MISTERI
ED
ALTRE SOCIETA’ SEGRETE DI
SPAGNA
PER
CON NOTE STORICHE ED UNA INTRODUZIONE
di Manuel de Quendias
E CON ESTRATTI DI UNA LETTERA
RELATIVA A QUEST’OPERA
DI
Edgardo Quinet
Volume primo
Milano
Francesco Pagnoni , editore-tipografo
1867
Principali chiavi di ricerca per trovare, in
ogni tempo e luogo, tracce di Claudio Della Valle e dei suoi lavori su Google o
altri motori di ricerca.
Inserire, comprese le virgolette:
“Claudio Della Valle” – “Il canto della Sorgente” – “Il luogo di Geremia” –
“Della resurrezione dei morti” – “In nome del pane” – “Lettera a un cristiano mai nato” – “Sulla via del ritorno” – “Riflessioni ed ipotesi sull’Apocalisse di S. Giovanni”
Venti
secoli fa la terra era soggetta ai tiranni, cioè ai re ed ai preti, che,
valendosi delle diverse religioni che professavano, rendevano schiave le
nazioni, e le governavano. Gesù Cristo non aveva recato per anco al mondo i
divini precetti che dovevano rigenerarlo. Ei non era ancor morto sur una croce
per dare la libertà alla terra.. L’evangelo non esisteva.
Da
quel tempo in poi l’evangelo è stato a tutti insegnato.
Non
contenti ad aver lasciato alle nazioni la dottrina del loro divino Maestro, gli
apostoli ed i discepoli di Gesù Cristo sono morti per difenderla.
Nei
primi secoli del Cristianesimo, i pontefici e i preti cristiani hanno camminato
nel sentiero che avevano loro segnato gli apostoli, com’essi, han proclamato la
fede cristiana sotto la scure dei carnefici, ed il sangue dei mártiri ha
fruttificato.
La
metà del mondo abbracciò il cristianesimo; ma a quei tempi, sì gloriosi per la
specie umana, succedettero ben tosto secoli d’iniquità.
Finché
durò la persecuzione, i pontefici e i preti cristiani furono umili e forti;
cessata la persecuzione, i papi, dapprima sì poveri, divennero presto ricchi e
potenti. Coloro che non ha guari erano obbligati a vivere senza asilo, a
predicare sulle montagne e a celebrare l’uffizio divino nei cavi delle rupi,
ebbero un regno temporale, magnifici templi e una corte più splendente di
quella dei re. La croce per essi non fu più un’arme sufficiente a combattere
l’errore e a sottomettere i popoli alla fede di Cristo. Ebbero armi come i re
della terra, e combatterono con la spada coloro ch’era mestieri vincere colla
dolcezza.
Di
mártiri divennero carnefici!
D’allora
in poi lo spirito di Dio gli abbandonò, l’orgoglio e l’ambizione dominarono
l’anima dei preti del Signore. Essi non furono più gli umili ministri di un Dio
crocifisso, ma i vili cortigiani di un papa. Roma non fu più la città santa, ma
la città dell’orgia, un bordello, secondo l’energica espressione di
Dante[1].
In
poco tempo Roma Cristiana divenne più pagana di quello che fosse stata ai tempi
di Nerone e di Caligola; non fu più la capitale del mondo cristiano, ma un immondo
lupanare, in cui i leviti del Signore profanavano ogni giorno la loro sacra
veste.
Il
palazzo dei papi divenne il palazzo della lussuria, ed un ricovero di
ciurmadori. I cardinali e i vescovi, questi successori dei predicatori della
Giudea, trasformati in principi della terra, non si prostrarono più nella polve
dei templi, umiliandosi e pregando pel loro gregge; ma in quei templi ebbero
troni, ov’erano incensati come iddii, ove s’inebriavano di profumi e d’armonia,
ove spiegavano la pompa fastosa e fascinatrice delle cerimonie d’un culto che
Cristo non avrebbe riconosciuto se fosse ridisceso sulla terra.
In
tal modo il clero romano, obliando il ciclo nei sollazzi mondani, si fece
adorare per molti secoli in luogo del Dio vivente; e siccome il Vangelo condannava
la sua condotta, egli vietò ai popoli la lettura del Vangelo[2].
Nel
volgere di questi tempi, i popoli camminavano silenziosi incontro all’avvenire;
la Spagna, incivilita dai Mori, coltivava con successo le arti e l’industria;
le lettere rinascevano in Italia, l’Alemagna si preparava alla riforma, e
l’Inghilterra fremeva già d’entusiasmo ai primi vagiti della nascente libertà.
Roma,
finalmente, si svegliò dal suo letargo al rumore che i popoli facevano per
rompere le loro catene; essa vide la potenza sfuggirle di mano. Allora, invece
di prostrarsi e dimandare perdono a Dio d’un passato colmo d’iniquità, che fece il capo della Chiesa, il successore di
san Pietro?…Creò l’Inquisizione[3].
Da
quel giorno il clero cattolico, fatto certo di regnare col terrore e colla
forza, sdegnò d’ingannare l’umanità, dominata per tanto tempo dalla sua
ipocrisia, e ne divenne il flagello. D’allora in poi lottò apertamente contro
il progresso dei lumi. Mercé le sue cure, l’Inquisizione avanzò bentosto tutte
le speranze di Roma, e diede al potere temporale dei papi una estensione di cui
non sapremmo formarci oggidì che una debole idea.
L’Inquisizione,
da lunga pezza preparata ai rigori che fino dal terzo secolo dell’era cristiana
i papi avevano esercitato contro i popoli, preparata eziandio dal Concilio di
Verona nel 1184, l’Inquisizione ebbe cominciamento soltanto col secolo
decimoterzo ( 1208 ).
Fu
istituita in Francia sotto il pontificato d’Innocenzio III, e regolarizzata da
Domenico de Guzman, che impose a questa istituzione la regola di sant’Agostino.
Alcuni anni più tardi, l’Inquisizione aveva varcato le Alpi, e regnava su quasi
tutta l’Italia. Finalmente nel 1232, Gregorio IX indirizzò all’arcivescovo di
Tarragona, in Catalogna, un breve col quale gl’ingiungeva di stabilire
l’Inquisizione nella sua diocesi. Alcuni monaci domenicani furono rivestiti
della carica d’inquisitori; ben presto tutta la Spagna dovè sobbarcarsi a
questo odioso giogo. Tuttavia gli Spagnoli han lottato senza posa per due secoli
contro i progressi di questa orribile istituzione, e contro la sua invasione.
Ma nel 1484, un priore fanatico, Tommaso di Torrequemada, secondano l’avara
ambizione di Ferdinando d’Aragona, introdusse l’Inquisizione in Castiglia e in
Aragona, dove non era ancor penetrata, e si fece nominare grande inquisitore
generale. Torrequemada appunto diè principio a quella lunga serie d’inaudite
persecuzioni le quali non cessarono in Spagna che al giungere dei Francesi nel
1808; allora veramente cadde l’Inquisizione colla potenza morale della Chiesa
spagnuola, dopo avere stanca la Spagna per più di tre secoli d’agonía.
In
questo lungo e sanguinoso periodo, il secolo decimosesto è quello che offre i
quadri più ricchi di opposizioni e di contrasti all’osservazione dello storico.
Questo
secolo, che ha veduto i regni di Carlo V e di Filippo II, ha assistito alla
fine di quello di Torrequemada, ed a quelli degl’inquisitori generali Deza e
Cisneros; questo secolo, infine, è stato testimone delle lotte del vero spirito cristiano contro l’oscurantismo
e la simonia di Roma.
Da
una parte erano Lutero, Zelantone e Zwingli che mostravano al mondo gli abusi
della Chiesa Romana, confondevano la scompigliata teologia dei monaci, e
regalavano all’Alemagna ed alla Svizzera quel largo codice di uguaglianza e di
libertà che comincia a’ piè dell’altare e termina ai gradini del trono.
Dall’altra san Giovanni d’Avila, Luigi di Granata, san Giovanni di Dio, monaci
arditi nelle loro dottrine, ma animati dal vero spirito degli apostoli, che
lottavano colla dolcezza e la carità contro l’intolleranza e i vizi di Roma, ed
erano colpiti dall’Inquisizione ad onta del loro candore evangelico, e della
loro pia moderazione.
Eravi
finalmente quel gran re, Carlo V, che proteggeva l’Inquisizione, da lui aborrita,
onde farsene un appoggio, perciocché da accorto politico comprendeva che la
riforma la quale abbatteva la potenza dei papi, non si sarebbe arrestata che
dopo avere abbattuta la potenza dei déspoti.
Leggendo
la storia dell’Inquisizione, e specialmente quella del secolo decimosesto, si
giunge a persuadersi di questa sentenza: che la grand’arte di Roma e di saper
sempre collegare la causa dei re alla propria, e quando essa non può regnare
con la forza, regnare coll’astuzia e col proselitismo.
Non
ne rimane che aggiungere una parola: Roma non ha cambiato spirito; essa ha
sempre numerosi agenti che per impercettibili ramificazioni distende come
un’ampia rete sul mondo; essa non ha più gl’inquisitori, ha i Gesuiti.
Il
secolo cammina, si dice; ma si guardi bene, che la pendenza retrograda diverrà
lubrica e facile se accordasi al clero ciò che domanda, il monopolio
dell’insegnamento.
Lasciamo
una o due generazioni crescere ed informarsi fra le mani dei discepoli di
Loyola, e si vedrà quello che diverranno i lumi, la felicità e la libertà del
mondo. I mali del passato debbono essere di scuola per l’avvenire. Leggasi il
passato dell’inquisizione, presentato sotto colori sì veri e drammatici da V.
de Féréal, nei Misteri dell’Inquisizione
di Spagna, e si vedrà come divenga insensibilmente terribile e
formidabile una potenza occulta che non lavora a pro dell’umanità, ma avendo in
mira solo una cosa.
Quest’opera,
rigorosamente storica, malgrado la sua forma drammatica, sarà forse l’obbietto
di molti attacchi, e darà luogo a più d’una calunnia contro il lavoro, contro
l’autore e contro noi, che l’abbiamo commentata. E’ questa l’opinione d’un uomo
che, calunniato ingiustamente egli stesso, conosce a fondo i nemici della causa
che l’autore difende: noi vogliamo parlare di E. Quinet.
Ecco
ciò che risponde l’illustre scrittore alla domanda che gli abbiamo diretta di appoggiare
l’autore col suo nome, ricusandoci l’onore che gli chiedavamo.
“…………………………………………………………….
-Voi che siete dabben’uomo e straniero, pensate sempre che
il pubblico saprà il vero; ma no: sarà ingannato.Io non dubito del talento
elevato dell’autore dei Misteri
dell’Inquisizione; ma basta che l’immaginazione entri per qualche cosa in
quel libro, basta, in una parola, che sia un romanzo, per esser certi che se il
mio nome vi comparisse, il libro sarebbe immediatamente calunniato. Vi avrei
servito molto male, e avrei agito contro la mia causa; ogni personaggio, il più
innocente ancora, sarà travisato, dispregiato, rivoltato, avvelenato, il
pubblico non andrà a ricercare la verità; vedrà soltanto elevarsi contro di me
una massa di menzogne, alle quali sarà impossibile il rispondere; poiché, lo
ripeto,ad avversari sleali come i miei non posso chiudere la bocca che colla Storia
semplice, senza ornamento né invenzione d’arte.
Quando m’avete domandato per la prima volta che il mio nome
andasse innanzi alla vostra opera, trattatavasi d’un lavoro puramente storico;
poscia il vostro pensiero si è sviluppato, e siete pervenuto ad una forma più
completa e più popolare. Ma se fino da principio mi aveste richiesto: -Volete
fiancheggiare del vostro nome un bel romanzo storico sull’Inquisizione?- Vi
avrei risposto con mio grande rincrescimento: -Voi mi chiedete una cosa
impossibile, che non farei né per un mio fratello né pel mio figlio!…--
E
più in basso continua:
-Se
si vedesse l’odiato mio nome a capo d’un libro, si renderebbero i miei princìpi
e la mia causa responsabili di tutte le calunnie che si andassero accumulando.
I vostri personaggi diverrebbero tanti mostri, e si direbbe che io gli ho
coperti colla mia veste di professore dell’Università. Sareste attaccato da
tutti i miei nemici….-
E
più in basso ancora, l’autore dell’Ultramontanismo, dolendosi di non
poterne appoggiare come noi lo brameremmo, ci fa l’onore di aggiungere:
-Quando
l’amicizia e la stima che m’ispirate non me lo comandassero, (di soddisfare il
vostro desiderio ove mi fosse possibile), io vi sarei condotto dal talento sì
vero e sì variato dell’autore, del quale io non ho letta pagina che non siami
sembrata considerevole. In questo e nella reale vostra cooperazione sta il
successo…-
-Firmato
E. Quinet-
Noi
dobbiamo dunque tutto aspettarci dai nemici della verità. Per risponder loro anticipatamente,
dichiariamo qui che l’autore dei Misteri dell’inquisizione e noi, non
abbiamo avuto altro scopo che premunire il nostro paese contro gli abusi cui
può trascinare lo spirito dominatore del clero: i quali, se non pervenissero ad
immergere la Francia nelle sventure di ogni specie che hanno per tanto tempo oppresso
gli Spagnuoli, potrebbero almeno introdurvi quelle segrete dissensioni, quelle
lotte intestine, frutto di una limitata e mal diretta educazione, che fanno da
ruggine ai vincoli sociali; che esacerbando poco a poco gli spiriti, li allontanano
gli uni dagli altri, e preparano quei terribili combattimenti dell’intelligenza
e della materia, a cui si frangono la forza e la prosperità delle nazioni.
Manuel de
Quendias
I.
Il
quartiere di Triana.
Verso la metà del secolo decimosesto, durante il
regno di Carlo V, la popolazione di Siviglia, questa gaia e festevole capitale
dell’Andalusia, era a poco a poco divenuta cupa, silenziosa e mesta. Indarno la
città moresca faceva pompa, ai raggi di splendido sole, dei suoi vasti terrazzi
coperti d’arbusti e di fiori; dei suoi eleganti balconi, ove s’intrecciavano
delle liane verdi e fiorite, delle graniglie rosse e dei gelsomini di Virginia
dalle larghe corolle aurate.
La sera non udivasi più, sotto i balconi, la voce
dei cavalieri innamorati congiunta agli striduli accordi del mandolino; e se
nelle ore deliziose della notte, qualche timida fanciulletta osava ancora
mostrarsi sul suo terrazzo, e respirare la fresc’aura e profumata che s’elevava
dalle rive del Guadalquivir, essa passava taciturna e grave come ombra, e dal
muto suo labbro non uscivano più che sospiri soffocati, invece di quel dolce
riso delle fanciulle, di quell’armoniosa melodia di linguaggio, che sulle
labbra delle donne fa somigliare ad una musica soave la lingua degli Spagnoli.
