica, monsignore.”
“Sii
esatto almeno a questo appuntamento.”
“Siate
tranquillo, monsignore; mi darò premura di non mancare.”
Josè
rientrò, lasciò cadere dietro di sé una grossa portiera di velluto rosso; poi
si gettò in un gran seggiolone, appié del suo letto, dicendo con aria
d’indicibile contento:
“E’
finita adunque! Ecco il mio ultimo giorno di dissimulazione.”
___________________
XLIV.
Un
prete secondo il Vangelo.
Torniamo
per la terza volta davanti a quel terribile tribunale in cui abbiamo già veduto
comparire tante nobili vittime, in cui abbiamo assistito, non ha guari, ad una
seduta molto interessante e solenne. Grandi nomi vi sono stati gettati a
pascolo dell’ira di Roma, ed il loro scudo si è rotto contro la semplice parola
“eretico”: questa parola pronunziata da un tribunale senza appello, è
stata sufficiente per annullare e per cancellare dalla lista sociale intiere
famiglie, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi.
Ebbene!
Oggi non è una famiglia, non è un gran signore spagnuolo che va ad assidersi
sulla panca dei rei per udirvi dalla bocca dell’inquisitore la sentenza che lo
condanna a morte o all’infamia eterna.
Non
è il potere, non è la ricchezza e la beltà che l’Inquisizione incrimina oggi, è
la carità stessa; la carità umanata e vestita di una semplice tonaca di
Carmelitano scalzo, per consolare la Spagna perseguitata; lo spirito cristiano,
incarnato, perché sotto questa forma, il popolo non possa misconoscerlo e
negarne la esistenza. Un povero monaco insomma, che ha passata la vita a
pregare e benedire. Questo monaco era Giovanni d’Avila.
L’inquisitore
ha avuto più paura delle sue virtù, che dei vizi degli altri; esso ha detto:
“Distruggiamo
costui, che è la condanna vivente dei nostri delitti.”
Ma
retrocediamo di alcune ore.
Si
rammenta il lettore che la notte precedente, Josè aveva preso congedo da Pietro
Arbues, sotto pretesto di riposo.
In
vece di recarsi al suo convento come aveva detto all’inquisitore, Josè era
uscito di buon mattino, ed erasi portato alla taverna della Buona Ventura.
Là
si rinchiuse con Gioachino nel tristo bugigattolo dove dormiva la guardia, ed
il monaco e l’uomo del popolo parlavano lungamente a voce bassa, Josè
confidando a Gioachino importanti secreti colla più completa fiducia, come uno
che è sicuro di quegli a cui s’indirizza, e Gioachino ricevendoli con quella
gioia orgogliosa d’un subordinato pieno d’affezione, felice di ricevere la
confidenza del suo superiore. Quel colloquio durò circa un’ora
Dopo
di che il taverniere andò direttamente verso l’Inquisizione, mostrò al
carceriere un ordine di Josè avente il sigillo inquisitoriale, onde lo
lasciasse penetrare nel carcere di Giovanni d’Avila a fine di provarlo[31], cosa che si praticava presso i prigionieri
del Sant’Uffizio.
Fu
lasciato entrare, ei rimise al monaco il biglietto di Josè, e dopo aver passata
una mezz’ora nel carcere, si recò presso il presidente del Consiglio della
Suprema. Giovanni d’Avila aveva nel suo carcere scritto con un lapis fornitogli
da Gioachino un biglietto destinato al presidente. Gioachino lo rimise in
proprie mani, quindi tornò alle sue faccende.
Josè
erasi diretto verso la Garduna.
Riprendiamo
ora il nostro racconto dove l’abbiamo lasciato.
Siamo
nella sala dell’udienza nel palazzo dell’Inquisizione. Attorno vedesi lo stesso
lugubre apparato che spiegasi sempre in simili circostanze. Solamente fino
dalla mattina è circolata voce nella città che la seduta sarebbe pubblica, a
che tutti avrebbero potuto assistervi.
Grande
era il rumore fra ‘l popolo, e più d’uno lasciava le proprie faccende per recarsi
molto prima dell’ora la palazzo dell’Inquisizione. Era sì raro ottenere un
simile favore.
Le
udienze di quel tribunale, la cui organizzazione non somigliava a quella
d’alcun altro, e che procedeva quasi senza regola e senz’ordine, secondo il
libero arbitrio od il capriccio d’ogni inquisitore; quelle udienze, dico, erano
quasi esclusivamente lo spettacolo abituale dei monaci e dei grandi signori famigliari.
Questa
volta ancora Pietro Arbues aveva ceduto all’influenza dei perfidi consigli del
suo favorito, rendendo pubblica quella seduta in cui doveva comparire l’amico
del popolo, il santo adorato dai Sivigliani, il consolatore delle anime
afflitte, il padre dei poveri e degli
oppressi.
Una
folla immensa assediava il palazzo molto tempo avanti l’ora della seduta; e non
solo la plebe era accorsa a quella solennità, ma le famiglie intiere dei
gentiluomini, sorprese d’un simile processo, e desiderose di vedere qual
delitto rimproveratasi ad un uomo che era il modello di tutte le virtù.
Nel
momento in cui le porte si aprirono, quell’avida folla si precipitò nella sala
del tribunale, che in un momento fu ripiena. Molti furono costretti a rimanere
al di fuori; un maggior numero ancora rimase nella via e nei dintorni
aspettando con ansietà la fine della seduta per conoscere più presto, dalla
bocca dei primi che uscivano, il risultato della sentenza inquisitoriale.
Tutta
Siviglia era in moto come per grande e fatale avvenimento.
Questa
volta ancora,persuaso dalle ragioni di Josè, Pietro Arbues erasi ingannato sul
vero spirito pubblico: così s’ingannano quasi sempre i potenti di questo mondo!
Quando
si assise sul seggio di presidente, Pietro Arbues aveva una fisionomia raggiante,
che tradiva le sue interne sensazioni, ei si consolava in qualche modo d’aver
perduto Manuel Argoso e Dolores colla speranza di condannare Giovanni d’Avila.
Questa
osservazione non sfuggì all’assemblea e l’odio pubblico verso l’inquisitore
aumentò in quel giorno per la tenera venerazione che inspirava l’Apostolo.
Bentosto comparve l’accusato.
Il
suo contegno, senz’essere altiero, aveva una infinita maestà, ed una calma
evangelica splendeva sul suo volto appena alterato da otto giorni si sofferenze
e di reclusione. Egli portava sulla sua fronte la gravità dolce, ma energica,
del vero pastore del Vangelo, e vedendolo avanzarsi nel mezzo della sala colla
libertà e la semplicità della innocenza e della forza portando le sue catene
come un altro avrebbe portato uno scettro; a vederlo volgere il suo sguardo,
dolce e paterno come quando visitava i suoi poveri, e fermarlo finalmente sul
grande inquisitore, che, malgrado la sua audacia abituale, non poté sopportare
quello sguardo accusatore, sarebbesi dubitato quale fosse il giudice, se Pietro
Arbues o Giovanni d’Avila, ove quest’ultimo colla più commovente umiltà non
fosse andato ad assidersi sulla sua panca.
Là
aspettò d’essere interrogato.
Ma
Pietro Arbues, sdegnando le forme ordinarie, senza domandargli il nome né
l’età, senza procedere con ordine e metodo, gli disse in tono breve:
“Alzatevi.”
Poscia,
avvedendosi che questa violenta intimazione usciva dalla sua parte
d’inquisitore, riprese con simulata dolcezza:
“Alzatevi,
fratello, e rispondetemi.”
Giovani
d’Avila s’alzò, mostrando un bello e nobile personale.
Tutti
gli animi erano sospesi, e, malgrado la presenza degl’inquisitori, parole dette
a bassa voce, un generale mormorio, manifestarono la simpatia del popolo.
“Fratello,”
proseguì Pietro Arbues, “il nostro zelo per il servizio di dio non può permettere
d’obbliare che voi siete uno dei suoi ministri, e che portate la sacra veste
dei leviti; ma perciò appunto la nostra responsabilità è più grande, e non
dobbiamo tollerare in voi la minima cosa che tenda ad allontanare gli altri dalla
stretta osservanza dei santi canoni, che sono il codice della Chiesa.”
“Il
codice della Chiesa cristiana è il Vangelo,” rispose semplicemente Giovanni
d’Avila.
“I
Concilii hanno fatto delle addizioni a questo codice,” replicò l’inquisitore,
“la Chiesa di Gesù Cristo ha il diritto di continuare l’opera del suo divino
maestro.”
Giovanni
d’Avila rimase taciturno: l’inquisitore aveva sperato una risposta, contando di
prenderlo insidiosamente colle sue stesse parole: la sua aspettativa andò
delusa. Ei proseguì:
“Fratello,
incaricato d’una santa missione, incaricato di condurre e dirigere le anime col
predicare, perché tendete voi a forviarli, propagando le dottrine dei
neoeretici? Sapete voi che questo è un delitto di leso cattolicismo?”
“Questo
è ciò di cui vengo accusato?” domandò Giovanni d’Avila.
“Questo
è il vostro delitto, fratello mio, o piuttosto il vostro errore,” aggiunse
Pietro Arbues, con finta moderazione.
L’inquisitore
fece una novella pausa, questa volta ancora Giovanni d’Avila non rispose.
“Voi
avete predicato,” proseguì l’inquisitore; “che Iddio è egualmente buono per tutti,
e che spande egualmente i suoi benefizi, sui giusti e sui peccatori.”
“Non
sono io che ho detto questo,” rispose l’Apostolo, “Gesù Cristo medesimo, il
qual non solo l’ha provato con le sue parole, ma eziandio con le sue azioni.”
“Gesù
Cristo ha gettato l’anatema sugli empi e su gli eretici,” replicò Pietro
Arbues.
“Gesù
cristo non ha gettato l’anatema su nessuno, monsignore; egli non ha accusato,
non ha colpito che gl’ipocriti; coloro che coprivano i propri vizi col manto
della devozione e della virtù, coloro che, sotto un rigorismo esteriore,
nascondevano enormi turpitudini; ecco coloro che Gesù cristo ha stimmatizzati,
monsignore. Gli altri, i fuorviati o penitenti, gli ha caricati sulle sue
spalle, gli ha ricevuti e riscaldati nel suo seno, col calore vivificante del
suo santo amore, della sua divina carità.”
L’uditorio
ascoltava con profondo raccoglimento, l’Apostolo dominava l’assemblea
coll’altezza della sua sublime morale.
Pietro
Arbues perdeva della sua audacia, e cominciava a pentirsi di aver dato a
quell’udienza una simile pubblicità.
Tuttavolta
l’astuzia inquisitoriale venendogli in aiuto, continuò con accento sicuro,
lento e solenne, imitando la dolcezza el’umiltà con tutti gli sforzi del suo
volere altiero ed indomabile.
“Fratel
mio,” disse a Giovanni d’Avila, “non è solamente nelle vostre prediche che vi
siete mostrato caldo partigiano della riforma, o piuttosto che avete
manifestata un’indifferenza colpevole per il culto cattolico romano, ed una
tolleranza più colpevole ancora per gli sventurati eretici, i quali si
allontanarono volontariamente dal cerchio della santa Chiesa.”
“Io
non comprendo, monsignore,” disse l’Apostolo. “Si dice che voi frequentiate volentieri
mendicanti, ebrei e moreschi; e basta ad appartenere ad una di queste caste
maledette e riprovate…”
“Monsignore,”
interruppe l’Apostolo con una semplicità sublime, “queste caste sono infelici e
perseguitate, le altre non han bisogno di me.”
Un
lungo mormorio di affettuosa acclamazione accolse quelle semplici parole che
dipingevano tutta l’anima, tutta la vita di Giovanni d’Avila.
Comprese
l’inquisitore essergli malagevole il condannare l’Apostolo in presenza di tutta
quella popolazione di Siviglia. Egli aveva creduto che bastasse una sua parola
per abbatterlo, ed ecco che per la sola possanza della verità, il santo
predicatore respingeva vittoriosamente quelle assurde accuse, ed il trionfo
cadeva sopra colui che non aveva mai cercato altro che la quiete dell’oscurità;
perocché la predicazione, questa missione divina lasciata dagli apostoli ai
loro successori, questa figlia del Vangelo, che la Chiesa romana ha ridotto in
una commedia svergognata che gesticola e giuoca con le chiese di Cristo, la
predicazione non era per Giovanni d’Avila che un mezzo di consolazione e
d’istruzione, e non una molla d’ambizione mondana. L’umile Carmelitano non
aspettava dalla sua eloquenza veemente ed appassionata gli onori del vescovato;
ei non predicava come un avvocato o un comico, ma come predicar dovevano san
Paolo e san Giacomo, quelle due colonne della fede cristiana, quei padri che
primi dopo il loro divino Maestro sparsero nel mondo i semi di carità e
libertà, tesori divini, sorgente unica della virtù degli uomini.
L’inquisitore
era troppo perspicace per non indovinare quali sentimenti animavano
l’assemblea: da un altro lato ei conosceva la fedeltà del popolo spagnuolo, il
suo attaccamento inalterabile alla fede cattolica, malgrado la spaventevole
oppressione che gli si faceva subire; Pietro Arbues sapeva bene che tutte
queste insurrezioni che agitavano il paese non erano dirette contro la
religione, ma solamente contro gli oppressori, contro coloro i quali, a nome di
questa stessa religione, commettevano tutti i giorni abusi infami. Ei cercò
dunque di attaccare il lato debole del popolo procurando di provare che
Giovanni d’Avila era un malvagio cattolico.
Indirizzandosi
nuovamente all’accusato, gli disse:
“Fratello,
è ben doloroso per noi d’avere a riprendere oggi un ministro del Vangelo, il
quale fin qui non aveva dato che esempi di virtù, ma noi siamo tutti deboli e
mortali; lo spirito maligno veglia costantemente, e s’impadronisce bentosto di
colui che fa cattiva guardia o che si trascura per alcuni istanti. Noi non vogliamo
entrare nei misteri di un sì grande mangiamento avvenuto in voi, ma è certo,
sei testimoni l’hanno affermato,” disse Pietro Arbues accennando colla mano il
libro delle deposizioni posto sul banco, “è certo, dico, che il vostro spirito
sì luminoso e sì profondo, si è lasciato sedurre dalle dottrine pestilenziali
venute dalla Germania. Voi avete detto molte volte in pulpito che le pratiche
esteriori sono poco importanti, che la purezza del cuore è tutto; negate
questo, fratel mio? Non è questa una delle dottrine dei riformati?”
“Lo
nego quanto alle espressioni,” rispose Giovanni d’Avila, “egli è certo che, denunziandomi,
si sono travisate le mie intenzioni e le mie parole. Io ho detto, monsignore, e
lo ripeto qui dinanzi a voi, poiché lo credo conforme al vero spirito del
Cristianesimo; ho detto che le pratiche esteriori non sono nulla, né le opere,
nulla, se non sono accompagnate dalla rettitudine del cuore e dalla purezza
delle intenzioni. Credete voi, monsignore, “ soggiunse fissando il suo sguardo
tranquillo e potente sul volto dell’inquisitore, “credete voi che sia gradito a
Dio colui che si prostra innanzi agli altari e bacia la polvere delle chiese,
avendo l’anima macchiata d’uccisioni, di vendette o di adulterii? Colui che
esclama a Dio con sospiri o con fervore: - mio Dio perdonatemi! – e sogna
intanto nella mente la perdita del suo nemico; che dice a Gesù: - Agnello
immacolato, abbiate pietà di me! – e che dopo la preghiera, va forse ad
immergersi in tutte le immondezze del vizio? Colui…”
“Fratello,”
interruppe l’inquisitore un po’ turbato, perocché quei due uomini parevano aver
cangiato parte, “fratello, sapete voi se colui il quale prega e piange
battendosi il petto, non sia più gradito a Dio in causa del suo pentimento,
dell’orgoglioso il quale dice: - Io non ho bisogno della preghiera, io sono
puro? –“
“Monsignore,”
replicò il Carmelitano con voce tranquilla, grave, imponente, a cui l’accento
della verità energica e libera della convinzione intima dava una vibrazione
elettrica, un’autorità irresistibile; “monsignore, ve ne scongiuro, non
entriamo in queste discussioni teologiche, dalle quali la fede non può
acquistare niente. Questo popolo che ci ascolta è giusto, religioso e credente;
e non ricerca in qual forma più o meno astratta debba trovarsi la vera
osservanza delle leggi del Vangelo, ed io mi son poco curato d’insegnarglielo.
Ho detto solamente: - Siate docili, casti,caritatevoli, perché Gesù Cristo,
nostro modello è stato caritatevole, casto e docile. – Ho detto: -Amatevi e
soccorretevi gli uni con gli altri, poiché siete tutti fratelli e figli dello
stesso padre, che è Dio, - ed ho detto questo non solamente ai cristiani della
Chiesa cattolica romana, ma a coloro eziandio che inclinavano verso la chiesa riformata,
l’ho detto pure ai moreschi, agli ebrei convertiti, ancor vacillanti nella loro
fede, ed a coloro che avevano abbandonato soltanto per paura la credenza dei
loro padri. A tutti ho predicato la stessa morale e la stessa legge, e molto
spesso, oh!, sì, molto spesso, monsignore, ho veduto cadere in ginocchio ed
esclamare piangendo che volevano appartenere ad una religione così soave coloro
stessi che più tardi hanno bestemmiato e maledetta la nostra santa religione in
mezzo alle fiamme del rogo.”
“Egli
bestemmia, o mio Dio!” esclamò Pietro Arbues, “un prete di Cristo osa accusare
la santa Inquisizione!”
a
tali parole Giovanni d’Avila non rispose, ma lo sguardo che fissò
sull’inquisitore fu sì chiaro, sì freddo, sì penetrante, che il superbo Arbues
non potè sostenerlo: quegli che faceva tremare Siviglia abbassò gli occhi
davanti ad un semplice prete della Chiesa cristiana, tremò davanti da un
accusato. Lo sguardo di Giovanni d’Avila era eloquente e muta requisitoria in
cui l’inquisitore avrebbe potuto leggere tutte le sue iniquità più aautentiche
e più nascoste, e le sie inque condanne, delitti commessi con audacia in pieno
giorno, e le sue segrete lascivie, delitti più abominevoli ancora, che bene
spesso erano cagione dei primi.
Dal
letto dell’inquisitore al rogo la transizione era naturalissima. Che volete che
un prete faccia delle vittime delle sue turpitidini, testimoni viventi, sempre
pronti ad accusarlo? Quando è inquisitore egli brucia, in tempo di libertà
civile e religiosa egli pugnala. Mingrat e La Colange, nati nel secolo
decimosesto, avrebbero fatto onore all’inquisizione.
Niuno
è più audacemente delittuoso di un prete malvagio, turbato un momento, Pietro
Arbues riprese bentosto la sua fredda sicurezza.
L’uditorio,
ghiacciato dal terrore, perché comprendeva il pericolo del coraggio, e per
tanto elettrizzato dalle parole dell’Apostolo; commosso dal rispetto,
dall’entusiasmo e dalla riconoscenza, l’uditorio attendeva con profonda ansietà
il risultato di quella seduta.
Niuno
ardiva parlare né comunicare ad altri il proprio pensiero; ma più d’uno era sotto
l’impressione dello stesso sentimento. Un desiderio di salvare il loro santo
predicatore animava tutti i cuori.
Pietro
Arbues comprese che con un dialettico come Giovanni d’Avila il trionfo era
impossibile; senza spingere più lungi la discussione fece cenno al cancelliere
che aveva scritto di mano in mano tutte le parole dell’Apostolo. Il cancelliere
gliela rimise; Sua eminenza la lesse di nuovo, come per eccitarsi maggiormente
a punire una simile audacia; ed a ciascuna frase, i suoi sopraccigli si
contraevano di più, una nera tempesta d’odio s’accoglieva su quella fronte
vasta ed oscura, libro spaventevole in cui l’osservatore poteva leggere tante
cose sinistre. Terminato di leggere, prese il registro in cui le deposizioni
erano segnate, e dopo averne lette alcune linee:
“Va
bene,” egli disse; “le deposizioni dei testimoni sono perfettamente conformi
alle risposte dell’accusato. I testimoni che hanno firmato il registro sono
perfettamente d’accordo fra loro, essi han tutti egualmente affermato che il
prete Giovanni, detto Giovanni d’Avila, frate predicatore dell’Ordine dei
Carmelitani scalzi, ha non solo avute frequenti comunicazioni con eretici
luterani, ebrei e moreschi, ma eziandio che nelle sue prediche ha avanzato
proposizioni contrarie alla fede cattolica. Questi testimoni avendo giurato sul
Vangelo di dire la verità, noi ci dobbiamo riportare alle loro deposizioni.
Conformemente alle leggi della Santissima Inquisizione siamo dunque forzati di
condannare il prete Giovanni alle pene indicate dalle nostre santissime leggi
inquisitoriali, amenoché però l’accusato non possa provare, colla dichiarazione
di dodici testimoni, che è stato falsamente accusato.”
Pronunziando
queste parole, l’inquisitore portò gli occhi verso il luogo dov’era Giovanni
d’Avila, l’Apostolo non aveva fatto il più lieve movimento, egli aveva
ascoltato come se si fosse trattato d’un altro, ma nell’assemblea un gran
mormorio era surto in un subito, e la panca dei testimoni, non a guari vuota
era stata invasa dai più considerevoli gentiluomini presenti a quella seduta,
che tutti si disputavano la gloria di esporre la loro vita per il loro Apostolo
diletto.
Ma
egli, vedendoli esporsi così alla morte, per sua cagione, o almeno a pene
severissime, li guardò con occhio dolce e paterno, e fece loro cenno colla mano
di ritirarsi.
Al
cospetto di quell’amore universale la sua emozione era sì grande, che non ebbe
la forza di parlare. Due lacrime, due lacrime d’ineffabile e celeste
beatitudine caddero da quegli occhi, che non erasi giammai commossi se non
dalle sofferenze degli altri.
“Egli
è innocente! Egli è innocente!” gridarono insieme tutte quelle voci entusiaste.
“Ei
ci ha nutriti quando avevamo fame.”
“Ci
ha consolati quando piangevamo.”
“Ha
pacificato i nostri litigi, e riconciliata la pace nelle nostre famiglie.”
“Ha
benedetto i giovani che si amavano e riconciliato gli sposi disuniti.”
“Oh!
S’, egli è la gloria e la felicità della nostra Andalusia.”
Fu
un immenso concerto di benedizioni, un grido generale, più forte del timore che
inspirava l’Inquisizione, qualche cosa di spontaneo e d’irresistibile. Quegli
uomini sembravano ubbidire ad un voce del Cielo che gli spingeva
invincibilmente, ad onta del proprio pericolo, alla difesa di una causa sì
giusta.
In
presenza di quella generale manifestazione, il feroce Arbues si sentì preso da
un vertiginoso pensiero d’odio; credé a forza di audacia e di fermezza potere
imporre a quel popolo slanciato alla difesa di una causa sì santa; ma ignorava
che il popolo, quel terribile nemico, è tanto affezionato agli obbietti del suo
culto, quanto è fiero e spietato verso coloro che l’hanno ferito, e che la sua
collera somiglia a quella delle onde, che inghiotte coloro che tentano di
resisterle.
Deciso
di lottare a forza aperta, Pietro Arbues disprezzò quella manifestazione popolare
e scara, ed era il momento di riconoscere la verità di quell’adagio:
Voce di popolo, voce di Dio.
Ma
Pietro Arbues si curava poco di ciò.
Le
persone che avevano potuto porsi sulla panca dei testimoni erano là in piedi, domandando
ad alta voce che si ascoltasse la loro deposizione. L’inquisitore non ne fece
conto; tuttavia non osando dare la sua sentenza pubblicamente, dopo aver
ricusato d’ascoltare i testimoni, fece uso del suo ordinario sotterfugio, e
volgendosi agli sgherri posti alla destra:
“La
seduta è sospesa,” disse; “si riconduca l’accusato nella prigione.”
Il
popolo aveva compreso quello che voleva dire[32].
Un
grido generale surse nell’assemblea, e numerose voci ardenti ed ostinate gridarono
ad un tempo:
“I
testimoni! I testimoni! Si ascoltino i testimoni!”
“Si
faccia sgombrare la sala,” esclamò Pietro Arbues, alzandosi per uscire.
Giovanni
d’Avila si alzò come per seguire gli sgherri, e volgendosi al popolo, disse con
dolcezza:
“Calmatevi,
amici miei, calmatevi! Mi sarà resa giustizia, siatene certi.”
Così
parlano, l’Apostolo aveva gettato uno sguardo verso il fondo della sala come se
avesse aspettato qualcuno; nessuno arrivava.
Giovanni
d’Avila alzò gli occhi al cielo, e mormorò con grande rassegnazione: “Sia fatta
la volontà di Dio!”
Il
popolo continuava a mormorare, ed alcuni (audacia inaudita in quell’epoca e in
simil luogo) osarono varcare il cancello che li separava dall’accusato. Là
gettandosi alle ginocchia di colui che chiamavano il loro padre, baciarono le
sue mani e le sue vesti, non con l’umiltà del fanatismo, ma con una venerazione
tutta figliale, con quel rispetto che la vera virtù ottiene senza domandarlo, e
che viene accordato per timore al delitto onnipotente.
La
scena minacciava di divenire tempesta, ma l’inquisizione era prudente e cauta.
In
pochi momenti una triplice fila di sgherri armati e d’arcieri della
Santa-Hermandad era schierata intorno al popolo agglomerato nella sala, di
maniera che quelle brave genti si trovarono subitaneamente inviluppate, e
nessuno di essi avrebbe potuto uscir vivo da quel recinto se tale fosse stata
la volontà dell’inquisitore.
Un
gran mischia diveniva inevitabile, perocché quel popolo ardente e coraggiso non
sarebbesi lasciato immolare senza resistenza.
Giovanni
d’Avila, che con uno sguardo tutto comprese, fremé di santo sdegno, ed in
quell’istante spiacquegli l’amore che inspirava. Il pericolo di quella brava e
leale popolazione lo commosse assai più del suo proprio pericolo.
Pietro
Arbues, in piedi dietro il suo seggiolone, volse attorno alla sala lo sguardo
compiacente come il cacciatore quando vede il leone caduto nella rete che gli
ah teso. Il popolo solamente non si era accorto di nulla.
Fu
bene per l’Inquisizione che l’idea in cui era immerso non l’avesse fatto
pensare a sé medesimo, e forse fu meglio ancora per l’inquisitore, il quale
poteva disporre, è vero, di una forza armata; ma che diviene la forza armata di
fronte ad un popolo coraggioso spinto agli estremi ed esacerbato da molti anni
di oppressione e di miseria?
Pietro
Arbues, solo, cieco, come tutti i despoti, non comprendeva il suo pericolo.
In
quel momento la gran porta fu spalancata, e le guardie ed il popolo si
separarono con tutti i segni di profondo rispetto.
L’inquisitore
impallidì; quegli che era entrato nella sala del tribunale era il presidente
del Consiglio della Sprema, seguito dai suoi consiglieri.
Giunto
in faccia all’inquisitore, il presidente si fermò; e si trovava al fianco di Giovanni
d’Avila.
Pietro
Arbues abbassò gli occhi dinanzi al capo del Consiglio della Suprema; perciocché
questi l’osservava con aria di rimprovero e di corruccio, il che non presagiva
nulla di buono.
Il
presidente si volse allora verso l’Apostolo, che due birri avevano già
afferrato per le sue catene onde ricondurlo in prigione.
“Si
sciolga quest’uomo,” disse con voce severa.
Le
catene di Giovanni d’Avila caddero come per incanto.
“monsignore!”
disse a Pietro Arbues.
“Con
qual diritto avete voi messo quest’uomo sotto giudizio?” proseguì il
presidente; “non vi siete degnato di comunicare il suo atto d’arresto al
Consiglio; sapete coi ch’io potrei…”
“E’
vero,” balbettò Pietro Arbues, “questa formalità è stata omessa, in seguito…”
“Basta,”
disse il presidente con voce severa, “e un’altra volta pensate che un’omissione
di questa sorta è un delitto. Il re ed il Consiglio desiderano che si
perseguano gli eretici, ma che si faccia con forme legali, affinché possiamo
giudicare da noi medesimi della colpabilità degli accusati. – Voi siete libero,
reverendo,” proseguì il capo del Consiglio, dirigendosi all’Apostolo con
infinita amorevolezza.
“Grazie,
grazie, monsignore,” disse Giovanni d’Avila, “io non mi aspettava meno da
Vostra Eminenza.”
Pietro
Arbues si ritirò pieno di rabbia, il suo regno era finito.
“Viva!
Viva!…” esclamò il popolo; “ che Dio e la santa Vergine benedicano il consiglio
della Suprema!”
E
quel popolo semplice mandò grida d’ammirazione e d’entusiasmo, e versò lacrime
di gioia per quell’atto di profonda ed infinitamente accorta politica come per
un atto di erica affezione e di reale clemenza.
Così
si governa questo misero popolo, confidente e leale, così si governava allora,
perché oggi guai a chi lo credesse cieco. Il popolo è intelligente, molto
intelligente, e lo diviene ogni giorno più: soltanto si mostra talvolta troppo
indulgente. Però non bisogna fidarsi, nulla è più temibile di una sofferenza
soverchiamente protratta!…
Certo
è che la liberazione dell’Apostolo dell’Andalusia fu per Siviglia una gioia universale.
Fu creduto che finalmente Carlo v mantenesse tutte le sue promesse, ed il
Consiglio della Suprema acquistò una immensa popolarità. Ciò non per tanto quel
gran corpo dello Stato, composto quasi per intiero d’arcivescovi e di prelati
mostrava per ordinario uno zelo sì grande per la estirpazione dell’eresia
da emulare la stessa Inquisizione; ma il Consiglio, come tutti i poteri
assoluti, era gelosissimo della sua autorità.
Invadere
i suoi diritti, o far sembiante d’ignorarli era un’offesa cui perdonava difficilmente,
ed era appunto questo che aveva fatto Pietro Arbues, trascurando di
comunicargli l’arresto di Giovanni d’Avila. Questa mancanza di forma, che ferì
l’amor proprio del Consiglio, fu certamente la salvezza dell’illustre
predicatore[33]. Perché i più grandi risultati si debbono
spesso a cause piccolissime?… Questo è forse nei divisamenti di Dio!…
Quando
Giovanni d’Avila uscì dlla sala, il popolo lo sollevò sulle sue braccia come
sopra uno scudo, e tutta quella popolazione, folle, inebriata di gioia e di
speranza, lo condusse in trionfo fino alla sua umile dimora, gridando con voce
piena d’allegrezza:
“Viva
il nostro diletto Apostolo! Viva il re!viva il presidente della suprema!”
________________
XLV.
Nozze
e funerali.
Nelle
tombe della Garduna, immensi sotterranei scavati durante le guerre dei mori
contro i cattolici, per servire di comunicazioni segrete alle truppe,
Mandamiento aveva fatto nascondere Estevan, Dolores e Giovanna.
Il
baule nel quale erasi trasportato il corpo di Manuel Argoso era stato cambiato
in un gran cataletto di legno di cedro procurato dai garduni. La maggior parte
dell’oro che Estevan aveva potuto salvare delle sue ricchezze, ch’era obbligato
d’abbandonare al fisco[34], era servita a pagare tutte le
commissioni. I garduni erano affezionatissimi a chi li pagava.
Il
cataletto che racchiudeva le spoglie mortali di colui che era stato governatore
di Siviglia, era deposto in una di quelle tombe su due sgabelli di legno.
Secondo
l’uso dei tempi, il volto del defunto era rimasto scoperto; ma erasi avuto cura
di vestire il suo corpo d’una camicia di tela d’Olanda finissima e candida.
Manuel Argoso aveva le mani incrociate sul petto e le sue palpebre erano
intieramente chiuse. La morte aveva reso a quel viso, per lo innanzi sofferente
e pallido, un’indicibile serenità.