Dappertutto il terrore aveva, da lunga stagione,
alzato il suo sinistro stendardo; non più ciarle di famiglia, non più riunioni
patriarcali; la diffidenza ed il timore paralizzavano i più dolci sentimenti
dell’anima. Il padre temeva del figlio, del fratello il fratello, l’amico del
proprio amico; perciocché si tremava in quell’epoca di trovar sempre
nell’individuo meglio diletto una spia o un accusatore. Niuno era sicuro né
della propria fortuna, né della vita; l’uomo viveva giorno per giorno, non osando
attaccarsi a nulla, respingendo in fondo al cuore ogni slancio di generosità o
di tenerezza, non trovando neppure consolazione o speranza in Dio, quel grande
consolatore di tutte le miserie; perciocché non ardiva più invocarlo nella
libertà della propria coscienza, essendo incerto se l’espressione della
preghiera, o la manifestazione della sua fede fosse l’espressione legale
approvata dal tribunale supremo dell’Inquisizione: sacro usurpatore, che
voleva che si adorasse Iddio alla sua maniera, ovvero, trasformandosi egli
stesso in Dio, si arrogava diritti infiniti ed una funesta possanza sui
corpi e sulle anime; tiranno spietato che cercava, con tutti i mezzi possibili,
di raggiungere l’unico suo scopo, il dominare. L’Inquisizione era allora
all’orribile apogeo della sua potenza; aveva per capo il cardinale Alfonso
Manriquez, arcivescovo di Siviglia. Questo rapido colpo d’occhio era necessario
per la intelligenza dei capitoli che seguono.
Ora riportiamoci al 15 febbraio dell’anno 1534.
Potevano essere sette ore di sera, e le strade di
Siviglia, innanzi rumorose ed animate, erano già silenziose ed oscure, benché
occorresse l’epoca del carnevale. Solamente a quando a quando alcuni monaci di
sordido aspetto s’incrociavano nelle strade con qualche gitano vagabondo;
alcuni famigliari del Sant’Uffizio, spioni vigilanti, si salutavano passando
con un segno sacramentale[4], e gli
abitanti del quartiere di Triana[5] si affollavano
alle entrate del ponte di barche gettato sul Guadalquivir, che riunisce la
città a quest’immenso sobborgo, immonda sentina, ove, anco ai nostri dì,
pullula la feccia della popolazione Sivigliana.
Fra le persone che a quell’ora attraversavano il
ponte di Triana, si vedeva un uomo di alta statura, vestito d’un cappuccio di
monaco predicatore. La sua fronte, spaziosa e grave, era piuttosto calma che
austera; i suoi grandi occhi neri, pieni di dolcezza, benché l’entusiasmo ed il
pensiero vi facessero brillare delle fiamme, e il suo labbro taciturno era
l’impronta dell’eloquenza e della poesia. Raggiava su quel volto l’energia di
san Paolo e la dolcezza dell’amato discepolo.
Quest’uomo camminava lentamente, come fosse
preoccupato da alti pensieri, e nella profonda non curanza delle cose terrene
nella quale pareva immerso, ei non vedeva i passeggeri che si urtavano appresso
a lui, né coloro che, venendo dalla medesima direzione in cui egli andava,
potevano urtare lui stesso nella semi-oscurità della notte.
Giunto all’altra parte del ponte, si fermò un
istante, incerto se prendere la destra o la sinistra delle due strade che
formavano una biforcazione davanti a lui. Ma siccome a questa indecisione poco
formulata si mischiavano preoccupazioni d’altro genere, il monaco, dominato
senza dubbio da un’idea, rimase pensoso e senza moto al medesimo posto. In tal
guisa somigliava ad un uomo che attende ad un abboccamento piuttosto, che ad un
filosofo meditante; e specialmente in quell’epoca, pochi, in vedendo il monaco
così immobile, avrebbero compreso che non faceva che ubbidire ad una posa del
suo pensiero.
Il quell’istante, un uomo decentemente vestito
sboccò dalla strada a dritta, nominata allora la via dei Gitani, cioè
dei Boemi, si fermò alcuni momenti sull’angolo della via, guardando da tutti i
lati come se cercasse qualcuno; poscia, visto il religioso, si diresse lentamente
verso di lui.
Giunto a pochi passi di distanza dal frate
predicatore, ei si fermò di nuovo; il monaco non lo vedeva ancora.
Il laico si avvicinò d’un passo, e pronunziò a voce
bassa questa parola.
-Hito[6]-.-
Al suono di quella voce il monaco alzò bruscamente
la testa, guardò un istante l’uomo che gli aveva parlato, e rispose gravemente
con un’altra parola:
-Coraza[7]-.-
-Dio[8] mi manda-,
soggiunse l’incognito.
-Dio ha ogni potere sugli uomini-, rispose il
monaco.
-Vostra Reverenza può seguirmi-, proseguì il laico.
Il religioso ubbidì, e si pose a camminare al lato
della sua guida con sembiante così tranquillo, così naturale, come se cotesto
incidente non fosse stato impreveduto; lasciandosi guidare come docile
fanciullo, ed osservando scrupolosamente l’imperioso chiton[9], comandato
dal terrore che inspirava l’Inquisizione, e che è rimasto sinistro proverbio
fra gli Spagnoli.
L’incognito ed il monaco seguirono insieme la via
dei Gitani: strada lunga, nera e tortuosa, dove non si vedeva altra luce
che quella delle numerose taverne schierate lungo di essa, dalle quali usciva
un rumore stridulo e confuso, miscuglio di voci discordi ed avvinate.
Il popolaccio di Siviglia godeva in quel momento dei
suoi sollazzi, e s’inebriava di manzanilla e di pajarete, che
beveva a lunghi sorsi nelle chiquitas, bicchieri lunghi e stretti, di
forma quadrata, ancora in uso nelle bettole andalusiane.
Giunto verso il fondo della strada, il laico si
fermò davanti ad una taverna meglio illuminata delle altre; e indicando la
porta al suo compagno, gli fece cenno d’entrare.
Il religioso varcò senza esitare la soglia di quel
luogo orribile; poiché allora non era cosa rara il vedere dei monaci in una
taverna. Del resto sappiamo che nella Spagna eglino si sono in ogni tempo mischiati
a tutte le cose sudice e riprovate. Da ciò senza dubbio il disprezzo e l’odio
che gli hanno perseguitati e scacciati.
Il frate entrò nella taverna.
Era una sala bassa, lunga ed oscura, colle pareti
nere ed affumicate, coperte qua e là di larghe fessure, di colore più chiaro
delle quali, contrapposto ai tuoni più cupi della muraglia, formava su quel
fondo nero un mosaico di geroglifici.
Delle panche grossolane e zoppe si stendevano tutto
all’intorno di questa sala, davanti a lunghe tavole, nere e sporche, alle quali
però il continuo sfregamento dei gomiti aveva dato una specie di vernice.
Sulle mura, a metà altezza della soffitta, si erano
appiccicate molte immagini grossolane, rappresentanti le numerose madonne che
la Spagna adora, e delle scene orribili d’atti-di-fede. Al di sotto di ciascuna
immagine ardevano due piccole candele, grosse come un cannello di penna, od un
lume a olio, affumicato e puzzolente. Questi lumi, che ardevano del continuo,
formavano durante tutta la notte la illuminazione della taverna.
Alle travi della soffitta erano fissati a vite molti
uncini di ferro a più branche, da cui pendevano qua e là dei prosciutti, del
lardo affumicato, della carne fresca, dei cappelli d’uomini ed anco dei
mantelli; questi uncini servivano da attacca-cappe ai clienti della bettola.
A vedere tutte quelle persone, schifose
nell’aspetto, monaci, zingare, gitani e famigliari dell’Inquisizione,
avvegnacché vi fosse di tutto in quella taverna; a vederle, dico, assise
intorno a lunghe tavole, alla tremula luce delle candele, coperte di un
singolare vestiario, si sarebbe detta un’assemblea di demoni seduti sotto le
forche in mezzo ad una catacomba.
Il suolo, terroso, grigiastro ed umido, non
rimbombava sotto i sandali dei monaci o i piè nudi dei gitani; il frastuono
delle voci rauche somigliava ad una lunga salmodia. Quel luogo immondo tanto inspirava
terrore, quanto disgusto. Tali erano le taverne del sobborgo di Triana[10].
Il frate andò ad assidersi all’estremità della sala,
a capo di una tavola in cui non era alcuno, poscia invitò il suo compagno a
porsi al suo lato.
-Subito-, disse l’incognito; -ma bisogna prima ch’io
parli alla Graziosa-. E indicò una fanciulla ch’era in piedi, pochi passi
distanti da loro, sulla porta d’uno stanzino che le serviva di cucina.
La Graziosa, sorella del taverniere, era una giovane
e bruna andalusiana, mezza gitana, dalle gambe sottili e rotonde, coperte
appena fin sotto alla polpa da una corta sottana rossa. Lunghi capelli neri, un
po’ ondati, cadevano, divisi in due treccie, da ciascun lato della sua testa
sino al di sotto della sua vita snella, ed una larga striscia di nastro color
d’arancio era attaccata al di sopra della nuca per mezzo di lunghi spilli colla
testa d’acciaio, le cui mille faccette brillavano come stelle.
L’incognito le si fe’ incontro famigliarmente, e le
disse con accento breve ed a mezza voce:
-Graziosa, è venuto Francesco?-
-Non ancora-, rispose l’Andalusiana, -ma non può
tardare, ho mandato mio fratello Giovacchino ad avvertirlo che la signora
Dolores uscirà di casa a mezzanotte; Francesco deve venire a raggiungervi qui,
come pure questo sant’uomo che Dio[11] onora della
sua confidenza-.
Nel tempo stesso la Graziosa gettò uno sguardo
curioso sulla bella ed imponente figura del religioso.
-E’ lui-, disse l’incognito,-è il confidente intimo
dell’illustrissimo e reverendo padre Pietro Arbues; l’ho incontrato a piè del
ponte di Triana, come me l’aveva annunziato Sua Eminenza, e non aspettiamo che
Francesco per la esecuzione del nostro progetto, se tuttavia la signora Dolores
mantiene la sua parola-.-
-Essa uscirà, signore-, riprese la Graziosa, -le ho
portato io stessa una lettera del suo fidanzato, che Sua Eminenza ha fatto, per
passatempo, scrivere da Pietro di Saavedra[12]-.-
-E la fanciulla ha acconsentito così subito ad un
appuntamento?-domandò lo sconosciuto, che d’ora innanzi chiameremo Enrico.
-Rifiutò da principio-, disse la Graziosa; -ma la
lettera era così pressante! Si trattava della vita del suo sposo, e la
fanciulla ha promesso tutto ciò che ho voluto. Essa deve recarsi questa sera
nel luogo indicato. Vi persuaderete facilmente-, aggiunse la sorella di
Giovacchino, -che io non sono stata estranea alla sua determinazione, e che vi
ho cooperato con tutto il mio potere-.-
-Sia lodato Iddio!-sclamò Enrico con simulata
compunzione, -tu sei una vera strega, Graziosa! E, in fede mia, Sua Eminenza
non poteva scegliere meglio di te per farne l’istrumento della sua santissima
ed immutabile volontà. Tu comprendi bene che il nostro santo inquisitore non ha
altro scopo che quello di strappare al demonio l’anima di questa giovine,
impedendo il suo matrimonio con don Estevan de Vargas, il quale si dice sia
figlio di un marràno[13] e nipote d’un
moresco-,-
-Oh! questo è vero-, disse la Graziosa, facendo un
gran segno di croce. -Monsignore è un sant’uomo, ei non agisce che a fin di
bene. Ma non mi dite che sono una strega-, soggiunse tutta spaventata; -una tal
parola non deve uscire dalla bocca di un famigliare del Sant’Uffizio; poiché in
premio del mio zelo a servire la santissima Inquisizione, questa parola
potrebbe mandarmi a figurare nel primo grande atto-di-fede che avrà luogo per
celebrare le vittorie del re Carlo, nostro amatissimo padrone-.-
-Andiamo, càlmati, Graziosa, tu sei troppo buona
cattolica e troppo fedele alla santa Inquisizione per averne timore. Quanto
prima avremo, è vero, un grande atto-di-fede; e non sarà il primo dacché il
nostro amatissimo signore e re Carlo è salito sul trono: ebbene, io ti prometto
il miglior posto nella gran loggia della piazza maggiore, per vedere arrostire
tutti quei cani d’eretici-.-
-Davvero?-gridò
la giovine andalusiana, battendo graziosamente le sue mani l’una
coll’altra. -O signor Enrico! Si dice che vi saranno più di quindici eretici
bruciati, ed un gran numero a cui Sua Eminenza farà grazia, purché facciano
abiurazione e vogliano morire da buoni cristiani; costoro saranno strangolati
prima d’esser dati alle fiamme[14]. Oh! Che bella
vista! Signor Enrico, mi farete vedere tutto, non è vero?--
-Te lo giuro-, rispose il famigliare, -in nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e col permesso del santissimo
inquisitore di Siviglia. Sarà una cosa magnifica-, aggiunse Enrico, contento di
veder la gitana animarsi di tanto zelo pel Sant’Ufficio.
Ma se avesse guardato attentamente il volto
dell’Andalusiana, avrebbe veduto le sue labbra vermiglie impallidire in modo
impercettibile, il suo occhio vivace e brillante, pieno di un vago terrore, e
sotto il giustacuore di velluto nero avrebbe, un poco più dappresso, sentito il
suo cuore pulsare a colpi ineguali e celeri.
La sorella di Giovacchino non poteva, rimontando ai
suoi antenati, trovare molto lungi da essa la sorgente d’un puro sangue cattolico
per essere veramente tranquilla di contro all’Inquisizione, della quale era
divenuta, per paura, l’umile serva; e, poco rassicurata dall’aria bacchettona
ed ipocrita del soldato di Cristo[15], esclamò con
sembiante esaltato, che si sforzava di rendere ridente:
-Oh! Che bella vista. Oh! che bella vista
dev’essere!-
In quell’istante, essa vide i grandi occhi neri del
frate fissi sopra di lei. Il monaco non aveva perduto una sillaba della sua
conversazione, né un solo movimento della sua fisionomia……..
-Danne del vino, ragazza mia-, disse il famigliare.
E la povera graziosa, contenta di fuggire agli sguardi
penetranti del religioso e a quella garrulità per la quale tremava ad ogni
istante di tradire i suoi terrori, la Graziosa, vivace e leggera, andò a
cercare una brocca piena di vino, che pose davanti a Sua Reverenza.
Mentre Enrico avanzava uno sgabello di legno per
assidersi di faccia al religioso, un nuovo personaggio entrò nella taverna. Il
nuovo arrivato si avvicinò al famigliare, ed accennando il monaco con lo
sguardo,
-E’ questo il nostro santo commissario?-domandò con
un tuono di voce melato.
-Egli stesso, signor Francesco-, rispose Enrico.
Il religioso si alzò ed incrociò le sue mani sul
petto. Il nuovo venuto fece il medesimo gesto, il monaco le incrociò quindi in
senso inverso, poi s’inchinò verso Francesco come per salutarlo. Francesco
fece, da parte sua lo stesso movimento, di maniera che, inchinandosi, le loro
fronti si toccarono leggermente.
Era quello il saluto distintivo dei famigliari del
Sant’Uffizio.
Ma Francesco non rimase contento di questi segni di
riconoscimento; scoprì il suo petto, e sotto il suo giustacuore, mostrò una
placca d’argento, che aveva la figura di un Cristo rovesciato. In mezzo al
petto del Cristo brillava un sole, simbolo della luce, divisa derisoria
dell’Inquisizione, questa messaggera di errore e di annientamento.
A quest’ultimo segno il monaco non rispose.
Francesco gettò sopra Enrico un cupo sguardo di
diffidenza.
Enrico alzò le spalle con aria convinta e
noncurante.
-Non è dei nostri, ti dico-, replicò Francesco, -e
noi siamo traditi; traditi, intendi?-proseguì egli, serrando fortemente il
pugno d’Enrico; e la sua fisionomia esprimeva una collera feroce.
Tutto questo era detto a voce bassa, ma non tanto
che i frequentatori della taverna non si fossero avveduti di un movimento di
agitazione che annunziava una contesa. Tutti gli occhi si diressero allora
verso il religioso, che, rimasto tranquillo ed impassibile, sembrava essere
testimone piuttosto che attore di questa strana scena.
Alcuni all’aspetto del frate, la cui figura
imponente inspirava il rispetto, osarono mormorare, e minacce contro Enrico e
Francesco uscirono dalla bocca di quei banditi.
Quantunque sicuri della loro vendetta, in caso
d’insulto, i famigliari dell’Inquisizione non si avvisavano di venire ad una
rissa cogli abitanti del quartiere di Triana: essi li conoscevano assai per
sapere che per la difesa di un monaco si farebbero tutti tagliare a pezzi; ma
vi era qualche cosa che al popolo imponeva più dei preti e dei monaci, cioè
l’Inquisizione.
Con astuzia infernale, Francesco, volgendosi verso i
bevitori, gli sguardi ed i gesti dei quali esprimevano intenzioni ostili:
-Fratelli-, gridò, -sarete voi così cattivi
cattolici da difendere un nemico dell’Inquisizione?-
A questa parola terribile, d’Inquisizione, avreste
veduto curvarsi tutte le teste, ed un pallore livido far luogo all’animazione
dei volti: si sarebbe detto la folgore caduta in mezzo a quegli uomini rozzi e
turbolenti. Niuno di essi osò più dire una parola.
Allora il frate, senza fare attenzione né alla
collera di Francesco né allo stupore dei banditi della taverna, si alzò
gravemente, e si diresse verso la porta, in mezzo ad un cupo silenzio.
-Come!- esclamò Francesco, -lo lascerete voi fuggire
così? Nessuno di voi si muoverà ad avvertire i birri del Sant’Uffizio?--
-Io, io!- gridò la Graziosa, spaventata.
Nello stesso tempo si slanciava verso la porta,
volendo schivare col suo zelo il pericolo che temeva sempre per sé medesima; ma
nel tempo ch’essa andava ad alzare il saliscendi, il monaco gettò su di essa
uno sguardo lungo e profondo; e la Graziosa, affascinata, giunse le mani
cadendo in ginocchio davanti all’uomo di Dio.
Per un impulso simultaneo, i banditi tesero le loro
braccia verso di lui, come per implorare il suo soccorso contro un potere
occulto che non osavano sfidare.
Allora il monaco, volgendosi con aria maestosa verso
quella assemblea muta e raccolta, la benedisse con uno sguardo celeste, e
slanciandosi nella strada, si dileguò senza che nessuno, senza che Francesco
stesso, avesse pensato a trattenerlo.
-Siamo stati traditi, imprudente!- disse Francesco
indirizzandosi ad Enrico, immerso, come gli altri, in un profondo stupore.
-Ei non sa niente!-, replicò Enrico.
-Ebbene, all’opera dunque!- gridò Francesco
rassicurato;
-non abbiamo bisogno di un terzo per questo-.
E i due soldati di Cristo uscirono insieme
dalle taverna.
______________
II.
Il
palazzo della Garduña.
All’estremità del quartiere di Triana esisteva
un’antica casa diroccata, di stile moresco, le cui rovine servivano di rifugio
agli augelli notturni[16].
Mendici senza asilo, incuranti gitani, dormivano
sovente fra le pietre in quelle tiepide notti che, in Andalusia, rendono
inutile ogni riparo; e nei giorni invernali, delle vecchie, accoccolate al
sole, venivano a cercare dietro a quelle ruine un riparo contro il vento del
Nord.
Alle larghe proporzioni delle rovinate muraglie, a
certi ornamenti architettonici perfettamente conservati, potevasi riconoscere agevolmente
che ivi era esistito un volta un vasto e sontuoso palazzo; poiché in mezzo a
quegli avanzi, un lungo colonnato elegante e leggiero sosteneva una vôlta
disseminata di arabeschi d’una perfetta conservazione. Un muro quasi intatto,
quantunque in apparenza di fragile costruzione,circondava questo colonnato, che
aveva dovuto ornare una splendida sala; una porta di rimarchevole solidità ne
difendeva l’entrata.
Qua e là fra i rottami crescevano alcuni arbusti
selvaggi;
delle gramigne dai fiori d’un color rosa pallido,
dei mucchi di viole a ciocche dai soavi
profumi, dei boschetti di rose e di lauri selvaggi, i cui densi cespugli
gettavano sulla nudità di quelle ruine la loro verdura ombrosa e vivace.
Questo luogo bizzarro serviva di sala di riunione
alle assemblee dei membri della Confraternita de la Garduña[17]; era il
palazzo del maestro dell’ordine.
Tutti color che hanno letto le novelle di Cervantes
si rammentano del tipo deliziosamente grottesco di Monipodio, il capo
dei ladri di Siviglia. Nell’epoca di cui parliamo, vale a dire più di
cinquant’anni innanzi a Cervantes, una confraternita di ladri, protetti da alcuni
membri della polizia, esisteva già in Spagna.
Questa bizzarra istituzione, la cui origine risale
al cominciamento del secolo decimoquinto, aveva allora per capo in Siviglia un
uomo singolare, dall’aspetto ad un tempo grave e sarcastico, dal linguaggio
oscenamente pittoresco; tipo tradizionale del resto, almeno nel carattere, e
che si trovava ancora in Spagna nel 1821.
La stessa sera di febbraio 1534, in cui avevano
avuto luogo le cose riferite nel capitolo precedente, una scena non molto
curiosa e molto più originale aveva luogo nel palazzo del maestro della Garduña.
Erano circa dieci ore; la porta solida e pesante del
palazzo della Garduña, girando sui cardini, permise il passaggio ad una
trentina d’individui di ogni sesso e d’ogni età. Entrarono silenziosamente ed
in ordine, osservando scrupolosamente i diritti del rango e della gerarchia.
Nel mezzo della sala benissimo illuminata di torcie
di ragia fissati ad anelli impiantati nelle colonne, stava il maestro
dell’ordine.
Era un uomo di alta statura, forte, e di sistema
osseo molto sviluppato; il suo viso olivastro, solcato da alcune cicatrici,
offriva un singolare miscuglio di astuzia, d’audacia, di sangue freddo, e
talvolta, quando si degnava sorridere, di sarcasmo e d’ironia. La sua voce
maschia e grave aveva un accento energico, e quando comandava, la forza della
sua volontà imprimeva al suo sguardo ed al suo gesto una grande potenza di
dominazione. Ei portava una camicia di grossa tela ed una casacca bruna gettata
sulle spalle a guisa di mantello; delle zaraguelles, specie di brache di
tela, coprivano le sue cosce fino al di sopra del ginocchio. Le sue gambe, nude
e nervose, erano coperte di pelo, e i suoi piedi, larghi, piani e rugosi,
indizi di una bassa estrazione e d’una enorme forza fisica, erano calzate d’alpargatas,
specie di sandali annodati attorno ai malleoli da una quantità di nastri.
Quest’uomo si chiamava Mandamiento[18].
I diversi personaggi che erano entrati nella sala
fecero cerchio attorno al maestro della Garduña y floreo[19].
Accanto a lui, e per ordine di merito, si posero
l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra, due bravi nella forza
dell’età. Il primo si chiamava Manofina, a cagione della sua
inarrivabile destrezza a dare, passando, un colpo di pugnale senza che la sua
vittima s’accorgesse donde partiva il colpo, e del suo prodigioso talento di
spadaccino e tiratore di pistola.
L’altro era detto Corpo di ferro. Aveva
sofferto tre volte la tortura senza confessare i suoi delitti, senza denunziare
alcuno, e senza che il suo corpo sembrasse risentirne danno.
Venivano in séguito due vecchietti, chiamati soffietti,
nome che la società dava a tutti quelli fra i suoi membri che, col favore di un
esteriore devoto, le servivano di spie e d’introduttori dovunque era da fare un
furto.
Poscia delle vecchie donne, utili personaggi,
chiamati Coperte; poscia ancora alcuni capriuoli sotto vestimenta
diverse; finalmente molte ragazze, chiamate Sirene, che erano le
cortigiane dei capi dell’ordine. Esse avevano inoltre la missione di intenerire
coi loro vezzi i giudici, i procuratori ed anco gli scrivani, dai quali spesse
volte dipendeva la vita dei fratelli della Garduña. Spesso eziandio le loro
seduzioni non riuscirono infruttuose presso qualche canonico voluttuoso, o
qualche priore lascivo, la influenza dei quali allora era senza limiti tanto
sulle cose temporali, quanto su quelle spirituali.
Al di fuori del cerchio, ed un poco in disparte,
stava modesto un giovinetto, oggetto precipuo della riunione; si chiamava Graffio[20].
Il signor Mandamiento girò sull’assemblea uno
sguardo potente, fece devotamente un gran segno di croce, e borbottò
un’orazione, volgendosi verso un’immagine grossolana della santa Vergine
attaccata al muro.
Tutti gli astanti l’imitarono.
Poscia Mandamiento parlò in questi termini:
-Nobili e valenti cavalieri del pugnale, fedeli soffietti,
utili coperte, seducenti sirene, caprioli leggieri ed
altri membri di questa onorevole confraternita, salute! Che Dio Nostro Signore,
e la sua santa Madre vi accordino la loro divina protezione, e vi scampino
dagli uncini[21],
dalle fruste[22],
dalle travi[23],
dalle angosce[24]
e dai vuomiti[25],
sovente mortali per voi, e sempre pericolosi per i vostri fratelli.
-io vi ho qui riuniti oggi per consultarvi sopra un
fatto che interessa i nostri diritti, e potrebbe compromettere la nostra
società.
-Tutti sapete, o miei figli, che da quando lavorate
sotto la mia direzione, non abbiamo avuto a deplorare che un dozzina di volteggi[26],
circa quaranta passeggiate sull’asino[27],
ed alcuni viaggi nella marina reale[28].
-Siviglia ne forniva sei volte tante ogni anno alle unghie
della tigre[29]
prima che mi aveste nominato capo della vostra confraternita. Appena
settantacinque ganci[30]
sono caduti quest’anno nella gola del lupo[31],
e sopra un trentina dei nostri fratelli che sono in questo momento fra i suoi
denti, ardisco affermare che vi saranno appena tre angustiati[32],
cinque o sei marinari[33],
ed una dozzina di cavalcanti[34].
Penso che avremo eziandio due o tre frustati, e altrettante nostre
sorelle passate al miele[35];
ma non abbiamo potuto impedirlo. Quando avremo tanti denari da far dire più
messe e meglio pagare le guardie del Sant’Uffizio, i nostri affari anderanno
altrimenti. Tale è oggigiorno, o miei figli, lo stato fiorente della Garduña.
-Se vi ho richiamato alla memoria i miei piccoli
servigi-, riprese Mandamiento con una finta modestia, -non è per far pompa del
debole talento che Dio, Nostro Signore, di cui non sono che l’umilissimo
strumento, si è degnato compatirmi, ma per farvi comprendere che l’unione, la
più stretta, l’accordo il più perfetto dee regnar tra di noi, affinché possiamo
esercitare con tutto il successo possibile la nostra utile professione, e
meritare la stima delle dame e dei cavalieri che ci fanno l’onore d’impiegarci.
Passo allo scopo di questa riunione-.
Nello stesso tempo il maestro girò attorno a sé lo
sguardo scrutatore, ed avendo veduto Graffio, chetava umilmente
appoggiato contro una colonna, gli fece cenno d’avvicinarsi.
Graffio si affrettò ad
obbedire.
Il cerchi di persone che lo separava dal maestro si aprì
per dargli passaggio. Il giovine si avanzò, ed in pochi passi si trovò a portata
del signor Mandamiento.
Il maestro della Garduña prese il giovane per
la mano, e mostrandolo all’assemblea, continuò così il suo discorso:
-Fratelli! I signori Manofina e Corpo di
ferro hanno sorpreso questo giovane sul peristilio della cattedrale, mentre
eclissava[36]
prima un fazzoletto da tasca ad un gentiluomo, poi una borsa benissimo fornita
al sagrestano d’un convento di monache. Per dire il vero egli ha spiegato, in
ciò fare, una grande abilità, ma non è men vero che, non appartenendo alla
nostra confraternita, egli ha violato gli statuti del nostro ordine eclissando
senza averne l’autorità, e di più appigliandosi ai beni della Chiesa.
-I signori Manofina e Corpo di ferro,
considerando le buone disposizioni ed il talento precoce di questo giovane,
talento che, per quanto essi dicono, diverrà l’onore della Garduña, mercé Dio e le nostre buone
lezioni, Manofina e Corpo di ferro hanno amato meglio condurlo
presso di noi che gettarlo alla tigre, che forse avrebbe soffocate così felici
disposizioni. Tuttavia questo giovane ha violato i nostri statuti ed ha
meritato un soffio [37]-.
-Che ne
pensate, signori?-disse Mandamiento, volgendo il suo sguardo sull’assemblea.-
-Il maestro ha ragione-, mormorarono i banditi:
-questo giovane ha meritato un soffio -.
Manofina e Corpo di ferro fecero sentire un sordo
grugnito, espressione di mormorio e di malcontento.
-Canaglia maledetta-, brontolò Manofina,- qui
è come al Rosario[38]:
questa turba risponde sempre amen.
«Una mano così abile-aggiunse Corpo di ferro.