La
pietà di Josè non aveva abbandonato i suoi amici in quella penosa circostanza.
Giovanna,
vecchia nutrice di Josè, Giovanna, sì forte ed affezionata, pregava al lato di
Dolores durante quella triste veglia mortuaria: essa riceveva nel suo seno le
lacrime della desolata fanciulla.
Dal
suo lato Giovanni d’Avila era stato appena liberato dalle carceri
dell’Inquisizione, che, avvertito dalla Graziosa, era accorso alla Garduna.
La
sua non sperata presenza era stata per Estevan e per la sua fidanzata una dolce
consolazione.
Era
circa mezzanotte.
Giovanni
d’Avila e Josè, inginocchiati presso il feretro, recitavano lentamente le preci
dei defunti. Dolores singhiozzava a pochi passi di distanza, ma né Estevan né
Giovanna si azzardavano a consolarla: si contentavano di piangere con essa.
Era
un momento molto solenne, l’ultimo addio della morte alla vita, l’istante supremo
in cui l’essere materiale di quegli che Dolores aveva tanto amato tornava nel
nulla.
Ad
una delle estremità della tomba era stata messa, a guisa d’altare, una semplice
tavola coperta da una tovaglia bianca e sormontata da una gran crocifisso. Due
candelabri d’argento, proprietà di Mandamiento, portavano tre ceri gialli per
ciascuno, ed in una coppa d’argento dorato un ramo di bosso immerso nell’acqua benedetta.
Tale
era il lusso di quella lugubre cerimonia; le cesellature del metallo, le
faccette lucide dei candelabri brillavano di strana luce in quel luogo oscuro,
triste e nudo, e l’immagine di Cristo, bianca, soave ed inchinata, sembrava
piangere cogli afflitti inginocchiati innanzi ad essa.
La
voce grave e penetrante di Giovanni d’Avila aveva una unzione indescrivibile, alla
quale si congiungeva, con un incanto di mestizia, il suono più dolce e più
velato della voce di Josè.
Di
quando in quando dei singhiozzi che, malgrado i suoi sforzi per trattenerli,
sfuggivano la petto di Dolores, venivano a mescolarsi alla voce dei due monaci.
Quella
funebre cerimonia, così spoglia della pompa e del rumore che le comparte
l’orgoglio mondano, aveva qualche cosa di penetrante e di profondo dovuto alla
imperiosa necessità di celebrarla così di notte, in un luogo sconosciuto, e
lungi da tutti gli sguardi.
Quella
povera fanciulla, obbligata a rifugiarsi presso dei malfattori al fine di poter
rendere gli ultimi uffici al proprio genitore, quei due frati l’uno dei quali
era scampato alle mani dell’inquisitore, l’altro apparteneva al Sant’Uffizio;
quella vecchia Giovanna, personaggio singolare, la quale sembrava non esser
stata creata che per assistere alle sofferenze degli altri, tanto ella sembrava
indifferente sulla propria sorte, tutto ciò aveva qualche cosa di
straordinario, di misterioso, che somigliava ad un leggenda o ad un romanzo.
I
secoli decimoquinto e decimosesto furono fecondi in drammi straordinari e
terribili, tanto che oggi, senza l’autorità degli autori spagnuoli , i quali
hanno vissuto in quei tempi infelici, e che certamente erano troppo leali per
mentire; senza l’autorità degli annali, di cui non si può contestare
l’autorità, si negherebbe forse di prestar fede a quelle storie quasi inverosimili,
tanto esse sono orribili…
Era
un crudele incidente quello che noi raccontiamo, e pertanto questa funesta tragedia
non era ancor sciolta.
Di
tutti i personaggi presenti a quella scena, Estevan era forse il più mesto. Al
dolore che gli cagionava la morte di Manuel Argoso congiungevasi l’amara
convinzione della sua impotenza a lottare efficacemente per la sua patria. Ei
comprendeva con grande suo sconforto che la gloria di liberatore non gli era
riserbata, e in quell’amaro sentimento entrava certamente meno l’offeso amor
proprio, l’orgoglio umano, che la pietà pel suo paese, la compassione per le
vittime dell’insaziabile ambizione di Roma, del clero e dei governanti.
Nelle
sue idee larghe ed avanzate Estevan aveva qualche volta sognata la liberazione
della Spagna, in quel momento non la sperava più che in un lontano avvenire.
Questo
pensiero gettava sulla sua fronte, sì giovane, un velo nero d’insormontabile
tristezza, che il suo amore per Dolores non poteva dissipare.
La
vita della donna potrebbe tradursi in una sola parola: -Amore.- Ma all’uomo fa
pur mestieri altra cosa; l’uomo forte e coraggioso non concentra la sua intiera
esistenza in un’individualità: egli abbraccia uno scopo più largo e più
complesso, ed avanti al nome stesso della donna amata, v’ha un altro nome che a
vibrare tutte le corde dell’anima sua, questo mone è quello di patria!…
Patria!…questa
parola soave risuonava ora come lugubre squillo alle orecchie del giovane conte
de Vargas, il lugubre recitativo dei due frati, quel terribile De profundis,
la cui lacerante espressione riempie l’anima d’angoscia, e fa correre un
fremito per tutte le vene; quel terribile De profundis era per lui
l’ultimo grido angoscioso del suo paese oppresso, l’ultimo addio che la Spagna
pareva mandare, innanzi di morire, dal fondo dell’abisso in cui erasi
precipitata.
Di
quando in quando Giovanni d’Avila interrompeva le preci per versare sul corpo
l’acqua santa che purifica; poi tornava ad inginocchiarsi a fianco di Josè, e
continuava l’uffizio dei morti.
Tutto
il tempo che durò questa triste cerimonia, Estevan, colla testa fra le mani non
si rivoltò neppure una volta, ma quando Giovanni d’Avila ebbe pronunziato
l’ultimo versetto della preghiera dei morti, Estevan si alzò ed avvicinandosi a
Dolores; egli comprese che l’amore per il proprio paese non poteva assorbire
intieramente quello che provava per la sua fidanzata, e che vegliare su di lei,
renderla felice, era pure per esso un sacro dovere.
In
quel momento due uomini della Garduna entrarono per togliere il cataletto.
Dolores
comprese che il momento supremo era venuto; e poiché, malgrado la dolcezza del
suo carattere aveva una di quelle energiche volontà che nelle grandi
circostanze della vita sanno dominare fino il dolore, si avanzò con passo fermo
verso il letto funebre in cui posava il padre.
Estevan
volle trattenerla.
“Lasciatemi,”
ella disse respingendolo dolcemente ma con fermezza, “lasciatemi dargli un
ultimo addio.”
Essa
si avanzò verso il feretro, s’inginocchiò sulla nuda terra, poi s’inchinò verso
il defunto genitore, posò le sue labbra su quella pallida fronte, lo baciò per
tre volte, e, rialzandosi con coraggio, andò ad assidersi all’estremità più
lontana del sotterraneo.
La
forza che l’aveva un momento sostenuta, l’abbandonò; nascose la sua testa fra
le mani per non vedere nulla di ciò che accadeva intorno di lei.
Estevan
e Giovanni d’Avila non la perdevano di vista.
I
garduni con tutte le precauzioni possibili presero il cataletto, e lo
trasportarono in una tomba ancor più grande e più lontana.
Ivi
li attendevano sette od otto fratelli dell’ordine, uomini e donne.
Quando
ebbero deposto il cataletto sul suolo, due vecchie si impadronirono del cadavere.
Quelle due schifose creature, appena coperte con un cattivo cencio di lana
nere, avevano alzato fino al gomito la manica della loro sottana, lasciando
vedere le loro braccia secche, aggrinzite, percorse da grosse vene
turchiniccie.
I
loro capelli rari, grigi ed arruffati, si alzavano in disordine alla nuca sotto
una striscia di nastro nero divenuto grigio a forza di unto e di polvere. Il
loro collo, lungo e magro, si lasciava vedere senza pudore sotto un cattivo
fazzoletto, e coi loro piedi nudi e sporchi calpestavano, vacillando, il suolo
terroso del sotterraneo.
Ciascuna
di quelle due vecchie era armata di un coltello stretto, recentemente affilato.
Una
tavola zoppa, lunga circa sei piedi, era stata posta nel sotterraneo.
Le
vecchie vi distesero il corpo del governatore, e si misero all’opera.
E,
simili ad uccelli rapaci abituati alla vista dei cadaveri, quelle donne
aprirono il corpo dall’alto al basso, come avrebbe potuto fare un anatomico;
poscia ne tolsero i visceri con una incredibile destrezza.
Due
bravi li presero, li deposero nel cataletto, vi mescolarono alcuni armati, li
ricoprirono quindi con un gran pezzo di stoffa; poi tutti i garduni che erano
presenti s’inginocchiarono intorno a quel cataletto, e borbottarono alcune
preghiere, poi, finalmente, fu fatto discendere il cataletto medesimo in una
gran fossa che era stata preparata, ed i garduni lo ricoprirono di terra. In
questo tempo una delle vecchie aveva posto il cuore in una scatola d’argento,
dopo averlo accuratamente imbalsamato con preziosi armati, conosciuti dai
gitani, razza venuta dall’Egitto; la sua compagna aveva diligentemente lavato
il corpo con acque profumate.
Dopo
averlo asciugato con panni finissimi, quelle due donne lo distesero sopra una
gran tela di un grigio argentino, tessuta con filo d’amianto: cosa rara e
preziosa; ma che vi era di raro per i garduni?
Quando
ebbero così disposto il cadavere e rinchiuso il cuore, le vecchie
s’inginocchiarono, e si misero nuovamente a pregare; nello stesso tempo
aspergevano il corpo di acqua odorifera con un ramo di cedro, e mormoravano a
bassa voce preghiere non intelligibili, formole bizzarre tolte da tutti i riti,
ed accomodate alla loro usanza da un’ignorante superstizione, mista alcun poco
ad un non curante scetticismo.
Era
orribile a vedere quelle due vecchie luride con le mani e con le braccia ancor
sanguinose, inginocchiate davanti a quei resti umani, pregando con le labbra un
Dio o un demone sconosciuto, del quale non avevano neppur la coscienza, o
piuttosto recitando per abitudine parole incoerenti e bizzarre: cadaveri ancora
in piedi che seppellivano un cadavere disteso!…
I
garduni attendevano con calma che avessero finito.
A
capo di alcuni minuti elleno si alzarono; una di loro rimise la scatola che
racchiudeva il cuore ad un giovane bravo, dicendogli: “serba questo.”
Poi
finalmente, le due sibille, armate di cesoie, e d’aghi, involsero
diligentemente il corpo in una tela d’aminato, e la cucirono per tutto con del
filo strappato dallo stesso tessuto della tela; poi, essendosi assicurate che
era ermeticamente cucito, si rivolsero verso i garduni, dicendo:
“Ecco
fatto.” Allora cominciarono i bravi.
Nel
mezzo del sotterraneo erasi scavata una gran fossa in forma di croce, coperta
al suo orifizio da una enorme inferriata.
La
parte di questa fossa che rappresentava il fusto della croce, era stata
riempita di carbone; quella che formava le braccia doveva servire di conduttore
all’aria, di maniera che passando da un lato all’altro e spogliandosi del suo
ossigeno, mantenesse costante la combustione.
Ed
invero il carbone che riempiva la fossa era già incandescente, ed a cagione
della grande quantità che ne era stata messa, non che bruciare, alzava le
fiamme. Dei condotti d’aria erano stati accuratamente conservati nel
sotterraneo perché il gaz non rendesse asfissiato nessuno.
I
due garduni che avevano preso il corpo lo deposero allora sull’inferriata già
rossa, che non distinguevasi più nel mezzo dei carboni ardenti.
Appena
il corpo fu deposto sul fuoco una fiamma turchinoccia si alzò all’intorno come
se fosse fosse stata avida di divorarlo.
A
misura che il fuoco consumava il cadavere, la tela d’amianto diveniva d’una bianchezza
abbagliante, e brillava come argento fuso nel mezzo di quel braciere.
Bentosto
un odore forte e spiacevole si mischiò a quello del gaz acido carbonico. Dei
garduni soltanto potevano rimanere in luogo siffatto. Essi non parvero in alcun
modo incomodati; e con una impassibilità tutta spagnuola aspettarono che quel
corpo fosse stato consumato finché non ne rimanesse che un pugno di cenere.
Allora
tolsero la tela d’amianto, che era divenuta pieghevole come mussolina; una
volta raffreddata, l’aprirono, ne tolsero diligentemente la cenere fino
all’ultima particella, e la rinchiusero in un sacchetto di marocchino di circa
un palmo quadrato, guarnito di molte corregge.
Terminata
questa operazione, il garduni che era stato destinato da Mandamiento a
invigilare la detta cerimonia, disse prendendo il sacchetto nelle sue mani:
“Questo
riguarda me: la scatola d’argento sarà confidata a Graffio,” aggiunse accennando
il giovane novizio favorito di Mandamiento, che abbiamo già veduto figurare al
principio di questo libro.
La
vecchia che aveva imbalsamato il cuore lo rimise colla sua scatola a quegli che
ne era stato incaricato.
Finalmente
due altri garduni gettarono una gran quantità di terra sul carbone ch’era
rimasto nella fossa, e tutto fu finito. La cerimonia era terminata.
Mentre
si celebravano quei singolari funerali, una scena ben differente accadeva nel
primo sotterraneo. Dopo che i garduni ebbro trasportato il cataletto, Giovanni
d’Avila si avvicinò alla figlia del governatore, la quale, come abbiamo già
detto, erasi seduta all’estremità del sotterraneo, e nascondeva la testa fra le
mani per piangere in libertà.
Quando
l’Apostolo le fu vicino la chiamò dolcemente per nome.
Al
suono di quell’amica voce, Dolores alzo il volto bagnato di lacrime.
“Figlia
mia,” continuò Giovanni d’Avila; “il vostro dolore è santo, ed io lo divido,
pure in nome di colui che voi piangete, vi prego di mostrarvi forte e
coraggiosa, i vostri doveri non sono finiti.”
“E
che mi rimane da fare?” domandò essa con quello stupore nel quale ci piombano i
grandi dolori.
L’Apostolo
la prese dolcemente per mano, ed aiutandola a sollevarsi, la condusse presso
Estevan, il quale per rispetto non avea ardito approssimarsele, e stava in
piedi a qualche distanza colle braccia incrociate sul petto.
Vedendo
l’Apostolo farsi innanzi colla sua fidanzata andò loro incontro; Giovanni
d’Avila pose allora la mano di Dolores in quella del giovane, dicendole con
dolcezza:
“E’
la volontà di vostro padre.”
“E
la mia pure,” rispose Dolores con nobile franchezza.
Quella
casta fanciulla aveva troppo verace virtù per ricorrere a quel pudore di convinzione
che pone sulle labbra delle donne tante parole smentite dalle loro azioni.
Estevan
prese con trasporto la mano di colei che amava.
Josè
li guardava taciturno, ed una specie di delirio, una febbre interna e mortale
brillava ne’ suoi sguardi, più ardenti del consueto.
“Fratello,”
disse Giovanni d’Avila, dirigendosi al fraticello, “voi benedirete i nostri
amici.”
Josè
alzò la testa con impeto, come se quelle parole avessero interrotto un sogno.
“Io?”
disse con amarezza; “io benedire l’unione di questi due giovani? No, padre mio,
no, ciò non può essere….E’ un diritto che vi appartiene,” soggiunse con accento
tranquillo e sommesso abbassando gli occhi allo sguardo penetrante di Giovanni
d’Avila.
“Come
bramate,” disse egli; “venite, figli miei; ed io vi unirò.” Egli condusse i due
fidanzati.
Josè
e Giovanna si avvicinarono l’un l’altra e si dissero alcune parole sommesse, mentre
Giovanna asciugava un lacrima che scorreva dai suoi occhi inariditi sulla sua
gola pallida e macilenta.
Quando
furono vicini alla tavola dov’era il crocifisso, Estevan e Dolores
s’inginocchiarono. Ciascuno di essi aveva al dito un anello, che si cangiarono,
e Giovanni d’Avila li benedisse. Quindi, dopo le domande d’uso, domande
semplici, formule del matrimonio evangelico, il Francescano pronunziò le parole
sacramentali….
Frattanto,
inginocchiati l’uno presso l’altra in un religioso e mesto raccoglimento, i due
fidanzati pregavano, e, ad onta della loro tristezza, un raggio di felicità
illuminava quelle due sorti che stavano per confondersi in una.
Dolores
era pallida e commossa: tante cose terribili avevano preceduto quel momento,
che dubitava se fosse ancor questa una di quelle crudeli illusioni che da
qualche mese presiedevano alla sua vita. Pure, quando posò la sua mano in
quella di Estevan e che la sentì stringere dolcemente da quegli ch’esser doveva
la sua guida ed il suo sostegno, un profondo sospiro uscì dal suo petto; fissò
sopra Estevan un celeste sguardo, sublime preghiera d’amore, più eloquente
della stessa parola. Quando si alzarono, Estevan e Dolores erano uniti per
sempre. Josè allora si avanzò verso la giovane coppi, e disse loro con accento
ineffabile e con voce piena d’emozione.
“Ora,
amici miei, partite, siate felici e non vi separate giammai!…”
In
quel momento un garduno entrò nel sotterraneo. Mandato dal maestro, voleva sapere
se Mandamiento poteva presentarsi alle loro signorie.
“Il
maestro può venire,” disse Giovanni d’Avila.
Mandamiento
allora si presentò colla sua solita franchezza.
“Tutto
è pronto per la partenza delle loro signorie,” egli disse; “due muli li
aspettano. I miei garduni le seguiranno per servir loro di guida. Ecco, oltracciò,
la parola d’ordine, affinché in tutti i luoghi in cui le signorie loro potranno
incontrare i fratelli della Garduna, invece d’esser loro nocevoli, prestino
loro aiuto e protezione.” Nello stesso tempo Mandamiento rimise ad Estevan un
pezzo di pergamena sul quale era segnata una parola quasi non leggibile.
Era
il firmano che doveva proteggere la fuga dei proscritti attraverso le
strade della Spagna, infestata dai garduni[35].
“Ecco,”
aggiunse il maestro, “i due fratelli che debbono accompagnarvi: sono dei più
prodi e dei più leali.”
Ed
accennava il bravo ed il novizio incaricati dei resti mortali del governatore,
che entravano in quel momento nel sotterraneo.
“Dove
ci raggiungerete, padre mio?” domandò Estevan a Giovanni d’Avila.
“A
Cadice,” rispose l’Apostolo; io vi sarò insieme con voi ma vi giungerò per
altra via, non conviene che prendiamo la stessa strada.”
“E
voi, don Josè?” domandò Dolores, che provava per il fraticello un’amicizia
tutta fraterna.
“Io!
Dove piacerà a Dio,” rispose Josè, con una espressione lacerante di assoluto
scoraggiamento e di abbandono a sé medesimo.
Nel
momento di doversi separare da quelle due persone, onde per un poco eragli divenuta
cara l’esistenza, Josè s’indeboliva come tutte le anime tenere davanti ad una
nuova sventura.
Tuttavia,
abituato da lungo tempo a dominare le sue sensazioni, si volse verso Giovanna,
e le disse con voce dolce e premurosa:
“mia
buona nutrice, tu pure partirai, non è
vero?”
“Io!”
disse Giovanna, con sublime espressione di coraggio, “io partire quando voi
rimanete?”
“Vi
raggiungerò fra qualche giorno,” aggiunse vivamente Josè con una volubilità che
male nascondeva la sua emozione; “vedi, mia buna Giovanna, bisogna che lasci la
Spagna io pure: niuno è qui in sicurezza.”
“Io
non la lascerò che con voi, mio Josè,” disse risolutamente la nutrice.
“Sì,
ma tu partirai prima coi nostri amici, così sarai meno osservata, e fra qualche
giorno, quando avrò realizzati i fondi che mi rimangono, io vi raggiungerò
tutti…Andiamo, Giovanna, tu partirai questa sera.”
“Io
non partirò,” rispose con voce risoluta.
“Lo
voglio, Giovanna,” aggiunse severamente Josè, ma egli era sì pallido, ed il suo
occhio ordinariamente sì brillante, era tutto ad un tratto divenuto sì cupo,
che si vedeva bene ch’era interiormente in preda ad un violento combattimento.
A
quelle parole: -Lo voglio - Giovanna abbassò la testa, e rispose con voce
quasi estinta: “Partirò.”
“Oh!
Tanto meglio!” Esclamò Dolores; “Josè pure ci seguirà…”
Le
forze del fraticello erano quasi esaurite; le sue mani tremavano di una
convulsione nervosa, che tutta l’energia della sua volontà non poteva
dissimulare, ei vacillava sulle sue gambe, e le sue palpebre si chiudevano con
una contrazione involontaria.
Tuttavia
il coraggio morale trionfò della natura fisica. Con uno sforzo sovrumano stese la mano ai novelli sposi, ritrovò
tanta forza da stringere convulsivamente la loro; poscia si gettò al collo di
Giovanna, la abbracciò con tenerezza piena di disperazione, e vi lasciò cadere
due lagrime fino allora trattenute.
“Fra
breve, o mia Giovanna,” le disse, “ci raggiungeremo.”
Tutto
era pronto.
“Signori,”
disse Mandamiento, “affrettatevi; avete appena il tempo di far due leghe
innanzi che spunti il giorno per arrivare alla prima residenza di una
confraternita, dove passerete la giornata, poiché, voi lo sapete, non potrete
viaggiare che di notte.”
Ad
un cenno del favorito dell’inquisitore una terza mula era stata preparata per
Giovanna. La piccola carovana partì.
Josè
e Giovanni d’Avila rimasero soli.
“Padre
mio,” disse Josè, “avanti di lasciarci beneditemi.”
“Figliuol
mio,” disse Giovanni d’Avila, ognor più sorpreso dalle maniere del fraticello,
“Dolores non era questa sera la più mesta fra noi.”
“Oh
no,” rispose don Josè con accento energico, “ora che Dolores non ha più bisogno
di voi, Padre mio, pregate per Josè.”
“Sii
benedetto e consolato, tu che soffri!” disse l’Apostolo con dolce mestizia.
Ma,
come se Josè avesse temuto di lasciarsi trasportare da una troppo grave confidenza,
si allontanò subitamente, e si diresse verso la casa di Giovanna.
________________________
XLVI.
La
giustizia di Dio.
Era
il terzo giorno dopo la miracolosa liberazione di Giovanni d’Avila.
Nella
cosuccia di Giovanna, nel mezzo della sala bassa, ove d’ordinario la nutrice di
Josè passava le sue lunghe e solitarie giornate, il Domenicano era solo.
Assiso
sopra un largo divano, ricamato dalle mani di Giovanna, Josè, pallido ed abbattuto,
s’era negligentemente appoggiato ad alcuni cuscini.
La
sua mano bianca e diafana, ne sosteneva la testa abbattuta: due cerchi turchini
circondavano i languidi suoi occhi, una cupa esaltazione, un pensiero profondo
ed unico rendevano spaventevolmente immote le sue larghe e nere pupille, mentre
un estremo abbattimento fisico si faceva vedere in tutte le sue membra.
Dopo
la partenza di Dolores ed Estevan, Josè era rimasto solo in quella casa
deserta, ei non aveva mangiato da due giorni.
Pure
non era l’effetto di un soverchio scetticismo, o di uno stupido fanatismo, nei
due giorni e nelle due notti scorse, le labbra del Domenicano non avevano
proferito parola.
Da
molto tempo Josè non pregava più. Si era prodotto nella sua testa un immenso
caos di pensieri, dominati da un solo che costantemente si riproduceva sotto le
sue forme, ma senza seguito e senza ordine; un mostro da mille teste, un’ira
divoratrice, che dardeggiava le sue mille lingue infiammate per allucinarlo.
In
quei due giorni fatali il Domenicano vide passare davanti a sé cose terribili,
scene fantasmagoriche ed impossibili; angioli e demoni, sorrisi e lacrime, una
bianca colomba chiamata Verità che scuoteva con orrore le sue ali insanguinate,
e risaliva verso il cielo, dopo aver gettato sulla terra uno sguardo di soma
tristezza.
Quindi
Josè si trattenne con un essere invisibile ed incantevole che lo chiamava dolcemente
pel suo nome, che talvolta sollevava, con mano soave e carezzevole, le sue
braccia affaticate dicendogli:
“Seguimi.”
Josè
faceva uno sforzo per alzarsi e seguire quest’essere diletto che lo chiamava;
ma allora una mano di ferro gravava sul suo debole braccio, e l’obbligava ad
arrestarsi, gridando con voce alta e fatale:
“Attendi
ancora!”
allora
il fraticello nascondeva la sua testa nei cuscini di velluto per fuggire a
quella visione crudele; quindi si alzava furioso e disperato. Una gioia
sinistra lampeggiava nel suo sguardo feroce, i suoi denti bianchi e lucidi,
stridevano convulsivamente, e colla sua mano, debole e nervosa, stringeva con
rabbia un pugnale dal manico d’ebano, la cui lametta affilata aveva la durezza
del diamante.
“Aspettare!
Aspettare!” mormorava ad intervalli; “Sono sette anni che aspetto!…”
Finalmente,
per l’ultima volta, egli andò a rivoltare la clepsidra che gli serviva a contare
le lunghe ore di quella fatale giornata. Incominciava la nona ora del mattino.
In
quel momento lo sguardo di Josè si fermò sopra una tela da tappezzeria incorniciata
da Giovanna, opera meravigliosa, che era stata l’occupazione prediletta della
povera vecchia. La tela distesa sopra un tavola e l’ago munito di lana
sembravano aspettare colei la quale con le sue deboli mani aveva fatto spuntare
tutti quei fiori brillanti, quelle rose dell’Alhambra dal calice puro e
vermiglio, e quelle palme d’Africa, le cui foglie sembravano fremere ed
ondulare il balìa del vento. A quella vista il petto del fraticello s’inondò di
una grande amarezza; un profondo intenerimento bagnò di lacrime gli ardenti
suoi occhi, e depose un bacio pieno di affezione su quella tela insensibile.
“Povera
Giovanna!” esclamò egli, “come ho consumato la tua vita!…oh! vederti, vederti
un’ora ancora, appoggiare la mia testa sul tuo seno che mi ha nutrito! Non
esser solo al modo!” soggiunse con voce lacerante, e girando lo sguardo
spaventato intorno a quella camera deserta. “Pertanto ho fatto bene a sottrarla
al pericolo; ora è libera, la mia funesta esistenza non peserà più sulla sua;
io le ho dato degli amici che saran figli per essa; povera Giovanna!… oh come
piangerà quando saprà che non deve più rivedermi!…”
Josè
guardò la clepsidra, la quale ormai non conteneva che una piccola quantità di
polvere.
“Oh
il tempo,” esclamò, “il tempo, “il tempo porta tutto seco…il dolore e la gioia,
la bellezza e la gioventù, le grandezze e la gloria. Una sola cosa resiste ai
suoi sforzi, e non finisce mai, questa è l’odio…l’odio che si porta nella
tomba, e non si spegne neppure dopo aver divorato la vita…Via!” proseguì con un
gran sospiro, come se avesse fatto un sublime sforzo per rompere gli ultimi
lacci che ancor lo univano a questa vita; “tutto è finito quaggiù! Un altro
mondo mi reclama, l’ultima ora è suonata…andiamo.” – Così parlando, il
fraticello acconciò la sua tonaca, che era in disordine, cuoprì le sue spalle
con un mantello, indi avvicinandosi ad una cassa che racchiudeva alcuni vasi
pieni di diversi liquori, ne scelse uno, che inghiottì da un tratto. Era un
prezioso elisir composto da Giovanna.
Appena
Josè l’ebbe bevuto, che la sua pallida fronte si tinse di un leggiero color roseo;
i suoi occhi, abbattuti e smorti, ripresero un’apparenza di vita, un lampo da
ingannare gli sguardi più esercitati; la sua mano cessò di tremare, ei
camminava con passo fermo e sicuro; era pronto alla lotta.
L’ultimo
grano di polvere cadde, colla rapidità del pensiero, sul cristallo
dell’orologio; nello stesso tempo la campana della cattedrale suonò per tre
colte; essa annunziava la fine della messa.
-
Ecco l’ora!
– esclamò Josè.
Corse
verso la porta ed uscì. Era il momento convenuto per il suo appuntamento con
Pietro Arbues.
Josè
camminava molto presto, e la sua mano destra, nascosta sotto la tonaca, stringeva
con forza il manico del suo pugnale.
La
giornata era magnifica; uno splendido sole brillava in un cielo sereno, il
calore cominciava a divenire molto forte, e nelle strade inondate di luce, il
popolo vestito dei suoi abiti da festa, si affollava in quel momento. Era
finita la gran messa, ed ognuno portavasi in casa propria o alla taverna per
pranzare.
Quei
bruni volti andalusiani, arsi dal sole, razza ancora araba per sangue e per colore;
quelle vivaci ragazze del popolo, dai fianchi flessibili; quei giovani eleganti
e snelli; tutto quel popolo naturalmente sì gaio, sì espansivo, sì ciarliero,
portava impressa sulla fronte la tristezza della servitù, la cupa noia della
paura. Quegli occhini fiammeggianti rimanevano, il puù sovente, velato sotto le
larghe palpebre, e tutte quelle labbra frementi per l’istinto e per il
desiderio della poesia sembravano sforzarsi a rimanere taciturne.
Quei
poeti popolari, il cui semplice ritmo conservava ancora tanto colore orientale,
lasciavano morire nel loro seno l’ispirazione e la gioia; il popolo non osava
cantare, ei non poteva fare un passo nella via senza essere urtato da qualche
monaco, ed ogni monaco era una spia.
Josè
passò in mezzo alla folla senza vedere alcuno, raddoppiando il passo per arrivare
più presto, e tenendo lo sguardo fisso dinanzi a sé, quasi avesse seguito
un’ombra.
Alcune
donne del popolo, vedendolo trascorrere con passo sì rapido, si fermarono con
istupore.
“Dove
va così presto il favorito dell’inquisitore?” disse piano una di esse. “è
pallido come la morte.”
“Taci,”
disse una vecchia, “questo non ci riguarda: negli affari dell’Inquisizione: silenzio!”
quando
Josè giunse dinnanzi alla cattedrale non v’era quasi più alcuno nella spianata,
ma si udiva ancora lontano, nelle strade adiacenti, il rumore monotono che
producono da lungi i passi d’una gran quantità di persone.
Il
fraticello entrò nella basilica. Un forte profumo d’incenso sentitasi ancora
nella chiesa.
Un
luce mite filtrava attraverso i vetri colorati delle finestre, ed in mezzo a
quella dubbia luce, una gran lampada d’argento, sospesa alla volta, gettava una
fiamma viva e tremolante, che a momenti si slanciava verso la cupola in un
getto brillante e colorata del riflesso de’ vetri.
Qua
e là sulla nuda pietra, alcune donne inginocchiate pregavano battendosi il petto.
In
vederle così involte nelle loro mantiglia nere ed inginocchiate sulle tombe, di
cui la chiesa era lastricata, sarebbesi dette anime penitenti, che cercavano di
riacquistarsi il cielo.
Altre
volte, alla loro completa immobilità, sarebbesi prese per statue di coloro che
racchiudeva la pietra su cui erano inginocchiate.
Più
in alto, nell’absida appiè dell’altar maggiore, regnava una solitudine
assoluta; soltanto sotto l’unico raggio di luce che, caduto dall’alto,
rischiarava quel luogo oscuro e misterioso, potevasi distinguere la forma
indecisa d’un fraticello inginocchiato sui gradini.
I
ceri dell’altare ardevano ancora, e l’odore della cera mescolatasi al dolce
profumo dell’incenso, il cui fumo s’innalzava in nubi biancastre.