«Un soffio! Un soffio! » replicarono alcune coperte, mostrando con un riso di iena due o
tre denti lunghi e vacillanti che ricascavano sul loro labbro inferiore come i
denti d’un cinghiale. Mandamiento rimaneva impassibile, ma nulla gli sfuggiva
di quello che seguiva intorno ad esso. Lasciò calmare quell’agitazione, poi,
volgendosi di nuovo all’assemblea,
«Qual è la vostra opinione, signori? »
disse con
una voce che aveva più l’accento del comando, che quello della deferenza. Tutti
si tacquero, e quelle stupide fisionomie non espressero che la passiva ed
istintiva obbedienza che gli esseri volgari hanno sempre verso gli uomini di
genio.
Soltanto i due bravi gettarono sul capo uno sguardo
obliquo, pieno di malcontento e di odio.
Il maestro finse di non avvedersene, e volgendosi
nuovamente verso l’assemblea ,
«Signori » disse, «è mio avviso
che in considerazione del genio precoce di questo giovane, ed anco dei nostri
onorevolissimi fratelli e signori Manofina e Corpo di ferro,che
lo proteggono, è mio avviso, dico, che riceviamo questo giovane fra noi in
qualità di fratello postulante[39],
con dispensa dall’anno di noviziato, e che, per meglio incoraggiarlo, gli accordiamo
tutti i privilegi ai quali han diritto coloro fra i nostri apprendisti che si
sono distinti durante il loro anno di prove, purché paghi tutti i diritti che
gli altri fratelli pagano alla confraternita, e che dia il danaro a Dio. In una
parola, io lo prendo sotto la mia protezione. Ed ora »aggiunse il
gran maestro con voce sonora, «se qualcheduno di voi ha da fare osservazioni, parli »
Tutti si tacquero: alcune sirene gettarono sguardi
di compiacenza su Graffio, che era un bel ragazzo.
«Stupido gregge! » mormorarono i bravi.
«Ebbene! Signori », proseguì Mandamiento, «la vostra volontà è d’accordo con la mia, ed io ve ne ringrazio
».
Allora, avanzandosi verso Graffio, lo prese di nuovo per la mano,
lo presentò individualmente a tutti gli astanti, che gli dettero
l’abbracciamento fraterno. Il gran maestro gli fece lo stesso onore, poscia gli
diede la parola d’ordine e gl’insegnò i diversi segni e toccamento propri della
Compagnia. Finalmente gli rimise una pergamena sulla quale erano scritte le
cariche e i privilegi dei fratelli della Garduña[40].
Così, terminata la cerimonia, Graffio andò a
mischiarsi ai suoi nuovi compagni di uccisione e di rapina.
Quindi il maestro, togliendosi di tasca un pezzo di
carta coperto di scarabocchi,
- Fratelli », disse, - ecco l’ordine del giorno:
-Tre battesimi[41]da applicarsi più leggermente
che sia possibile: uno ad un bel giovanotto dai mustacchi neri, che passa tutte
le sere a sette ore sul ponte di Triana. E’ un gentiluomo d’alta statura e di
bella apparenza; porta un mantello scarlatto. Questo battesimo sarà pagato
cinquanta reali, più cinquecento maravedis, se può esser applicato sul
viso, in modo da marcare ben l’individuo. La persona che paga è una signora
molto bella e giovanissima: per la qual cosa, signor Graffio, io mi riporto
alla vostra galanteria per il bel sesso, incaricando voi di questa faccenda.
-Ecco trentasette reali e mezzo che vi toccano, senza contare i
cinquecento maravedis di gratificazione che la signora vi darà, se potrete
giungere a fare nel viso del battezzato uno sfregio incancellabile; cosa
facile, purché soffreghiate la fatta ferita con un po’ di sego sciolto
nell’aceto -.
Nel medesimo tempo Mandamiento rimise a Graffio un’ampolla piena
di un liquore nerastro.
- Il secondo battesimo -, continuò il maestro. - pagato
soltanto quaranta reali, dev’essere amministrato a Sua Paternità il priore del
convento dei monaci della Mercede: egli ha tolto una penitente a Sua
Beatitudine che paga; essa darà quattro dobloni di gratificazione se si
riuscirà a cavare un occhio al suo priore; perciocché la penitente in questione
nulla ama tanto a questo mondo quanto i begli occhi.
- Io credo che, affine d’assicurarne il guadagno dei quattro
dobloni, debba incaricare di questo battesimo il signor Manofina e la sua
diletta Colubrina, la destrezza saprà condurre in luogo convenevole il
reverendo priore dei monaci della Mercede. Ecco trenta reali -, aggiunse, -e
non dimenticate la santa Vergine[42]. I quattro dobloni spettano
alla sirena -.
-Sì, sì, io me ne incarico! - gridò quella fra le sirene che il maestro aveva designato col
nome di Colubrina. -Io me ne incarico, signor Mandamiento! -
- Silenzio! Mia rosa dei boschi -, interruppe il maestro, arricciando
i suoi mustacchi: -noi conosciamo la tua destrezza ed il tuo attaccamento.
-Voi avete in essa una vera perla, figlio mio -, continuò volgendosi
verso il bravo: -conservatela e non la battete troppo -.-
-Sì, vero tesoro da conservarsi per gli altri -, mormorò il
bandito con una espressione di brutale gelosia.
-Andiamo, andiamo -, disse il maestro; - abbiate dunque più
attaccamento per la causa comune signor Manofina -.
Il garduño si tacque, ma gettò sulla sirena degli sguardi di diffidenza
e di collera.
La Colubrina gli si avvicinò, e passando il suo braccio in quello
di lui, si mise a guardarlo teneramente in viso con i suoi grandi occhi
fiammeggianti.
-Andiamo, Manofina mio -, ella disse, -non t’inquietare. Non sai
che io non amo che te? -
Il viso del bravo si fe’ più dolce; egli subiva quella
fascinazione dei sensi, onnipotente sugli uomini fisicamente forti.
-Sì -, disse a voce bassa, -tu mi ami, non è vero? Ma quel
priore?….--
-Ebbene! Quel priore, io te lo condurrò, ecco tutto. Con lui,
promettere non è mantenere. Sai bene che io sono solamente tua -.
Il bravo la guardò con un misto di gioia confidente e di dubbio
crudele. E, cosa strana, la sirena non mentiva. Per una rarissima eccezione
questa donna, avvezza per mestiere a tutte le impudenze possibili, si serviva
della sua meravigliosa bellezza per attirare le vittime nelle reti della Garduña;
ma giammai il suo cuore né il suo corpo non erano stati complici di questa
condotta obbligata: essa era costantemente ed a rigor di termine rimasta fedele
al fiero bravo ch’erasi scelto per amante.
Mandamiento continuò:
-Un terzo battesimo, pagato sei dobloni; è un canonico che paga,
la cifra ve l’indica bene. Questo battesimo dev’essere dato domani ad un
confratello del mandatario avanti sei ore della sera, affinché il battezzato
non possa fare ai membri del Capitolo le visite obbligate, e procurarsi i loro
voti per la elezione del decano; il che lascia maggiori speranze al suo rivale.
Se a capo ad alcuni giorni, questo battesimo potesse cangiarsi in funerale,
il canonico raddoppierebbe la somma. Ben inteso che bisogna agire con
accorgimento, e non oscurare[43] il vostro uomo ad un tratto.
Tale è il desiderio del mandatario, e chi paga bene ha il diritto d’essere ben
servito. In oltre, se questo canonico fosse eletto decano, ognuno intende che
la confraternita della Garduña potrebbe contare sulla sua protezione, sua signoria
me l’ha formalmente promesso. A voi signor Corpo di ferro, tocca questo
battesimo. Servitevi d’un pugnale sottile, o, meglio, di una lama triangolare o
d’un punteruolo, ammenoché non possediate un buon ago da valigiaio: è desso il
migliore strumento per fare una ferita che duri dieci o dodici giorni, e che
non getti sangue. Ecco il vostro danaro; partite e siate esatto.
-Sei bagni[44] da dare -, continuò il
maestro; e distribuì questa faccenda a dei compagni volgari.
-Più tre viaggi[45], di cui uno sulla strada di
Jaën, domani, a nove ore; è l’ora in cui deve passare la galera[46] che porta ottantamila reali
per il nunzio di Sua Santità, prodotto della vendita delle bolle e delle
indulgenze nel reame di Siviglia; l’altro sulla strada di San Lucardo, a mezza notte,
esso pure al passaggio della galera, la quale porta centoventimila reali
che appartengono ad un banchiere ebreo, e sono destinati ad un banchiere moro
di Siviglia. Noi dobbiamo togliere questo denaro ai nemici di dio, i quali non
possono servirsene che a detrimento della nostra santa religione.
il terzo viaggio avrà luogo sulla via Granata, nel punto della
riunione di essa colla strada di Xeres. Tre gentiluomini debbono passarvi, che
portano la borsa ben fornita ed un guardaroba nuovo. Ora voi sapete che molti
dei nostri fratelli sono malissimo forniti di panni-.
Queste tre spedizioni furono confidate a tre fratelli sicuri e
passati maestri.
-Infine -, disse Mandamiento, -e questa è la cosa più importante,
un oscuramento[47] sulla persona del giovane don
Estevan de Vargas. Egli esce tutte le sere, a mezzanotte, dalla casa di Sua
Eccellenza il governatore di Siviglia. Dicesi che sia il fidanzato di sua figlia,
vezzosa giovane di diciassette anni, alla quale questo oscuramento deve senza
dubbio costare molte lacrime; ma ciò non ne riguarda. Questa operazione
ci sarà pagata cinquanta dobloni anticipati, più una somma uguale dopo
l’esecuzione, e la protezione del santissimo inquisitore di Siviglia, a cui
l’affare sta indubitabilmente molto a cuore, perocché ci ha fatto offrire la
sua protezione, moneta di cui non è prodigo -.-
-E chi garantisce queste belle promesse?- interruppe Manofina, che
le vive occhiate e le carezze della sirena avevano singolarmente intenerito a
favore dei due amanti.
-La persona che me le ha fatte e segnate mi è perfettamente nota
-, rispose il maestro; -e se vi mancasse, queste promesse scritte sarebbero per
me rimesse alla grande fucina di Siviglia[48]. Vedete, figlio mio, che io
ho prese le mie cautele -.
Nel medesimo istante un novizio, che faceva sentinella ad una
qualche distanza dalle ruine, accorse tutto spaventato.
-Maestro! Maestro! -gridò, -ecco un uncino che viene verso
la casa -.
I garduñi, allarmati, portarono la mano al loro pugnale. Il
maestro non si turbò menomamente; ei si volse verso i suoi compagni.
-In ginocchio! Ragazzi -; diss’egli; e guardando la immagine della
Vergine, si mise a recitare devotamente il rosario, al quale risposero in coro
le voci miste degli astanti.
Alcuni minuti dopo, la guardia aprì alquanto la porta, e introdusse
la sua testa all’interno della sala. Mandamiento, senza interrompere la sua
orazione, voltò lentamente la testa verso di lui, e nel bel mezzo di un Ave
Maria gridò allegramente:
-Oh! È
Giovacchino, il nostro fido fratello -
Un segno di croce generale pose fine alla incominciata preghiera;
tutti si alzarono. Il Capo di provincia, traendo vivamente la guardia in un
canto della sala,
-Che tu porta -, disse, -fratello Giovacchino? Sei tu sulle tracce
di qualche pericolo per la nostra confraternita? -
-Precisamente no-, rispose l’uncino. -Sai che io fo buona
custodia, e che la mia doppia missione di guardia e famigliare del Sant’Uffizio mi mette in grado di salvarvi
da molte reti -.-
-E’ vero, tu sei un buon amico, un fratello affezionato -.-
-Ebbene -, proseguì Giovacchino,
-a tua volta il rendermi un
servigio, maestro -.-
-Parla fratello; di che si tratta? --
-Si tratta, in primo luogo -, riprese la guardia, -di rendere ad un mio parente, sagrestano alle
Carmelitane, una borsa che gli è stata rubata questa mattina -.-
-Avrai questa borsa, o fratello: siamo in grado di soddisfarti su
questo punto. E poi? --
-Poi vi è qualcosa di più serio -, disse l’uncino
abbassando la voce: -Si tratta nientemeno
che di oscurare al bisogno due o tre famigliari della santa Inquisizione -.-
-Fratello! -disse Mandamiento spaventato, -voi abusate della
vostra posizione, domandate cose impossibili -.-
-Impossibili o no, è d’uopo che si facciano -, rispose Giovacchino
con accento fermo.
-Ma, fratello mio, ignorate voi che il santo inquisitore è il nostro
cliente migliore?[49] --
-Non importa, è forza servirmi, o questa sera io non sono più dei
vostri -, disse la guardia.
-Ebbene! Che bisogna fare? -domandò il Capo, vinto da questa
minaccia.
-Bisogna darmi subito due o tre bravi provati, ed una mezza
dozzina di novizi per condurli dove mi piacerà, per far loro oscurare
chi vorrò, infine, che obbediscano ai miei ordini come ai vostri -.-
-Tu sei troppo esigente, Giovacchino -.-
L’apostolo li vuole -, replicò in tuono secco la guardia.
-Affrettati dunque, Mandamiento; affrettati, io non ho tempo da
perdere -.-
-Poiché l’apostolo il vuole, bisognerà obbedire -, disse il maestro
sospirando; -La sua volontà dev’essere come quella di Dio; perciocché egli ha
suscitato Manofina, e liberato Corpo di ferro dalla gola del lupo: è desso che
ci cura nelle nostre malattie. Sia fatto come tu vuoi, Giovacchino; prendi i
miei due bravi migliori, e ti obbediscano come a me stesso -.
Nel medesimo tempo, il maestro fe’ cenno a Corpo di ferro, gli
disse alcune parole a voce bassa, poi, chiamando Manofina, ingiunse loro di
accompagnare la guardia.
-Io dimenticava di dirti -, aggiunse indirizzandosi a Manofina,
-che t’incarico di oscurare il giovane Estevan de Vargas: questa operazione
ti rimetterà nelle buone grazie dell’inquisitore, in caso di sconfitta in
quella di cui t’incaricherà il nostro fratello Giovacchino. Addio, signori, e
coraggio! -
I due bravi scelsero, ciascuno dal suo lato, tre novizi accorti e
robusti.
-Andate -, disse il maestro facendo un gesto colla mano, -e la
Vergine vi guardi! -
La guardia si mise alla loro testa, e col favore delle tenebre la
piccola truppa uscì senza rumore dall’antro della Garduña.
_____________________________________
III.
Dolores.
Mentre accadeva nel palazzo della Garduña questa scena
terribile ad un tempo e bizzarra, un’incidente d’altro genere aveva luogo
presso il governatore di Siviglia.
Era una di quelle case andalusiane vaste e comode, rischiarate
soltanto da porte con vetri e da finestre aperte sopra una gran corte piena di
fiori.
Al piano superiore di questa casa, che per ordinario serviva di
residenza d’inverno, a lato di una gran sala ove riunitasi la famiglia, si
trovava una cameretta ammobiliata come la cella di una religiosa. –Un lettuccio
bianco e duro, guarnito di un semplice zanzariere di tela batista, due seggiole
di legno nero intagliato, un inginocchiatoio del medesimo stile, sormontato da
un gran Cristo d’avorio, e finalmente in un incavo o specie di nicchia praticata
nel muro, una piccola Vergine di marmo bianco, preziosa statuetta dovuta allo
scalpello di celebre scultore, dinnanzi alla quale ardeva incessantemente una
lampada di argento dorato, piena del più puro olio d’oliva.
L’accennata camera era della figlia del governatore. Questa
fanciulla, dell’età di diciassette anni appena, era lungi dal somigliare alle
altre donna dell’Andalusia. D’una bellezza semplice e nobile, d’un carattere
fermo ed elevato, Dolores non aveva passati i suoi anni giovanili in quell’oziosaggine
mistica che esalta sì smoderatamente l’immaginazione ed i sensi delle femmine
spagnole.
Essa aveva avuto per precettore un fratello di sua madre, uomo
sapiente e grave, che avendo viaggiato lungo tempo in Francia ed in Alemagna,
erasi dilettato di coltivare, di adornare quella brillante intelligenza, di
fortificarla colla filosofia.
Ei non aveva seminato in terreno ingrato: Dolores sarebbe stata,
anco ai nostri giorni, una donna assai considerevole.
Ardente di cuore e d’anima, dotata d’uno squisito giudizio, d’una
retta ragione, d’una volontà energica, essa aveva la fede pura ed illuminata
dei Padri della Chiesa; la sua indulgente carità aborriva da tutti gli errori,
da tutte le crudeltà del fanatismo. Era pia come lo fu Isabella la Cattolica,
quella grande regina la cui dolce e tenera pietà lottò sì lungo tempo, e con
tanto terrore, contro lo stabilimento dell’Inquisizione, e sempre contro le sue
opere[50]. La figlia del governatore
seguiva lo spirito e la morale del Vangelo, cosa pericolosa in quei tempi, nei
quali per vivere in sicurezza bisognava essere, non già discepoli di Cristo, ma
creatura dell’Inquisizione.
Tuttavia, ad onta della sua filosofia, sì avanzata per la sua età,,e
soprattutto per l’epoca in cui viveva, Dolores, fedele alle pratiche esteriori,
Dolores, figlia di buoni cattolici, non aveva attirato su sé medesima gli
sguardi del terribile tribunale.
Il grande inquisitore di
Siviglia, Pietro Arbues, sembrava, all’opposto, distendere come pegno di pace
la sua amicizia onnipotente sulla casa del governatore.
Ricevuto a tutte l’ore in quella famiglia, nella sua doppia qualità
di prete e di capo del tribunale inquisitoriale, Pietro Arbues, allora nell’età
delle passioni ardenti, avendo appena quarant’anni, non aveva potuto vedere la
pura e santa giovane, senza che il dèmone della concupiscenza lo infiammasse
per essa dei più violenti desidèri: ei non aveva potuto vedere, senza provare
un’orribile gelosia, il giovane Estevan de Vargas divenire l’unico oggetto
dell’amore di quella fanciulla; aveva seguito il progresso di questa passione
con un’ardente inquietudine ed un odio tale, che tutta la sua astuzia di prete
inquisitore valeva appena a dissimulare.
Indarno, sotto il velo di una santa e paterna amicizia, aveva egli
cercato di svegliare nell’animo di questa bella giovane dei sentimenti che corrispondessero a’ suoi;
indarno aveva provato sovr’essa il fascino del suo sguardo e della sua
bellezza, veramente rimarchevole.
Dolores non aveva mai potuto difendersi d’appresso a lui d’un
sentimento i timore, ch’ella sforzavasi di prender per rispetto; lo sguardo
dell’inquisitore le cagionava un doloroso turbamento, che la faceva impallidire
e tremare.
Pietro Arbues aveva passato quella serata nella sala del governatore.
Verso dieci ore, la giovinetta, inquieta ed agitata, si ritirò
nella sua camera; ne chiuse semplicemente la porta col saliscendi, come aveva
l’abitudine di fare, non essendovi nulla da temere nella casa di suo padre, ove
era adorata dai suoi servitori. Snodate allora le treccie, lasciò i suoi lunghi
capelli scorrere sulle candide spalle; e inginocchiandosi, si mise a pregare
con fervore.
Ella sfogò così per alcuni minuti il cupo dolore che opprimeva
l’anima sua; poscia, togliendosi dal seno una piccola lettera, la lesse con
penosa avidità.
-E’ pur questo -, disse -è pure questo il tuo carattere. Povero
Estevan! Io non mi era dunque ingannata! L’Inquisizione l’odia, ed egli teme di
compromettermi venendo in mia casa. Quel viaggio che mi ha detto essere
indispensabile, non era che un pretesto per allontanarsi di qua per alcuni
giorni; tuttavia ei non può vivere senza vedermi, mi scongiura di recarmi
questa sera appié della Giralda, ove deve aspettarmi; egli morrà se io ricuso….
-Oh! Sì, egli morrebbe privo di me, ed io pure morrei priva di lui
-, aggiunse asciugandosi una lacrima: -il nostro amore non è di quelli che
l’assenza può estinguere.
-Oh mio Dio! -continuò, -in qual tempo infelice viviamo, in cui è
mestieri soffocare i più dolci sentimenti della natura! Leggi divine di Cristo,
che siete divenute? Secolo degli Apostoli, in cui due sposi cristiani si
amavano liberamente in Dio, vivevano l’uno per l’altro, e morivano insieme, sei
dunque tu che hai fatto sorgere questo secolo di ferro, in cui non si può
neppure amare Dio, a suo talento? In cui i preti non sono altrimenti i nostri
consolatori, ma i nostri carnefici? In cui l’albero della vita è divenuto un
albero di morte, che stende i suoi rami funebri sul mondo[51]?
O Estevan! Dove fuggire con te sur una terra amica in cui questa
lebbra non sia ancor penetrata! -
E in un accesso di insensata disperazione, la sventurata giovane
si torse le mani, si slanciò verso il Cristo d’avorio che sormontava il suo
inginocchiatoio, e, stringendolo con
forza sul suo seno, mormorò con voce interrotta:
-Tu, che hai tanto sofferto, mio Dio, insegnami a soffrire! -
Bentosto, per una reazione subitanea, proruppe in singulti che
straziavano il cuore, e coprì di lacrime amare l’immagine di colui che aveva
invocato.
In quell’istante fu spinta leggermente la porta della sua cella;
l’afflitta Dolores, alzandosi spaventata, indietreggiò fino alla finestra della
sua camera davanti al grande inquisitore stesso, che si avanzava lentamente
verso di essa, vestito della sua lunga tonaca.
Dolores non ebbe la forza di gettare un grido.
-Io turbo le vostre preghiere, fanciulla mia? -disse Pietro Arbues,
con accento dolce.
-Monsignore -, ella disse con voce interrotta, -perché dunque
entrate così di notte nella mia camera? La camera di una fanciulla non
dev’esser sacra? --
-Il grande inquisitore ha ogni potere di dispense -, replicò il
Domenicano. -e voi non fate un peccato ricevendomi nella vostra camera -.-
-Monsignore -, riprese Dolores, rossa di fierezza e
d’indignazione, -io non comprendo queste miserabili arguzie che limitano così a
talento di coloro che ne fanno uso le leggi immutabili della coscienza; che
rendono lecito agli uni ciò che è un delitto per altri: la virtù è una, le sue
leggi debbono essere invariabili ed eterne. Voi siete un uomo, monsignore, ed
un uomo non deve entrare di notte nella camera di una donna, ammenoché non sia
suo marito -.-
-Dolores -, disse l’inquisitore con voce severa, -obliate voi che
Cristo ha detto ai suoi apostoli: - Ciò che voi assolverete sulla terra sarà
assoluto nel cielo; - che ne ha dato ogni potere sulle anime e sui corpi? --
-O monsignore! Non travisate così le parole del Vangelo; il testo
ne è sì chiaro e sì puro, che, meno il caso di cattiva volontà, non v’ha che un
solo modo di comprenderlo, che è lo stesso per tutti, monsignore: per voi
ministro del Dio vivente, come per noi, vostri umili discepoli.
-La lettera uccide e lo spirito vivifica -, replicò
l’inquisitore; -e tu sei bene imprudente, o giovane, osando di parlare così
davanti a me. I libri santi sono un codice sacro, una carta divina, di cui a
noi soli è confidata l’interpretazione; a voi, la passiva esecuzione. Guai a
coloro che, interpretandoli da per sé, senza il nostro soccorso, vogliono fuori
di noi cercare la luce! Guai a quegl’insensati che, camminando senza l’appoggio
dei rappresentanti di Gesù Cristo, cadono nell’errore e nell’eresia! -.-
-Non v’ha eresia a seguire il Vangelo, monsignore! --
-Se tu avessi parlato così davanti ad un altro fuori del grande
inquisitore di Siviglia -, disse Pietro Arbues con uno sguardo terribile, -la
giornata di domani non ti ritroverebbe nella casa di tuo padre; e
l’Inquisizione!…--
-io non ho fatto nulla contro l’Inquisizione -, interruppe la fidanzata
d’Estevan con una voce che si sforzava di rendere sicura; nonostante un
invincibile terrore che la faceva tremare suo malgrado.
Pietro Arbues se ne avvide, e si avvicinò alla giovane, che non
poteva più fare un passo indietro: i suoi piedi toccavano il muro della
finestra.
-Dolores -, disse, -tu non
sai dunque che io sono tuo amico?--
-O monsignore! Allora ritiratevi, e non abusate della vostra
autorità per violare così la mia dimora. Uscite, monsignore, uscite, io ve lo
domando in ginocchio! -
Pietro Arbues, assorto nella contemplazione di una bellezza così
meravigliosa, sembrava non intendere la sua preghiera: Dolores era là davanti a
lui, coi suoi lunghi capelli sparsi, coperta d’una veste nera, il cui largo
incavo, secondo la moda del tempo, scopriva in una maniera ammirabile il garbo
vezzoso e puro delle sue spalle di marmo. Il suo personale elevato sembrava
ancor più alto e fiero, e lo splendore dei suoi grandi occhi neri, in cui tutta
la vita pareva essersi rifugiata, prestava un nuovo incanto all’abbagliante
pallore del suo viso.
-O fanciulla! -, esclamò il prete, -fanciulla, quanto sei bella, e
quanto è felice Estevan! --
-Monsignore! - prese a dire Dolores, spaventata dalla cinica
espressione degli occhi del Domenicano; -monsignore, sogno io forse? Non siete
voi il più grande inquisitore di Siviglia, il prete del Signore, il custode
della virtù degli altri? -
-No! -gridò il monaco, trasportato dall’ardente passione che lo
divorava; -non v’ha più grande inquisitore, non v’ha più prete: qui non v’è che
Pietro Arbues, che ti ama, Pietro Arbues, che muore di disperazione e d’amore
-.
Un grido rauco ed inarticolato uscì dal petto della giovanetta, e
tutto il suo corpo divenne freddo come un pezzo di pietra.
L’inquisitore era ai suoi ginocchi; la violenza della sua brutale
passione rendeva orribile in quel momento il suo volto, naturalmente bello e
regolare; ei cercava di afferrare la figlia del governatore. La quale, per
forza del terrore, diveniva così sottile, rasentando il muro, che sembrava
fuggire come un’ombra alle tremanti mani del Domenicano. Tuttavia egli toccava
già l’orlo della sua veste; Dolores, incapace di fare un movimento, stavasi
ferma e come impetrata davanti all’angusta finestra.
Ma siccome nella situazione in cui l’indegno prete l’aveva
sorpresa, essa aveva serbato il Cristo d’avorio stretto al suo seno, nel
momento in cui l’inquisitore, fatto ardito dal terrore di lei, gettava le
braccia attorno alla sua vita, ella stese verso di lui l’immagine santa con un
movimento energico e spontaneo.
-Pietro Arbues -, esclamò essa, -passa questa barriera se tu
l’osi! Prete di Cristo, ardirai tu sfidare il tuo maestro? -
L’impudico Domenicano abbassò il capo, e indietreggiò: egli ebbe
paura!… quel prete fanatico poteva ben violare, snaturare la legge di Dio, ma
non già profanare un’immagine.
Egli si alzò lentamente, gettò sulla giovinetta uno sguardo pieno
d’odio, ed uscì senza voltarsi indietro.
Dolores strinse di nuovo l’immagine protettrice contro il suo
seno.
-O tu, che m’hai salvato -, gridò, -io ti ringrazio! -
La voce lugubre del sereno[52] gridò undici ore e mezzo.
Sebbene spossata, l’amante di Estevan accomodò i suoi capelli
sotto un gran pettine di tartaruga, s’inviluppò in una lunga cappa nera,
discese lentamente le scale di pietra che conducevano alla porta esterna della
casa, e s’incamminò verso la Giralda.
Quando varcava la soglia della sua casa, un’ombra vagante uscì da
un’arcata, ingrandì a poco a poco sul muro di faccia, debolmente illuminato dal
chiarore di un pallido riverbero, e disegnò distintamente il profilo d’un uomo
avvolto in un mantello; Dolores si scosse, ma seguitò il suo cammino senza
fermarsi.
-Bene!- disse l’inquisitore, poiché era desso; -ella è uscita;
Enrico farà il rimanente-.
__________
IV.
La Giralda
La piccola truppa, che
sotto la condotta di Giovacchino era uscita dall’antro della Garduña, seguì in
silenzio il capo provvisorio che l’era stato dato. I bravi davanti, ai due lati
di Giovacchino, i novizi indietro, camminando lungo le case in quelle strade
oscure e tortuose, e non parlando come se tutti quegli uomini fossero stati
muti per nascita.
In Francia non si sa far nulla che con grande rumore, ma in Spagna
si opera ben diversamente! Lo Spagnuolo agisce senza parlare, senza
dimostrazioni esteriori, la sua fisionomia non palesa nulla; avresti un bel
percuotere sulla statua, essa non darà che un suono cupo, e non indovineresti
mai quali tempestose sensazioni racchiuda quel petto di marmo.
Colubrina seguiva a pochi passi di distanza, agitata
dalla missione segreta che era stata affidata a Manofina, inquieta per
quest’uomo rozzo, che amava, e forse anco spinta da quell’istinto delle donne
che detrae irresistibilmente laddove v’ha dolore da confortare o pericolo da
prevenire.
Giovacchino e la sua truppa camminarono così fino al ponte di
Triana, traversarono ancora alcune strade anguste ed oscure, e giunsero infine
presso la cattedrale, sulla piazza della Spianata. Quel luogo era molto oscuro;
tutti i lumi erano già spenti nelle case attorno alla piazza.
Nel cielo sereno brillavano, è vero, stelle scintillanti; ma
quegli astri raggianti, troppo lontani da noi, giravano taciturni nello spazio,
sdegnosi di lasciare arrivare fin sulla terra la loro splendida luce, della
quale godono, senza dubbio, creature più felici di quelle del nostro misero
pianeta.