Un
gran Cristo d’argento stendeva le sue braccia sulla croce con una rassegnazione
divina. In un’immensa cornice, al di sopra della tavola dell’altare, vedevasi
la vergine con Gesù bambino, che getta fiori e rosasi a due frati dell’ordina
di S. Domenico.
Da
lungi sarebbesi detto che il monaco inginocchiato appié dell’altare facesse
parte di quel quadro, e che aspettasse i doni della celeste protettrice del suo
Ordina.
La
sua testa rasa s’inchinava sulle sue due mani riunite, e la più profonda umiltà
era impressa in ogni sua attitudine. Di quando in quando si batteva il petto
con ardente ed inimitabile fervore, come se la preghiera fosse stata la
prediletta occupazione di quell’uomo, e la penitenza avesse formato la sua
delizia.
A
giudicare dalle apparenze, egli doveva essere un gran santo od un gran peccatore,
ma, fosse l’uno o l’altro, Iddio doveva per certo esaudire preghiere sì
fervide.
Quel
monaco era Pietro Arbues.
Il
grande inquisitore di Siviglia aveva l’abitudine, dopo la messa, di fare solo
all’altare lunghe preghiere.
Josè
si fermò un istante sotto uno de’ pilastri della chiesa, onde considerare per
alcuni istanti quegli che era venuto a
cercare.
Suo
malgrado il fraticello fremè involontariamente in mezzo a quel silenzio,
interrotto solamente da alcune preghiere, l’impercettibile bisbiglio della
quali somigliava al mormorio di un’insetto sopra un fiore.
Era
sì tranquilla e sì solenne quell’ampia chiesa gotica, in cui ogni voce taceva:
quella delle campane e quella dei preti!…Non vi restava più che un
indeterminato senso di preghiera e di raccoglimento, un rimbombo lontano,
un’eco impercettibile de’ lamenti, dei voti e dei sospiri che quella vòlta
sonora aveva udito….
-“E’
propriamente lui! – esclamò il fraticello con accento satanico e derisorio; - ipocrita e furbo anco con Dio!…
- E’ lui…egli prega, sognando nuovi delitti…Sì, prega, monaco insensato!…fa
pure l’ultima tua preghiera….Forse si pente, - proseguì fra sé medesimo; -
lasciamogli l’ora sacra del pentimento….”-
E
Josè fermassi alcuni istanti, quasi aspettasse che Pietro Arbues avesse finito
la sua preghiera!…
L’inquisitore
si segnò a più riprese, ed un leggiero moto ch’ei fece quasi per alzarsi indicò
che la sua preghiera stava per terminare…
“Oh!
Ma io son pazzo!” esclamò Josè: “pazzo se credo che Pietro Arbues possa pentirsi…”
E
riprendendo tutta la sua presenza di spirito in quel momento supremo, si avanzò
lentamente verso l’altare come se avesse voluto farvi la sua preghiera. Al
rumore che fece, aprendo il cancello dell’absida, l’inquisitore si rivolse.
Alla
vista di Josè un lampo di letizia brillò nel suo sguardo, ma il sembiante del favorito
aveva una espressione talmente fatale e sinistra che Pietro Arbues fremé suo
malgrado; e, in onta della santità del luogo, non poté trattenersi dal dire:
“Josè,
che hai?”Josè non rispose; ma il suo pallido labbro si atteggiò ad un sorriso
satanico, e guardò Pietro Arbues come se avesse voluto divorarlo.
L’inquisitore
indietreggiò, credendo che il suo favorito perdesse la ragione, ma innanzi che
avesse avuto il tempo di prevedere il colpo, Josè erasi gettato sopra di lui
come tigre, e gli aveva immerso tutto il suo pugnale nella gola, nel punto in
cui la corazza non poteva difenderlo. L’inquisitore stese il braccio in avanti,
e cadde all’indietro, ma fu ritenuto dai gradini dell’altare, e vi rimase mezzo
disteso. Il sangue usciva a torrenti dalla sua ferita.
“Tu!…Tu,
Josè!” mormorò, dibattendosi contro le angoscie dell’agonia.
Ma
Josè si chinò sul suo volto, che impallidiva, e prendeva rapidamente il colore
turchino della morte; e fissando il suo sguardo fiammeggiante sugli occhi quasi
estinti di Pietro Arbues, gli gridò con voce sorda: “Rammentati di Paola!”
A
quel nome Pietro Arbues riaprì un istante i suoi occhi quasi spenti, e guardò vagamente
il pallido viso del fraticello.
Una
rimembranza terribile sembrò colpirlo, e mormorò con voce spenta:
“Dio
è giusto!”
E
spirò…
Il
pugnale di Josè gli aveva tagliata la giugulare[36].
All’aspetto
di quello strano delitto, di quel sacrilegio commesso in una chiesa, le donne
che erano presenti avevano mandato grida spaventevoli, e in un momento la
chiesa si era riempita di gente.
Alcune
donne eransi slanciate fuori della chiesa gridando per tutta la città:
- All’assassinio!…all’assassinio!… è stato
assassinato monsignore l’inquisitore! -
A
quel grido tutta la milizia di Cristo, tutti gli sgherri, tutta la Santa
Hermandad erano accorsi, in alcuni minuti erasi circondata la chiesa; e quando
il capo delle guardie vi entrò per constatare il fatto che era accaduto, fu
trovato il cadavere del grande inquisitore disteso appié dell’altare, e Josè,
che colle mani incrociate sul petto lo considerava in silenzio con occhio
feroce.
Lo
sguardo del Domenicano somigliava un poco a quello degli alienati di mente, ed
i suoi denti stridevano con singolar rumore. Il rispetto che l’Inquisizione
ispirava impediva che si potesse sospettare del fraticello. Tuttavia il capo
delle guardie, indirizzandosi a lui, gli disse con tutte le formule del
profondo rispetto:
“Mio
reverendo padre, sapete voi chi sia l’autore di questo delitto?”
“Son
io,” rispose tranquillamente Josè.
Ad
una sì formale confessione non potevasi rispondere che con un arresto.
Il
capo delle guardie che aveva interrogato il favorito, lo fece immediatamente
arrestare.
Josè
si lasciò legare senza resistenza; sembrava che quel momento, terribile per
ogni altro, fosse pieno per lui di gioia ineffabile.
Al
primo rumore dell’assassinio una gran quantità di popolo erasi affollata
intorno alla chiesa. Quando Josè uscì, tutti gli occhi si portarono su di lui
con ardente curiosità; egli era sì giovane, sì bello e sì mesto, che la sua
vista ispirava una pietà mista a tenerezza e simpatia, oltracciò l’odio per
l’inquisitore era sì forte, che tutta la pietà pubblica si volgeva verso
l’uccisore e non verso la vittima.
“Che
cosa gli aveva fatto l’inquisitore?” si domandava a voce bassa.
“Eppure
era il suo favorito,” si rispondeva.
“Ecco
come i lupi si divorano fra loro,” disse un vegliardo dai capelli bianchi, che
fu riconosciuto per Rodrigo de Valero.
“Tacete,
don Rodrigo,” disse il suo amico Ximenes de Herrera, che l’accompagnava sempre;
“la vostra imprudenza finirà per perdervi.”
“Che
m’importa?” disse severamente il vecchio, “i miei capelli bianchi valgono dunque
la pena che io sia vile per conservarli? Ma,” soggiunse esaminando il volto di
Josè ch’egli riconosceva a misura che questi veniva dal suo lato, “mi sembra
che il monaco, il quale ha ucciso monsignore Pietro Arbues, sia lo stesso che
abbiamo veduto una sera al ballo della Garduna.”
“E’
egli stesso,” rispose don Ximens; “io lo riconosco perfettamente. Quel
fraticello era per certo una singolare creatura.”
“O
sventurato!” interruppe Valero; “ei non somigliava punto agli altri monaci di
Spagna, potevasi dire di lui tutto quello che i pagani stessi dicevano di
Cristo: Non è stato mai veduto ridere, ma di sovente e stato veduto piangere.”
“Egli
era caritatevole ed affabile,” dissero alcune donne, che lo guardavano con
grande compassione; che peccato! Lo condurranno alla morte!…”
“Ha
fatto come Giuditta,” replicò Valero; “è un martire e non un omicida…”
Mentre
Valero parlava così, un uomo vestito di nero gli camminava a fianco con gli
occhi bassi, ed asciugandoli di quando in quando come se avesse provato un gran
dolore per il caso avvenuto.
Sul
petto di quell’uomo, sotto un giustacuore, alquanto aperto, si distingueva
porzione di una placca d’argento cesellata. Quell’uomo non aveva perduto né
pure un delle parole di Valero.
Quanto
a Josè, sembrava completamente insensibile a tutto quello che avveniva attorno
a lui. Alla sua esaltazione ed all’animazione febbrile del suo volto era
succeduto un livido pallore. Una vota soddisfatto il suo animo era rimasto
abbattuto; era in preda a quella profonda letargia che succede alla
sovreccitazione delle facoltà.
Si
procedeva lentamente verso la prigione della Corona[37]; era il luogo dove, in qualità di prete,
Josè doveva essere rinchiuso. La moltitudine si affollava intorno agli sgherri
ed ai famigliari per vedere lo strano spettacolo di un Domenicano che aveva
ucciso un inquisitore.
Dietro
la truppa armata che scortava il prigioniero, veniva un numeroso seguito di
famigliari e di monaci, i quali portavano, sopra una barella, il corpo di
Pietro Arbues, diligentemente coperto di un gran manto nero ornato di frange
d’argento.
Tutti
quei partigiani ipocriti dell’Inquisizione simulavano un vivo dolore, e spargevano
false lagrime per la morte di quell’iniquo che avevano detestato vivente.
Alcuni giungevano fino a raccogliere religiosamente col loro fazzoletto il
sangue che colava tuttavia e cadeva in larghe goccie dalla ferita
dell’inquisitore.
I
monaci Domenicani esaltavano la sua santità, e lo invocavano quasi come un
santo agli occhi della moltitudine sbalordita, la quale rimaneva fredda e
taciturna davanti a quelle manifestazioni, a quegli elogi sì poco in armonia
colle azioni di colui che era morto.
Era
una parata empia e sacrilega quel corteo mortuario, che gettava cos’ con impudicizia
sopra una testa maledetta la corona dei santi e dei martiri, cercando di
estinguere quella voce imperiosa e santa della coscienza pubblica, la quale
getta spietatamente la lode o l’anatema sopra una tomba aperta, e sempre con
una equità senza pari.
Sventuratamente
in simili casi non è l’opinione pubblica che domina, e la Chiesa romana è là
colle sue eterne finzioni, i suoi astuti panegirici, e le sue prove
impalpabili, i suoi misteri senza fine, e le sue ciarlatanerie ipocrite per
soffocare la voce dei popoli o per sedurre e sorprendere l’opinione dei savi.
A
forza di fantasmagoria abilmente calcolata, essa allucina spesso le più rette coscienze,
e coloro solamente non ne rimangono ingannati che alla rettitudine del cuore uniscono
la forza del ragionamento e della volontà.
Nel
momento in cui Pietro Arbues era caduto sotto i colpi di Josè, il popolo aveva
incominciato dal godere interiormente
della caduta di un despota che si nutriva del sangue e delle lacrime
dell’Andalusia: nel momento in cui giungevano alla prigione, una moltitudine di
persone sedotte, trascinate, affascinate dai maneggi ipocriti dei monaci cominciava
a domandare a sé medesima se non è colpevole d’aver goduto di quella morte, e
se realmente agli occhi di Dio il grande inquisitore di Siviglia non era un
santo prete, vittima del suo zelo per la religione cattolica.
Erasi
incominciato dal compiangere ed amare Josè, malgrado il suo delitto: ora i più
indulgenti lo consideravano come un pazzo.
Oh!
Incostanza degli umani giudicii!…quando cesserete voi d’essere arbitri del destino
degli uomini?, o piuttosto, quando si renderà agli uomini per una saggia
educazione quella intiera rettitudine di sentire, che è la base della felicità
delle nazioni, invece di falsare i più nobili istinti dell’animo coll’iniziarlo
a misteri incomprensibili, a paradossi senza fine, ad incredibili invenzioni, a
dottrine false od incomplete? Quando s’incamminerà senza restrizione nella via
larga e facile della verità? Chiesa di Roma!, colui che ricusa di unirsi a te
non è ai tuoi occhi che un figlio delle tenebre!, ma sei tu che produci
tenebre, tu, che non ti compiaci che della notte e dell’oscurità
dell’ignoranza, tu, che a ciascuno dei tuoi adepti vuoi mettere una benda sotto
pena di riprovazione…
E
ti chiami la sposa di Cristo, che morì per la luce e la verità!…
Tale
è la Chiesa romana, e tale era al secolo decimosesto; solamente allora era spesso
la più forte, ed i suoi nemici soccombevano. Alcuni pessimisti pretendono che
noi retrocediamo a gran passi verso quei tempi d’ignoranza e di schiavitù.
Affrettiamoci di protestare altamente contro simili previsioni, le quali
disonorano il paese che può ammetterle. Lo spirito ha progredito; egli non
retrocede mai, ma va sempre innanzi, e ad ogni secolo deve lasciar traccie del
suo passaggio per nuovi progressi.
Lasciamo
agire e gridare i nemici dei lumi; a misura che allargano le loro ali sul
mondo, la verità ne rompe ad una d una le maglie, ed il cammino dei saggi non
sarà ritardato.
Non
è più tempo che d’un mostro tacevasi un santo…
La
stessa sera in cui Josè era stato trascinato alla prigione della Corona, don
Rodrigo de Valero, denunziato da un famigliare, fu gettato nelle prigioni del
Sant’Uffizio con don Ximenes de Herrera.
L’Inquisizione,
che aveva per tanto tempo tollerato le calde parole di Valero, si era
finalmente avveduta che aveva troppo buon senso per essere pazzo.
_____________________________
XLVII.
Il
giudizio degli uomini.
Quantunque
non fosse costumanza in Sapgna di giudicare un uomo quasi immediatamente dopo
il suo arresto, a cagione del tempo che è soventi volte necessario alla
giustizia per istituire il processo di un accusato, e raccogliere le prove pro
e contro di lui, il delitto di José differiva talmente dai delitti ordinari che
si commettevano in Spagna, i testimoni avevano tanto poco da dire in un affare
in cui il colpevole si era denunziato da sé medesimo, ed inoltre lo sdegno era
tanto grande, ed il Sant’Uffizio reclamava una sì pronta e strepitosa vendetta,
che il tribunale del Bureo, tribunale secolare incaricato di giudicare
l’assassino di Pietro Arbues, trovò convenevole di far comparire Josè a capo di
otto giorni.
Il
momento era alfine arrivato…
Il
fraticello l’aveva veduto con una soddisfazione piena di amare delizie. Sapeva
che dopo il giudizio lo attendeva la morte, ma questo termine, fatale per
tutti, sembrava invece esser per lui uno scopo caro e desiderato, un beneficio
per lunga pezza atteso.
Nella
mattinata del giorno in cui doveva essere giudicato, il giovane Domenicano erasi
alzato di buonissima ora, ed aveva posto un’estrema premura, una minuziosa
ricerca di eleganza nel vestire i semplici abiti dell’Ordine cui apparteneva.
La sua testa, nobile e di una gentilezza rimarchevole, era rasa quasi per lo
intiero, ma la coroncina di capelli che partendo dalla fronte, girava al di
sopra degli orecchi fino alla nuca, era di una finezza ammirabile, e di un nero
lucente come l’acciaio.
Per
la prima volta dopo molti anni, Josè bagnò di profumi il suo volto dalla pelle
trasparente e delicata; le sue mani, già sì belle, presero in un’acqua
profumata d’essenze un candore ed una delicatezza degne della donna più
ricercata.
La
carnagione liscia di Josè prese un pallore, reso più spiccante dal contrasto
del suo abito nero, i suoi occhi, circondati da un largo cerchio bruno, si
rianimarono di un rapido lampo, e le sue labbra si contrassero lievemente alle
loro commessure come fosse stato internamente agitato da un pensiero di gioia.
Quando
le guardie vennero a prendere il prigioniero per condurlo al tribunale, rimasero
sorprese dello splendore della sua fisionomia, e la superstizione di quei tempi
era sì grande, che alcuni furono tentati a prenderlo per uno stregone.
Ma
al loro aspetto Josè, per così dire, rientrò nel mistero dell’anima sua; velò
la sua fronte che raggiava d’una espressione imperiosa e severa: e quando le
guardie, ognor dominate dal rispetto inalterabile che inspirava un abito
monastico, gl’ingiunsero di seguirle, Josè non rispose, ma si mise a camminare
tranquillo in mezzo ad esse, quasi fosse condotto a festa.
Gli
astanti guardarono con curiosità passar quell’uffiziale dell’inquisizione, il
quale per un sì gran delitto erasi posto fuor della legge, che voleva gli
uffiziali, l’Inquisizione ed anco i famigliari non fossero giudicati che
dagl’inquisitori; quel frate che stava per essere giudicato dalla giustizia
ordinaria come un semplice mortale.
Ma
egli senza affettare lo sdegno superbo degli uomini invecchiati nel delitto, né
il contegno ipocrita di coloro che vogliono disporre in loro favore l’opinione
pubblica, passava indifferente e tranquillo cogli occhi fissi e quasi alzati al
cielo: la sua anima sembrava già essersi separata dal corpo, tanto ei pareva
poco commosso e poco preoccupato delle cose di quaggiù.
Al
vederlo così non curante di sé stesso, il popolo lo prese per un mago, e
mescolando superstizioni moresche a superstizioni cristiane, credette vedere in
lui uno di quei santoni mori, tanto tormentati dall’Inquisizione sotto il regno
precedente, che avesse assunto la figura di un frate per colpire l’inquisitore.
Ma
Josè non prendevasi alcun pensiero di ciò che potevasi dire di lui. La vita e
tutto quello di cui essa si compone non era per lui che un abito consunto che
si porta con disgusto e che si lascia con gioia.
Ei
camminava con indifferenza, poco curandosi dei suoi giudici, quasi non si fosse
trattato di lui, ma tuttavia preoccupato da un ultimo pensiero: perché mentre
camminava sembrava richiamare le sue rimembranze, ed a misura che una nuova
idea si affacciava alla sua mente, la sua larga fronte si illuminava di una
splendida luce, ed il genio dell’odio soddisfatto o, meglio, della giustizia
compiuta, stampava su quel pallido volto un sigillo misterioso e terribile.
Arrivato
in faccia ai suoi giudici, Josè sembrò svegliarsi da un sonno profondo, e, per
la prima volta, dopo che era uscito dalla prigione, considerò quello che
accadeva intorno a sé.
Il
tribunale era composto di tre giudici, uno di essi, il presidente, era assiso
fra i due suoi assessori. Un cancelliere assiso davanti a un tavolo alla
diritta del giudice, doveva scrivere le risposte dell’accusato, e le
deposizioni dei testimoni. Poco più lungi stavano gli avvocati, e al fianco dei
difensori dall’accusato, il procuratore, che doveva prendere delle note in suo
favore.
Josè
era seduto nel mezzo, in faccia al presidente; ma attorno di lui non si vedeva
alcun testimone, la sala era intieramente deserta. Erasi giudicato che in
simile materia il processo dovesse farsi a porte chiuse per rispetto alla
dignità ecclesiastica di cui l’accusato era rivestito, o piuttosto per timore
di qualche rivelazone pubblica di Josè, quanto ai testimoni, erasi giudicato
inutile di farli comparire, atteso che l’inquisito aveva tutto confessato. Egli
era dunque solo nel mezzo de’ suoi giudici.
Il
presidente fissò sopra di lui uno sguardo severo:
“Alzatevi.”
Il
Domenicano si alzò.
“Come
vi chiamate?” proseguì il presidente.
“Mi
chiamo Josè,” rispose con semplicità il fraticello. “La mia professione voi la
sapete: monaco dell’ordine di San Domenico.”
“Josè
non è nome di famiglia,” aggiunse il giudice, “il vostro nome di famiglia, don
Josè?”
“Io
non ho più famiglia,” rispose il Domenicano; “e quanto al suo nome io non lo dirò.”
“Dove
siete nato?2 continuò il presidente.
“A
Granata,” rispose Josè.
A
queste parole gli occhi fieri del fraticello si bagnarono di lacrime, come se
nella sua anima fosse surta improvvisa una tenera rimembranza. Il presidente
non vi fece attenzione.
“Avvicinatevi,”
disse a Josè.
Il
fraticello si avanzò fino appié della tavola, ove, in faccia al presidente, era
aperto il libro del Vangelo. Il giudice ordinò all’accusato di porvi la mano.
Josè ubbidì.
Il
presidente lo guardò fisso negli occhi.
“Giurate
voi per Dio ed il santo Vangelo,” gli domandò finalmente, con accento solenne,
“di dire la verità intiera su tutto ciò che vi sarà domandato?”
“Lo
giuro,” rispose Josè.
“Giurate
di dirla anco contro voi medesimo?[38]”
“Lo
giuro,” disse il fraticello, con accento fermo e sicuro.
“Va
bene,” disse il giudice; e proseguì: “siete voi che avete ucciso monsignor
Pietro Arbues, grande inquisitore di Siviglia?”
“Sono
io,” rispose Josè.
“Qual
motivo ha potuto spingervi a commettere un tanto delitto?”
“ora
vi dirò tutto,” disse il fraticello, con accento amaro e sarcastico.
“L’avvocato
può fare la sua difesa,” proseguì il presidente.
Josè
atteggiò le labbra ad un sorriso incredulo, e tornò ad assidersi sulla panca.
Ei non si curava di quel vano simulacro di difesa, di quelle parole che
andavano ad evaporarsi senza scopo, soltanto per ubbidire alla legge. Lasciò
dunque l’avvocato stancarsi in vani argomenti, spiegare tutta la pompa della
sua eloquenza per intenerire il cuore dei suoi giudici, non potendo distruggere
la loro convinzione; ammassare parole sopra parole, e frasi sopra frasi;
prodigare e i suoi gesti ed il suo fiato per cambiare una cosa irrevocabile, la
certezza.
Quand’ebbe
finito, Josè si volse verso di lui con un mezzo sorriso pieno d’amarezza e di
distacco da ogni cosa mondana, come per dirgli:
“Voi
volete resuscitare un cadavere?”
In
fatti gli sforzi della più abile eloquenza non avrebbero potuto salvare un uomo
che non voleva salvar sé stesso.
“Reo![39]” disse allora il presidente, “avete
qualche cosa da aggiungere in vostra difesa?”
“In
mia difesa?…no,” rispose il Domenicano; “perocché io dichiaro qui, davanti a
Dio, che la morte m’è più cara della vita: ma siccome più della vita si deve
conservare l’onore, io voglio salvare il mio, ed è per questo solamente che
parlerò.”
“Parlatene
dunque,” rispose il giudice, “il tribunale vi ascolta.”
“Sette
anni fa,” rispose Josè, “Pietro Arbues fu elevato alla dignità di grande inquisitore
di Siviglia; era giovine, bello, insinuante; malgrado l’orrore che
l’Inquisizione ha sempre inspirato alla Spagna si sperò un momento che Pietro
Arbues fosse meno crudele dei predecessori; questa speranza fu di breve durata.
– Le persecuzioni continuarono più ardenti di prima, come negli ultimi anni del
regno di Torrequemada; uomini che portavano i più bei nomi della Spagna non
arrossirono di esercitare il mestiere di delatori per mettere in sicurezza i
loro averi e la loro vita. – I cittadini più puri vidersi giornalmente in balia
di un falso testimonio; gli odii, le inimicizie di famiglia si scioglievano in
drammi sanguinosi nei tribunali dell’Inquisizione col favore delle tenebre e
del fanatismo; la rapina, il furto e l’omicidio piombarono sopra di noi come
uccelli rapaci; un lutto immenso si distese sopra l’Andalusia.”
“Accusato!”
disse il preside, “voi oltrepassate i limiti.”
“Io
mi difendo,” replicò fieramente il fraticello;
“ascoltate. – In quel tempo viveva in Siviglia una famiglia cattolica della
migliore nobiltà di Spagna, la cui madre, uscita dalla tribù degli Abencerragi,
e morta da molti anni, aveva lasciato beni immensi. Questa famiglia si
componeva di due fratelli…. – Di tre fratelli,” riprese Josè reprimendo un
sospiro; “tre fratelli nobili e vezzosi, due dei quali abbracciato avevano gli
ordini sacri; il terzo…era bravo come il Cid, ed anco più bello. – Si chiamava
Fernando,” continuò Josè che sembrava pronunziar quel nome con un piacere
ineffabile; “poi v’era anco il padre, un patriarca, un vegliardo pieno di fede
e di virtù; una giovine sorella, fanciulla docile e candida, la cui vita era
pura come quella degli angeli; e v’era finalmente un’orfana, loro parente
lontana, una giovane ardente e fiera che amava Frenando, ed erane amata. – In
un castello che possedeva a qualche distanza da Andujar, questa famiglia aveva
fatto erigere una cappella cattolica, servita dai frati Girolamiti. La madre,
che adorava suo marito e i suoi figli,
aveva fatto costruire questa cappella perché loro servisse di sepoltura comune;
poiché non voleva neppure dopo la sua morte essere separata da coloro che aveva
amati. Giovane ancora era andata per la prima ad attenderli a quel funebre
appuntamento. – Ho già detto che essa aveva lasciato, morendo, beni considerevoli,
l’Inquisizione giudicò convenevole di appropriarseli.
Fu
accusata di esser morta nell’eresia, e con sentimenti contrarii alla vera fede
cattolica, quantunque morendo avesse dati segni non equivoci del suo
attaccamento a quella religione, che era stata sempre la sua. – Ma bisognava
accusarla di qualche cosa. – Si produssero falsi testimoni, i quali
dichiararono essere essa morta e vissuta nell’eresia; e, malgrado le proteste
dei suoi figli sacerdoti, rivestiti di un sacro carattere, si dissotterrò il cadavere
di quella donna,si distrusse la sua casa con proibizione di mai ricostruirla, e
si confiscarono tutti i beni da lei lasciati[40].”
“Reo,” interruppe il presidente, “siete
ben sicuro di quello che dite?”
“Era
il diritto dell’Inquisizione,” replicò Josè con tuono sarcastico, e continuò
senzasconcertsarsi.
“Il
padre morì di dolore durante questo processo abbominevole. – I figli, che piangevano
la loro madre, che osarono indignarsi per la profanazione delle sue ceneri, i
figli furono gettati in prigione. – Una sola persona fu risparmiata. – Era l’orfana la fidanzata di Fernando. –
Essa rimase sola con la donna che l’aveva allevata, sola piangere su i suoi,
che non doveva più rivedere.”
“Che
avvenne di essi?” domandò il giudice preso di terrore e di pietà.
“Che
avvenne, monsignore? Voi mi domandate quello che avvenne fra le mani di Pietro
Arbues? Furono dati alle fiamme senza misericordia. I due maggiori, Agostino e
Francesco, accusati di dommatizzare in una maniera contraria allo spirito della
religione cattolica, e la loro sorella Beatrice, convinta di seguire la
dottrina dei suoi fratelli, furono messi a morte nel medesimo atto-di-fede[41]. Agostino, spaventato dalle torture, non
per sé, ma per la sua sorella, giunto in faccia al supplizio, gridò che
domandava la grazia, e che voleva
vivere da buon cattolico.”
“-
Egli mente, - disse Pietro Arbues; - è la paura delle morte che inspira il suo
pentimento. – Mi pento! Mi pento,” gridava ancora la povera vittima. – “Si
strangolato adunque innanzi di darlo alle fiamme,” – disse l’inquisitore. –
Questa fu la sola grazia che potesse ottenere. – “Tu sei un vile!” – gli gridò
il suo fratello…e salì sul rogo, facendo un segno d’addio a Beatrice che morì
con santa rassegnazione.”
Josè
si tacque.
I
giudici, malgrado la loro abitudine a que’drammi terribili, si sentirono presi
da un terrore involontario.
“Continuate,”
disse il presidente, “continuate! Che avvenne del terzo fratello?”
Josè
fremé sul suo seggio; i suoi denti stridevano come se avesse avuto freddo; lo
si ascoltava con una attenzione ed un interesse ognor più vivo.
“Il
terzo,” riprese ad un tratto con voce lenta ed interrotta, “il terzo vive
ancora. Egli era sì giovane! Non si era ardito di farlo morire con gli altri:
Pietro Arbues lo serbava per un atto-di-fede reale. – Paola, l’orfana che
l’amava, concepì il progetto di salvarlo. – Essa aveva venti anni. Qual donna a
venti anni dispera della clemenza di un uomo, quand’anco questo uomo si chiami
Pietro Arbues e sia grande inquisitore? – erano scorsi sei mesi dacché la sua
sventurata famiglia era stata data alle fiamme; parlavasi di un nuovo
atto-di-fede[42], che doveva aver luogo per la festa del
re, che il tribunale annunziò al pubblico un mese più aventi.”
“Accusato!
Venite al fatto,” interruppe di nuovo il presidente.
“Ci
sono,” rispose tranquillamente Josè, “udite, signori! – I processi
s’istituivano: strani processi veramente; cospirazioni tenebrose di cui il
giudice teneva in sua mano tutte le fila, che faceva muovere a suo talento.
Sinistri problemi, che tutti terminavano ad una stessa soluzione…la morte.
Paola, divorata di inquietudine per colui che amava, prese un giorno una grande
risoluzione fatale. Si armò di una sublime esaltazione, ponderò tutti gli avvenimenti
del passo che stava per fare, e benché sperasse d’intenerire l’inquisitore e di
salvare il suo fidanzato, pensò che il peggior risultato che potrebbe ottenere
da questo passo, era di morire con lui. Ora la morte non la spaventava… Era un
giornata fosca come si veggon di rado in Andalusia; ma per una bizzarra
simpatia, o per un di quei casi che somigliano alla fatalità, il sole erasi
coperto di nuvole, ed una larga macchia nera aveva coperto la metà del suo
disco, poiché era accaduta una eclisse quasi totale. Era verso mezzogiorno, e
pareva quasi notte per le strade. Paola, silenziosa e risoluta, fuggì alla
sorveglianza della sua nutrice, il solo amico che le rimanesse al mondo.
Inviluppata nel suo velo s’incamminò verso il palazzo dell’inquisitore. Una
truppa di famigliari ne custodiva gl’ingressi. Quando Paola si avanzò verso la
porta, le fu impedito il passaggio, ed un famigliare, avvicinandosi a lei, le
domandò quel che voleva.”
“
– Voglio vedere monsignor Arbues, - rispose
tremando, perciocché non s’entra senza tremare nel palazzo di un
inquisitore. – Chi siete? – proseguì il famigliare. – Una fanciulla nobile, –
rispose Paola con fierezza. – “Aspettate,” egli disse. – “disparve per alcuni
istanti; Paola aspettò. Bentosto il famigliare ricomparve, un falso sorriso
stava sulle sue labbra colorite.”
“
– Seguitemi, signora, – egli disse, – monsignore acconsente a ricevervi. –
“Il
famigliare andò innanzi, la giovane lo seguì. Attraversò molte sale magnifiche,
lunghe gallerie lastricate di marmo, colla soffitta ornata di arabeschi; vi era
un lusso orientale in quel palazzo della morte. – Poi finalmente,
nell’estremità più lontana dell’edifizio, una porta si aprì e Paola ne varcò la
soglia. La porta si chiuse dietro di essa; il famigliare era scomparso. – Paola
si trovò al cospetto del grande inquisitore.”
Un
interesse ognor crescente destava il racconto di Josè.
“Pietro
Arbues,” continuò il fraticello, “era assiso sopra un divano largo e morbido
che circondava la sala. – Il grande inquisitore di Siviglia era allora in tutto
lo splendore della sua giovinezza, ed il suo volto era considerevolmente bello,
malgrado l’espressione di superba crudeltà che vi si distingueva. – Il suo
profilo aveva molta nobiltà, e la sua
statura era alta e superba. – Paola fremé trovandosi sola con quell’uomo.
“
– Avvicinati, fanciulla,” disse l’inquisitore colpito dal bel personale di
Paola, di cui non distingueva bene i lineamenti. Paola gettò indietro il suo
velo e si avanzo senza tema verso il grande inquisitore. – Pietro Arbues la
considerò con molta ammirazione. – Arrivata davanti a lui, cadde alle sue
ginocchia, e giungendo le sue mani supplichevoli:
–
Grazia, monsignore! – esclamò ; – grazia per il mio fidanzato, che è innocente;
oh, rendetemelo, ve ne scongiuro. –
“Il
viso dell’inquisitore prese un’espressione manifestissima di scontento.”
“
– Il nome del tuo fidanzato? – domandò egli in tuono risoluto,” – “Fernando de
Cazzalla, – rispose Paola con voce soffocata. – Lo sguardo feroce di Pietro
Arbues l’atterriva. – Al nome di Cazzalla la fisionomia di Pietro Arbues ersi
subitamente offuscata; considerava attentamente quella fanciulla, la quale con
tanto ardire veniva fino ai piedi dell’inquisitore a domandar la vita di un
uomo accusato di eresia. – Paola era bella; oh molto bella, signori! –
L’inquisitore la contemplò per alcuni istanti. – Dopo che ebbe lentamente
esaminato il volto incantevole delle fanciulla, il suo personale snello e
forte, che avrebbe potuto servire di modello a Diana cacciatrice, Pietro Arbues
si raddolcì per gradi. Stese la mano verso Paola, ognora inginocchiata davanti
a lui. – “Alzati, – le disse, – e parla senza timore; le leggi
dell’inquisizione sono terribili, ma io mi sento preso di compassione per te.”
– “Oh! Siate benedetto monsignore! – esclamò Paola che concepiva un poco di
speranza, - voi salverete don Fernando, non è vero? – “Ho detto forse questo,
fanciulla?” – disse Pietro Arbues con un sorriso di tigre… – “O monsignore non
ritirate la vostra parola; voi avete avuto pietà di me, dunque salverete il mio
sposo, non è vero?” – “E se io salvo il tuo sposo; che farai tu per me,
fanciulla?” – “O monsignore, la mia vita vi appartiene; ma che posso fare per
voi io, umile donna! Che posso io per voi che siete onnipotente?” – “Tu sei
bella, Paola!” – gridò Pietro Arbues con uno sguardo che la fece tremare. –
Però non lasciò scorgere che aveva paura. – L’inquisitore le fe’ cenno
d’approssimarsi e di sedere al suo fianco. – Ella si assise tremante sul
margine d’un divano di seta. – Pietro Arbues aveva ripreso il suo severo contegno.
– “Don Fernando de Cazzalla! – mormorò
con fosco sembiante… – Sai tu, fanciulla, che questa famiglia convinta di
luteranismo, è oramai tutta disonorata nei suoi membri viventi ed in quelli che
non sono più?”
–
Questa famiglia è la mia, monsignore: io sono sposa a don Fernando pervolontà
di suo padre e per la sua. Se egli è condannato io non domando che una grazia,
quella di non sopravvivergli.” – “Ecco un amore ardente, – esclamò
l’inquisitore; – che non darei per ispirarne uno simile!… – Paola abbassò gli
occhi davanti a quel prete che le parlava così.”
“Voi
calunniate la memoria di un uomo vestito di un carattere sacro,” disse il presidente.
“Io
non calunnio, monsignore, io narro,” rispose Josè; “si degni Vostra Signoria
d’ascoltarmi fino alla fine.”
“E’
vostro diritto,” disse il giudice, pieno di rispetto per gli usi del paese
passati all’autorità di leggi, i quali volevano che si lasciasse a un accusato
ogni libertà di difendersi. Josè riprese.
“–
Sai, – proseguì Pietro Arbues, – che don Fernando è destinato al prossimo atto-di-fede,
e che al più presto sarà sottomesso alla tortura?” – Un grido profondo,
doloroso, terribile uscì dal petto della sventurata Paola; la tortura! Era più
spaventevole del patibolo. – “Che hai, fanciulla? – domandò l’inquisitore. –
“La tortura, monsignore! Non avete detto che Fernando deve essere sottoposto
alla tortura?” – “Io posso risparmiargliela,” – replicò Pietro Arbues. – Paola
respirò più liberamente. – “Monsignore, – esclamò, – perché non posso io morire
per lui?” – “Non morire, ma vivere, rispose Pietro Arbues, prendendo fra le sue
mani le mani delicate di Paola. – “Sai tu, – proseguì, – che in conseguenza
della deposizione dei testimonii, don Fernando, convinto d’aver assistito alle
prediche dei luterani e d’aver abbracciato la loro dottrina, è già condannato
al rogo?” – “Ma voi potete assolverlo, monsignore, – esclamò Paola, che cadde
nuovamente nelle angosce dell’incertezza; – voi potete salvarlo, e lo
salverete! Fernando è innocente ed il suo animo è puro come quello d’un
angiolo.” – “Tu sola puoi salvarlo,”– rispose Pietro Arbues. – “Io, monsignore;
ma che cosa e’ bisogna fare? O mio Dio! Dite, io sono pronta a tutto; volete
ch’io muoia in sua vece?” – “Folle! Che ho bisogno di tua vita! Tu sei troppo
bella per morire, – ei proseguì con esaltazione; e la sua mano brutale strappò
senza pudore il velo che cuopriva il seno di Paola!…”
I
giudici trasalirono sul loro seggio.
“–
Oh! Grazia, monsignore! – esclamò la fanciulla, facendosi riparo colle sue braccia
incrociate sul petto; – grazia per Fernando e grazia anco per me, monsignore!
In nome di quel Dio di cui siete rappresentante sulla terra, siate clemente e
perdonate; abbiate pietà d’una povera donna, che non ha più nulla al mondo fuor
che quello ch’ella ama… Io non ho più madre, monsignore, io sono orfana, e non
ho altro appoggio che Fernando…rendetemelo, ve ne scongiuro….oh! rendetemelo,
monsignore, e vi benedirò, vi benediremo insieme tutta la vita.” Paola versava
abbondanti lacrime, la sua fisionomia, nobile e fiera, era così desolata e piangente,
d’una bellezza sovrumana. Lungi dall’esserne intenerito, Pietro Arbues senti invece
sollevarsi le sue brutali passioni, e rumoreggiare sordamente nel suo seno come
mare tempestoso. – Ei si slanciò verso Paola come leone selvaggio, ed alzandola
nelle sue braccia robuste, la depose sul divano mezzo svenuta. – La sventurata
fanciulla lasciassi cadere alle sue ginocchia davanti a quell’uomo spietato. –
“Monsignore, – ella disse con voce soffocata, stringendo contro il suo petto le
ginocchia dell’inquisitore, che bagnava delle sue lacrime, – monsignore, fate
grazia e rendetemi il mio fidanzato.” – “Sii mia, – disse con voce cupa, – ed
io salverò don Fernando.” – Paola divenne pallida e fredda come un marmo, ed i
suoi occhi si cuoprirono di un’ombra mortale. Si alzò lentamente, fece alcuni
passi indietro per uscire, poscia distese verso l’inquisitore la sua fredda e
pallida mano. – “Sii maledetto! – esclamò: – tu puoi uccidere don Fernando, io
morrò con lui…” – “Fernando sarà morto aventi l’atto-di-fede, – disse Pietro
Arbues; – egli è giovane e debole; non resisterà alla tortura dell’acqua.” –
Paola mandò un grido acuto e terribile. Avrebbe voluto lacerare quell’uomo
atroce, ma il pensiero di Fernando spegneva la sua collera e non lasciava posto
che al timore; quella lotta terribile l’aveva annientata. – Allora Pietro
Arbues si avvicinò ad essa, e circondandola colle sue braccia, la ricondusse
sul suo seggio. Essa lasciassi guidare senza resistenza. – “Nulla può salvare
Fernando fuorché la mia volontà, – le disse Pietro Arbues, – e, per Cristo!, io
non lo salverò che ad una condizione.” – Paola lo guardava con occhio incerto e
smarrito, il volto di Pietro Arbues era spietato come la fatalità. – “Vuoi la
sua vita o la sua morte?– proseguì con impeto; – parla o vattene; e
l’Inquisizione farà il rimanente!” – Paola non intendeva più, la sua ragione
l’aveva abbandonata…Distese le sue braccia come uno che manda il suo ultimo
sospiro. I suoi occhi si chiusero, il suo cuore cessò di battere…– “Fernando
sia salvo! – mormorò essa con morente voce…”
……………………………………………………………………….
Josè
si tacque. La sua voce erasi gradatamente indebolita, ed un sudore ghiacciato
cuopriva la sua fronte di marmo.
I
giudici, malgrado la loro naturale impassibilità erano pieni di sorpresa e di
terrore, non pensavano più ad interrompere il racconto dell’accusato, ed
attendevano con ansietà il termine di quell’orribile dramma.
Josè
si rianimò a poco a poco, e continuò il suo racconto con voce alterata.
“Un
mese più tardi, una giovine pallida, magra, curva sotto il peso di un dolore
incurabile stava mestamente seduta alla porta della prigione del Santo Uffizio;
era Paola. – Celebratasi in quel giorno un atto-di-fede reale. – Il programma,
pubblicato un mese innanzi, aveva annunziato tredici vittime. – Pietro Arbues
aveva promesso alla fanciulla che non ve ne sarebbero che dodici, e che la
tredicesima, che si sarebbe fatta creder morta, l’avrebbe restituita la sera
stessa dopo l’atto-di-fede. – Paola attendeva. – Una folla immensa dirigevasi
verso la piazza, un sordo mormorio di parole correva per le strade, gli sguardi
del popolo esprimevano lo stupore e lo spavento. Quelle pallide figure
parevano, sotto i loro abiti neri, assistere ai funerali della Spagna. – Alcuni
fermatisi nei dintorni della prigione, mandavano nelle nere profondità di quel
labirinto spaventevole un timido sguardo, cercando se fra le vittime che
stavano per comparire, riconoscessero la persona amata. Alcune donne, col viso
nascosto sotto il velo, piangevano comprimendo i singhiozzi per timore d’essere
intese: erano più felici degli uomini, che almeno potevano piangere, mentre
questi non potevano manifestare altrui quel cordoglio profondo dell’anima che
fa impallidire il viso; e la loro fronte, sì trista, doveva mostrarsi tranquilla
ed impassibile come una pagina bianca in cui nessuno può leggere, perciocché la
città era piena di famigliari, l’Inquisizione incriminava egualmente gli atti,
le intenzioni ed i pensieri. – Finalmente la porta della prigione si aprì come
una delle bocche dell’inferno; la processione dell’atto-di-fede uscì dal
palazzo dell’Inquisizione, ed i condannati iniziarono il loro triste viaggio
verso la morte. – Paola allora si alzò dalla pietra sulla quale era assisa, e
avvicinandosi al carceriere che aveva aperta la porta, lo supplicò di lasciar
vedere più da vicino il funebre corteggio. – Ma il carceriere la respinse
brutalmente. – Paola ritornò dunque al suo posto, e tese il collo in avanti per
guardare. – La prima vittima che comparve era un arcivescovo, un santo prete,
riverito in tutta la Spagna; ei camminava lentamente, colla lugubre coroza
in capo, e col sanbenito indosso;
il suo andamento era sicuro; i suoi occhi pieni di rassegnazione e di
fede, esprimevano un dolore profondo. Gettò attorno a sé un lungo sguardo,
quindi lo alzò verso il cielo; la sua testa ricadde sul suo petto, e le sue
labbra eloquenti, che tante volte avevano fatto udire la parola di Dio, non
espressero che un’ironia amara e dolorosa. – Dopo di esso venivano due monache,
due fanciulle condannate alle fiamme per avere abbracciato le dottrine di
Lutero. Quelle due donne avevano un coraggio eroico; andavano alla morte come
ad una festa. – Paola gettò loro uno sguardo di trista simpatia; esse le
risposero con un sorriso angelico, mostrandole il cielo quasi avessero voluto
farle intendere che tutte le vittime della terra si appellavano al tribunale di
Dio. – Il quarto condannato era un giovane marrano, convinto di professare in segreto la religione de’
suoi antenati. Un esemplare del Corano, eredità dei suoi padri, trovato in sua
casa, era bastato per condannarlo alle fiamme[43]. – Questi camminava fiero e superbo. Il
suo occhio nero e profondo, percorrendo quella bella città di Siviglia in cui
gli Arabi avevano regnato, pareva fare un rapido confronto fra l’epoca dei Mori
e quella dell’Inquisizione. La Spagna non gli sarà allora comparsa che come una
bella fanciulla educata a vivere nelle feste, avvezza alle notti armoniose e
piene di gioia, alle carezze della arti, della poesia e dell’amore, la quale
abbia ad un tratto cangiato il suo abito da festa in cilicio, le sue notti
d’amore in notti di lamenti e lacrime, e nel suo nobile viso mesto e pallido,
livido già come quello dei moribondi, abbia disteso il funebre velo che separa
dalla vita! – Oh! Come doveva battere il cuore di quel figlio degli
Abencerragi! Come il suo sangue africano doveva agitarsi nelle sue vene ardenti,
egli, i cui padri avevano regnato! Egli aveva subito non solo la schiavitù del
corlpo, ma eziandio quella dell’intelligenza. – La sua ora d’agonia fu
certamente spaventevole. – Egli passò.”
“E’
troppo!, è troppo!” esclamarono i giudici consiglieri.
“Lasciate,”
disse piano il presidente, “lasciate, è l’ultimo favore che si accorda
all’accusato.”
“Due
altre vittime passarono in silenzio,” continuò a dire allora il fraticello
Domenicano. – “Paola, ansiosa,
smarrita, le contava con angoscia inesprimibile. – Camminavano lentamente, come
ombre che uscissero dal sepolcro; perché la tortura aveva rotto le loro membra,
ed appena rimaneva loro tanta forza di camminare e morire. – Paola le numerò
una ad una, guardandole avidamente in viso non sapendo se doveva sperare o
temere, malgrado la promessa di Pietro Arbues. – Il corteggio continuò ad
avanzarsi, Paola contò la dodicesima vittima. – Allora un lungo sospiro uscì
dal suo petto; essa aspirò l’aria con avidità; un peso enorme pareva fosse
stato tolto dal suo cuore, e l’impeto della sua gioia era per tradirla… – Ma
tutto ad un tratto, udì alcuni passi in distanza del dodicesimo condannato;
comparve uno spettro pallido e livido, le cui ossa slogate erano state contuse
e rotte dalla tortura: due preti e due famigliari, sostenendolo sotto le
braccia, l’aiutavano a condursi verso il luogo del supplizio. – Quell’uomo che
non aveva più di ventiquattro anni, era stato talmente torturato, che i muscoli
del suo viso eransi distesi e rilasciati come quelli d’un vecchio; la sua
fronte e le sue guance erano coperte di rughe, e il suo grande occhio nero,
brillante nella vasta orbita incavata dai patimenti, fiammeggiava di strana
luce, vacillante ed incerta come la fiamma d’un lume vicino a spegnersi che
s’innalza, si abbassa, scintilla in getti di fiamma vagabondi, quasi facendo
sforzi per non morire. – da principio Paola non lo riconobbe, tanto era cambiato.
– Ma egli, all’aspetto della fanciulla che l’aveva amato, distese in avanti le
sue braccia magre e contuse, e allora soltanto i suoi occhi espressero un
pensiero ben formulato, un sentimento di dolore, di tenerezza viva e lacerante.
– “Paola! Paola!” mormorò l’infelice
con debole voce. – Poi ricadde senza
moto fra le braccia del famigliare che lo sosteneva. – Un grido di disperazione
uscì dal petto di Paola. Essa volle slanciarsi verso il condannato, ma gli
sgherri si gettarono fra l’uno e l’altra, ed essa non poté giungere a superare
quella barriera vivente ed impenetrabile. – Allora, quasi fosse trasportata da
una potenza invisibile, si slanciò attraverso alla folla colla rapidità d’una
leonessa ferita, passò le strade che la separavano dal palazzo inquisitoriale,
giunse davanti alla gran porta; e là, come insensata, si pose a gridare che
voleva essere condotta dal grande inquisitore. – Non si ardì farle male perché
fu creduta pazza; ed alle sue reiterate insistenze si rispose solamente che
l’inquisitore era già sulla gran piazza colla processione. – Ma dopo alcuni
minuti d’inutili sforzi, Paola si avvicinò ad un famigliare e lo riconobbe: –
Era quegli che l’aveva condotta la prima volta presso l’inquisitore. –
Allontanati, – disse l’uomo a voce bassa, – o ti fo rinchiudere. – paola volse
al cielo uno sguardo pieno di rabbia, poi corse senza fermarsi fino alla gran
piazza di Siviglia. – Quando vi giunse grandi fiamme s’innalzavano verso il
cielo, miste a torrenti di fumo… – Tutto era finito… – Il grande inquisitore
era tranquillo sul suo seggio, e pregava per l’anima di coloro dei quali era
carnefice… – Allora Paola, alzando verso il cielo le sue braccia irrigidite
dalla disperazione, Paola senza guardare attorno a sé, senza pensare a quella
folla che la guardava con istupore, alzò la sua voce terribile e lamentevole.
“–
Péietro Arbues, – gridò, – sii maledetto, Pietro Arbues, guardati dalla mia
vendetta!”
“Ma
le grida del popolo avevano coperto la voce di Paola; quelli che eran d’intorno
si allontanavano per farle posto, credendola una pazza…”
Josè
si tacque; il suo petto grandemente oppresso sollevatasi per un battito di
cuore rapido e continuo; la sua fronte erasi coperta di vivo rossore, e larghe
goccie di sudore scorrevano sul suo viso. Rea in quell’istante d’una bellezza
sovrumana.
“Ebbne,
che è stato di Paola?” domandò il presidente trasportato da curiosità e da interesse
irresistibile.
“Paola
si è vendicata,” rispose Josè con voce cupa, è dessa che ha ucciso Pietro Arbues…”
“Che
dite voi?” domandò il presidente; “spiegatevi: che può aver di comune la fanciulla
della quale ci avete narrato l’istoria col Domenicano Josè?”
“Monsignore,”
proseguì Josè, “non vi ho detto che Paola aveva giurato di vendicarsi?”
“Sei
mesi più tardi,” continuò Josè, “un giovine si presentò al convento dei Domenicani
in Siviglia. Quel giovine voleva esser prete. Aveva vent’anni e non sapeva una
parola di latino; ma aveva intelligenza, volontà immutabile, ed in meno di tre
anni aveva imparato tanto latino da potergli insegnare teologia. Poscia gli
furono conferiti i primi ordini, ed entrò nel noviziato; quindi è stato fatto
prete e professo dell’ordine di San Domenico. – In quel tempo Pietro Arbues,
grande inquisitore di Siviglia, aveva veduto il novizio, e per uno di quei capricci
sì comuni presso gli uomini di carattere fantastico, impetuoso e crudele, s’era
fatto una necessità d’aver costantemente il giovane al suo fianco. Non faceva
nulla senza consultarlo; ed il novizio aveva messa tanta astuzia, tanta
accortezza nei suoi rapporti col grande inquisitore, che questi, affascinato e
sottomesso, non osava più avere una volontà che non fosse quella di Josè.”
“Josè!”
esclamarono i giudici, al colmo dello stupore.
“Sì,
Josè,” proseguì il Domenicano; “Josè che s’era fatto schiavo di Pietro Arbues
per divenire il suo padrone; Josè, che, simile alla mano che attizza il fuoco,
secondava le passioni malvagie di Pietro Arbues per condurlo a predizione,
Josè, che d’un uomo crudele e lussurioso, ha fatto un mostro, affinché non vi
fosse più perdono per lui, né in terra né in cielo, Josè, che dopo aver reso il
nome di Pietro Arbues esoso a tutta l’Andalusia, l’ha finalmente ucciso… Josè,
finalmente, che ha vendicato Paola!”
Così
parlando la voce del fraticello aveva una straordinaria vibrazione, il suo sguardo
scintillante era alzato verso il cielo con feroce espressione di gioia.
I
giudici lo cedettero pazzo, non avevano ancora compreso.
“E’
dunque Josè, e non Paola, che ha ucciso l’inquisitore?” domandò il presidente
per l’ultima volta.
“Josè
e Paola,” rispose l’accusato; “perciocché Paola e Josè sono una sola e medesima
persona. Non comprendete, monsignore, che io sono diventato uomo e monaco per
vendicarmi?”
“Sacrilegio!”
esclamarono ad un tempo tutti i giudici, che avevano finalmente compreso quello
spaventevole mistero; “doppiamente sacrilego per aver profanato il santo nome
di sacerdote, e per aver assassinato un prete!”
“Quello
che ho fatto lo farei ancora di nuovo,” rispose Paola con cupa esaltazione,
“Pietro Arbues non ha forse profanato la missione di prete? Tutti i vostri
inquisitori, iniqui carnefici, sordidi per lussuria e per omicidio, non sono
altrettanti profanatori ed empi? Oh! Signori, sarebbe tempo che la giustizia
reale portasse la luce in quelle tenebre profonde; perciocché io ve lo dico in
verità, i tribunali dell’Inquisizione sono luoghi infami che dovrebbero essere
bruciati, e gl’inquisitori, mostri di cui si potrebbero popolare le galere!…”
“Basta!
Basta!” esclamò il presidente; “accusato, la nostra pazienza è al colmo. Se
siete donna, più grande ancora è il vostro delitto; ma donna o uomo, avete
meritato la morte.”
“E
la morte io voglio!” replicò Paola, che, dopo confessato il suo sesso, pareva
aver rivestite tutte le grazie toccanti della donna.
I
giudici si ritirarono alcuni momenti per deliberare. In questo tempo Paola,
lieta e tranquilla, aspettava senza turbamento il risultato della loro
deliberazione.
Aveva
compito il dramma funesto della sua vita: la vita le pesava come un fardello.
Quando
i giudici rientrarono, il loro volto aveva una severità spaventevole; tuttavia
un’involontaria pietà leggevasi sulle loro gravi fisionomie.
Il
presidente si alzò, e, senza guardar l’accusato, pronunziò così la sua
sentenza:
“Considerato
che il grande inquisitore è perito di morte violenta;
Considerato che questa morte è stata data
da un assassino; che l’assassino ha confessato il suo delitto;
Considerato che la nominata Paola,
falsamente designata col nome di Josè, monaco Domenicano, ufficiale
dell’Inquisizione, ha profanato tutto per giungere all’esecuzione di questo
delitto;
Considerato che l’accusata ha dichiarato,
confessato e specificato tutti i delitti da lei compiuti, il tribunale, che
crede nel Padre, nel Figliuolo e nello Spirito Santo, tre sante persone
distinte, che formano però un solo Iddio, s’è umiliato davanti al Nostro
Signore, domandandogli per grazia di suggerirgli la sentenza che doveva pronunciare. D’onde risulta che la sua
coscienza è tranquilla.
Per questi motivi il tribunale condanna
la nominata Paola, accusata e convinta del delitto di assassinio e di
sacrilegio sulla sacra persona di monsignor Pietro Arbues grande inquisitore di
Siviglia, alla pena di morte.
Attesoché nella consumazione di questo
delitto ha avuto luogo premeditazione, il tribunale, conformemente alle leggi
del regno, condanna la detta Paola ad essere arrotata viva, quindi squartata.
Ed a cagione del parricidio ad avere la mano destra tagliata e bruciata dal
carnefice.
Dopo l’esecuzione di questa sentenza, le
membra della condannata saranno esposte sulle grandi strade, ed abbandonate in
pascolo a tutte le bestie, con proibizione di dar loro sepoltura.
Data in Siviglia. ecc.”
Paola
aveva ascoltata la sua sentenza senza fremere, ma a quest’ultime parole un
profondo sentimenti di disgusto, di pudore offeso, e d’orrore istintivo fece un
istante venir meno il suo coraggio. Pose la mano sui suoi occhi, come per non
vedere quello spettacolo orribile che le si rappresentava alla mente: quando si
alzò per essere condotta alla cappella della prigione in cui doveva passare la
notte, un tremito convulso agitava le sue membra: potava appena sostenersi.
Ma
quando usciva dal tribunale, distinse nella folla una vecchia donna, grande e
pallida, che la guardò lungamente con occhi umidi come per dirle:
–
Voi m’avete
ingannata, ma io sono qua. –
“Oh!”
disse Paola in vedendola, “ora posso morire tranquilla; viva o morta essa veglierà
su di me.”
Quella
donna era Giovanna.
Partita
con Estevan e Dolores per ubbidire a Paola, dopo due giorni di cammino aveva
lasciato i suoi compagni di viaggio, ed era tornata a Siviglia, inquieta per la
fanciulla che aveva nutrita, ed alla quale aveva dedicata l’intera sua vita, al
punto di seguirla in tutte le fasi degl’incidenti della sua incomparabile
vendetta, ma conoscendo poco le strade, Giovanna erasi smarrita; ecco perché
non era giunta a Siviglia che dopo il giudizio di Paola.
___________________
XLVIII.
La
cappella.
Era
costumanza religiosamente stabilita in Ispagna, quando un uomo è condannato a
morte, di lasciargli passare quarantott’ore in un carcere trasformato in
cappelle ardente. Ivi la religione offre, sotto tutte le forme, i suoi soccorsi
e le sue consolazioni a quegli che sta per morire. Alcuni preti, dandosi la
muta d’ora in ora, l’assistono e lo consolano cercando di fortificarlo, colla
speranza, contro gli orrori del supplizio.
La
confraternita di pace e di carità, tenera madre di tutti quelli che sono
destinati al carnefice, veglia a rendere soavi le loro ultime ore, prodigando
loro le cure più assidue e appagando i loro minimi capricci; oltracciò si
permette a quegl’infelici di trattenersi coi loro parenti e coi loro amici.
Si
concedono loro, in una parola, tutti i conforti permessi alla carità dalla
legge spietata, ma che non oltrepassino giammai i limiti de’ suoi diritti. In
Ispagna forse la legge condanna talvolta ingiustamente, ma mesce al suo
necessario rigore le dolcezze della pietà; condanna alla morte non all’agonia.
La
cappella in cui Paola fu rinchiusa era una vòlta ad arco sostenuta da sottili
colonne, i cui capitelli, allungati in foglie delicate e leggiere, si
arrotondavano in alto a guisa di teste di palma; era una scultura saracinesca,
graziosa imitazione della natura d’Africa. Sull’altare, coperto di nero,
ardevano ai due lati del Cristo dei ceri verdi.
A
destra dell’altare, due seggioloni erano preparati: uno per il paziente,
l’altro per il monaco che lo confortava.
Per
terra, in un canto, potevasi vedere un largo scalpello, delle corde ed una gran
croce di sant’Andrea, di querce, sulla quale posava un grosso martello di
ferro. Erano gli strumenti del supplizio.
Paola
non vi fece attenzione.
In
quel momento fatale, in cui stava per terminare la sua vita ancora sì giovane,
un dubbio crudele la tormentava. Era stata educata ad abitudini religiosissime.
Un sentimento di odio legittimo ed inesorabile, un desiderio sfrenato di
vendetta, l’avevano successivamente trascinata alla profanazione di molte cose
sacre, e finalmente all’omicidio, delitto che è in abominazione innanzi a Dio.
Questo delitto l’aveva compiuto con perseveranza, senza dubbio, senza rimorsi;
aveva, è vero, colpito un mostro sordido per uccisioni, per furti e per rapine;
pertanto domandava ora a sé medesima, con inesprimibile terrore de Iddio grande
e misericordioso, Iddio, che per certo aveva ricevuto nel suo seno quel diletto
Fernando a cui aveva sacrificata la sua vita, non la respingerebbe come indegna
delle gioie celesti.
S’inginocchiò
sul nudo marmo della cappella, ed appoggiò la sua fronte, che ardeva, sul marmo
dell’altare.
Quell’anima,
piena d’angosce, provava un dubbio terribile; temeva di non rivedere nell’altra
vita quegli per cui aveva voluto morire: dopo tante lacrime, tanti sforzi e
tanti patimenti, quel pensiero era per lei una tortura incomparabile.
In
quel momento un frate entrò nella cappella. Paola si gettò alle sue ginocchia,
e gli narrò, piangendo, tutte le sue angosce. Quel frate la consolò
parlandole del supplizio spaventevole che era per subire, esortandola a
dimenticare il suo amore sacrilego per un eretico, e ad implorare la
misericordia di Dio e quella di monsignor Arbues, martire, il quale dal
cielo le perdonava indubitatamente; poi le parlò lungamente della grazia,
dell’estasi, della beatitudine…
Paola
si alzò disperata: essa aveva battuto sopra una pietra, e nulla aveva risposto
al cordoglio dell’anima sua.
L’ora
suonò: il frate si ritirò come un soldato che abbia finito la sua funzione.
Così
gli esercizii della divina religione del Salvatore perdono, passando per mani
stupide, tutta la loro soave poesia, le loro angeliche consolazioni.
“Oh!”
disse Paola con amarezza e disgusto, “avrei dovuto ricordarmi che questi frati
sono veri bruti, macchine viventi che agiscono per abitudine e non per
convinzione: lo spirito divino nulla può sopra di essi; in loro solo la materia
agisce. – Signore, mio Dio!” proseguì essa, “voi siete stato il martire dei
preti malvagi ed ipocriti; perdonatemi, perocché io pure sono stata loro
martire. – Voi, che avete apportato al mondo una legge d’amore, e non avete
insegnato che amore, perdonatemi, mio Dio!, perocché io sono divenuta colpevole
per aver amato.”
E,
parlando a tal guisa, Paola versava lacrime ardenti ed amare, il suo corpo
flessibile aveva una mestizia impossibile a descriversi. Dei suoi abiti di
frate non aveva serbata che la tonaca di lana bianca, e siccome i suoi capelli,
che non erano stati altrimenti tagliati da otto giorni erano un poco cresciuti,
la sua fisionomia aveva subito un notevole cambiamento.
A
vederla così vezzosa e delicata, e tuttavia imponente per l’abitudine che aveva
presa al comando, l’osservatore rimaneva indeciso, non indovinava il suo sesso
al primo sguardo. Era Paola, e pure era ancora Josè: un misto singolare di
grazia e di forza, d’energia e di tenerezza.
Quella
povera donna semplice e gentile, che ancor sì giovane aveva tanto imparato
dalle cose della vita, aveva un incanto doloroso e commovente.
Piegati
sui gradini dell’altare, in faccia agli strumenti di tortura che il giorno
successivo dovevano rompere le sue membra, somigliava a tenero arboscello
inchinato sull’abisso che deve inghiottirlo, quasi per intenerirlo e piegarlo.
Ma
era vano volgersi a tutte le cose che la circondavano; nulla poteva rispondere
ai bisogni della sua anima, né al presente, né all’avvenire.
Allora,
come viaggiatore che si smarrisce e ritorna sul cammino che ha già percorso,
Paola fece ritorno al passato. Retrocedette lentamente sulla sua vita, avendo
cura di sfogliarne ad una ad una le pagine per non lasciarne sfuggir nulla.
Leggendo
così nel libro della sua memoria, si rivide fanciulla candida e pura, che
scherzava sotto gli aranci fioriti dell’Alhambra, e sognava già nella sua anima
ardente e fiera l’amore di un nobile e valoroso cavaliere, il quale posava
sulla sua fronte la bianca corona delle vergini.
Poscia
rivide quelle vaste chiese, magnifiche moschee convertite in templi cattolici
dalla religiosa Isabella: monumenti di poesia cristiana aggiunti alla poesia
orientale.là vide passare come in un sogno tutte quelle fantasmagorie del culto
romano che avevano in quei tempi eccitate in lei sante e dolci emozioni, lunghe
processioni di frati, le cui teste bianche perdevasi in nuvole d’incensi, le
stole e le cappe ricamate in oro, le bianche cotte dei diacono, e la tunica
ricamata dell’arcidiacono, ed i calici coperti di gemme, ed i larghi ostensorii
d’oro, e gli arcangeli d’argento colle ali spiegate, e i reliquiari, e i
mazzetti di gioie, corone offerte dalla regina di Spagna alla Regina del
paradiso.