Giunto davanti alla cattedrale, Giovacchino fece rannicchiare i
due bravi in un incavo formato da due enormi pilastri; quindi disse alcune
parole a bassa voce ai novizi, che andarono immediatamente a situarsi ai
quattro angoli della Spianata, ove si sdraiarono col ventre a terra, e l’orecchio
posto apposto al suolo per non perdere il più lieve rumore.
Dopo aver così disposto la sua truppa, Giovacchino si diresse
verso il portico della cattedrale, e scelse a sua posta un ricovero sotto
questa massa di pietre.
La sirena, temendo di essere scoperta, prese allora a costeggiare
le case poste attorno alla Spianata, camminando con un passo così leggiero che
si sarebbe detto che fosse portata sopra ali invisibili; poscia, scorrendo fra
gli alberi, si fermò finalmente sotto un enorme arancio presso la fontana.
Al debole rumore che aveva fatto la sirena, un lieve cri-cri,
simile a quello del grillo[53],si fece sentire in un angolo
della piazza; ma tutto essendo bentosto tornato nel più profondo silenzio,
Giovacchino comprese che quello era un falso allarma, e niuno si mosse.
Il quel momento il sereno[54], traversò la Spianata, e
fermandosi presso la fontana, gridò mezzanotte colla sua voce rauca e monotona.
La sirena si scosse…
Mezzanotte!…Era l’ora dei delitti; l’ora in cui la infelice era
stata testimone ed attrice di tanti drammi sanguinosi; l’ora in cui tornavano per
essa le ombre di coloro che aveva veduto morire!
Ebbe paura!…
Il sereno passò. E non s’udì che l’impercettibile rumore delle
foglie dolcemente agitate dal vento.
La sirena s’inginocchiò, e si pose a pregare.
Ma bentosto un passo rapido e leggiero si fe’ sentire sulla sabbia
nella direzione della Giralda. Uno dei novizi mandò un cri-cri più acuto
del primo, che fu ben presto ripetuto dagli altri tre.
Giovacchino, Manofina e Corpo di ferro posero la mano sul loro
pugnale.
La sirena si alzò, e tese il collo in avanti, cercando di scoprire
da qual parte veniva il pericolo.
In quel momento Dolores traversava la Spianata.
Giunta appié della Giralda, guardò da tutti i lati, e non vedendo
alcuno, si mise a chiamare a voce bassa:
-Estevan! Estevan!…-
Niuno le rispose…
Ma nello stesso momento una giovane donna uscì dalla torre e si
gettò tutta smarrita ai piedi della figlia del governatore.
-Chi siete voi? Che volte da me? -le domandò Dolores.
-Fuggite! Fuggite! -gridò la Graziosa, poiché era dessa; -fuggite,
signora, voi siete tradita, io vi ho ingannata…--
-Ma dov’è Estevan? -domandò la giovinetta riconoscendo la voce di
colei che le aveva portato la lettera supposta del suo fidanzato.
-Io non ne so nulla -, replicò la gitana smarrita; -mi è stato
detto: cammina, ed è stato forza camminare…Poiché io, vedete, io
non sono che un miserabile strumento…Io debbo obbedire sotto pena di essere
uccisa…Oh! Ma quando io vi ho veduta sì nobile e sì bella, ho giurato di
salvarvi, dovessi anco morire. Fuggite dunque, signora, fuggite; io ve ne
scongiuro…presto non vi sarà più tempo…essi vengono…-
Ma Dolores, stupefatta, non pensava al proprio pericolo, non era
occupata che d’Estevan, perseguitato dall’Inquisizione, e la incertezza in cui
era la gettava in angosce ineffabili…
Tutto ad un tratto un sordo rotolío, accompagnato da un lieve
scalpitío, si fece sentire dal alto del fiume.
Il cri-cri dei novizi rimbombante e prolungato, venne a raddoppiare
l’attenzione dei membri della Garduña.
-Sentite? Sentite? Essi vengono! -esclamò la gitana spaventata,
alzandosi e cercando di trascinar Dolores.
La figlia del governatore la respinse con un gesto energico e
pieno di disprezzo.
-Sii maledetta -, disse, -tu, che hai mentito! -
A queste parole la Graziosa si rifugiò di nuovo nella Giralda;
Dolores, mezza pazza dalla disperazione e dal terrore, si pose a correre verso
la Spianata.
Aveva appena fatto qualche passo, che quattro birri, partiti dai
quattro angoli della piazza, l’afferrarono e la portarono via nelle loro
braccia robuste, senza ch’essa facesse la menoma resistenza, o che avesse la
forza di gridare.
Dopo essersi impadroniti della lor preda, i birri s’incamminarono
verso il Guadalquivir, ove gli attendevano Enrico e Francesco a lato della
vettura inquisitoriale. Questa vettura, singolarmente destinata alle notturne
spedizioni, era una specie di carrozza, le quattro ruote della quale,
inviluppate di pelle grossa e pieghevole, non producevano alcun rumore girando
sul lastrico. Le mule che la trascinavano erano fornite di calzari da notte[55].
All’ultimo segnale dei novizi, Giovacchino e i due bravi erano
usciti dal loro nascondiglio, e scorrendo lungo le mura della cattedrale,
avevano seguito le traccie dei rapitori.
La sirena li seguiva a passo di lupo.
I novizi, strisciando come serpenti sui piedi e sulle mani, erano
in questo tempo andati innanzi, ed eransi diretti dalla parte della vettura.
Enrico e Francesco vi sorvegliavano; ma quando udirono venire i
birri, si avanzarono d’alcuni passi verso di essi. I novizi, da veri ladri,
profittarono di questa distrazione per tagliare le tirelle e portar via i muli,
che parevano essere stati calzati appositamente per essere rubati.
Era una preda come un’altra.
Da veri figli della Garduña i novizi avevano cominciato dal
gettare prestamente nell’acqua il cocchiere, che li disturbava.
Tutto questo era stato eseguito in meno tempo che non mettiamo a
descriverlo.
-Eccola -, disse Enrico a Francesco, quando furono vicini ai birri
che portavano nelle loro braccia Dolores svenuta.
-Bene -, rispose Francesco con accento burbero. -Tu taci e
sbrighiamoci -.-
-Oh! Ora noi l’abbiamo nelle nostre mani -, riprese Enrico con
aria di trionfo.
-Non ancora -, disse Manofina, percuotendo il famigliare nel
braccio sinistro con un colpo vigoroso di pugnale.
Enrico, sorpreso, vacillò per effetto del subitaneo dolore che
aveva sentito; ma, riprendendo tosto coraggio,
-A me! -gridò ai birri, due dei quali, abbandonando subito la
figlia del governatore ai loro compagni, accorsero in aiuto del famigliare.
Francesco non si attendeva questo. Al primo grido del ferito ei si
era slanciato su Manofina. Dal suo lato Enrico, furioso, e non distinguendo i
suoi nemici nell’ombra, si era voltato su Corpo di ferro, ed aveva impegnato
con lui una lotta accanita.
In quel tempo Giovacchino erasi gettato a perseguitare i due
birri, i quali, al rumore del combattimento erano fuggiti verso la vettura; ma
dopo avervi deposta Dolores, si salvarono con tutta la celerità delle loro gambe,
senza attendere l’esito della incominciata lotta.
Giovacchino, diviso fra il desiderio di custodire la figlia del
governatore e quello di soccorrere i suoi fratelli, esitò per alcuni
istanti; tuttavia il suo istinto guerresco vinse: e ritornò verso il luogo del
combattimento, e giunse a tempo per liberare Corpo di ferro, il quale, malgrado
il suo coraggio da leone e la sua forza atletica, penava molto a tenere fronte
a tre nemici in una volta, i due birri, cioè, ed Enrico. Il quale, ad onta
della sua ferita, si difendeva da disperato.
L’arrivo di Giovacchino cangiò la faccia delle cose.
Mentre combattevano, gli agenti della Inquisizione cercavano di
guadagnare il ponte in cui trovatasi la vettura. Dal loro lato i garduñi
raddoppiavano gli sforzi per spingerveli, sicuri che, una volta arrivati colà,
si sarebbero trovati in buon terreno.
Infatti i birri avevano appena messo piede sul ponte di Triana,
che i due garduñi li avevano mortalmente feriti, e gettati nell’acqua. Enrico,
già spossato, era caduto a pochi passi di distanza. Corpo di ferro tornò presso di lui, e, credendolo morto, lo
sollevò nelle sue braccia all’altezza del parapetto, e lo lanciò nel fiume.
Giovacchino era tornato verso la vettura, confidando che Manofina
da solo a solo con Francesco non avrebbe faticato a sbarazzarsi di lui; però
s’ingannava. Francesco, vedendosi solo contro il bravo, e comprendendo che era
inferiore di forze a questo feroce garduño, gli aveva gettato al collo un
laccio di seta, chiamato il nodo scorsoio[56].
Era finita per Manofina; il suo coraggio e la sua destrezza
divenivano inutili. Strangolato dal cordone traditore, perdeva a poco a poco il
respiro e le forze. Il pugnale gli sfuggì dalla tremula mano, i suoi occhi
rossi e gonfi si velarono di una nube, e già Francesco alzava la mano sopra di
lui per spacciarlo, quando, colpito egli stesso nel cuore da una lama acuta,
cadde freddo sul luogo.
La Colubrina l’aveva ferito con la sua piccola lama di Andalusia.
La giovine si affrettò di sciogliere il cordone che serrava ancorala
gola di Manofina. Malgrado questo atroce supplizio il bravo era rimasto ritto.
-Brava Colubrina -, diss’egli stringendo vivamente la mano della
sirena; -tu sei una valente e coraggiosa ragazza, ed il maestro ti ricompenserà
-.-
-No, è da te solo che io voglio la mia ricompensa -.-
-Da me! -disse il bravo sorpreso; -parla, che vuoi? Perla Madonna
dei dolori io giuro di accordarti ciò che mi domanderai -.-
-Manofina -, disse la giovane, appoggiandosi al braccio lui con un
grazioso movimento di femminile civetteria, -io ti domando la grazia di don
Estevan de Vargas -.-
-Colubrina -, rispose il bravo con tuono di dispiacere, -tu mi
domandi una cosa impossibile…Che t’importa della morte di questo giovane
cavaliere? -aggiunse con aria sospettosa.
-Non bisogna oscurare coloro che si amano -, prese a dire
la sirena, -e la figlia del governatore morrebbe di duolo se le si togliesse il
suo fidanzato, come io sarei morta stasera se ti avessero ucciso, Manofina mio!
--
-Io non posso prometterti questo -, rispose il bravo, intenerito
ad un tempo ed imbarazzato; perocché tradir non voleva ciò che chiamava il suo
dovere, e s’affliggeva pensando di dispiacere a colei che amava.
La sirena abbassò la testa e si mise a piangere.
-Non pianger così, anima mia -, disse il bravo, stringendola con
tenerezza al suo petto: -Vediamo quello che si può fare -.
In questo tempo Giovacchino e Corpo di ferro avevano levata dalla
vettura Dolores, ancora svenuta.
-Che faremo di questa signora? - domandò Manofina, approssimandosi
a Giovacchino.
-Seguiteci e vegliate al grano -, rispose la guardia.
E andando innanzi con Corpo di ferro, Giovacchino s’incamminò
verso la casa dell’Apostolo, situata sull’altra riva del Guadalquivir.
Manofina e la sirena li seguirono a distanza, pronti a difenderli
contro nuove trame dell’Inquisizione.
________
V.
Una cena di monaci
Il palazzo del grande inquisitore Pietro Arbues era un immenso e
sontuoso edifizio, abitato un volta dal re di Siviglia. Traversando magnifici
giardini, ornati dei più bei fiori e degli alberi più rari, si giungeva ad un
padiglione isolato, che altre volte serviva da sala da bagno. Il voluttuoso
Arbues gli aveva dato un altro destino.questo padiglione, separato dal corpo
dell’edifizio principale, e come perduto in un ammasso di foglie, era il luogo
ordinario delle gioconde riunioni del grande inquisitore e dei suoi favoriti.
Vescovi e monaci, persone estremamente dissolute, sfogavano con trasporto nelle
loro notti di orgia l’ardore brutale che li divorava; gettando lungi da sé,
come un abito troppo pesante, il pastorale e la cocolla, ed allentando la
briglia dello spirito di lussuria, che si esauriva allora in oscene fantasie e
licenziose parole, in incredibili provocazioni, in furfanterie gigantesche, che
oltrepassava tutto ciò che la immaginazione di un laico potrebbe concepire.
Questi monaci riserbavano per le loro cene notturne tutta quella
forza che la continua strettezza della loro vita imprimeva alle loro facoltà
morali. Era un torrente pieno di tutti gli ostacoli che aveva incontrato al suo
passaggio; di tutte le immondizie che la sua impetuosa corrente aveva seco
trascinate; e là pure, in mancanza di altro alimento alla fiamma divoratrice
della loro immaginazione della loro immaginazione, elaboravano le leggi
mostruose della Inquisizione: codice barbaro, al quale ciascun regno
d’inquisitore aggiungeva alcuni articoli più feroci; mostro schifoso, nato da
adulteri concepimenti, che, simili ai figli d’Anteo, cercavano di detronizzare
il cielo.
Questi uomini avevano tanto bisogno di emozioni divoranti che non
trovavano che nel sangue e negli eccidii una pace al loro insaziabile desiderio
di sensazioni. Il dèmone si era incarnato in essi, e qualsiasi potrebbesi
credere che dopo l’incarnazione di un Dio sotto la figura di cristo, sia venuta
l’incarnazione di tutti gli spiriti infernali nella persona degli inquisitori.
Alcuni, si dirà, furono di buona fede nel loro fanatismo. Si legga
la storia dell’Inquisizione, e si risponda. Questa mostruosa istituzione,
creata dalla politica dei papi, tollerata, protetta in Spagna dalla politica
dei re, non ha smentito la sua impura sorgente, e gli agenti di un potere
iniquo sono stai iniqui com’esso.
Era mezza notte.
Nel padiglione solitario che apparteneva al palazzo inquisitoriale,
in mezzo ad una sala elegante, stava una tavola sontuosa. La soffitta di questa
sala era ornata di delicati arabeschi, opera preziosa di artisti mori. Sui muri
alcuni affreschi brillanti rappresentavano frutti e fiori di ogni specie,
imitando la natura in modo da renderla gelosa, ed incorniciavano dei quadri che
il gusto artistico degli inquisitori aveva ornato delle scene le più voluttuose
della mitologia pagana.
Era Cilizia seminuda, coricata sopra un letto di fiori, ardente e
snervata ad un tempo, volgendo verso il sole i suoi occhi lucenti di amorose
aspirazioni, Giove, quell’immortale lussurioso, scherzante nelle onde presso
Leda, sotto la forma di un cigno, esprimente nelle attitudini le meno velate
l’ardore dei piaceri che lo divorava; era, finalmente, Venere, quella grande
prostituta, in tutte le fasi della sua vita amorosa e libertina. Sarebbe stato
mestieri essere un santo per rimanere tranquillo in presenza di tutte queste
pitture licenziose, destinate ad alimentare le passioni sensuali dei signori
inquisitori. Un ricco mosaico di marmo formava il pavimento di questa sala, e
sulla tavola che sorgeva nel mezzo, le frutta più rare, le più squisite vivande
riempivano grandi vasi di cristallo di rocca e di porcellana di China.
Il Xéres, il Tintarrota, il dolce vino di Malaga, il liquore del
fico d’Adamo, recentemente trasportato dall’America; tutti questi vini ardenti,
nati sotto un cielo di fuoco, circolavano a bizzeffe fra i convitati, vescovi
muschiati e monaci giulivi, presieduti da Sua Eminenza monsignore il grande
inquisitore di Siviglia.
Un’allegria pazza ed alcun poco mistica animava tutti quei visi
oscuri ed ardenti. Gli occhi di Pietro Arbues brillavano specialmente di un
fuoco insolito. Le angoscie del desiderio e della incertezza mescolavano la
loro acredine mordace alla leggiera ebbrezza del grande inquisitore. Le teste
erano esaltate; tuttavia la ragione li governava ancora; ciascuno si teneva al
suo posto, ed una tinta di prudenza monastica velava ancora la libertà dei
discorsi.
Monsignore Arbues si stancò il primo di questo contegno.
-Sapete voi, Padri miei -, esclamò egli con voce leggermente
avvinata, -che il portiere del cielo[57] fabbrica incessantemente
nuove chiavi per guadagnare con più sicurezza le porte di questo bel regno, ed
aumentare per noi le gioie della terra? Ecco la Inquisizione stabilita in
Portogallo[58], e ben presto non vi sarà
più un piccolo posto del globo ove non si stenda il nostro dominio -.-
-Tanto meglio -, disse l’arcivescovo di Toledo; - l’Inquisizione è
un mulino, in cui il cattivo grano che si schiaccia, si cambia per noi in bei
dobloni di Spagna -.-
-E i dobloni in gioie celesti, in festini deliziosi -, disse un
priore di Domenicani dalla faccia lussuriosa e gli occhi infiammati.
-Sì bene -, replicò l’arcivescovo, -che val meglio essere inquisitori,
che papa; e il portiere del paradiso, il quale si dice nostro padrone, non è,
in ultima analisi, che l’intendente dei nostri minuti piaceri -.-
-E poi -, prese a dire un monaco giovane, bello come una ragazza,
e favorito di Pietro Arbues, -è sì vecchio un papa! A che servono i beni di
questo mondo quando non se ne può più godere? --
-Val meglio esser novizio in un convento di Domenicani, non è vero
Josè? -disse il grande inquisitore, accarezzando con la sua bianca mano la
testa del giovane novizio.
-Val meglio esser l’umile schiavo di Vostra Eminenza -, replicò il
giovane religioso con finta umiltà.
-Il papa semina, e noi raccogliamo -, disse scherzosamente
l’arcivescovo di Toledo; -e mentre egli sbadiglia coi suoi cardinali, noi cogliamo
ne’ campi di Citèra tutti i bei fiori d’amore che trovansi sotto i nostri passi
-.-
-Io non ho neppure la pena d’abbassarmi per prenderli -, rispose
il vescovo di malaga, che era alla festa; -la superiora del convento delle
Carmelitane scalze s’incarica di questa cura per me, e le primizie dei più bei
fiori del suo giardino mi sono da essa medesima offerte -.-
-Io -, disse il priore, -amo molto coglierli da me; quando la mia
buona stella mi conduce al confessionale delle giovani e belle penitenti, è ben
raro che quei fiori se ne ritornino senza essere sfogliati; non fo grazia che a
quelle le quali hanno passato trent’anni. -.-
-Io mi do molto minor pena di questa!-, disse l’arcivescovo di
Toledo; -quando una donna mi piace, la fo in bel modo rapire dalla società
della Garduña.-.-
-Utile istituzione! -prese a dire il grande inquisitore, -e che
noi dobbiamo proteggere con tutte le nostre forze, o signori. Dal giorno in cui
la confraternita della Garduña non esistesse più in Ispagna, addio nostri
piaceri e nostre vendette: bisognerebbe agire noi stessi; e i nostri interessi
sarebbero molto compromessi -.-
-Eh! - sclamò un altro inquisitore, -nessuno vale quanto famigliari
del Sant’Uffizio per i rapimenti notturni e gli assassinii nascosti. Un
famigliare è discreto come la morte, e può far tutto impunemente, perché la
parola Inquisizione è il garante di tutte le sue azioni: niuno ardisce
mormorarne -.-
-Povere genti! -disse Pietro Arbues, chinandosi all’orecchio del
novizio, il cui pallore profondo contrastava colla gaiezza delle sue maniere;
-povere genti! Sono più ebbre di vanità, che dei vini che io prodigo loro -.-
-Così Vostra Eminenza è il padrone di tutti quanti, monsignore -,
disse piano il novizio, -voi sapete conservare la vostra ragione in mezzo all’orgia,
e fare con sangue freddo tutto ciò di cui essi si vantano nell’ebbrezza -.
Il tumulto dell’orgia copriva questa conversazione fatta abbassando
la voce.
-Enrico non viene -, disse l’inquisitore con inquietudine;
-tu non l’hai dunque incontrato al ponte di Triana, Josè? --
-No -, rispose il monaco giovane, -ho giudicato più prudente di
lasciarlo agir solo; ma siate tranquillo, monsignore. Enrico è fedele -.
-Di che parlate dunque, signori? -domandò Pietro Arbues indirizzandosi
ai vescovi di Malaga e di Toledo.
-Monsignore -, disse
l’arcivescovo, -noi parlavamo delle belle donne che si veggono nella vostra
città di Siviglia, ed io sosteneva al vescovo di Malaga che la più bella di
tutte è Dolores Argoso, la figlia del governatore -.
Arbues fece un movimento di sorpresa.
-Oh! Quanto a questa -, disse il grasso priore, -è una fortezza
inespugnabile; io l’ho avuta due volte nel confessionale, e sospetto
grandemente ch’ella sia un poco attaccata d’eresia, si pone a discutere come
fosse un discepolo di Lutero -.-
-Che bella eretica da vedersi bruciare! -disse il vescovo di
Malaga.
-Dal fuoco dell’amore, voi volete dire, senza dubbio-, replicò
l’arcivescovo di Toledo; -questa sarebbe una conquista degna di Sua Eminenza
-.-
-Non avete nulla di più difficile di questo da propormi -, rispose
Pietro Arbues con un sorriso pieno d’orgoglio.
-Sua Eminenza si ricusa -, disse il priore dei Domenicani.
-Io non mi ricuso -, rispose l’inquisitore, volgendo uno sguardo
superbo sull’assemblea; -ma non vorrei veramente fare sì poco per piacervi, o
Padri miei -.-
-Ci contentiamo di questo! -gridarono in coro tutti convitati.
In quel momento una grossa portiera di seta si aprì nel fondo
della sala, ed un famigliare si avvicinò al grande inquisitore.
-Monsignore -, disse, -Enrico domanda d’essere introdotto presso
Vostra Eminenza -.
Un sorriso di trionfo apparve sul viso di Pietro Arbues.
-Signori! il diavolo ha soddisfatti i vostri desidéri; ora vedrete
la figlia del governatore -. Poi, volgendosi verso il famigliare, -Enrico può
entrare -, disse.
Il famigliare disparve.
Tutti gli occhi si diressero verso l’ingrasso della sala del festino.
-Monsignore -, continuò Arbues, volgendosi all’arcivescovo di
Toledo, -io vi chieggo cento giorni d’indulgenza per questo buon Enrico, che ci
conduce la figlia del governatore; è il più valente servo della santissima
Inquisizione -.
Quando Arbues terminava queste parole, la portiera si alzò
nuovamente e il buon Enrico, pallido, sanguinolento, bagnato, entrò, ma
solo, e appena in forze per sostenersi.
-Che cos’è questa? -disse l’inquisitore sorpreso.
-Monsignore -, rispose il famigliare con voce debole, -tutti i
nostri birri sono stati uccisi, la figlia del governatore ci è stata rapita, ed
io con gran pena mi sono salvato a nuoto per venire a rendervi conto della mia
missione -:
Tutti circondarono Enrico, il quale raccontò allora con accento
fievole gli avvenimenti della sera.
Durante questo racconto, gli occhi del grande inquisitore scintillavano di collera.
-Dunque siete stati tutti egualmente vili? -disse infine con un
sarcasmo spaventevole.
-Noi abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto per eseguire i
voleri di Vostra Eminenza, -replicò timidamente Enrico.
-E Francesco?- domandò Pietro Arbues.
-Morto! Monsignore; morto come gli altri, - rispose il famigliare,
che ignorava la fuga dei due primi birri.
-Tu sei un miserabile!- gridò l’inquisitore con accento terribile.
-Esci dalla mia presenza, e non ricomparirvi mai più.-
Enrico, indebolito dalla perdita di sangue, dal bagno imprevisto
nel Guadalquivir, dalle emozioni della serata, Enrico non poté resistere a
quest’ultimo colpo: vacillò e cadde privo di sensi.
Pietro Arbues suonò, due domestici comparvero.
-Portate via quest’uomo, - disse con indifferenza.
Poscia volgendosi a’ suoi convitati:
-A tavola, signori! E terminiamo la notte come l’abbiamo incominciata.-
I monaci ed i vescovi ripresero i loro posti, e gl’inebrianti
liquori circolarono di nuovo.
Pietro Arbues aveva la rabbia nel cuore, che esalava la gioia
pazza in parole vive e mordaci.
Josè, suo favorito, lo riguardava con imperturbabile attenzione;
il novizio era più pallido del
consueto, e il suo occhio nero e fiammeggiante risplendeva di cupa ironia.
-Josè, - disse Arbues, chinandosi all’orecchio del favorito, -ecco
una serata che costerà caro al governatore di Siviglia.-
Un pensiero d’amara gioia brillò sulla fronte del novizio, ma fu
impercettibile per l’inquisitore.
L’orgia si prolungò fino al mattino[59]
___________________
VI.
La
casa dell’eretico
La casa dell’Apostolo era una certosa isolata, nel
mezzo d’un giardino rustico, bagnato dalle onde del Guadalquivir. L’Apostolo
era uno di quei monaci predicatori e confessori, i quali benché seguissero
liberamente la regola dell’ordine che avevano abbracciato, non appartenevano ad
alcuna corporazione religiosa.
Quel monaco era il medesimo che abbiamo già veduto
alla taverna della Graziosa.
Aveva scelto quell’umile ritiro, ove si riposava
dalle sue fatiche, e che per la sua lontananza dalla città e la sua vicinanza
al fiume aveva mille volte servito di rifugio alle vittime dell’Inquisizione.
Era il giorno successivo a quello in cui tanti
avvenimenti avevano avuto luogo.
Dolores era sola nella camera che le serviva
d’asilo. La notte cominciava a cadere, e coprendo gli oggetti di un pallido
colore, dava al fiume l’aspetto di una larga striscia di seta.
Malgrado la forza del vento che soffiava al di
fuori, Dolores aprì la finestra, e colla sua candida mano dividendo i lunghi
capelli che le velavano il viso, offrì la sua fronte nuda ed ardente a quel soffio pungente e ghiacciato.
Cupo dolore opprimeva l’anima sua; i suoi occhi
erano gonfi di lagrime, e vene turchine solcavano quel pallido volto.
Invano nel dolore profondo che la divorava aveva
ricorso alle consolazioni della preghiera; l’angelo che porta ai piedi di Dio
l’espressione ardente dei nostri dolori, e ci riporta in cambio lacrime che
consolano, aveva indarno agitate le sue ali sulla fronte di Dolores; l’angoscia
mortale della sua anima non aveva potuto essere sollevata. Quella fanciulla dal
cuore forte, dalle retta e severa ragione, di cui tutta la fede riposava sui
principii più puri della morale evangelica; quella ingenua entusiasta, che
voleva trovare Dio nel sacerdote, il sacerdote che per essa non era un uomo, ma
un essere trasformato; quell’amante, esaltata da ogni perfezione ideale,
poetica nell’amore e nella religione, non aveva potuto scorgere, senza orrore
profondo, l’abisso di lussuria e d’ipocrisia ove s’immergevano, nel nome di Cristo,
color che si dicevano suoi ministri.
Il dubbio, questa piaga divoratrice quasi
incurabile, che spesso non si arresta che dopo aver tutto devastato, il dubbio
aveva sfiorito l’animo di Dolores, e gonfio il cuore di quel veleno mortale, il
cui contatto brucia e divora.
-E che!-diceva a sé stessa con grande amarezza, -son
questi adunque i rappresentanti del Salvatore? I depositari della legge? Oh! Se Gesù ha una volta cacciato dal tempio
i profanatori, non può oggi bandire i preti inquisitori? La fiamma dei roghi che
accendono non si volgerà contro i medesimi per divorarli?-
Una collera ardente e santa bolliva nel cuore della
giovinetta; guardava il cielo sì tranquillo, che non era commosso dalle angosce
della terra; e pensando alla sua impotenza ed al terribile potere della
Inquisizione, domandava a sé medesima con terrore se Dio si prendeva pensiero
delle sue creature. Essa era giunta a formulare i suoi dubbi, e da quel punto
all’incredulità non v’è che un passo. Del rimanente, e’ fa mestieri il
notarlo,quell’epoca di terrori e di persecuzioni fu la più feconda in sétte
diverse ed assurde. Ciascuno voleva crearsi una fede alla sua maniera, non
potendo contentarsi di quella fede barbara, crudelmente imposta dalla tortura e
dalle fiamme. Infatti, la sola cosa, cui poteva far credere l’Inquisizione era
l’inferno ch’essa aveva trasportato sulla terra.
-Gesù! Gesù!- diceva la povera disperata, -tu, che
non hai saputo che amare e benedire, perché soffri i delitti di questi
carnefici?-
-Per purificare i buoni,- le rispose una voce dolce
e grave.
E, volgendo la testa dal lato donde la voce partiva,
Dolores credette di vedere la figura di Gesù Cristo stesso, tanto v’era mansuetudine
e forza in quella testa che raggiava come aureola.
Era quella dell’Apostolo.