Così
riconobbe tutte le chiese di Granata, bazar orientale; dove venivano a far
mostra di sé, sotto mille forme, le ricchezze del Messico.
Confrontando
le semplici sensazioni d’allora, la sua candida ammirazione per tutte quelle
meraviglia terrestri, coll’amaro scetticismo d’ora, Paola comprese perché il
clero voleva ad ogni costo prolungare l’ignoranza del popolo. Poi domandò a sé
medesima, se non era cosa grandemente iniqua l’impiegare mezzi così terrestri
per fare amare ed adorare il Re del cielo.
Ma
Paola, che aveva potuto osservare minutamente tutte le iniquità di quell’anime
pretesche, sapeva bene che la gloria di Dio non era che il pretesto, e non lo
scopo delle loro miserabili ciurmerie.
Non
ostante provò un soave e tenero incanto nel richiamare alla memoria i suoi giorni
d’ignoranza e di schietto abbandono alla fede che le veniva inspirata, i suoi
trasporti di gioia e di estasi quando inginocchiata davanti ad una grande
immagine di Cristo, che versava lagrime nel tempo della sua passione[44], le sembrava di veder piangere il
Salvatore medesimo, di cui le era stata narrata la storia pietosa e sublime.
Quei tempi avevano, per il contrasto colla sua vita presente, un riflesso
dorato; che illuminava d’un ultimo splendore la sua fronte, già coperta d’un
ombra mortale.
Poscia
si rivide orfana, raccolta da quella nobile famiglia dei Cazzalla, sì santa, sì
pura; si trovò presso al suo vezzoso fidanzato, al suo dolce ed adorato
Fernando…Ma a quel quadro, sì splendido in lontananza, venivano a mescersi
bentosto colori sinistri, morti profanati, vivi perseguitati e condannati, il
suo Fernando trascinato al supplizio, ed essa tessa.
Oh!,
a quella rimembranza terribile, l’anima sua si gonfiò di amarezza, e contò ora
per ora, minuto per minuto per minuto, i giorni che aveva passati portando la
catena del suo servaggio, baciando i piedi della belava che aborriva, velando i
suoi occhi pieni di lacrime con un sorriso ipocrita, la sua fronte abbattuta
con un’aureola di gioia, rinunziando anco alla preghiera pel timore di
profanarla, inventando ad ogni ora una nuova malizia, immergendosi con disgusto
in un abisso di bassezze e di lussurie in cui vivevano i preti di Cristo,
facendo plauso ai loro vizi, favorendoli talvolta, e tutto questo per assopire,
per estinguere la disperazione incommensurabile dell’anima sua…Poi, finalmente,
dolce, gentile, timorosa, armava la sua debole mano del pugnale, ed appié
dell’altare immolava colui che l’aveva perduta…Lo rivedeva cogli occhi feroci,
colla gola insanguinata, pronunziando queste ultime parole nel suo ultimo
respiro: - Dio è giusto…– Sì, Dio è giusto! – esclamò Paola, alzandosi con atto
energico, Dio è giusto e mi perdonerà…
– Oh! – proseguì con un grido d’inesprimibile angoscia, – il martirio non è un
battesimo?, e non compirò il mio su questa croce?…
Volgendosi
indietro Paola aveva veduto gli strumenti del suo supplizio, e, lungi dallo
spaventarsi alla vista di quegli oggetti terribili, provò una gioia indicibile
e crudele, calcolando gli orribili dolori che dovea sopportare, perciocché più
le sembravano spaventevoli e intollerabili, più diceva a sé medesima che ciò
basterebbe ad espiare le sue colpe; e più le pareva facile d’ottenere il
perdono da Dio.
Ora
Paola non voleva che una cosa, essere ricongiunta a Fernando.
La
porta della cappella si aprì, e due signori spagnuoli, membri della Pace e
Carità, domandarono con tutta la possibile cortesia, se la condannata aveva
bisogno di nulla.
“Nulla
per questa vita, signori,” rispose Paola, con angelico sorriso, “ma per
l’altra…”
“Si
avrà cura anco di questa,” soggiunsero i gentiluomini, avvicinandosi a Paola;
“faremo pregare e dire delle messe per il riposo della vostr’anima.”
“Signori,”
disse Paola, “non preghiere di preti, ve ne supplico; le vostre parole sole,
che non saranno venali ed ipocrite…e poi…”
“Fanciulla,”
interruppe uno dei signori, “siate, ve ne prego, più moderata nelle vostre
parole; i preti sono guide delle anime nostre.”
“Oh
li conosco meglio di voi,” disse Paola con accento breve, “ma le credenze sono
libere, signore, e poiché volete compiere gli ultimi desiderii d’una moribonda,
incaricatevi di questo: datela alla più povera fanciulla della Spagna per
maritarla.
Dicendo
ciò la condannata aveva tratto dal seno una croce di diamante; erano gioie di
gran valore avute da sua madre.
“Voi
farete questo, signore, non è vero?” soggiunse Paola.
“Ve
lo prometti,” disse il gentiluomo.
“Grazie,
signore; è l’unico bene che mi rimane, serva almeno di far qualcheduno felice…”
“Questo
è tutto?” dimandò il fratello della Pace e Carità.
“V’è
ancora un’altra cosa,” disse Paola alquanto dubbiosa.
“Parlate;
tutto ciò che dipenderà da noi vi sarà accordato.”
“Nel
venir qui, signori,” rispose Paola, “avete incontrato per certo una povera
donna vestita di nero, che piangeva forse sotto il suo velo, guardando verso la
prigione. Questa donna è mia madre, è dessa che mi ha nutrita. Non si ricusa ai
condannati la grazia di abbracciare un’altra volta coloro che hanno amato;
ebbene!, fate venire questa donna, e pregate che la si lasci giungere fino a
me.”
“I
vostri voti saranno esauditi,” rispose uno dei signori.
Ed
uscì col fratello ch’era venuto con lui.
In
quel momento un secondo prete dell’Ordine degli Agonizzanti surrogava quello
che aveva ricevuta la confessione di Paola.
Egli
si avvicinò alla fanciulla, le continuò le solite esortazioni del primo.
Sarebbesi detto che ciascuno di quei preti venisse a ripetere una lezione
imparata a memoria.
E
sulla loro fisionomia, distratta od annoiata mentre adempivano quel religioso dovere,
vedevasi chiaramente tutta l’aridità della loro anima.
Quegli
uomini avevano generalmente cuori di bronzo e salute di ferro.
Paola
lo lasciò parlare senza rispondergli; essa pregava internamente, e non colle
labbra, per implorare il perdono dal Dio di misericordia, in ciò non aveva
bisogno d’intermediario; questi avrebbe raffreddato il suo fervore piuttosto
che riscaldarlo.
Rimase
adunque taciturna e raccolta, aspettando l’adempimento della promessa del
gentiluomo, mentre il frate, comodamente seduto nella sua poltroncina, aveva
piegato la testa sul petto, ed erasi leggermente addormentato recitando le
litanie.
Paola
aveva gli occhi rivolti verso la porta; la sua anima non poteva essere
distratta dalla speranza che aveva concepita di veder la sua nutrice un’altra
volta. La sua aspettativa non andò delusa; il gentiluomo tornò bentosto seguito
da quella donna vestita di nero che Paola gli aveva indicata, e che avea,
infatti, incontrata all’ingresso della prigione.
Ritrovandosi
Paola e la sua nutrice, non ebbero parole; ma la condannata si strinse al seno
quella che l’aveva nutrita, e là, per la prima volta dopo molti anni, pianse
senza ritegno.
Per
rispetto a quest’ultimo abboccamento, i fratelli di Pace e Carità si
erano ritirati.
Era
costumanza pure che il prete lasciasse il condannato, e questi si trattenesse
liberamente con coloro ai quali premettevasi di visitarlo. Il monaco
dell’Ordine degli Agonizzanti non fece motto; al giungere di Giovanna riaprì a
metà i suoi occhi, poi continuò a recitare le sue orazioni a voce bassa.
Quando
Paola ebbe versato nel seno della sua nutrice tutte le lacrime da tanto tempo
raccolte, alzò il capo, e fissando i suoi occhini neri su quelli della sua
vecchia nutrice, le disse con ineffabile tenerezza:
“Tu
pure vuoi dunque morire?”
“Dopo
di te solamente,” rispose Giovanna.
“Hai
ragione,” disse Paola con un amaro disprezzo della vita; “Che faresti tu sola
quaggiù?”
“Non
è vero?” disse Giovanna, come se per quelle due donne che avevano vissuto soltanto
di affezione e d’amore, la vita
terrestre non fosse niente senza quella dell’anima, e non fossero state create
che per vivere quaggiù, come gli arcangeli, d’estasi.
Poscia
rimasero in silenzio l’una al fianco dell’altra, con le mani teneramente
strette, assaporando la felicità di vedersi ancora avanti la loro separazione
d’un giorno.
Esse
non avevano più nulla da dirsi, la terra non esisteva più per loro; andavano a
morire ed a ricongiungersi…
Avevano
così passato un’ora insieme senza contarne i minuti, un birro entrò nella
cappella per avvertirle che era tempo di separarsi.
Solamente
allora il dubbio che l’aveva tormentata tornò ad agitare lo spirito di Paola, e
quando la sua nutrice le distese le braccia per istringerla in ultimo amplesso,
le disse con angoscia:
“Non
è vero che Iddio mi riceverà nel suo seno, e che mi ha perdonata?”
“Povera
vittima,” rispose Giovanna; “sii tranquilla, noi ci rivedremo…”
Un
raggio celeste risplendette a quelle parole sul viso di Paola.
Presentò
il suo bel volto al bacio della sua madre adottiva; Giovanna la baciò teneramente
in fronte, ed uscì dicendole:
“Tra
breve…”
Paola
rimase immersa in un’estasi celeste, che durò fino a giorno.
______________
XLIX.
Il
supplizio della ruota.
Erano
sei ore del mattino.
Un
uomo entrò nella cappella in cui era Paola.
Quest’uomo
era il carnefice.
Nel
vederlo la prima impressione che provò Paola fu di terrore, la seconda di
gioia; avvicinavasi alla morte!… Ma, suo malgrado, all’aspetto dell’uomo che
doveva torturarla non aveva potuto reprimere un primo sentimento di orrore;
istinto della natura fisica, che non cede che dopo la riflessione all’influenza
del sentimento morale.
“Sono
pronta,” disse la giovine, alzandosi.
Il
carnefice allora si avvicinò, e pose la sulla testa della condannata una
calotta verde, ornata di croce bianca. Quella calotta aveva la forma di un
berretto greco.
Quindi
spogliando Paola della sua tunica di flanella bianca, il carnefice la coprì di
una veste metà rossa e metà nera. Il color nero era quello dei parricidi, il
rosso indicava il sacrilegio.
Paola
lasciò fare con indifferenza; poco si curava dell’abito col quale racavasi alla
morte.
Quando
il carnefice ebbe finito:
“Null’altro?”
gli domandò essa.
“Null’altro
per ora,” replicò quell’uomo.
“Quando
deggio morire?”
“Non
ancora.” “Oh mio Dio!” disse Paola con impazienza.
Il
carnefice la guardava con istupore; non comprendeva come un condannato fosse
impaziente di morire.
“Fate
i vostri ultimi atti di contrizione.”
Paola si gettò
in ginocchio, volgendo nuovamente a Dio la sua solita preghiera:
– “Deh! Che io sia riunita a Fernando!” –
Un
prete entrò allora nella cappella per esortare un’ultima volta la condannata,
ma essa non gli rispose, continuò ad implorare Dio nel suo animo. E siccome
quegli insisteva, gli rispose con dolcezza:
“Iddio
mi ha perdonato, mia madre me lo ha detto.” Il prete credé che il timore del
supplizio avesse fatto smarrire la sua ragione.
In
quel momento venivano a cercarla.
Essa
si alzò con un grido di gioia, e si slanciò verso la porta; ma siccome il
calice del dolore non era per essa stato riempito, le vennero prese le mani e
legate con delle corde, come se fosse stato necessario trascinarla a forza a
quel supplizio che reclamava con tanto ardore.
Ma
la rassegnazione di Paola non aveva più limiti: pareva quasi felice di
soffrire…
Essa
uscì dalla cappella.
Quando,
dopo aver traversato i corridoi oscuri della prigione, si trovò nella strada,
il sole illuminò il suo pallido volto. Abbagliata da quella luce subitanea,
Paola chiuse gli occhi un istante.
Quando
un poco abituata a quella luce viva, li riaprì e guardò intorno a sé, videsi circondata
da soldati, da persone pie, che con un cero in mano l’accompagnavano
devotamente al supplizio, e dai monaci dell’ordine degli Agonizzanti, schierati
in due file, i quali recitavano con tuono lamentevole le preghiere che
precedono l’ultimo istante.
Uno
di essi stava di continuo al fianco della condannata, esortandola a morire religiosamente.
Quindi
misti agli Agonizzanti, i fratelli di Pace e Carità, ultimi amici dei
condannati al supplizio, accompagnavano l’oggetto delle loro cure, quasi
diremmo del loro culto, antitesi vivente della legge umana, la confraternita di
Pace e Carità era l’interprete fedele della clemenza del divin
Salvatore.
Le
persone del popolo, sempre avide di spettacoli orribili accorrevano in folla
sulle tracce del condannato. Molte di esse rimanevano sorprese nel veder
quel giovane e vezzoso sembiante, che pareva appartenere ad un donna o ad un
arcangelo.
Ma,
poiché il giudizio di Paola pronunziato a porte chiuse non aveva lasciato nulla
divulgare di quanto era accaduto, fuorché la condanna a morte dell’assassino,
tutti ne ignoravano il vero sesso; s’immaginavano un uomo terribile e
colossale! L’assassino d’un grande inquisitore non poteva essere che un uomo
straordinario, ed ecco comparire un individuo gracile, pallido, soave e
vezzoso, una creatura quasi ideale.
Durante
quell’orribile pellegrinaggio, Paola fu l’oggetto d’una ardente curiosità, e di
una pietà incredibile. Il popolo, che la credeva sempre un fraticello,
sentivasi, suo malgrado, intenerito in favore di tanta giovinezza, e la memoria
esosa di Pietro Arbues aumentava pure quella disposizione all’indulgenza verso
il suo uccisore.
Il
corteggio arrivò fino alla piazza maggiore.
Al
rivedere quel luogo in cui, l’ultima volta che eravi venuta, il giorno cioè
dell’atto-di-fede, Pietro Arbues aveva
fatto immolare tante vittime, il cuore di Paola si commosse di sdegno, volse lo
sguardo verso la sua esistenza terrestre, ormai venuta al suo termine. Chinò la
testa sul suo petto, ed attese che la morte venisse a cercarla.
Guardò,
senza impallidire, gli strumenti del suo supplizio, e salì sul palco con passo
fermo.
Un
monaco dell’Ordine degli Agonizzanti salì con essa.quando fi giunta, si gettò
in ginocchio alzando gli occhi al cielo, e dal profondo del suo cuore implorò
per l’ultima volta la sua misericordia. Poi si rialzò ed attese.
Ma
in quel momento i suoi occhi si fermarono sulla folla che circondava il palco,
fra tutti quei visi sconosciuti vide una bianca e dolce figura che stava a pié
del suo calvario, come la madre di Cristo sotto la croce del Salvatore degli
uomini.
Era
la buona e coraggiosa Giovanna.
In
quell’istante supremo voleva ancor fortificarla con la sua presenza, e le aveva
detto il cuore di venire ad assistere al suo supplizio.
Paola
le volse un sorriso impercettibile, poi le mostrò il cielo con uno sguardo.
Allora
Giovanna fece scendere la sua mantiglia sul volto, e subito la rialzò per dirle
ancora una volta in linguaggio simbolico: – la nostra separazione non è che
d’un giorno. –
Il
sacerdote che assisteva la condannata le presentò allora da baciare un Cristo
d’argento che aveva in mano, Paola accostò religiosamente le labbra alla sacra
immagine.
Il
prete allora la benedisse, ed il popolo entusiasmato alla vista di una sì
toccante rassegnazione, si esaltò per il reo che morva in un modo sì santo.
L’esecuzione stava per cominciare.
V’era
sul palco una croce di sant’Andrea, una mazza di ferro, un’ascia ed un ceppo.
Il
carnefice sciolse le mani della condannata, prese la sua mano destra per il
pugno, la posò sul ceppo e volle legarvela.
“E’
inutile,” disse Paola, “fate!”
Il
carnefice alzò la sua ascia…
Paola
seguiva coll’occhio tutti i suoi moti.
Ma
più rapida del pensiero, l’ascia piombò sibilando, e quella mano bianca e
pallida balzò dal ceppo inondata da torrenti di sangue che scorrevano dalle
arterie tagliate.
Con
un sol colpo il carnefice l’aveva separata dal braccio.
Un
lungo grido d’orrore mandò il popolo. Paola solamente non aveva detto nulla, il
suo viso però era divenuto più pallido, ed un leggiero tremito nervoso si era
impadronito di lei.
Il
carnefice volle fermare il sangue che usciva dalla ferita.
“Lasciate,”
disse Paola, “finiremo più presto.”
Essa
impallidiva a vista d’occhio, è, malgrado la immensità del suo coraggio, il dolore
atroce che provava e la grande quantità di sangue che scorreva dal suo braccio
mutilato l’avevano indebolita di tal guisa che poteva appena sostenersi.
Volse
i suoi occhi verso la croce dove terminar doveva il supplizio, e nella sua inesprimibile
avidità di riposo, sorrise a quel letto di dolore su cui il suo corpo stava per
appoggiarsi; ed indirizzandosi al carnefice, con voce supplichevole gli disse:
“Terminate…”
il
carnefice aiutato da un servo, l’alzò bentosto con le sue braccia robuste, la
dispose sulla croce, avendo cura che ciascuno de’ suoi membri corrispondesse a
ciascuna delle sue braccia, in guisa che, situato in tal modo, il corpo aveva
la figura di una X. Legò quindi le gambe e le braccia della vittima, e quando
tali operazioni furono finite, quell’uomo impassibile alzò la sua mazza di
ferro come avrebbe potuto fare una macchina vivente.
La
mazza ripiombò con tutto il peso della forza erculea di quell’uomo sopra un braccio
debole, che ruppe come il vetro. Era quello che aveva già subita la pena dei
parricidi.
Un
gemito sordo, prolungato, involontario venne a morire sulle labbra dalle sventurata.
Un fremito orribile di dolore correva per le ossa di Paola.
Era
uno spettacolo orribile.
La
folla, cupa e taciturna, assisteva fremendo a quel dramma spaventevole. Malgrado
i lacci che la trattenevano su quella croce di agonia, le membra di Paola erano
agitate da terribili convulsioni, e, malgrado il calore della giornata, i suoi
denti battevano come se avesse avuto freddo. Il sangue continuava ad uscire, ed
essa tacevasi ognora più debole
Tre
colpi di mazza, simili ap rimo, terminarono di rompere quel corpo sì bello, creato
per tutte le delizie della vita, ed ogni volta i gemiti di Paola divenivano più
sordi e più indistinti.
All’ultimo
colpo i gemiti furono appena sensibili…gli occhi della vittima, già offuscati e
velati, terminarono di chiudersi, le loro lunghe palpebre nere si abbassarono
sulle guancie come un’ombra leggiera; la sua fronte impallidì, la sua bocca si
contrasse sui suoi denti, come un ultimo sorriso, ed una leggiera convulsione
sollevò per l’ultima volta il suo petto…poi tutto fu finito…
Il
sangue cessò di scorrere dalle arterie inaridite… Paola non soffriva più.
Il
carnefice posò la mano sul cuore della condannata, che non aveva più
pulsazioni.
“E’
morta, padre,” disse quell’uomo al frate che l’aveva accompagnata fino sul palco…
“Dio
faccia misericordia all’anima sua;” rispose il frate, volgendosi verso il
popolo: “preghiamo, fratelli per la vittima che è spirata.”
A
quelle parole Giovanna, che in tutto il tempo che era durato quello
spaventevole giudizio, era rimasta appié del palco, soffocando i suoi
singhiozzi o divorando le sue lacrime, Giovanna, mandò un gran sospiro, come se
un peso orribile fosse stato tolto dal suo petto.
Sua
figlia che non aveva potuto salvare, aveva almeno cessato di soffrire…
V’era
gran silenzio nella folla; quella terribile esecuzione era stata sì rapida, la
paziente vittima, forte e rassegnata, aveva sì poco cercato d’intenerire il
popolo in suo favore, aveva mostrato un coraggio talmente eroico, che quel
popolo spagnuolo, amante come era di ogni grandezza, si sentiva trascinato da
una ammirazione illimitata verso il frate parricida. Se avesse saputo che quel
frate era una donna… quanto maggiore sarebbe stata la sua ammirazione!
Ma
per un calcolo della giustizia quel segreto rimase sempre ignorato; temevasi
che, divulgandolo, non si desse così luogo ad indovinare la vera cagione della
morte di Pietro Arbues.
Ora
questo non era il divisamento della Chiesa romana, che voleva fare
dell’inquisitore un santo ed un martire.
Il
carnefice ed i suoi assistenti scesero dal palco…
Il
popolo si ritirava lentamente, ciarlando a modo suo su quell’avvenimento
straordinario di uno inquisitore messo a morte per avere assassinato un altro
inquisitore, perciocché Paola era sempre per lui un ufficiale
dell’Inquisizione.
Bentosto
non rimasero più intorno al palco che le sentinelle incaricate di guardare il
corpo fino all’ora in cui il carnefice venisse a dividerlo. Ciò doveva essere
fatto la stessa notte.
Giovanna
fu l’ultima a ritirarsi, ma si tenne un poco lontana dalla piazza, nel fondo di
una chiesa vicina, la missione non era ancora compiuta.
Di
quando in quando alcuni curiosi si avvicinavano attorno al palco, si alzavano
sulla punta dei piedi, e guardavano il cadavere del condannato, bello ancora,
malgrado tante mutilazioni, ma le sentinelle allontanavano i curiosi; perocché
erasi ordinato che nessuno potesse accostarsi troppo da vicino.
La
piazza maggiore era deserta; soltanto alcuni garduni la traversavano di tanto
in tanto silenziosi, coi piedi nudi, e camminando con un passo sì leggiero che
sarebbesi detto augello che lambisse il suolo.
Passavano
di là come per caso e senza intenzione, non accostandosi neppur al palco; ma in
realtà quegli uomini erano in sentinella per sorvegliare il rapimento del
cadavere di Paola dopo che il carnefice l’avesse diviso. Colei che non aveva
cessato di vegliare su quella sventurata fanciulla in sua vita, la nobile e
fedele Giovanna, vegliava ancora sulla sua spoglia mortale; coll’oro e le gioie
che le rimanevano aveva comperato quegli uomini cui l’allettamento del guadagno
aveva sempre il potere di sedurre, e dai quali, in causa dei loro rapporti
intimi coll’Inquisizione, l’impunità era quasi sempre assicurata.
Quando
suonarono dieci ore, il carnefice, seguito da un aiutante, ritornò sul luogo
dell’esecuzione. Egli aveva in mano un sottilissimo coltello, e l’altro portava
spiedi di ferro acuminati.
Giunto
sul palco il carnefice cominciò a sciogliere il cadavere che era rimasto attaccato
alla croce, era ancora tiepido, e le membra non avevano perduto che pochissimo
della loro elasticità.
Il
carnefice divise sul dorso la tonaca della quale Paola era vestita, e pose a
nudo quel corpo bianco e puro, di una forma incantevole.
Quindi
alla luce di una torcia di ragia, la cui fiamma vacillante proiettava su quelle
carni scolorite un rosso vivo mescolato a grandi ombre nere, il carnefice si
mise a fare la dissezione del corpo; con incredibile destrezza recise i muscoli
ed i nervi; tagliò prestamente i tendini, e dopo aver perfettamente disgiunte
le ossa, li disarticolò l’uno dopo l’altro, finì di recidere i muscoli, e
separò le membra dal tronco.
Ciò
fatto, tagliò bravamente la testa, e la pose allato delle membra.
Mentre
terminava questa operazione, un fratello maggiore di Pace e Carità si
avanzò verso il palco, e reclamò il tronco del cadavere per seppellirlo. Era
questo un diritto della confraternita, ed essa si affrettava a farlo valere.
Il
tronco fu religiosamente raccolto in una cassa di legno di quercia, ed i
confratelli, impadronendosi di quella preziosa spoglia, gettarono uno sguardo
di rancore sulle membra abbandonate che rimanevano in balia del carnefice.
Tuttavia il corpo non fu rilasciato alla confraternita di Pace e Carità
che sotto giuramento di non rivelare il sesso di Paola.
Ma
bisognava che la giustizia avesse il suo corso.
Il
carnefice prese dunque le membra e la testa; le riunì e le legò in un sacco di
tela, pieno di crusca, e ognor seguito da’ suoi accoliti, s’incamminò verso la
strada di Cadice, dall’altro lato del quartiere di Triana.
I
garduni il seguirono da lungi per vedere quale strada prendessero.
Quando
furono giunti ad una mezza lega circa da Siviglia, gli esecutori piantarono in
terra cinque spiedi di ferro, ve li fissarono solidamente con un grosso
martello; poscia il carnefice pose ed infisse egli stesso sulla punta degli
spiedi che erano fuori di terra, le membra e la testa di Paola, che rimasero
così esposte alla vista dei passeggeri ed alla voracità degli animali selvaggi.
Dopo
di che gli esecutori si ritirarono; la loro missione era intieramente compiuta.
I
garduni eransi tenuti nascosti a qualche distanza.
“A
noi, ora,” dissero quando videro gli esecutori molto lontani.
“Sì,
e sbrighiamoci,” soggiunse uno dei garduni, “affinché la tigre non vanga
a sorprenderci in un simile ecclissamento.”
“Il
cielo ne liberi! Amerei meglio esser sorpreso eclissando la mitra
dell’arcivescovo.”
Nello
stesso tempo i due figli della Garduna si avvicinarono insieme agli spiedi
dov’erano esposte le membra di Paola.
Uno
di quegli uomini distese, per i quattro angoli, un gran quadrato di tela
bianca, mentre l’altro, togliendo ad uno ad uno le membra e la testa della
giustiziata, li deponeva nel quadrato di tela.
Pochi
minuti bastarono a quella operazione. Poi, carichi del loro prezioso fardello,
i garduni ripresero il cammino del palazzo, che fortunatamente era poco
lontano.
Niuno
s’incontrò per la strada, e la loro spedizione notturna rimase perfettamente nascosta.
Mandamiento
li attendeva nella sala della deliberazione.
“Ecco,
maestro,” dissero giungendo, “ il nostro dovere è compiuto.”
“Non
ancora,” rispose Mandamiento, “seguitemi.”
E
li condusse nel sotterraneo ove avevano abbruciato il cadavere del governatore
di Siviglia.
Là
Giovanna attendeva.
Una
cassa foderata di seta bianca, era nel mezzo del sotterraneo, a lato di una
fossa che vi si era scavata.
Vedendo
giungere i garduni, Giovanna si alzò.
Andò
incontro ad essi, e prese dalle loro mani le membra mutilate della sua figlia,
quindi disse a Mandamiento:
“Lasciatemi
sola alcuni istanti: seppellirò io stessa la mia figliuola.”
Mandamiento
ed i garduni si ritirarono.
Giovanna
distese per terra la tela che conteneva gli avanzi di Paola, quelli, almeno,
che la Pace e Carità non aveva potuto seppellire.
All’aspetto
di quel nobile capo, che essa aveva tanto amato, il coraggio della vecchia
sembrò abbandonarla un momento. S’inchinò su quelle labbra fredde e scolorate
che avevano succhiato il suo latte quando Paola era bambina, e versò le sue
ultime lacrime, lacrime di madre.
Ma
quell’anima forte e piena di fede non poteva lasciarsi abbattere lungamente,
guardò quegli occhi spenti da cui la vita erasi ritirata, e loro disse,
baciandoli un’ultima volta:
“Inviluppo
mortale dell’anima della mia Paola, torna alla terra, aspettando l’eterna
resurrezione! Paola non è più, Paola è nel cielo, ed io andrò a raggiungerla.”
Asciugò
le sue lacrime, depose coraggiosamente le gelide membra nel feretro che le
attendeva, le cuoprì d’un gran velo, e s’inginocchiò pregando appiè del feretro
stesso.
_________________________
L.
L’addio.
In
uno dei numerosi alberghi che costeggiano il molo ove vanno a mangiare i marinai
che da tutte le parti del mondo approdano nel porto di Cadice, tre persone
erano riunite in una sala a terreno.
Intorno
ad essi, su delle panche ordinarie, erasi disposto qualche oggetto indispensabile
per un viaggio oltremare: due piccole valige ed una sacca di lana serrata dai
cordoni in modo di poter essere portata a mano, e salvata eziandio in caso di
fuga.
Le
tre persone che occupavano quella sala erano il conte di Vargas, la giovane contessa
e Giovanni d’Avila.
Già
da quindici giorni Estevan e Dolores, arrivati sani e salvi a Cadice, per grazia
della Garduna, aspettavano l’adempimento della promessa di Josè.
L’Apostolo
che li aveva preceduti di qualche giorno, aspettava con essi, aiutandoli a
sopportare con pazienza quei momenti di penosa ansietà che precedono il
compiersi di un atto decisivo della vita.
Tuttavolta
l’impazienza cominciava a vincerli.
Oltracciò,
malgrado il loro incognito e la precauzione che avevano avuto i giovani sposi
di conservare abiti popolari, Giovanni d’Avila non era tranquillo; temeva per
essi le persecuzioni del Sant’Uffizio.
I
tre amici erano seduti da qualche minuto, senza parlare, parevano essere in
preda ad una grande preoccupazione.
“Padre
mio,” disse finalmente il conte, “sono quasi venti giorni che abbiamo lasciato
Siviglia; il bastimento olandese che deve trasportarci può partire da un
momento all’altro, ed io temo di esporre Dolores a qualche pericolo,
soggiornando più lungamente in Ispagna. Pensate voi che don Josè venga a
raggiungerci come ha promesso? Non ho più a temere…”
“Che
so io?” rispose il monaco; “la di sparizione di Giovanna mi sembra strana; la
fuga di questa donna nasconde certamente un mistero, però non posso credere …”
“Oh
no!, no!” esclamò la semplice Dolores, “Josè ha cuore angelico, martire come
noi, chi sa quale sventura lo avrà colpito… v’era qualche cosa di fatale in
lui.”
“Io
non ho mai avuto intiera confidenza in quel Domenicano,” replicò Estevan.
“L’Inquisizione
nasconda tanti segreti singolari e terribili!” osservò Giovanni d’Avila.
“Ma
infine, Padre mio,” continuò Estevan, “la nostra sicurezza esige che noi partiamo
al più presto; debbo io, per ubbidire ad una parola data in ricambio di una
prodezza incerta, compromettere la sicurezza di quella che m’è più cara della
vita?”
“Due
giorni ancora,” disse dolcemente la contessa, “due giorni solamente, mio Estevan;
se dopo questo termine Josè non sarà venuto…ebbene! Partiremo,” aggiunse con un
sospiro, come se, al momento di lasciarla, avesse dato una memoria di tenerezza
e di cordoglio alla sua diletta Spagna.
In
quel momento un uomo del naviglio sul quale dovevano imbarcarsi, venne ad avvertirli
che si metteva alla vela la sera stessa.
“Come!,
sì presto?” esclamò vivamente Dolores.
“Il
vento è favorevole, o signora,” rispose il marinaio. Queste parole troncarono
ogni questione.
Dolores
abbassò mestamente la testa, e non parlò più.
“Lo
vedete, padre mio?” disse Estevan; “è impossibile aspettare di più, bisogna partire,
partire in questo stesso giorno.”
“E’
vero, disse Giovanni d’Avila, commosso per la tristezza di Dolores; “imperiosa
necessità lo vuole, bisogna ubbidirle… Finalmente,” soggiunse, “questa è per
certo la volontà di Dio.”
“Ebbene,”
disse Estevan al marinaio, mostrandogli le due valigette; “prendete queste, e
recatele a bordo. Stasera ci porteremo sul naviglio.”
Il
marinaio ubbidì e si ritirò.
Dolores
tolse il sacchettino di lana, e ne passò il suo braccio nei cordoni. Quel sacco
conteneva le ceneri di suo padre.
Il
tempo era caldissimo, Estevan uscì un momento dall’albergo per respirare l’aria
fresca che sorgeva dal mare. Fece alcuni passi sul molo, lungo le mura che
circondavano il seno dov’era situato il porto di Cadice. Quell’antica fortezza,
quella città inespugnabile, circondata da una duplice cinta d’acqua e di
pietra, aveva un aspetto cupo e funesto.
Il
sole cadeva direttamente sull’infocato terreno, le strade erano deserte, e non
udivasi al di fuori che il rumore dei flutti, i quali percuotevano il piede
delle mura, od i passi delle sentinelle di fazione alla porta di Mare.
–
“Questa sera, – disse finalmente don Estevan, parlando fra sé medesimo, –
questa sera adunque lascerò la Spagna!… oh! Che il cielo le sia propizio! –
esclamò volgendosi verso il nord, come per dare un ultimo sguardo d’amore e
d’ineffabile mestizia a quella terra diletta. Possa Iddio deviare da lei il
flagello delle sue maledizioni, e renderla ad una vita novella… Orsù, –
soggiunse sospirando profondamente, – per me l’ultimo sacrificio è fatto… Bisogna
fuggirla, poiché non posso fare nulla per lei…–
Mentre
terminava queste parole, vide venir verso di sé, dal lato della via di terra,
cinque persone che portavano il vestimento dei Sivigliani. Allora tornò
indietro, e rientrò prudentemente nell’albergo; perciocché tremava ad ogni
stante che alcuno venisse sulle loro traccie, e che li scoprisse innanzi che
avessero potuto imbarcarsi.
Ma
aveva chiusa appena la porta della sala ov’erano Dolores e Giovanni d’Avila,
che fu picchiato fortemente a quella porta.
Estevan
trasalì e stette alquanto in dubbio.
“Che
cos’è,” domandò Dolore stupefatta.
“Apriteci,
signor Estevan,” gridò nello stesso tempo una voce che i tre amici riconobbero
subito. Era quella di Gioachino.
“E’
Josè che giunge!” esclamò Dolores.
Estevan,
alquanto rassicurato, aveva aperta la porta. Ma non era Josè: era Gioachino, la
sua sorella, Manofina e la Sirena, condotti da uno dei garduni della
confraternita di Cadice, i quali avevano ricevuto Estevan e Dolores al loro
arrivo, e li avevano raccomandati alla padrona dell’albergo ov’erano
alloggiati.
Grande
fu la sorpresa di Dolores, d’Estevan e di Giovanni d’Avila.
“Che
siete venuti a fare a Cadice, figli miei?” domandò loro l’Apostolo.
“Siamo
venuti a cercare il signor Estevan e la signora Dolores, per servirli e seguirli
ovunque andranno,” rispose la Sirena.
“Grazie
della vostra affezione,” rispose la contessa intenerita; “non è la prima volta
che la conosco; ma sapete bene, amici miei, che chi volete seguire sono poveri
esiliati che avranno appena da darvi di che vivere?”
“Noi
lavoreremo per soccorrerli,” risposero nello stesso tempo le due donne.
“Il
lavorare non ci costerà pena, riprese Gioachino; “ma, grazie al cielo, le signorie
loro non avranno bisogno del nostro misero soccorso.”
“E
don Josè1, che è stato di don Josè?” esclamò Dolores con ansietà; “non mi avete
ancora parlato di lui, Gioachino.”
Al
nome di Josè, Gioachino abbassò mestamente il capo, Manofina rimase interdetto,
e le donne si posero a piangere…
“Che
è stato?, che gli è accaduto?” domandò la contessa de Vargas.
Allora
con voce trista, commossa, interrotta, il fedel taverniere raccontò il terribile
scioglimento della tragedia che aveva avuto luogo in Siviglia.
Giovanni
d’Avila, Estevan e Dolores ascoltarono con profonda stupefazione quello
spaventevole racconto; e quando Gioachino, nel suo linguaggio animato e
pittoresco, venne a descrivere gli ultimi momenti di Josè:
“Oh!”
esclamò la contessa versando copiose lacrime, “sapeva ben io che Josè era un
martire!”
“Ciò
non è tutto, signora,” aggiunse Gioachino traendo fuori il portafogli che Paola
aveva con tanta cura sigillato il giorno in cui essa lasciò il palazzo
inquisitoriale: ecco un deposito che don Josè mi ha consegnato per voi;
prendete, signora, questo vi appartiene…”
“A
me?” disse Dolores stupefatta.
“A
voi, figlia mia,” disse Giovanni d’Avila,” poiché è il legato d’un moribondo.”
Dolores
prese allora il portafogli con tremula mano, l’aprì, poi lo diede ad Estevan.
Essa non comprendeva il valor di quantità di pezzi di carta coperti di
scarabocchi, e chiusi nelle pieghe del marrocchino.
Miglior
conoscitore di tal sorta di oggetti, Estevan, dopo avervi gettato un rapido
sguardo, disse a Dolores:
“Nobile
Josè! ei non ha voluto che coloro che amava avessero a soffrire la miseria; qui
vi sono copiose ricchezze.”
“Povero
Josè!” esclamò Dolores, più commossa per la morte orribile del loro amico e per
l’affetto loro aveva manifestato, anco morendo, che per il miglioramento
portato da quella considerevole somma nella loro presente situazione.
Nello
stesso tempo vide nel portafogli una carta di una dimensione maggiore delle
cambiali, diligentemente piegata e sigillata.
Sull’inviluppo
Paola aveva di proprio pugno tracciato le linee seguenti:
Alla contessa Dolores de Vargas, quando sarà in sicurezza
fuori della sua patria.
“Questa
non dev’essere ancor letta, disse Dolores; e la ripose nel portafogli…
La
giornata passò rapidamente, il sole volgeva all’occaso, il moto e la vita cominciavano
a tornare nella città.
Il
marinaio che già un volta era venuto ad avvertire i viaggiatori, entrò nuovamente
nell’albergo.
“Signore,”
disse ad Estevan, “una barca aspetta alla porta di Mare per condurvi al
bastimento.”
“Partiamo,”
disse Estevan, “partiamo; poiché bisogna partire, è meglio presto che tardi.”
Dolore
allora avvicinassi a Giovanni d’Avila, e colla sua voce dolce e penetrante, il
cui incanto era irresistibile:
“Padre,”
gli disse, “voi ci seguite?”
“No,”
rispose Giovanni d’Avila, “no, figlia mia, non vi seguirò, io non appartengo a
me stesso, appartengo alla Spagna, i miei poveri e i miei afflitti mi
reclamano, e debbo tornare da loro.”
“Ditemi
almeno che penserete a noi,” soggiunse la contessa.
“Dolores,”
disse Giovanni d’Avila, “lasciatemi almeno il merito del sacrificio. Io sono
uomo, e il mio cuore è accessibile al dolore ed all’affanno; ma innanzi tutto
sono ministro di Gesù Cristo, il ministro deve vincere. Degl’infelici hanno
bisogno di me, io appartengo a quest’infelici.”
“E’
vero,” disse Dolores, “tornate presso di loro, che non possono far senza di
voi. Voi siete per essi il rappresentante di Dio, che sa cangiare il male in
bene, mentre l’Inquisizione cambia in male il bene più perfetto.”
“Ecco
perché non posso seguirvi,” rispose Giovanni d’Avila.
“Padre,”
ella disse, “non voglio distogliervi da questo sublime sacrificio. Ubbidite
alla voce del cielo, ma da lungi il vostro spirito vegli sopra di noi: stiamo
uniti in eterna e santa amicizia…”
“Non
è forse questa la vera comunione dello spirito annunziata dall’uomo-Dio?”
rispose l’Apostolo, “sì, figlia mia: io sarò sempre unito a voi col pensiero.”
“Oh!”
disse Dolores, “da lungi ancora mi sembra che rimarrò sotto l’influenza della
vostra onnipotente protezione.”
“Voi
sarete sotto l’occhio e sotto la mano di Dio,” rispose Giovanni d’Avila; “di
che temete?…”
I
viaggiatori uscirono allora dall’albergo. Giovanni d’Avila volle accompagnarli
fino al bastimento.
Montarono
in due scialuppe che gli attendevano alla riva; i marinai agitarono i loro
remi, ed in pochi minuti furono sotto il vascello olandese che doveva
trasportarli; massa enorme dal ventre largo e rotondo, colosso lento, ma
infaticabile, che sembrava sfidare la tempesta. Fu gettata loro una scala che
doveva aiutarli ad entrare nel vascello.
Gioachino
e sua sorella, Manofina e la Sirena salirono per primi.
Estevan
e Dolores erano rimasti nella prima scialuppa con Giovanni d’Avila.
“Fate
presto, signori,” gridò il pilota; “il vento rinfresca, ed ora si mette alla vela.”
Estevan
prese la mano di Dolores per aiutarla a salire; Giovanni d’Avila si alzò.
“Addio,
Padre mio,” gli disse la contessa, trattenendo una lacrima; “addio…pregate per
noi.”
“Addio,
figlia mia,” rispose il santo con voce commossa, “addio… non obliate che non
v’è che una felicità al mondo, ed è quella dei cuori puri ed amanti.”
“Padre
mio,” rispose Dolores a voce bassa, “non v’è felicità per gli esuli!”
E
si slanciò leggera e rapida sulla scala e raggiunse bentosto il ponte del vascello.
“Addio,
Padre mio,” disse a sua volta Estevan; “se mai la Spagna si ridesta, ricordatevi
d’uno dei suoi figli, che condurrà lungi da essa vita languida ed infelice.”
“Estevan,”
rispose Giovanni d’Avila; “i veri figli di Dio non han che una patria, la
terra! e da qualunque punto del globo una voce calda e potente faccia udire
l’inno e eterno della verità, essa porta una pietra all’edifizio della sociale
felicità. Io ve l’ho detto, non si rigenera un popolo colla spada, ma colla
parola, e questa va a rimbombare invisibile, ma frequente, alle estremità del
mondo. Andate, siate tranquillo, fermo nella via in cui vi siete impegnato, e
ricordatevi che per cangiare la faccia del mondo non sono abbisognati che
dodici apostoli, dodici uomini semplici ed umili di cuore, ma animati da fede
inalterabile; anco lontano potete cooperare alla rigenerazione della Spagna.”
Estevan
pure salì sul bastimento. Tutti erano a bordo. Si alzò la scialuppa sul vascello;
e quella che conteneva Giovanni d’Avila si allontanò a forza di remi.
Appoggiati
alla cannoniera, Estevan e Dolores fecero un ultimo segno d’addio al loro santo
amico. Giovanni d’Avila alzò la mano destra, e mostrò loro il cielo, quasi per
dire:
–
Lassù ci rivedremo. –
Sul
naviglio era un insolito agitarsi; i marinai spiegavano le vele, e lasciavano
in balia del vento quelle bianche tele tessute nella flemmatica Olanda. Il
bastimento, quella massa enorme, quasi fosse impaziente di riveder la sua
patria, sembrava agitarsi sull’instabile onda, un fremito sordo correva per gli
ampi suoi fianchi, e pareva vivere della vita di che s’agitava nel suo seno.
Nel
momento di partire, i passeggeri serbavano profondo silenzio.
Non
si udiva che la voce dei capi che pronunziavano i loro ordini in sillabe brevi
e sonore, e i passi frettolosi dei marinai, intenti alla manovra, impazienti di
lasciare la terra, la terra in cui il marinaio non sa che annoiarsi.
Manofina
e la Sirena, Gioachino e sua sorella, da veri andalusiane fedeli ai loro costumi
di gitani, ernasi coricati sul ponte, e guardavano con occhi umidi l’orizzonte
turchino sparso di punti luminosi.
Estevan
e Dolores in piedi, vicini all’albero maestro, contemplavano con entusiasmo
misto a tristezza gli splendori di quella magnifica serata.
Il
sole discendeva all’orizzonte, e diviso in innumerevoli raggi prismatici,
somigliava a largo opale in mezzo ad una legatura di gemme di tutti i colori.
Dal
punto in cui trovavansi, gli esuli ammiravano Cadice, la città inespugnabile, Cadice
dalle cupole di pietra, cinta dal mare come da una cintura verde, e prolungata
all’est dal Trocadero, d’immortale memoria. Poscia, al di là, era la
terra di Spagna, la bella Valenza, Granata, la figlia prediletta dei Mori,
malaga dai vini deliziosi, e più lungi, finalmente, Siviglia, la patria
d’Estevan e Dolores.
Tutto
il tempo che durarono i preparativi della partenza, i due esuli rimasero cupi e
silenziosi, cogli occhi fissi a quell’orizzonte lontano, pieno, per loro, di
rimembranze inebrianti e di vedute incantevoli.
I
dolori che avevano provato scomparivano in quel momento, non si rammentavano
più che del loro amore per la bella Spagna, che scompariva per sempre ai loro
occhi. Bentosto si scossero, Dolores si appoggiò al braccio d’Estevan per
sostenersi. Resi tolta l’ancora.
Il
bastimento, trascinato dal suo peso enorme, era balzato sull’acqua come un toro
selvaggio, e dopo alcuni minuti, fremé con un ondulamento graduato, che
s’andava sempre più facendo minore: poi, finalmente, scorse dolcemente sul mare
piano, lasciando dietro di sé un largo
solco.
Le
onde leggiere, sollevate intorno ai loro larghi fianchi, andavano e venivano cingendolo
di schiuma. Il vento gonfiava le vele, che al suo soffio mandavano un mormorio
lieve, quasi armonioso, la prua solcava il mare, ed a poco a poco Cadice si
perdeva, ed appariva come un punto nero agli occhi dei passeggeri immobili sul
cassero.
Il
sole erasi immerso nei flutti: larghe strisce di porpora e d’oro correvano come
nastri di fiamme da un capo all’altro di quel vasto orizzonte, e la notte scendeva
lentamente a coprire la faccia della terra. Le stelle cominciavano a
risplendere nel cielo…
Allora
Estevan guardò la sua compagna.
Immobile
e taciturna, cogli occhi invincibilmente fissi verso il punto impercettibile
che per essa rappresentava Siviglia, Dolore pareva immersa in estasi religiosa
e profonda.
La
sua fronte, colorata dall’ultimo raggio del sole, risplendeva come bronzo
scolpito da Fidia. Le sue narici dilatate aspiravano ancora l’aria vivificante,
e ovunque carica di profumi d’aranci e di rose, che le giungeva da terra…e le
sue labbra avide e frementi, somigliavano alle labbra della Sibilla, semiaperte
per un fatidico canto.
“Io
ti saluto!” esclamò finalmente, con voce a cui l’inspirazione prestava un
incanto ed una potenza quasi sovrumana; “ti saluto! madre degli eroi, amante
del poetico libero e del Goto selvaggio, terra amata dal cielo, che nel tuo
seno hai sempre saputo cambiare in oro puro il vile metallo, ti saluto! o tu,
che hai dato nascita al divino Pelagio e ad Alfonso il Magnanimo, il più savio,
il più filosofo dei re[45]. Regina che hai posato sulla tua fronte
le più ricche corone del mondo, tu hai veduto brillare sul tuo manto di porpora
i diamanti del Messico e le palme del deserto. Tutto vi riunì per contribuire
alla tua gloria; i Goti ti hanno dato la loro audacia, il loro coraggio, la
loro lealtà, i Mori, la poesia, che inebria l’incivilimento, che addolcisce i
costumi, e da questi due contrapposti, la religione divina di Cristo ha fatto
la Spagna cavalleresca e cristiana, la Spagna savia quantunque conquistatrice,
la Spagna terra di felicità e di gloria, che aveva per tutti i suoi figli latte
di nutrice e viscere di madre.
Oh!
Sublime unione della religione e della filosofia! Ossifero splendido trionfo
della religione consolante e materna!…non abbiamo noi veduto sottomettersi alle
leggi di una regina dolce, religiosa e tollerante[46] i fieri discendenti degli Abencerragi,
razza eroica, di cui il più umile aveva sangue reale nelle vene?
Non
è la tolleranza, non è la dolcezza, che ha fatto cadere le mura di Granata,
scosse dalla crudeltà de’ suoi tiranni?
……………………………………………………………………………….
La
notte scendeva più rapida, un velo stendevasi sull’immensità dell’oceano, il
cielo si popolava di stelle brillanti, e Cadice perduta nell’oscurità, era
intieramente disparsa! Nell’orizzonte lontano scorgevasi vagamente alberi o
montagne, immagini informi le quali si perdevano ad un ad una nelle tenebre.
Dolores
continuò il suo canto inspirato, ed a misura che si allontanavano i rumori
della terra, la voce della giovane si faceva più forte, come quella del vento
nel silenzio della solitudine.
“Spagna!
Spagna!” esclamò essa, “ oh! Quanto eri bella nei giorni del tuo immacolato
splendore, quando i tuoi figli, tanto liberi quanto coraggiosi, avevano il
diritto di dire ciò che loro piaceva, e quando l’ultimo degli Spagnuoli, eguale
a’ suoi re per l’inalterabile amore che legava tra loro i regnanti ed il
popolo, osava lagnarsi di un’ingiustizia reale, o dopo aver detto al re: – Tu
hai fatto male, – non restava meno suddito fedele, che figlio affezionato[47]!
Oh!
allora era bello il pronunziare la sacra parola di patria, perciocché la patria
era veramente custode della felicità d’ognuno, e l’esistenza era dolce nel suo
seno; allora c’era sostegno per il debole, gloria per il forte, giustizia per
tutti: allora la spagna era veramente libera e felice, perciocché la libertà e
la felicità sono una stessa cosa.
Allora,
aprendo ogni giorno il seno di questa terra feconda, lo spagnuolo poteva dire
con orgoglio:
-
E’ per me che queste messi si maturano, per me, che queste vigne si coprono di
grappoli dorati…per meglio dire per tutti, poiché la Spagna formava una grande
famiglia di fratelli. -
I
partigiani di Roma, insaziabili vampiri, non erano ancor venuti nella notte a
suggere il sangue generoso di coloro che dormivano, affinché nel dì seguente
non si trovassero che cadaveri senza forza…
Allora
quei medesimi che facevano la guerra erano magnanimi e valenti, e si poteva
esser sicuri del proprio nemico come dell’amico più tenero[48].
“Oh!”
proseguì abbassando la voce, poiché la notte era surta, ed un fremito glaciale
era corso in tutti i suoi nervi; “oh1, perché su questo fertile suolo, coperto
di ricchezza dalla mano generosa dell’Eterno, perché quei volti grami e sinistri!
Qual lugubre sudario involge la testa reale di quella regina schiava ed
oppressa? Quali sono queste mani avide, dalle unghie di avvoltoio che prendono
le sue mammelle per seccarle e per lacerarle?… il suo pallore è profondo, la
sua debolezza completa, le sue carni rilassate come quelle d’un agonizzante…la
sua voce, sì piena e sì forte, non manda più che ad intervalli un prolungato
grido d’agonia, interrotto dai canti sinistri, rauchi come lo stridere della
sega sul ferro, affliggenti come il rumor del martello che chiude una tomba.
“Spagna!
Spagna! Che sei divenuta? Qual verme divoratore ti ha così ferita nel cuore, ed
ha cangiato la tua potente energia in una atonia mortale?… Coraggio! Non odi tu
risuonar da lungi la voce dei tuoi trionfi? Tu stendi ad un tempo il tuo
dominio sulle quattro parti del globo…un re conquistatore è assiso sul trono,
ove vegliano eternamente i tuoi temuti leoni, e la voce della fama va ovunque
ripetendo questi due magici nomi: – Spagna! Carlo V! –
Sì!
Io ti odo rispondermi con voce lamentevole:
–
Il re fa tutto per la sua gloria, nulla per la sua patria! E mentre il mondo
corona Carlo V, io rimango schiava ed oppressa, e la mia voce si perde senz’eco
nell’immenso deserto dell’egoismo reale!… quando io, affannosa ed abbattuta, avida
di un istante di riposo, grido: Gloria! Libertà! Filosofia! Mi risponde:
Conquiste! Ricchezze! Dispotismo!
L’ignoranza
ha coperto la mia fronte di tenebre, e la sola luce che si lascia arrivare sino
a me, è quella dei roghi che divorano le mie viscere[49]. – Pertanto son chiamata grande perché
in lontani paesi ho guerrieri che regnano in mio nome, e perché la mia bandiera
sventola sui mari dei due mondi; son
chiamata forte perché sono paziente e tranquilla, e perché si ha cura di
gettare ogni giorno sulle mie ferite che gemon sangue, un manto d’orgoglio e di
menzogna per coprirle…poiché si estinguono sotto la tortura i miei lunghi ed
angosciosi lamenti.
–
Oh! Vivere, vivere e respirare un sol giorno l’aere puro delle libertà! Vivere
e proceder sola nella mia forza verso l’avvenire! –
Così
parla la Spagna alquanto rianimata; ma al rumore della sua lamentevole voce io
vedo i vampiri avanzarsi nell’ombra; spingerla di nuovo nella sua tomba umida,
orridamente accosciati sul magro suo petto aprire coi loro denti le vene dove
alcune goccie di sangue circolano ancora… Oh! Pietà per essa…non terminate di
spegnere la sua ultima scintilla di vita! Lasciatela tornare un momento
all’esistenza…lasciatele il tempo di riparare tutto il sangue che ha perduto!…
Ma
no… i vampiri non hanno pietà, la loro vittima, spossata e morente, ha perduto
eziandio quell’ultimo soffio, quell’apparenza di vita che le davano le vittorie
di Carlo V. Uno spettro del re succede al re conquistatore. Questo spettro
regna nella notte e nel nulla…i vampiri, suoi fidi satelliti, si schierano in
ordine attorno a lui, e colle loro scarne mani terminano di spingere nella
tomba il cadavere della Spagna.
E
la Spagna, stanca della lotta, si raccoglie in un riposo che somiglia alla morte…
Si è gettato nuovamente su di lei il sudario che separa dalla vita; e sul suo
corpo, assiderato e quasi insensibile, si agitano nel torpore della loro vita
claustrale tutti i membri di Roma… Su quel cadavere inerte si versa sangue…
sangue a torrenti; ed ogni giorno migliaia di roghi divorano qualche frammento
di quel cadavere immobile…
Il
cadavere diviene scheletro… Pertanto tutto non è ancor detto!…La cenere, la
cenere feconda può ancora rianimarsi…qual luce benefica e lontana brilla ad un
tratto su di lei?…la polvere si risveglia e ritorna uomo…la Spagna no era che
addormentata…
Ma,
ohimé1 quel lungo sonno durerà forse dei secoli, e noi non vedremo i bei giorni
che devono sorgere per la patria…per noi v’è l’esilio, l’esilio dal pane amaro,
e la lotta, la lotta eterna…perciocché quelli che allora non saranno più,
avranno pur fatto la loro parte di questa grand’opera…essi pure avranno aiutato
alla rigenerazione…”
Dolores
cessò di parlare; dalla sua fronte colava il sudore, e tutto il suo corpo,
agitato da un tremito convulsivo, sembrava pronto a venir meno; chiuse gli
occhi e si lasciò cadere ai piedi di Estevan.
Egli
la prese fra le braccia, si assise e, postala sulle sue ginocchia, appoggiò sul
suo petto la bella testa di Dolores…
E
la giovane, stanca di mozione e per fatica, s’addormentò sul seno di colui che
amava.
In
quel momento si entrava in alto mare: il vento più fresco gonfiò con nuova
forza le vele del naviglio. La luna, mostrando nel cielo la sua faccia
argentina, illuminò con dolce riflesso il bel viso di Dolores.
Silenzio
solenne e religioso regnava in quella vasta solitudine dell’oceano, ed il
vascello scorrendo sull’acqua come rapido strale, portava gli esuli verso
quella terra lontana, ove già brillava l’aura della libertà.
________________________
LI.
Distruzione
del Sant’Uffizio.
Ora
ci sia permesso domandare al lettore se è buono e saggio pensiero quello che ci
ha guidati nella redazione di questo libro. E’ esso una satira ingiuriosa e di
mala fede lanciata contro l’Inquisizione, od è un racconto fedele,
un’esposizione imparziale dei fatti avvenuti in quell’epoca memorabile e
sanguinosa?
Oh!
È pure una storia terribile! Quei drammi interessanti, le cui varie
circostanze, rigorosamente conformi alla realtà, sorpassano di gran lunga tutti
i sogni della immaginazione! Quanti tenebrosi e spaventevoli misteri! Quanti
obbrobri e sacrilegii! Quanta vergogna e quanto sangue.
Questa
storia ci ha iniziati completamente ai costumi vergognosi, ai disordini infami
degli alti dignitari del Sant’Uffizio, al fanatismo stupido e barbaro dei
subalterni, agli orribili supplizi che i genio infernale e l’ascetismo feroce
dei monaci sapevano immaginare. Quei supplizi producevano troppo buoni
risultati a vantaggio degli insaziabili monaci, perché essi consentissero a rinunziarvi.
Quante confessioni strappate in tal guisa alla sofferenza! Quante ricchezze e
potenze estorte legalmente! Quante confessioni immaginarie dettate dal terrore!
Quante bugiarde rivelazioni a profitto della politica e degli odii
inquisitoriale! Quante vittime immolate per l’edificazione del mondo cristiano,
per la propagazione della fede cattolica e per maggior gloria di Dio!
E
potrebbe credersi che tali obbrobri siansi perpetuati per molti secoli? Fu il 4
dicembre 1808 che Napoleone, approfittando dei suoi diritti di conquistatore,
decretò a Chamartin, villaggio vicino a Madrid, la soppressione dei tribunali
del Sant’Uffizio, come ostili alla sovranità. Quando Giuseppe fu riconosciuto
re di Spagna, tutti i processi criminali, ad eccezione di quelli che potevano
appartenere alla storia per importanza e celebrità, o per la qualità delle
persone, furono arsi per suo ordine; ma si conservarono intieramente i registri
delle deliberazioni del Consiglio, le ordinanze reali, le bolle ed i brevi di
Roma, gli affari relativi al tribunale, e tutte le informazioni relative alla
genealogia degl’impiegati del Sant’Uffizio.
Quasi
tutti gli stabilimenti appartenenti all’inquisizione furono, in quell’epoca, demoliti
senza contrasto e senza sparger sangue.
Per
citare un esempio, lasceremo parlare il colonnello polacco Lamanuski,
incaricato dal maresciallo Soult di distruggere l’Inquisizione a Madrid.
“Essendo, nel 1809, a Madrid, la mia attenzione si portò sul palazzo
del Sant’Uffizio. Napoleone aveva già pubblicato un editto per la soppressione
di questa istituzione dovunque giungevano le sue armi vittoriose. Rammemorai
questo decreto al maresciallo Soult, allora governatore; in conseguenza di che
mi ordinò di mettermi in istato di distruggere l’Inquisizione. Gli feci osservare
che il mio reggimento era insufficiente per un tal servizio, ma gli dissi che,
se ve ne aggiungeva due altri, l’avrei intrapreso. Egli approvò la mia domanda.
Uno di questi reggimenti era sotto gli ordini del colonnello di Lilla.
con queste truppe mi misi in cammino verso l’Inquisizione. La fabbrica era
circondata da un muro fortissimo e guardato da circa quattrocento soldati.
giunto sotto le mura, m’indirizzai ad una delle sentinelle, ed intimai ai Padri
d’arrendersi all’esercito imperiale ed aprire le porte dell’Inquisizione. La
sentinella, che stava in piedi sul muro parve trattenersi pochi istanti con qualcheduno
nell’interno, dopo di che fece fuoco su di noi, ed uccise uno dei miei uomini.
Fu questo il segnale d’attacco ed ordinai alle mie truppe di far fuoco su
quelli che comparissero sul muro. Divenne bentosto evidente che il combattimento
era ineguale.
Le mura dell’Inquisizione erano coperte di soldati del Sant’Uffizio:
v’era pure un parapetto sul muro, dietro cui si nascondeano, non uscendo che in
parte mentre scaricavano i loro fucili. Le nostre truppe erano in una pianura
aperta ed esposte ad un fuoco micidiale: non avevamo neppure un pezzo
d’artiglieria, non potevamo nemmeno scalar le mura, e le porte resistevano con
successo a tutti i nostri sforzi per isfondarle. Vidi che era necessario di
cambiare modo d’attacco, e feci tagliare degli alberi che, portati sul luogo
stesso, dovevano servire a guisa d’ariete.
Due di queste macchine furono messe nelle mani di tanti uomini quanti
erano necessari per lavorare con vantaggio, ed incominciarono a dare grandi
colpi raddoppiati contro il muro senza curarsi della grandine di palle che
vedeasi piovere su di essi. Bentosto le mura cominciarono a tremare, e sotto
gli sforzi perseveranti e ben diretti dell’ariete fu fatta una breccia, e le
truppe imperiali si slanciarono nell’Inquisizione.
Qui noi avemmo un saggio di ciò che può essere la sfacciataggine
gesuitica. L’inquisitor generale ed i Padri confessori, coi loro abiti
sacerdotali, uscirono dai loro ritiri mentre noi ci aprivamo una via
nell’interno dell’Inquisizione: e con visi allungati e le braccia incrociate
sul petto, come se, nulla avendo udito del rumore cagionato dall’attacco e
dalla difesa, venissero a domandare ciò che accadeva, si indirizzarono con
accento di rimprovero ai loro soldati, dicendo: “Perché vi battete con i
Francesi, nostri amici?”
Pareva che la loro intenzione fosse di farci credere non aver essi in
alcun modo autorizzato la difesa, nella speranza, persuadendoci che erano
nostri amici, di poter profittare più agevolmente della confusione e del
saccheggio dell’Inquisizione per fuggirsene. Li feci guardare a vista, e tutti
i soldati dell’Inquisizione furono fatti prigionieri. Cominciammo allora ad
esaminare quella prigione d’inferno. Traversammo camere dopo camere: trovammo
altari, crocifissi e ceri in abbondanza, ma non potemmo scoprire alcuna traccia
dell’iniquità che dovevano esercitarvi in quel luogo, nessuna di quelle cose
straordinarie che ci attendevamo di trovare in un palazzo dell’Inquisizione. Vi
si vedeva la bellezza, lo splendore, l’ordine più perfetto. L’architettura, le
proporzioni, tutto era ammirabile. I soffitti ed i pavimenti erano lucidi e
puliti. L’impiantito di marmo era di un gusto squisito. Vi si trovava tutto ciò
che può piacere all’occhio e ad uno spirito coltivato, ma dov’erano
quegl’istrumenti di tortura di cui c’era stato parlato? Dov’erano quelle torri
in cui dicevasi esservi uomini seppelliti vivi? Noi le cercavamo invano. I
santi Padri ci assicuravano d’essere stati calunniati, e che noi avevamo veduto
tutto.
Io mi preparava ad abbandonare le mie ricerche, lasciandomi persuadere
che quest’Inquisizione fosse diversa da quelle delle quali c’era stato parlato,
ma il colonnello di Lilla, non potendo rinunziare sì facilmente a tali
ricerche, mi disse: - Colonnello, voi oggi comandate, e tutto quello che
ordinate devesi fare: ma se volete seguire il mio consiglio, fate prima
esaminare questo impiantito di marmo, fateci versar sopra dell’acqua, e vedremo
se siavi qualche punto nel quale scoli più agevolmente.- Gli risposi: -
Colonnello, fate come vi piace.- E feci portare dell’acqua.
Le lastre di marmo erano grandi e superbamente pulite. Gettandovi sopra
dell’acqua, con grande malcontento degl’inquisitori, esaminammo accuratamente
tutte le fessure per vedere se l’acqua vi s’infiltrava. Poco dopo il colonnello
di Lilla gridò che aveva trovato quello che cercava. Al lato di una di quelle
lastre di marmo l’acqua scolava molto presto, come se al di sotto vi fosse un
vuoto. Tutte le mani allora si posero all’opera per fare maggiori scoperte; gli
ufficiali colle loro spade ed i soldati colle loro bajonnette cercavano di
sollevare la lastra. Altri la percossero, a colpi raddoppiati, coi calci dei
loro fucili, procurando di romperla, mentre i sacerdoti esclamavano contro la
profanazione della loro bella e santa casa. Tutto ad un tratto un soldato batté
una molla col calcio del fucile, e la lastra si alzò; allora i volti
degl’inquisitori divennero pallidi,e, simile a Baltazar quando la mano
scrivente apparve sul muro, quegli uomini di Belial cominciarono a tremare in
tutte le loro membra.
Guardammo sotto la lastra fatale, che era alquanto sollevata, e vedemmo
una scala. Mi avvicinai alla tavola, e presi da uno dei candelabri un cero di
quattro piedi di lunghezza che ardeva, affine di esplorare la nostra scoperta.
Mentre io me ne impadroniva, fui fermato da uno degl’inquisitori, il quale,
ponendo dolcemente la mano sul mio braccio, mi disse con sembiante devoto: -
Figlio mio, questo è sacro, voi non lo potete toccare colle vostre mani
insanguinate. – Bene, gli risposi, - ho bisogno d’un lume sacro per
scandagliare l’iniquità. Ne prendo la responsabilità su me stesso. – Presi il
cero, discesi la scala, e scoprii allora perché l’acqua ci avesse scoperto il
passaggio. Sotto l’impiantito v’era un soffitto ben congiunto, eccettuato là
dove trovatasi la botola. Da ciò il successo dell’espediente del colonnello di
Lilla.
Giunti appié della scala entrammo in una gran sala quadrata, chiamata sala del giudizio. Nel mezzo trovatasi un grosso ceppo, a cui era
fissata una seggiola, ivi tenevano l’accusato legato al suo seggio. Da un lato
della camera era un altro seggio elevato, chiamato trono del giudizio. Questo
era occupato dall’inquisitore generale. Tutto attorno eranvi seggi meno elevati
per i padri, quando trattatavasi d’affari della santa Inquisizione. Da questa
sala passammo a destra, e trovammo delle piccole celle che si estendevano per
tutta la lunghezza dell’edificio; ma quale spettacolo si offrì al nostr’occhio!
Quelle celle servivano di celle solitarie, ove le infelici vittime dell’odio
inquisitoriale erano rinchiuse finché la morte venisse a liberarle dai loro
carnefici. Vi si lasciavano i loro corpi fino alla decomposizione, e le carceri
erano allora occupate da altri. Affinché ciò non incomodasse gl’inquisitori,
v’erano dei tubi assai grandi per trasportare l’esalazione infetta dei
cadaveri.
In quelle celle trovammo i residui di alcuni uomini che erano morti da
poco tempo, mentre in altre non si trovavano che scheletri incatenati al palco.
In alcune trovammo vittime viventi d’ogni età e d’ambo i sessi, dal giovane
alla fanciulla a’ vecchi di settant’anni, tutti spogliati intieramente dei loro
abiti.
I nostri soldati si occuparono immediatamente a sciogliere quei
prigionieri dalle loro catene, e si tolsero una parte dei loro abiti per
coprire quelle infelici creature: essi desideravano vivamente di condurle alla
luce del giorno, ma riconoscendo il pericolo che v’era in far ciò, mi vi opposi,
ed insistei perché si desse loro primieramente quello di cui potevano aver
bisogno, e perché non si facesse veder loro la luce che in una maniera molto graduata.
Avendo visitate tutte quelle celle, ed aperte le porte delle prigioni a color
che ancor vivevano, andammo a visitare un’altra camera a sinistra, dove
trovammo tutti gli strumenti di tortura che il genio degli uomini, o dei demoni,
ha potuto inventare.
Alla loro vista il furore dei nostri soldati non poté più contenersi;
gridarono che ciascuno degl’inquisitori, monaci e soldati dello stabilimento
meritava d’esser messo alla tortura. Noi non tentammo di trattenerli. Incominciarono
immediatamente ad applicare la tortura sulla persona dei Padri. Vidi agire
quattro specie differenti di tortura, poi mi ritirai da quell’orribile
spettacolo, che durò fintanto che vi fu un solo individuo abitante
quell’anticamera dell’inferno, sul quale potessero i soldati esercitare la loro
vendetta.
Appena le povere vittime uscita dalle celle dell’Inquisizione poterono
essere, senza pericolo, ricondotte dalla loro prigione alla luce del giorno
(erasi sparsa la notizia che un gran numero d’infelici erano stati salvati),
videsi giungere tutti coloro a cui il Santo Uffizio aveva strappato degli
amici; venivano a vedere se v’era qualche speranza di trovarli in vita. Oh!,
quale incontro fu quello! Cento persone circa, che erano state seppellite per
molti anni, venivano rese alla società dei loro simili; molti trovarono qua un
figlio, là un figlia: qua una sorella, là un fratello. Alcuni; ohimé!, non
ritrovarono i loro amici. È impossibile descrivere una tal scena!
Volendo terminare l’opera incominciata, mi recai a Madrid, ed ottenni
una grande quantità di polvere, che posi sotto l’edifizio e nei suoi
sotterranei. Migliaia di spettatori stavano attenti a veder mettere il fuoco.
Le mura e le torri dell’orgoglioso edifizio saltarono in pezzi. L’Inquisizione
a Madrid non esiteva più.”
La soppressione dei
tribunali dell’Inquisizione era stata nuovamente pronunciata il 12 febbraio 1813
dalle Cortes generali straordinarie di Spagna, come incompatibili colla nuova
costituzione politica della monarchia: ma il 21 luglio 1814 furono ristabiliti
per ordine di Ferdinando VII, rientrato in Spagna in conseguenza del trattato
di Valencay. Francesco Miere Campillo, vescovo d’Almeria, fu il decimoquinto
inquisitore generale, nominato dal medesimo re. Nelle ordinanze di questo nuovo
inquisitore trovansi delle massime tanto contrarie ai veri interessi dello
Stato, quanto a quelli della religione, e benché la tortura dovesse essere
abolita in quell’epoca per forza delle circostanze, nei tribunali
dell’Inquisizione la si vide rinascere nel 1813 con un atto-di-fede per cagione
dell’eresia. Giuseppe Mario Morellos fu una delle ultime vittime.
L’Inquisizione non fu
definitivamente abolita in Ispagna che nel 1821. Oggi essa non esiste più: e
grazie ai progressi dell’umana ragione, si teneterebbe indarno di ricostruire
questo sanguinoso edifizio dei tempi passati. Tuttavolta gl’inquisitori hanno
lasciati numerosi successori delle loro mostruose dottrine, preti fanatici,
avidi com’essi di ricchezze e di dominio, audaci soldati della fede, ardenti
famigliari della Santa Sede, fieri giannizzeri del papa, che vogliono tutto
governare ed invadere in nome della religione, astuti casisti che trovano scuse
per tutti i delitti, professando l’abominevole massima che il fine giustifica i mezzi,
e che, decisi ad osar tutto, si avanzeranno senza mai indietreggiare alla
conquista dell’assoluta possanza per fas e per nefas.
Questi perigliosi
eredi della Inquisizione hanno, come essa, numerosi ed influenti aiuti; formano
in tal guisa una vasta società sparsa su tutto il globo, che può disporre
d’immense risorse, che agisce ora col terrore, ora colla seduzione, ora colla
forza, ora col denaro; che ubbidisce alla volontà di un solo servilmente e
macchinalmente, come un cadavere (perinde ac cadaver)
e cammina tutta verso il medesimo scopo come un sol uomo. Questa società rialza
la testa con arroganza pronta a strappare il potere dalle mani dei deboli che
non san custodirlo; è dessa che ha per tanto tempo turbato, desolato gli Stati,
dividendo per regnare; seminando la discordia e l’anarchia per raccogliere il
dominio; è dessa che, anco adesso lacera l’Italia, minaccia la Prussia, fa
schiavo il Belgio, ha fatto versare tanto sangue a Lucerna, e si mantiene
liberamente in Francia malgrado le leggi d’espulsione che vengono a frangersi
ai suoi piedi. Stiamo in guardia, e non ci stanchiamo di resistere, poiché
questi fanatici settari non si stancheranno di combattere, e non si riposeranno
nella vittoria che quando avranno assolutamente riconquistata la sovranità
spirituale e temporale come al tempo dell’Inquisizione!
FINE DEL VOLUME QUARTO ED
ULTIMO.
Commento postumo del trascrittore.
E’
stata per me un’autentica scoperta questo libro, ed un vero piacere il lavoro
per trascriverlo. Ciò mi ha permesso di assimilarlo a lungo e vagliarlo
attentamente.
Invero,
di storie sull’Inquisizione se ne conoscono tante, più o meno credibili, più o
meno gonfiate da aggiunte fantasiose da imprecisioni e anche da malafede.
Io
non sono e non sarò mai uno storico, ed il mio è semplicemente un parere “tecnico”
o “clinico” se preferite, ma riterrei proprio che l’autore di questo prezioso
volume, probabilmente non scevro del tutto da una qualche influenza di impulso
riformista, amante grande e sincero del proprio popolo e della propria nazione,
abbia voluto rendere un quadro assai fedele e documentato di cose che molti
altri, invece, anche nell’era odierna, cercano di sfumare in ogni modo per
tentare nascondere qualcosa che essi stessi, forse, non riescono nemmeno a
riconoscere come un possibile prodotto figliale del loro comune spirito.
E’
stata, per me, anche una grande soddisfazione, dopo l’avvenuta stesura e pubblicazione
del mio libro, il Canto della Sorgente,
lo scoprire che due secoli prima già qualcuno, che, a differenza mia, aveva a
disposizione ben più diretti mezzi documentali, ha fatto praticamente le stesse
considerazioni e mosso gli stessi rilievi verso quella genia spiritualmente
immutabile, particolare che è l’obiettivo conoscitivo e difficile di cui
trattano questi due lavori, assai simili e generalmente concordi fra loro
malgrado i secoli che li separano ed il diverso metodo espositivo. Non saranno
infatti sfuggiti al lettore i numerosi dialoghi di genuina dottrina cristiana
intessuti ovunque nella trama di questo romanzo e puntualmente contrapposti, in
confronto, al falso modo di intendere e praticare il Messaggio evangelico proprio
del clero di Spagna e dalla grande e scadente massa, seppur numerosa e forte,
di tutti i suoi accoliti.
Visti
i risultati odierni, oserei affermare che De Fréréal ha guardato avanti con
sguardo profetico e cattolico, mentre convengo pienamente con lui nel ritenere
che la radice sommersa di questo male oscuro dell’umanità sia oggi
tutt’altro che estinta[50]. Io ritengo anzi che sia sul punto di
maturare il suo frutto più grande, tristo ed ingannevole (avendo mutato
drasticamente la propria forma esteriore, ma non avendo rinunziato in nulla
alla propria intenzione fondamentale), prima di venire sradicata per sempre.
Certo,
non sarà un giudizio o un castigo umano ad operare questa purificazione indispensabile
dell’umanità (e come potrebbe…), ma l’eterna sapienza e giustizia di Dio a cui
ogni vero cristiano e figlio suo si affida ora e per sempre. A noi spetta
tuttavia il dovere di sapere, di prevedere,
di avere coscienza esatta e piena, per non essere travolti da eventi inaspettatamente
più grandi del nostro limite di intelligenza delle cose.
E’
poi da notare un fatto particolare. L’accusa di voler dominare il mondo, che
l’autore di Misteri dell’Inquisizione rivolge esplicitamente al clero
romano in questi volumi, e nella parte finale specialmente, viene praticamente
ripresa e rivoltata, meno di un secolo dopo da un libro comparso nell’anno 1905
in tutt’altra parte del globo, cioè in Russia. Sto parlando dei Protocolli dei savi anziani di Sion
che, stranamente, dimostrerebbero come siano i Giudei a voler occultamente dominare
il mondo e non più i figli di Roma. Così, anche, vengono designati i capri
espiatori; ed infatti Hitler farà di questo libro uno dei suoi vangeli, a
motivare lo sterminio di quel popolo.
Le
tesi avanzate in questi protocolli, che gli studiosi di oggi ritengono essere
un falso, apparirebbero in seguito riprese completamente in alcuni editoriali
dei Gesuiti[51]: ad es., La Civiltà Cattolica, Roma, 12 ottobre 1922, LXXIII, vol. IV,
quad. 1736, pp. 111-121 - La Civiltà Cattolica, Roma, 2 aprile 1938,
a. 89, vol. II, quad. 2107, pp. 76-82. per
rientrare, apparentemente, solo dopo la promulgazione delle leggi razziali in
Italia … cioè ad esito avvenuto cfr.: LA CIVILTÀ CATTOLICA, anno 89 -
Vol. IV, 1° ottobre 1938, quad. 2119.
La
“cantilena”, a quanto pare è sempre la stessa, sia che provenga dalla Spagna
sotto la sferza dell’Inquisizione, sia che appaia in Russia, sia che venga
dall’indottrinamento romano, sia dalle apparizioni mariane. Un odio totale
contro i figli di Dio, a cominciare da quelli che lo sono per genetica diretta
e per scelta dello stesso Dio, un odio omicida, brutale e cieco pari a quello
di Caino per Abele che viene da un solo spirito già maledetto in eterno ed al
quale è meglio non appartenere in nessun risvolto e a nessuna condizione.
Questi
sono solo collegamenti logici personali che il trascrittore fa, in base alla propria
esperienza, di elementi che sono casualmente
pervenuti nelle sue mani e come tali vengono, dopo analisi, esposti. Ad
ognuno dunque spetta il compito di sviluppare giustamente la propria coscienza
della realtà, ma senza mai assumere toni assoluti in quanto la giustizia di
tale coscienza, ove raggiunta, deve bastare a sé stessa; al resto provvederà
certamente Colui che, onnipotente, conosce precisamente ogni verità ed ogni
cosa nascosta.
[1] Di tutti i mezzi che il clero ed i monaci di Spagna hanno adoperato contro i Francesi durante la guerra dell’indipendenza, il più sicuro è stato sempre la confessione. Il confessionale è stato sempre per i preti e per i monaci un’arte di perfidia, di un mezzo ad eccitare le passioni del popolo. Anco ai nostri giorni il confessionale è quello che si oppone maggiormente al progresso della ragione e dei lumi. A un sermone, a uno scritto, a un discorso si può rispondere con altro sermone, con altro scritto, con altro discorso. Ma che si risponderà a tutte le tenebrose insinuazioni elaborate e sparse con tanta profusione nei cinquecentomila confessionali d’Europa?…
[2] Ho già detto che la Garduna aveva un capo a cui ubbidivano tutti i capi di provincia. Questi erano ugualmente ubbiditi dai capi di distretto. La Garduna era organizzata molto meglio di qualunque altra amministrazione di quell’epoca, e sì bene organizzata, che distrutta in Spagna nel 1822, è andata a riorganizzarsi nell’America Meridionale, dove ora esiste. Al Brasile, nella Colombia, nella repubblica Argentina, al Perù, all’Avana ed al Messico si può far assassinare un uomo con alcuni dollari. Solamente, i Garduni d’oltremare sono mulatti e neri liberati, invece di essere gitani o moreschi.
[3] San Matteo.
[4] Massime dei monaci durante le dispute del cattolicismo e del protestantismo. (Meiners, Storia della Riforma).
[5] I carbonai della città in cui era il tribunale inquisitoriale avevano il diritto di far parte del corteggio che formava le processioni negli atti-di-fede, ma questo diritto imponeva loro un dovere, cioè di fornire gratis tutta la legna necessaria per l’atto-di-fede. Si vede che la santa Inquisizione sapeva fare i suoi affari.
[6] Il vestimento dei Domenicani, che molti han confuso con quello dei Carmelitani e dei Trinitari, era simile a quello di tali Ordini; vale a dire tonaca bianca, scapolare e mantello neri, cappuccio rotondo e nero, foderato di bianco; nondimeno i Domenicani si distinguevano per la croce che molti di questi ordini portavano sui loro scapolari. Questa croce è di seta bianca e rossa per i Trinitari; rossa e bianca, cioè il tronco rosso e i bracci bianchi, per i monaci della Mercede, e bianca per i Domenicani; i Carmelitani non avevano croce.
[7] Non bastava all’Inquisizione l’abbrutire il popolo, ridurlo alla mendicità, farne un gregge di schiavi; voleva renderlo infame. Per riuscirvi l’Inquisizione cominciò dal parlare e dall’agire in nome d’Iddio, poi volle che ogni cittadino divenisse una spia; ma gli spagnuoli ricusarono di avvilirsi a tal punto; amavano meglio lasciarsi bruciare come eretici, che accettare l’ignobile parte di delatore. Allora l’Inquisizione, sempre feconda in espedienti quando trattatasi di fare del male, trovò il mezzo di nobilitare e di santificare la delazione. Fece accordare dai papi molte indulgenze a coloro che avessero la virtù, di denunziare al Santo Uffizio i nemici della fede; l’indulgenza plenaria ed anco il cielo erano offerti a chiunque fosse tanto buon cristiano da denunziare il proprio parente, il figlio, il fratello ed anche il padre e la madre, oltracciò l’Inquisizione domandò ai re, che non osarono rifiutare, privilegi ed onori per i loro famigliari. Così Carlo V esentò da ogni carica municipale e da ogni tributo od imposta chiunque avesse denunziato dieci eretici o si facesse arrolare nella milizia di Cristo, finalmente giunse un tempo in cui un gran signore sarebbe stato considerato come sospetto se direttamente o indirettamente non fosse appartenuto all’Inquisizione. Questa spinse tant’oltre la propria audacia, che domandò ed ottenne per la casa di Medina-Cœli da papa Adriano l’onorevole titolo di porta-stendardo della fede, ed il privilegio di portar questo stendardo sinistro negli atti-di-fede solenni, cioè in quelli a cui assisteva il re. La casa di Medina-Cœli era ed è anche oggi quella che più si avvicina al trono; in mancanza di principi del sangue la corona verrebbe al primogenito dei Medina-Cœli.
[8] I soldati di Cristo, gli arcieri della Santa Hermendad e alcuni grandi signori che per fanatismo o per paura eransi dedicati all’Inquisizione, costituivano quello che l’autore chiama famigliari affezionati; venivano poi gli sgherri, che si occupavano poco di denunziare, ma che arrestavano spietatamente quelli che l’Inquisizione ordinava loro di arrestare.
[9] Il lettore sa che ogni persona la quale era condannata a portare il sanbenito rimaneva eternamente inetta ad ogni impiego civile e ad ogni ufficio pubblico, e che questa inettitudine si estendeva a tutta la posterità.
[10] Coloro che l’Inquisizione puniva leggermente e condannava a portare il sanbenito erano, dopo l’atto-di-fede, condotti in una casa o in un convento ove si pretendeva d’istruirli affine di fortificare la loro fede, ed alcuni mesi dopo si rendeva loro la libertà, dopo aver loro fatto giurare sul Vangelo di non rivelar mai né per iscritto, né con la parola, né col mezzo di figure, ciò che avevano visto nell’interno dell’Inquisizione. Non era così degl’infelici condannati alla frusta o alle galere. I primi rimanevano presso le prigioni del Sant’Uffizio, ove morivano; gli ultimi erano obliati generalmente nelle galere, ed ivi pure il sanbenito che portavano li rendeva l’oggetto del disprezzo dei loro compagni d’infortunio; perciocché, un assassino, un falsario, un miserabile che aveva meritato la corda, e che, grazie alla venalità d’uno scrivano, era andato alle galere, non avrebbe voluto associarsi con un insanbenitato.
[11] L’Inquisizione faceva bruciare le ossa di quelli che lasciava morire nelle carceri.
[12] San Matteo.
[13] Questa manovra del Bravo è la stessa che impiegavano gli Andalusiani per uccidere i corazzieri francesi durante la guerra d’indipendenza.
[14] Pietro Arbues è un personaggio perfettamente storico di cui parleremo lungamente quando ci porgerà il destro, le sue crudeltà han fatto sollevare il popolo contro di lui per varie volte. Temendo d’essere assassinato, portava in fatti un giaco di maglia sotto la sua veste ed una specie di casco di ferro sotto il suo berretto. (Storia dell’Inquisizione, parteIII, cap.12.)
[15] Il giorno precedente all’atto-di-fede, una processione composta di carbonai, di domenicani e di famigliari partiva dalla chiesa dell’Inquisizione, e si recava sulla piazza dove il giorno successivo doveva compiersi la cerimonia; ivi giunta, si avvicinava ad un altare, eretto perché i monaci potessero dirvi delle messe per l’anima di coloro che si stava per dare alle fiamme; e alla sinistra dell’altare piantatasi una croce verde, circondata da un velo nero. Questa croce era un segno che indicava ai passeggeri il lutto della Chiesa per la perdita delle anime degli eretici ostinati. Una volta piantata la croce, la processione, meno i Domenicani, tornava indietro. I monaci passavano la notte sulla piazza a dir salmi e messe.
[16] Alcuni storici, e fra questi Edgardo Quinet, pretendono che gl’inquisitori fossero piuttosto fanatici, che perversi. Questo giudizio fa l’elogio del cuore delle persone che l’hanno emesso, ma per me, che sono nato in Spagna, e sono stato nel caso di conoscere bene i monaci e gl’inquisitori; per me, che mi sono nutrito della storia del mio paese, ed ho sfogliato le vecchie cronache, che ora niuno legge, la pietà che simulavano gl’inquisitori per le loro vittime, e le cure che sembravano prendere per l’anima di coloro che immolavano all’ambizione dei re e dell’insaziabile avarizia di Roma, non erano che un calcolo più iniquo, più crudele delle stesse loro crudeltà. Agendo così gettavano al pubblico la polvere negli occhi, e gl’impedivano di prendere in considerazione quegli sventurati che mandavano a morte. Gl’inquisitori ed i monaci spagnuoli sono stati infami ed ipocriti, non già fanatici. I fanatici hanno generalmente costumi puri; ora sono mai esistiti al mondo esseri più lussuriosi, più sozzi, più corrotti degl’inquisitori, dei monaci di Spagna e del clero romano?….
[17] L’autore fa allusione a Boabdil el Chico, ultimo re moro di Granata, nel momento in cui quel re si fermò sopra una collina in faccia alla città, e versò lacrime, di che lo rimpocchiò la madre con queste parole: “Piangi come donna il bene che non hai saputo difendere come uomo?” Il luogo dove pianse Boabdil si chiama anche oggi l’ultimo sospiro del Moro.
[18] Il frammento di sermone che l’autore fa pronunziare ad un monaco Domenicano in quest’atto-di-fede, sembrerà strano ai lettori, tanto è ridicolo e sconveniente. Tuttavia i monaci dicevano cose ancor più ridicole e più sconvenienti in certe solennissime circostanze, in cui la gravità, la scienza e sopratutto il buon senso avrebbero dovuto esser di rigore. Così nel 1546, nella prima seduta del Concilio di Trento, il vescovo di Bitonto, per provare la necessità dei Concilii narrava che molti Concilii avevano scacciati re ed imperatori. “Nell’Eneide,” diceva sua Grandezza, “Giove ha adunato il Concilio degli dei; nel momento della creazione dell’uomo e della costruzione della torre di Babele, Iddio diedesi all’opera dopo un Concilio.” Di che Sua Grandezza traeva questa conclusione: “Che tutti i prelati debbono recarsi a Trento come nel cavallo di Troja.” Finalmente a forma di perorazione Sua Grandezza aggiungeva: “Che la porta del Concilio e quella del paradiso erano la stessa cosa; che l’acqua viva ne sgorgava, e che i preti dovevano bagnarne il loro cuore come aride terre; senza di che lo Spirito Santo aprirebbe loro la bocca come a Balaamo e a Caifas. Questo vescovo di Bitonto, detto fra Cornelio Musso, era un monaco del Milanese. (Meiners, Storia della Riforma.)
[19] Così si chiamavano i capi tormentatori.
[20] La confessione d’Ausburg è una professione di fede che i protestanti di Germania fecero alla dieta d’Augusta che ebbe luogo il 15 giugno 1530. questa confessione fu difesa da Melantone, contemporaneo e discepolo di Martin Lutero.
[21] Nell’atto-di-fede che ebbe luogo a Vallaloid nel 1636, gl’inquisitori offrirono a Filippo IV, che vi assiteva con tutta la sua famiglia, un nuovo genere di supplizio, a cui costrinsero dieci Israeliti, consistente nell’inchiodar loro una mano sopra una gran croce di Sant’Andrea, ed a farla tenere in quello stato durante la lettura della sentenza che li condannava.
[22] L’Inquisizione non perseguitava solamente i secolari. Ogni ecclesiastico che non secondasse i suoi atti d’iniquità, o che si rifiutasse a propagandare le dottrine inquisitoriali, dottrine che tendevano tutte ad abbrutire la specie umana ed a spogliare i popoli a profitto di Roma, in una parola ogni ecclesiastico onesto, diveniva l’obbietto delle persecuzioni del Sant’Ufficio. L’Inquisizione ha fatto bruciar vivi centinaia di monaci e di monache, come si può leggere in tutti gli scritti che parlano di questa instituzione.
[23] Adriano Florencio e, dopo di lui, Alfonso Manriquez, hanno grandemente ingannato Carlo V intorno all’Inquisizione, del rimanente è a presumersi che tutti gl’inquisitori abbiano ingannato i re su tale argomento: altrimenti, come qualificare i sovrani che lasciano così decimare la Spagna, l’Italia, il Portogallo, l’India, l’America, e che lungi dall’opporvisi, come avrebbero potuto, aiutavano il Sant’Uffizio con tutta la loro possa? Nerone sarebbe stato un buon re paragonato a questi sovrani cattolici.
[24] Negli atti-di-fede l’inquisitor generale della provincia pronunziava l’assoluzione di tutti quei condannati che, avendo confessato, rientravano nel grembo della Chiesa, a questa sssoluzione però non teneva dietro il perdono; essa non serviva che a togliere la scomunica che colpiva ogni persona accusata d’eresia, e ad aprire le porte del cielo a quelli che morivano da buoni cattolici, vale a dire si strangolavano prima di darli alle fiamme.
[25] Abbiamo già detto che una donna erasi uccisa nelle carceri del Sant’Uffizio tagliandosi la gola colle sue cesoie. Questo suicidio non è il solo che abbia avuto luogo nelle carceri stesse. Molti infelici, per sfuggire all’infamia del sanbenito od alle torture, si rompevano il cranio contro le mura, altri si asfissiavano aspirando a grandi tratti i gas mefitici che esalavano dai vasi pieni d’escrementi ch’erano in ogni carcere, e che si mutavano ogni otto giorni.
[26] Leggesi in Llorente. “la grande quantità di condannati che si facevano morire bruciati, fu causa che il prefetto di Siviglia si vedesse nella necessità di far costruire, fuori della città un palco permanente di pietra, sul quale si elevarono quattro grandi statue di terracotta, vuote al di dentro. Nel vuoto medesimo si chiudevano vivi gli eretici, per farli morire lentamente col mezzo di una orribile combustione. Questo palco, chiamato Quemadero, esisteva ancora poco tempo fa. Che cosa potevasi aspettare da un tribunale che incomiciava così? (Storia dell’Inquisizione, parte III, cap. 1).” Il Quemadero di Siviglia fu costruito a cominciare dal secolo decimoquinto. Gli avanzi esistevano ancora nel 1823.
[27] “Il licenziato don Antonio Herrezuelo, avvocato della città di Toro, fu condannato come luterano, e morì sul rogo senza mostrare il minimo pentimento. Mentre rea condotto al supplizio, il dottor Cazzalla, altro condannato, gl’indirizzò alcune esortazioni, ma indarno. Antonio si burlò dei discorsi del dottore, anco dopo essersi veduto attaccare al palo, nel mezzo della legna che cominciava ad ardere. Uno degli arcieri dell’Inquisizione, infuriato nel veder tanto coraggio, immerse la sua lancia nel corpo di Herrezuelo, il cui sangue sgorgava ancora quando fu attaccato dalle fiamme.” (Storia dell’Inquisizione).
Don Antonio Herrezuelo morì, senza proferire lamento, nell’atto-di-fede che ebbe luogo a Valladolid, sotto gli occhi del principe Carlo e della pincipessa Giovanna. Nel medesimo atto-di-fede perirono il dottor Agostino Cazzalla de Vibero, prete e canonico di Salamanca, elemosiniere e predicatore di Carlo V, il qual dottore fu strangolato innanzi d’essere bruciato, Francesco Cazzalla, fratello del precedente, curato del villaggio d’Hormigos bruciato vivo, donna Beatrice de Vivero y Cazzalla, sorella dei due antecedenti, strangolata prima d’essere bruciata, Alfonso Perez prete di Palencja, dottore in teologia, degradato e strangolato innanzi d’essere arso, ed altre nove persone, niuna della quali aveva dommatizzato, e molte eransi convertite e domandavano di vivere da buoni cattolici. Ma l’Inquisizione amò meglio supporre che il loro pentimento avesse per cagione il timore della morte. Oltre le vittime condannate la rogo, molte altre furono riconciliate, cioè condannate a perdere i loro beni e la loro libertà (era il meno che pretendeva l’Inquisizione). Fra queste ultime distinguevasi due membri della famiglia d’Agostino Cazzalla, Giovanni Vibero Cazzalla, condannato come eretico, a portare il sanbenito perpetuo, e donna Costanza Vibero y Cazzalla, condannata alla stessa pena. Quest’ultima lasciò quattordici orfani!!!
[28] Si sa che la cambiale è stata immaginata dagli Ebrei, ma quello che forse non si sa è che fu in Ispagna che, per garantire le loro sostanze dall’avarizia di Ferdinando d’Aragona e dalla rapacità dell’Inquisizione, gl’Israeliti crearono la cambiale, col mezzo della quale eglino ed i Moreschi mandavano i loro capitali all’estero avanti di lasciare la Spagna. Così questa carta, la quale oggi è una delle cose che fanno maggiormente prosperare il commercio, facilitandone le operazioni, fu nel secolo decimosesto un istrumento di ruina per la Spagna, che, grazie all’insaziabile avarizia di Roma ed alla crudeltà con cui l’Inquisizione la secondava, vide passare la maggior parte delle sue ricchezze in Francia, in Germania ed in Olanda.
[29] Giovanni d’Avila rimase infatti cinque anni nelle carceri dell’Inquisizione, come vedremo più innanzi.
[30] Lo scopo dei crociati era l’estirpazione dell’eresia dovunque poteva raggiungerla. Essi formavano una confraternita, alla quale erano affigliate persone di tutte le condizioni, monaci, preti, vescovi, arcieri, cardinali, grandi signori, mendicanti, persone tutte piene di fanatismo. Questa confraternita aveva sua sede in Portogallo.
[31] L’Inquisizione non aveva solamente la tortura e le parole melate per strappare delle confessioni a coloro ch’essa voleva salvare dalle pene eterne; ma come la polizia dei nostri giorni aveva dei demoni tentatori i quali, sotto pretesto di consolare i prigionieri, li visitavano e cercavano di ottenere da essi dei segreti che andavano subito a comunicare all’Inquisizione. Questi agenti del Sant’uffizio si chiamavano probadores.
[32] Quando in rare occasioni l’Inquisizione aveva l’audacia di giudicare in pubblico, accadeva talvolta che un accusato aveva il coraggio di difendersi con energia e senza riguardi; in questo caso l’Inquisizione rimandava l’accusato nelle prigioni sotto pretesto che il tribunale aveva bisogno d’illuminarsi onde fare giustizia. Questo invio non era che una vendetta degna di Nerone; l’accusato che osava sfidare l’Inquisizione sfuggiva talvolta alle fiamme, ma si sottoponeva a tutte le torture, e terminava col morire nelle carceri colle membra rotte e l’anima piena di disperazione… Alcuni anni dopo la sua morte si terminava il suo processo, l’accusato era dichiarato colpevole d’eresia, e come si supponeva morto impenitente si dissotterrvano le sue ossa, e si bruciavano nel prossimo atto-di-fede: la sua memoria era colpita fino nella sua posterità, ed i suoi beni divenivano preda dell’Inquisizione. Llorente riporta più d’un esempio di questa iniqua maniera di procedere, quasi tutti coloro di cui si bruciavano le effigie e le ossa, erano già vittime di quel processo tutto inquisitoriale.
[33] San Giovanni d’Avila nacque nel 1504 ad Almodovar del Campo, piccola città della diocesi di Toledo, da perenti ricchi e assai considerati nel paese. Studiò dapprima il diritto civile e canonico all’università di Salamanca, secondando il desiderio dei suoi parenti, che lo destinavano all’avvocatura, ma la sua vocazione per il sacerdozio era irresistibile: Iddio lo chiamava alle alte funzioni di predicatore. I suoi parenti, non volendo contrariare le sue tendenze, vedendo svilupparsi in lui un uomo virtuoso, un ministro di Dio secondo il Vangelo, lo mandarono ad Alcalà d’Henares, ove studiò teologia con ardore.
Appena ebbe ricevuti gli ordini sacri, Giovanni d’Avila volle partire per le Indie Occidentali, ove diceva esservi ampia messe da raccogliere. Con questo scopo si recò a Siviglia, ove innanzi d’intraprendere il suo viaggio consultò Alfonso Manriquez, allora arcivescovo di quella città, e poscia inquisitore generale, che lo consigliò di rinunziare al suo progetto, e di dedicarsi alla predicazione. San Giovanni seguì questo consiglio, dopo aver lungo tempo lottato contro la sua propria modestia; ma appena ebbe incominciato a predicare, i suoi discorsi furono sì sublimi, le sue dottrine sì evangeliche, il suo linguaggio sì eloquente, la sua vita s’ santa, che Siviglia, e poco a poco tutta la Spagna, lo salutò con nome di Apostolo dell’Andalusia.
Ma né la santità della sua vita, né l’eloquenza della sua parola, né la purezza delle sue dottrine, poté difenderlo contro l’invidia degli altri monaci, che lo denunziarono all’Inquisizione. Questo tribunale qualificò d’eresia la tolleranza di Giovanni d’Avila; e siccome non volle mai nei suoi discorsi né maledire, né anatomizzare moreschi, ebrei, né eretici, l’Inquisizione lo mise in stato d’accusa, e lo perseguitò come scismatico. Finalmente, nonostante la protezione di Alfonso Manriquez, divenuto inquisitore generale, Giovanni d’Avila fu rinchiuso nelle prigioni del Sant’Uffizio nel 1528, e vi rimase fino al 1534, epoca in cui, grazie ad un difetto di forma, nel suo processo, fu messo in libertà nonostante l’accusa di luteranismo e d’illuminismo che gravava sopra di lui. Nell’accusarlo l’Inquisizione aveva trascurato di farne parte al Consiglio della Suprema. San Giovanni d’Avila morì a Montilla nel 1569, all’età di sessantacinque anni. Ha lasciato un gran numero di lettere dirette a San Giovanni di Dio, a fra Luigi di Granata e molti altri discepoli; queste lettere, sono altrettante epistole apostoliche. Ha scritto pure molti sermoni di cui un solo volume è stato stampato in Olanda nel 1617. Io ho letto questo volume alla biblioteca dei Gesuiti di Siviglia nel 1817. Ora più non esiste, avendolo bruciato la plebaglia nel 1823 sulla piazza maggiore, ad istigazione dei Domenicani, che han sempre chiamato eretico l’Apostolo dell’Andalusia.
[34] Quando un cittadino , accusato o solamente sospetto d’eresia lasciava la Spagna, tutti i suoi beni venivano immediatamente confiscati a profitto del re e dell’Inquisizione; ma poiché l’Inquisizione andava avanti al re, questi non aveva che il quarto dei beni confiscati. E’ vero che in questi furti giuridici, l’Inquisizione guadagnava la sua parte intentando un processo all’esule, facendo bruciare la sua effigie, e perseguitando tutti i suoi parenti ed eziandio i suoi amici.
[35] I garduni e, dopo la loro distruzione, i famosi banditi di Spagna, avevano ed hanno ancora in quasi tutte le città e nella maggior parte degli alberghi isolati sulle grandi strade, degli assicuratori, autorizzati a prendere una certa contribuzione sui viaggiatori, e a dar loro in cambio una parola d’ordine che li mette al coperto da ogni attentato in un raggio di tante leghe. Nel 1823 ogni viaggiatore che non voleva essere molestato da Madrid a Cadice, bastava che viaggiasse in una delle carrozze di Pedro Ruiz; solamente i posti si pagavano tre volte più che nella diligenza, di più il cinque per cento su tutti i valori che uno aveva seco. I ladri non attaccavano mai le carrozze di Pedro Ruiz. Nell’Estremadura, a Merida, l’oste delle Tre Croci vi dava per quaranta franchi una parola d’ordine. Giunti al Confessionale, luogo dove si può essere uccisi senza veder l’assassino, i banditi si presentano a voi, vi prendono in mira col fucile e vi domandano la borsa o la vita, nell’intenzione di prendervi l’una e l’altra. Ma no temete nulla se avete la parola d’ordine; appena pronunziata vedrete tutti quei furfanti levarsi il cappello e dirvi con tutta gentilezza: -Vos signoria vada con Dio.- Nel 1822, io stesso ho pagato quaranta franchi a papà Alessi, che mi diede due parole latine: Vade retro; queste due parole cambiarono quattro brutti grugni, che mi si presentarono al Confessionale, in quattro contadini più inoffensivi degli agnelli.
[36] Pietro Arbues è un personaggio storico ed il carattere che gli attribuisce l’autore non è esagerato: solamente l’autore, usando di una licenza permessa dalla specie della sua opera, ha commesso un anacronismo volontario facendo vivere Pietro Arbues sotto Carlo V, e facendolo contemporaneo di Alfonso Manriquez, di Giovanni d’Avila, di Saavedra e di molti altri personaggi che figurano in quest’opera. Pietro Arbues non ha regnato in Siviglia, non è stato ucciso da un favorito; il personaggio di Josè è di pura invenzione; è la personificazione del popolo spagnuolo che sopporta l’Inquisizione per molti secoli, ma sempre odiandola ed aspettando con pazienza il momento di colpirla mortalmente. Questo momento giunse nel 1829. Pietro Arbues, mentre è un personaggio storico, è la personificazione del Sant’Uffizio. Le sue lascivie, le sue crudeltà, le sue debolezze, le sue iniquità e la sua ipocrisia sono il quadro fedele delle lascivie, delle crudeltà, delle debolezze, delle iniquità e dell’ipocrisia della maggior parte degli inquisitori e di un gran numero di preti.
Pietro Arbues, canonico della cattedrale di Saragozza ed inquisitor generale del regno d’Aragona, ha vissuto nel 1483, sotto Ferdinando d’Aragona ed Isabella la Cattolica, e sotto il primo grande inquisitore di Spagna, Tommaso di Torrequemada. Nel 1483 gli Aragonesi, i cui privilegi erano ad ogni istante calpestati dall’Inquisizione d’Aragona, sotto la direzione di Pietro Arbues, temerono di veder rinnovare presso di loro le scene che accadevano ogni giorno in Castiglia e nelle altre provincie della Spagna, dove il Sant’Uffizio, stabilito solamente da tre anni, aveva già immolato migliaia di vittime. In questo stato di cose, e vedendo che i passi fatti verso il papa e verso il re non avevano alcun risultamento, un gran numero dei principali signori di Saragozza si unirono contro l’Inquisizione, e decisero di sacrificare l’inquisitore Arbues, il quale erasi già fatto odiare per la sua crudeltà e per la sua mala condotta, onde forzare così gli altri membri dell’Inquisizione d’Aragona a rinunziare alla loro missione.Ma Pietro Arbues fu avvertito del disegno dei congiurati, che però non gli furono nominati. Non potendo agire contro i suoi nemici, volle almeno garantir sé medesimo dagli attacchi dei congiurati; a tal effetto armossi di un giaco di maglia e d’una specie di casco di ferro che portava sotto il suo berretto. Mercé queste precauzioni, i congiurati fallirono il colpo diverse volte; tuttavia un giorno uno di essi avvicinò Pietro Arbues, nel momento in cui faceva la sua preghiera appié dell’altar maggiore della cattedrale di Saragozza, e gli diede un colpo di spada nel collo; la ferita di Pietro Arbues fu sì profonda che ne morì due giorni dopo, cioè il 17 settembre 1485. In seguito all’assassinio del grande inquisitore, i vecchi cristiani eccitati dai frati si sollevarono, e violenti sommosse ebbero luogo a Saragozza; la conseguenza di queste sommosse sarebbe stata terribile, dice Llorente, se la moltitudine fanatica non fosse stata contenuta dalla promessa fattale di punire con l’estremo supplizio i rei di quell’attentato.
Frattanto si onorò la memoria di Pietro Arbues con una specie di solennità, che contribuì molto a farlo passare per santo. Arbues fu l’oggetto di un culto particolare nelle chiese, e poco mancò che questo Domenicano non fosse riconosciuto come protettore dell’Inquisizione. Ciò non per tanto si contentarono di fargli far dei miracoli, e di preparare così la sua beatificazione, che ebbe luogo nel 1664, sotto il pontificato di Alessandro VII.
Non è molto tempo che vedevasi nella cattedrale di Saragozza un epitaffio in lingua latina sulla tomba di Pietro Arbues fatta erigere da Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia.
[37] Il sistema della legislazione spagnuola è una conseguenza del suo sistema politico. Avanti la costituzione del 1812 ogni casta aveva i suoi privilegi, i suoi giudici, i suoi tribunali e le sue prigioni, alcune pure si sottraevano alla legge. Così un nobile non era giudicabile da alcun tribunale, ammenoché non avesse ucciso un altro nobile, avesse commesso un delitto di lesa maestà, od un sacrilegio, nel primo caso cadeva sotto la giurisdizione dei tribunali ordinari; nel secondo i Consiglieri del re lo condannavano alla decapitazione o allo strangolamento o alla perdita dei beni; in caso di sacrilegio se ne impadroniva l’Inquisizione, che procedeva a suo modo. Dicasi lo stesso per il resto dei cittadini. I popoli senza privilegi e senza franchigie, come gli abitanti delle due Castiglie, della Manica, della Alcaria, dei quattro regni dell’Andalusia, dell’Estremadura, non che quello della Galizia e di Leon, eran giudicati dagli alcadi ordinari. Gli abitanti dell’Aragona, delle provincie Vasche, quelle del principato di Catalogna e di Navarra erano giudicati dal loro pari conforme ai loro privilegi. Ma in tutta la Spagna erano, oltre il tribunale dell’Inquisizione ed i tribunali ordinari, due altri tribunali, uno chiamato Giustizia dei privilegiati, e l’altro tribunale ecclesiastico. Il primo intendeva a tutti i delitti commessi dai servitori del palazzo reale e degli impiegati del governo. Il secondo intendeva ai delitti dei preti e dei frati, quando questi delitti non avevano colore d’eresia. Nel caso di furto a mano armata o di assassinio tutti gli spagnuoli cadevano sotto il dominio della giustizia ordinaria, cioè di un alcade e dei suoi assessori, che li condannavano e li mettevano in libertà secondo le ispirazioni della loro coscienza, o troppo spesso secondo che il colpevole aveva o no di che comprare l’impunità. Allora pure ogni cittadino era rinchiuso nella prigione destinata agl’individui della sua casta. Se era un plebeo, si poneva nelle carceri della città; se era nobile in quelle della corte, se ecclesiastico in quelle della Corona, o della Tonsura, perché in spagnolo Corona significa pure Tonsura. Credo inutile aggiungere che i militari erano giudicati dai Consigli di guerra. Oggi questi diversi tribunali, tutte queste diverse prigioni che una volta esistevano in tutte le città di Spagna, non esistono più che di nome, perché ricevono egualmente ogni specie di persona.
[38] In Spagna gli accusati giuravano sul Vangelo di dire la verità anco contro sé medesimi. Nel 1812 un articolo della costituzione elaborata dalle Cortes proibì ai giudici di far giurare gli accusati.
[39] In Francia l’accusato è supposto innocente finché la legge l’abbia condannato. In Spagna ogni accusato era chiamato reo. Quest’uso si è perpetuato fino ai giorni nostri quantunque la costituzione del 1812 e quella del 1843 abbia vietato ai giudici di seguirlo.
[40] Leggesi nel capitolo primo, parte V della Storia dell’Inquisizione di Llorente: “Donna Eleonora de Vibero y Cazalla, sposa di Pietro Cazalla, capo della contabilità delle finanze del re, possedeva una cappella sepolcrale nella chiesa di Sanbenito di Valladolid; eravi stata sotterrata come cattolica senza che mai fosse sorto il minimo dubbio contro la sua ortodossia; nonostante, fu in seguito accusata dall’avvocato generale dell’Inquisizione come seguace del luteranismo, e dichiarata morta nell’eresia, quantunque innanzi di morire avesse ricevuto tutti i Sacramenti. L’avvocato generale appoggiò la sua accusa sulle deposizioni di testimoni allora prigionieri dell’Inquisizione e sottoposti alla tortura a quest’effetto, dalle quali risultò che la casa di donna Eleonora de Vibero aveva servito di tempio ai luterani di Valladolid. Donna Eleonora fu dichiarata morta nell’eresia, la sua memoria fu condannata all’infamia fino nella sua posterità, e tutti i suoi beni confiscati. L’Inquisizione ordinò inoltre che il suo cadavere fosse dissotterrato e dato alle fiamme, che la sua casa fosse rasa con la proibizione di ricostruirla, e che un monumento fosse elevato sulla piazza, ove prima era la casa, sul quale monumento un’iscrizione perpetuasse la memoria di quell’avvenimento. Tali disposizioni furini tutte eseguite.”
[41] Nell’atto-di-fede generale che ebbe luogo a Valladolid in aprile 1559, in presenza del principe don Carlo e della principessa Giovanna.
[42] In ottobre 1559.
[43] L’Inquisizione non condannava solamente i giudaizzanti e gli ebrei, la possessione di un libro proibito, d’una Bibbia, d’un esemplare dei Vangeli in lingua volgare, ed anco di un libro inglese bastava per mandare al rogo tutta una famiglia, specialmente se questi libri appartenevano ad una persona ricca…. La missione del Sant’Uffizio non era veramente ad esirpar l’eresia, ma di spogliare il mondo cristiano a profitto di Roma, a profitto dei re che la proteggevano, ed a vantaggio degl’inquisitori. Ecco perché l’Inquisizione era spietata.
[44] Verso la metà del secolo passato eravi in Aurillac, nel dipartimento del Cantal, un convento di Carmelitani che possedeva una statua della Maddalena che piangeva il giorno della festa di quella santa. Lo stesso convento possedeva pure un Cristo che nella settimana di passione versava lacrime abbondanti. Ecco come si ottenevano questi miracoli:
la statua della Maddalena era di maiolica, vuota internamente, e conteneva uno scaldavivande sul quale, dopo avervi acceso del fuoco, i frati mettevano un apparecchi a forma di lambicco, il collo del quale s’innalzava fino alla testa della santa. Quall’apparecchio conteneva dell’acqua, che, ridotta in vapore per mezzo del calorico, si condensava nella testa della statua, donde per due piccoli tubi cadeva dopra una spugna posta dietro gli occhi, aventi alla lor parte inferiore molti forellini: un volta bene imbevuta, questa spugna rigettava l’acqua sovrabbondante per i fori degli occhi della statua, la quale pareva versasse lacrime naturali.
Quanto al Cristo, era semplicemente addossato ad un muro, dietro al quale trovatasi un pergolato. Tutti sanno che la vite piange al cominciar della primavera verso la fine di quaresima.
Profittando di questa osservazione, i frati avevano fatto passare a traverso al muro due rami tagliati di fresco che andavano a terminare ai due angoli degli occhi del Cristo, e producevano così quelle lacrime miracolose, che il popolo, credulo, veniva a raccogliere con grande venerazione, e in cambio delle quali non mancava mai di deporre la sua offerta nel piatto d’argento posto ai piedi del Cristo.
[45] Alfonso il Magnanimo o Alfonso il Savio dotò per il primo la Spagna d’un codice regolare di leggi, il quale è un monumento della sapienza di quel re e della rettitudine dei suoi consiglieri e fa onore al carattere spagnuolo.
[46] Isabella di Castiglia, moglie di Fernando d’Aragona.
[47] Qui cade acconcio il considerare che in tutti i tempi e sotto tutti i governi, anco sotto il dispotismo dei re e le crudeltà dell’Inquisizione, ogni volta che le assemblee nazionali hanno avuto luogo liberamente in Spagna, vi sono stati Spagnuoli i quali superati gli ostacoli che si opponevano al loro buon senso ed alla loro filosofia naturale, si sono elevati al di sopra del loro secolo, hanno strappato con mano ardita il velo che nascondeva gli errori ed i pregiudizi, ed hanno fatto sentire ai popoli, ai re ed agl’inquisitori la voce della ragione e della verità.
Così le Cortes d’Aragona, di Castiglia e di Catalogna, riunite nel 1510-1512 per domandare al reggente Ferdinando ed al papa la riforma dell’Inquisizione; la Giunta cattolica convocata a Burgos nel 1508 per giudicare i prigionieri dell’Inquisizione di Cordova, nella promozione del grande inquisitore Ximens Cisneros, e la gran Giunta formata sotto Carlo II nel ministero dell’inquisitore Rocaberti, dal 1695 al 1699, per porre un termine ai conflitti che avevano luogo ogni giorno fra l’Inquisizione ei giudici reali; questi tre colpi a lunghi intervalli, e sotto l’influenza di avvenimenti diversi, hanno condannato gli atti dell’Inquisizione e del dispotismo. Nelle tre assemblee si sono trovati uomini i cui principi filosofici e le vaste idee umanitarie avrebbero fatto onore ai filosofi più distinti del nostro secolo. Che dobbiamo conchiudere con tutto ciò? Che Dio ha messo nel cuore dell’uomo idee di libertà e di progresso, che queste idee, nate coll’uman genere, sono state soffocate o represse nel santuario della coscienza dei popoli, e che verun dispotismo o niuna tortura potrà estinguerle intieramente.
[48] Spesso sono stati tacciati gli spagnuoli di tradimento; questa è forse la più ingiusta di tutte le accuse mosse contro di essi dagli stranieri. Gli spagnuoli sono sì lontani dall’esser traditori, che il solo delitto che non perdonano ad un nemico, e che vieta loro di riconciliarsi con esso, è il tradimento. Se sono esistiti traditori in Spagna, non sono stati che frati, preti venduti a Roma od all’Inquisizione, o famigliari del Sant’Uffizio.
[49] La Spagna poteva ben dire che i roghi divoravano le sue viscere quando, nello spazio di trecentotrenatanove anni trentaquattromila e seicentoquarantotto spagnuoli sono stati bruciati vivi dall’Inquisizione, e diciottomila e quarantanove bruciati in effigie, senza contare duecentovento mila e duecentoquattordici condannati alle galere ed alla perpetua prigionia, e più di ducentomila che condannati a portare il sanbenito per un dato tempo o a vita, furono disonorati fino nella loro posterità. Queste cifre sono storiche. Del resto ecco un quadro che togliamo testualmente dalla Storia dell’Inquisizione di Llorente e che trovasi pure nella Storia della rivoluzione di Spagna nel 1820.
Ricapitolazione generale delle vittime che
l’Inquisizione ha sacrificato in Spagna dal 1481 fino al 1808, sotto il
ministero di quarantacinque inquisitori generali.
|
Bruciati vivi |
Bruciati in effigie |
Condannati alle galere ed
alla prigionia |
Dal 1481 al 1498, sotto il ministero di Tommaso di Torrequemada,
primo inquisitore generale ………………………………………………………………………... |
10,220 |
6,840 |
67,371 |
Dal 1498 al 1507, sotto Deza, secondo inquisitore generale
………………………….. |
2,592 |
828 |
32,952 |
Dal 1507 al 1517, sotto Ximenes Cisneros, terzo inquisitore generale
………….……. |
3,564 |
2,232 |
48,059 |
Dal 1517 al 1521, sotto Adriano Florencio, quarto inquisitore………………………... |
1,620 |
560 |
21,835 |
Dal 1521 al 1523, interregno…………………………………………………………... |
324 |
112 |
4,881 |
Dal 1523 al 1538, sotto Alfonso Manriquez, quinto inquisitore generale……………... |
2,250 |
1,125 |
11.250 |
Dal 1538 al 1545, sotto Tabera, sesto inquisitore generale……………………………. |
840 |
420 |
6,250 |
Dal 15454 al 1546, sotto Loalisa, settimo inquisitore, e dal 1546 al
1556 durante il resto del regno di Carlo V …………………………………………………………….. |
1,320 |
660 |
6,600 |
Dal 1597 al 1597, sotto la reggenza di Filippo II ……………………………………... |
3,990 |
1,845 |
18,450 |
Dal 1597 al 1621, sotto il regno di Filippo III ………………………………………… |
1,840 |
692 |
10,761 |
Dal 1621 al 1665, sotto Filippo IV ……………………………………………………. |
2,852 |
1,428 |
14,080 |
Dal 1665 al 1700, sotto Carlo II ………………………………………………………. |
1,632 |
540 |
6,512 |
Dal 1700 al 1746, sotto Filippo V …………………………………………………….. |
1,600 |
760 |
9,120 |
Dal 1746 al 1759, sotto Ferdinando VI ……………………………………………….. |
10 |
5 |
170 |
Dal 1759 al 1788, sotto Carlo III ……………………………………………………… |
4 |
0 |
56 |
Dal 1788 al 1808, sotto Carlo IV ……………………………………………………… |
0 |
1 |
42 |
Totale |
34,658 |
18,049 |
228,214 |
In
questo quadro non è compreso il regno di Ferdinando VIII, durante il quale più
di centomila persone hanno subito la prigionia, la galera o l’esilio;
bisognerebbe aggiungervi il numero incalcolabile delle vittime che
l’Inquisizione di Spagna ha sacrificate nella Sicilia, nella Sardegna, in
Fiandra, in America e nelle Indie, per comprendere la forza delle parole che
l’Autore fa pronunziare alla Spagna desolata. Oltre a ciò, cinque milioni
d’abitanti hanno abbandonato il bel suolo di Spagna per sottrarsi alla crudeltà
del Sant’Uffizio. Cos’ questo bel paese, che al tempo dei Mori contava
trentacinque milioni d’anime, è stato ridotto a dieci milioni. E’ questa la
missione che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli e questi i preti della Chiesa
romana? E’ così che i successori degli Apostoli seguono il sublime precetto del
Signore: “Crescete e moltiplicate?” e quello di Cristo. “Amatevi gli
uni cogli altri?” Ebbene, udite i preti Romani. Eglino vi diranno che la
religione non è più rispettata, che vengono calpestati e calunniati i ministri
di Dio! Ah! Rispondete a costoro quello che Gesù rispondeva agli Scribi ed ai
Farisei: “Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti; perciocché voi divorate le
case delle vedove: e ciò sotto specie di fare lunghe orazioni! Guai a voi,
Scribi e Farisei ipocriti, perciocché voi nettate al di fuori della coppa e del
piatto: ma dentro quelli son pieni di rapina e d’intemperanza.”
E’
vero che spinto dallo scandalo che davano i frati ed alcuni preti nel secolo
decimosesto, il papa ordinò agl’inquisitori
di Spagna di “Processare tutti i preti e tutti i frati che la voce
pubblica accusasse.”
Ma
a quell’epoca era cosa pericolosa il ventilare questa specie di affari in un
paese che cominciava a sentire odio profondo e disprezzo verso i frati, e verso
quella sorta di preti ignoranti e viziosi dei quali non è stata mai penuria in
Spagna; di più, i Luterani non avrebbero mancato di trarre armi terribili
contro la confessione auricolare da tutti quei processi che sarebbe stato
mestieri intentare alla maggior parete dei preti e dei frati spagnuoli. Così
l’Inquisizione, sempre abile quando si trattava di eseguire i propri voleri,
eziandio contro quelli del re e dei pontefici, l’Inquisizione trovò il mezzo di
non sapere quello che accadeva all’interno dei numerosi conventi di monache
che riempivano il paese.
Tuttavolta,
ecco una storia che l’Inquisizione non potè ignorare, tanto fu scandalosa.
Un
Cappuccino, confessore di diciassette pinzochere riunite in un convento di
Cartagine, aveva saputo inspirare alle sue penitenti tanta fiducia, che avevano
finito per riguardarlo come un santo. Il santo personaggio finse tutte le virtù
per qualche tempo: ma tosto che pensò che la sua reputazione di santità fosse
bene stabilita fra le sue pecorelle, profittò dei frequenti abboccamenti che
avea con esse al confessionale, per insinuar loro le sue perniciose dottrine.
Ecco il discorso che tenne a ciascuna di esse in particolare. “Il nostro
signore Gesù Cristo ha avuto la bontà di lasciarsi vedere a me nell’ostia
sacra, e mi ha detto: Quasi tutte le donne che tu dirigi in questo convento
mi sono gradite perciocché ahhno vero amore per la virtù, e si sforzano di
camminare verso la perfezione. Una tale, specialmente (e qui il direttore
nominava quella che voleva sedurre), ha l’anima sì pura e sì forte, che ha
già vinto tutte le affezioni terrestri ad eccezione di una sola, la sensualità.
Questa passione la tormenta molto, essendo presso di lei potentissimo il demone
della carne, in causa della salute, della sua gioventù, e delle grazie naturali,
che l’eccitano vivamente al piacere. E’ per ciò che, onde ricompensare le sue
virtù e perché possa unirsi più perfettamente al mio amore, e servirmi con una
tranquillità di cui essa non gode, ed è tuttavia meritevole, t’incarico di
accordare in mio nome la dispensa di cui a bisogna per il suo corpo, dicendole
che possa soddisfare la sua passione carnale, purchè ciò sia espressamente con
te, e che, per evitare lo scandalo, serbi il puù scrupoloso secreto su tutto
quello che avverrà fra te e lei, e di ciò non dovrà parlare neppure ad altro
confessore, poiché dessa non farà peccato con la dispensa che le accordo, per
il santo fine di veder cessare tutte le sue inquitudini; e perché faccia nuovi
progressi nella via della santità.
Col
mezzo di questo discorso, ripetuto a ciascuna pinzochera, il degno cappuccino
ebbe bentosto un serraglio, perocché sopra a diciassette donne riunite in quel
convento, tredici si diedero a lui, bramose, senza dubbio, di fare dei
progressi nella via della salute, e di domare il demone della carne col metodo
naturalissimo del fortunato direttore.
Sventuratamente
per il confessore e per le sue pecorelle, una di queste vittime, dell’età di
venticinque anni, cadde pericolosamente malata, e domandò un altro confessore,
il quale, dopo aver saputo da lei tutto quello che era accaduto, l’impegno a
dichiarar tutto al Sant’Uffizio nel timore che il cappuccino avesse ingannato
altre penitenti. Questa donna ricuperò la salute, e subito lo denunziò
all’Inquisizione, e narrò che per tre anni di seguito aveva avuto commercio col
suo confessore: aggiunse che in sua coscienza non aveva mai creduto che Gesù
Cristo fosse apparso al cappuccino, e se aveva finto di credrlo, l’aveva fatto
per poter soddisfare senza vergogna i desiderii carnali.
Dopo
un’investigazione, il Sant’Uffizio
acquistò la certezza che lo stesso eccesso era stato commesso con altre dodici
donne nel medesimo convento, e che le altre quattro, rispettate dal confessore,
erano o vecchie o bruttissime.
Bentosto
le pinzochere furono sparse in diversi conventi; ma si temé di commettere un’imprudenza,
facendo arrestare il loro confessore. Si ebbe paura che il popolo disprezzasse
i frati più di qello che già faceva. Per troncare ogni difficoltà si scrisse al
Cosiglio della Suprema, che chiamò il cappuccino a Madrid, e gli accordò tre
udienze ordinarie. Ma la sua audacia agguagliò il suo linguaggio.
Interrogato
sui fatti narrati, rispose senza sconcertarsi, la sua coscienza nulla
rimproverargli che concernesse l’Inquisizione, ed essere molto sorpreso di
vedersi suo prigioniero. Gli fu obbiettato essere incredibile che Gesù Cristo
gli fosse comparso nell’ostia per dispensarlo dal sesto precetto del Decalogo.
Rispose che Dio aveva dispensato Abramo dal quinto, ordinandogli di sacrificare
il suo figlio Isacco; e che lo stesso potevasi dire del settimo comandamento,
poiché Dio aveva permesso agli Evrei di derubare gli effetti degli Egiziani.
Gli
fu fatto considerare che nei due casi da lui citati trattatasi di misteri
favorevoli alla religione. Replicò che
in ciò che era accaduto fra lui e le sue penitenti, Iddio aveva avuto il
disegno di tranquillizzare tredici anume virtuose e di condurle a perfezione.
Uno
degli interrogatori, avendogli risposto essere cosa singolarissima che tanta
virtù si fosse trovata in tredici donne giovani e belle, e non nelle altre
quattro, di cui tre erano vecchie ed una bruttissima, il cappuccino rispose
freddamente col passaggio della Santa Scrittura: Lo Spirito santo soffia
dove vuole.
Tali
furono le risposte del confessore libertino nelle due prime udienze; giunse
finalmente la terza che doveva essere l’ultima, accordatagli innanzi di
giudicarlo. Il cappuccino persisté dapprima nel suo sistema di difesa, ma
pensando che poteva essere bruciato vivo, sollecitò una nuova udienza, che gli
fu accordata. Questa volta dichiarò con finta umiltà che credeva di essersi
ingannato, che lo spirito maligno l’aveva accecato al punto di fargli riguardare
come certa l’apparizione di Gesù Cristo nell’ostia, e che vedeva bene di essere
stato la vittima di una illusione, ma vedendo che gl’inquisitori erano
inclinati a salvarlo, confessò finalmente con franchezza la sua ipocrisia, e
tutti i suoi delitti, e si sottomise a tutte le penitenze che i giudici vollero
imporgli.
In
vece di condannarlo a morte come sacrilego, ipocrita, lussurioso, seduttore e
spergiuro, gl’inquisitori si contentarono di condannarlo ad una prigionia di
cinque anni in un convento del suo Ordine, ove questo miserabile morì dopo tre
anni che vivera entrato.
[50] Se qualcuno ha dei dubbi, ancora, dovrebbe leggersi semplicemente un libro sconvolgente: L’arcivescovo del genocidio, dello storico Mario Aurelio Rivelli (isbn 88-7953-079-8) sul genocidio balcanico.
[51] Le citazioni di Civiltà Cattolica, mi vengono dall’aver consultato, a suo tempo, un sito del fu Gent.mo Sig. Andrea Tournoud. Il sito, che era veramente semplice e prezioso, ora sarebbe stato chiuso per volontà indipendenti da quelle del creatore e dei suoi eredi del Centro Documentazione Ebraica Contemporanea: CDEC. Il Sig. Tournod mi fece anche sapere che tali articoli sarebbero protetti da diritto d’autore e per consultarli o pubblicarli è necessaria l’autorizzazione dei Gesuiti di Roma.