-Oh Padre mio!-esclamò la giovane cadendo in
ginocchio davanti a lui; -Padre mio, sostenetemi, perché io vacillo, e l’anima
mia spaventata non può più credere che al male. Il dèmone non s’è egli fatto
padrone di questo mondo per cacciarne il vero Iddio?-
-Figlia!-disse l’Apostolo, ponendo la sua mano sulla
fronte ardente della giovinetta come fatto avrebbe Gesù medesimo, -quando mai
la forza può essere abbattuta dalla debolezza? Non è il male che è debole ed il
bene che è forte?-
-No,- rispose essa con voce alterata, -il male è
forte; perciocché sono i cattivi che opprimono ed i buoni che soffrono.-
-Cristo pure ha sofferto, ed era forte; perciocché
egli era Iddio! Non sei dunque cristiana tu, che rinneghi Cristo?-
-Oh Padre mio! Perdonate,- disse la giovane; -io non
ho la forza dei martiri, e la felicità mi sembra un diritto dell’uomo.-
-La felicità! E qui, - disse l’Apostolo, ponendosi
la mano sul cuore.
-No, -gridò la giovinetta con disperazione; -questo
asilo neppure è inviolabile per gl’inquisitori.-
-Possono essi reprimere le pulsazioni o accelerarne
i moti?-replicò l’Apostolo; -possono cacciare una immagine diletta, o fugarne
la fede dei padri tuoi? Non senti in te quella forza sovrumana dell’anima che
ti dice: - Cammina, non temer niente, ama e credi? – Si può rompere il corpo,
ma ciò che ama in noi è impedibile, ma il soffio eterno non muore!-
-Oh! Grazie, grazie,-riprese Dolores, baciando le
mani dell’uomo di Dio, e coprendole con le sue lagrime; -grazie a voi, che
consolate, a voi che assomigliate a Dio.-
L’Apostolo sciolse le sue mani da quelle di Dolores;
la sua dolce umiltà non poteva accettare quella testimonianza di rispetto, direi
quasi di adorazione, che i monaci di Spagna ricevevano non come omaggio, ma
come tributo.
-Oh!- proseguì Dolores, che comprese il suo
pensiero, -voi siete umile e forte, e voi credete; io pure dunque debbo
credere, io, debole donna perseguitata.-
-Si, tu devi credere, figlia mia, credere e soffrire
senza mormorare; perocché tu sei un’anima eletta. Armati dunque di forza e di
costanza, e se Dio ti destina a novelle prove, di’, come quella vittima grande
che morì per la sua dottrina:- Sia fatta la tua volontà e non la mia.--
-Oh! Chi siete voi!-domandò la giovinetta, -chi
siete voi, Padre mio, voi che rendete al cuore la speranza e l’energia? Ditemi
il vostro nome, affinché io possa ripeterlo nelle mie preghiere!-
-Io sono un umile servitore di Dio, e mi chiamo
Giovanni,-rispose l?Apostolo; quando ti sentirai debole, o fanciulla, invoca il
nome di Cristo e non il mio, perocché egli solo comparte la forza e la
consolazione. Ma si fa tardi,- proseguì -è ora di rientrare in casa di tuo
padre. Vieni, io sarò la tua guida, e se mai tu soffri, se hai bisogno
d’appoggio, ti ricorda quest’umile dimora: essa è ognora aperta a coloro che
piangono.-
Dolores alzò verso il cielo uno sguardo ardente e
rassegnato.
-Io vi seguo, o Padre mio,- ella disse, e
riguardando un’ultima volta quella casa benedetta che l’aveva ricovrata,
s’inviluppò nella sua cappa ed uscì col monaco.
Camminarono lungo tempo l’uno a lato dell’altra,
senza dire una parola. Vaghi presentimenti agitavano l’animo della fanciulla:
quella fronte, poco innanzi pura e serena, piegava sotto il peso dell’uragano
che aveva turbata la sua felicità.
Le donne più forti d’animo e di principi han sempre
nel cuore un lato debole; la potenza di soffrire che è in esse, rende talora
impotenti tutti gli argomenti della ragione e della filosofia; esse non sanno,
come l’uomo, indurare contro gli avvenimenti. La loro natura entusiasta e
febbrile, che le rende in qualche momento sì forti, ricusa loro quel coraggio
energico che soffre con pazienza, che sa attendere e respingere un urto
continuo: elleno s’irritano; si esaltano, e nella forza delle loro sofferenze,
una sola cosa la calma, le lacrime; una sola le consola, l’amore.
Ricondotta a sentimenti più docili dalle parole
consolanti dell’Apostolo, la figlia del governatore versava abbondanti lacrime,
e il suo amore per Estevan si risvegliava più forte dell’intenso suo dolore.
Inquieta per esso, varcava rapidamente lo spazio, impaziente di giungere presso
suo padre, che forse aveva riveduto il suo fidanzato. Ma perseguitata sempre
del terrore della Inquisizione, sognava di fuggire con Estevan e suo padre sur
una terra lontana, in quella Alemagna in cui la tolleranza e la libertà
regnavano, in cui potrebbe senza tema seguire le aspirazioni del suo cuore e
della sua coscienza. Poscia gettava uno sguardo doloroso attorno a sé, ammirava
il suo bel cielo di Spagna, sì dolce e sì puro, e involontariamente fremeva al
pensier di fuggirlo; essa penava nell’idea di un cielo oscuro, di un suolo
coperto di neve.
L’Apostolo la lasciò intieramente in balia dei suoi
sogni dolorosi, immerso com’era egli stesso in gravi meditazioni.
Si avvicinavano al palazzo del governatore. La giovinetta
mandò un grido di gioia riconoscendo la strada in cui era la sua dimora.
Raddoppiò il passo, trascinando il monaco che la
seguiva.
-Oh padre mio, - ella disse -io lo rivedrò!-
Dolorose non ardì pronunziare il nome di Estevan.
Ella si avanza.
Ma perché il lampione che brilla tutte le sere sulla
facciata del suo palazzo non è stato acceso? La porta per ordinario aperta,
resiste ai suoi sforzi.
Picchia…nessuno!…chiama col loro nome i servitori
più affezionati…niuna voce risponde alla sua.
Un silenzio spaventevole regna in quella casa.-
Si direbbe una di quelle dimore in cui, durante una
epidemia, tutti gli abitanti sono morti senza soccorsi, e che non è stata
ancora riaperta per paura del contagio.
Dolores, smarrita, tremante per un terrore
inesplicabile, batte a colpi raddoppiati coi suoi pugni la porta insensibile, i
chiodi di ferro della quale ammaccavano le sue mani delicate.
-Padre mio! Padre mio!-gridò con voce desolata…
Nessuno!…
L’Apostolo indovinò la verità; si avvicina alla
giovinetta pronto ad offrirle i conforti, ben persuaso che ne avrebbe bisogno.
Dolores guarda attorno a sé con ismarrimento. Ai
suoi gridi alcune porte si sono alquanto aperte.
-Padre mio! Che è stato di mio padre?-esclamò
l’infelice.
Ma niuno le ha risposto.
-E’ la figlia del governatore, che è stato arrestato
quella mattina per ordine del grande Inquisitore,- hanno detto alcune voci, e
le porte si sono richiuse, e ciascuno si è allontanato dalla fanciulla come se
fosse appestata.
Ma Dolores ha inteso la parola inquisitore,
ed è stata illuminata da una luce terribile. Suo padre è nelle prigioni
dell’Inquisizione, e siccome agl’infelici inquisiti l’orribile tribunale non
lascia niente, la casa del governatore è chiusa, i suoi beni son confiscati:
non rimane all’infelice sua figlia che l’elemosina!…l’elemosina che si ricuserà
forse alla figlia d’un eretico.
Dolores non piange più; niun lamento esce dalla sua
bocca; i suoi occhi son divenuti asciutti ed urenti; un amaro sorriso contrae
le sue labbra scolorate.
Si avvicina al monaco, lo afferra per la manica del
suo vestito, come volesse attaccarsi a lui, suo ultimo rifugio; poi con voce
breve ed ininterrotta:
-Padre mio,-ella disse ecco il mio Oliveto, pregate
Dio che abbia pietà di me…-
L’Apostolo si attendeva un dolore meno rassegnato.
Ad onta della sua profonda conoscenza del cuore umano, non aveva compreso che
un colpo terribile ed imprevisto abbatte lo spirito e lo piomba in una atonia
che non gli lascia la forza di soffrire. Colpita in ciò che aveva di più caro,
colpita dall’Inquisizione,cotesto tormentatore tanto spietato, quanto
l’inferno,abbattuta sotto il terribile pensiero che niuna speranza le rimaneva,
Dolores non aveva più la forza di lagnarsi; non poteva che dire, come Gesù, con
la certezza di non essere esaudita: Mio Dio! Allontanate da me questo calice.
L’Apostolo non le parlò; in quel momento terribile
qualunque parola sarebbe stata impotente. Le prese dolcemente il braccio, che
passò sotto il suo, e guidandola come timido fanciullo, riprese il cammino
della sua dimora.
La giovinetta non si volse neppure per gettare un
ultimo sguardo sul suo palazzo; abbassò la testa sul petto, e seguitò senza far
parola la sua guida. Avevano appena
fatti alcuni passi nella strada, che nell’oscurità urtarono in un uomo che con
la spada alla mano si difendeva contro un altro uomo in una lotta accanita.
Destata dal suo letargo, la figlia del governatore
mandò un grido acuto, riconoscendo quell’uomo.
-Estevan!-
-Dolores!-
Gridarono nel medesimo tempo, tanto è irresistibile
quella potenza d’attrazione, quel fluido invisibile, magnetico, che circola
attorno a noi al solo avvicinarsi dell’oggetto amato, che l’aria la quale vibra
attorno di lui, ci fa tosto riconoscere.
Dolores trascinò Estevan.
La lotta cessò un istante; una giovane, sospesa al
braccio dell’altro combattente, che portava il vestimento dei figli della Garduna,
sembrava voler strappargli il pugnale di mano, e con suppliche ardenti
domandargli una grazia che non voleva accordare.
-Io non posso! Ti dico,-gridò ad un tratto quell’uomo
con voce vibrante e concentrata; -non posso, Colubrina; ho promesso di ucciderlo
e bisogna che muoia.-
Proferendo queste parole, lo strano gruppo si trovò
vicino all’Apostolo, che si era avanzato d’alcuni passi, allarmato da
quell’incidente.
La giovine lo riconobbe. Senza lasciare il braccio
dell’uomo che teneva sempre serrato con una stretta vigorosa malgrado i suoi
sforzi per isciogliersi cadde ai piedi dell’Apostolo.
-Oh! Padre mio.-ella disse, -impedite a Manofina di
uccidere quel giovane! Non abbiamo assai di delitti come questi?-
-L’Apostolo!- disse il bravo, che lo riconobbe; e
curvò umilmente la testa davanti all’uomo di Dio.
-Manofina,- disse il monaco, che conosceva tutti
quegli uomini per nome, -Manofina, chi ti ha dato la missione di uccidere?-
-La Società della Garduna, Padre mio, alla quale io
appartengo anima e corpo; il mio mestiere è di battezzare e d’oscurare,
come il vostro è di confessare e di predicare. Lasciatemi dunque fare le mie
faccende, e non eclissare il danaro che mi si da per quest’oggetto.-
-Manofina,- disse il monaco, -credi tu in Gesù
Cristo?-
Il bravo s’inchinò a questo sacro nome.
-Senza dubbi, reverendo: io sono un buon cattolico,
ed è perciò che voglio fare il mio mestiere in coscienza. La giustizia prima di
tutto; ho promesso di uccidere e bisogna che uccida.-
-Colui che uccide con la spada morirà per la spada.-
proseguì l’Apostolo. -Manofina, in verità io te lo dico, il mestiere che fai è
un mestiere di sangue, e Gesù ha orrore del sangue, figlio mio!-
-E se io rinunzio a questo mestiere, Padre mio,
l’Inquisizione, che non vorrò più servire, mi farà bruciare come eretico, o mi
costringerà ad uscire dalla Spagna, come fa di tutti quei poveri Moreschi che
se ne vanno a migliaia da Siviglia. Allora che avverrà di questa donna, che è
mia e cui do da vivere?-
-Chi importa?- esclamò la sirena, intenerita dalla
dolce parola dell’Apostolo; -è meglio morire che vivere di tal guisa.-
-Ma la mia confraternita,- riprese il bravo, -posso
io abbandonarla?-
-No,- disse il monaco, troppo filosofo per credere
che si potesse così in un istante staccare quell’uomo rozzo dalle abitudini
della sua vita. -No, tu non lascerai la confraternita della Garduna; ma siccome
una buona azione fa perdonare molti delitti, non t’impiegherai, d’ora innanzi,
che a salvare le vittime dell’Inquisizione.-
-Ma io ingannerò,- disse il bravo, sempre attaccato
colla sua singolare probità e fedeltà cavalleresca agli statuti dell’Ordine.
-L’intenzione fa tutto,- replicò il monaco; -non
avrai tu l’intenzione di far bene? Non farai, infatti, del bene?-
L’Apostolo, quel leale e bravo difensore del
Vangelo, usava a malincuore questa sottigliezza, divenuta poi l’arme di un
Ordine celebre[60], il mezzo col
quale esso ha posto sossopra il mondo. E sparso per tutto il veleno della
ipocrisia; ma certamente, se mai la sottigliezza, fu santa e permessa, era bene
in quel momento in cui l’uomo di Dio riuniva tutte le sue forze persuasive onde
evitare mali innumerevoli col suo ascendente sopra un solo uomo.
Il bravo l’ascoltava con raccoglimento; un dubbio lo
molestava ancora.
-E voi, Padre mio,- disse finalmente, mi assolverete
da tutte le infedeltà commesse verso al mia confraternita? A questo patto io
farò tutto ciò che vorrà Vostra Beatitudine, perché voi solo sarete responsabile
della salute dell’anima mia, ed essa non può trovarsi meglio che fra le vostre
mani.-
-Io ti benedirò tutte le volte che salverai una
vittima, e ti assolvo di tutte le uccisioni che tu non commetterai. Va in pace,
figlio mio, e Dio ti guidi.-
Il bravo cadde alle ginocchia dell’Apostolo, a lato
della sirena, e le loro teste s’inchinarono insieme sotto le mani riunite per
benedirli.
-Ei ci ha sposati,- disse a voce bassa la sirena
mentre si alzava.
E quella zingara vagabonda, sola come l’uccello dei
boschi, senz’altra guida fuor che gl’istinti della sua selvaggia natura,
trasalì di una emozione casta e religiosa; essa vedeva il cielo nell’amore, la
consacrazione del più puro sentimento dell’anima.
Ad alcuni passi di distanza Estevan e la figlia del
governatore confondevano il loro dolore e le loro lacrime; la gioia di
ritrovarsi aveva almeno recato questo sollievo alla loro disperazione, di
potere, cioè, spandersi al di fuori. La speranza, una speranza triste,
fuggitiva e lontana, la speranza che non abbandona mai l’amore, sorrideva loro
nel mezzo di quel cielo oscuro.
-Vedi,- disse la sirena, il cui istinto femminile
aveva tutto compreso, -vedi, Manofina, quanto saremmo infelici se, invece di
ritrovare il suo bel fidanzato, questa povera signorina avesse urtato nel suo
cadavere.-
-Colubrina,- disse il bravo, -mi sembra che la voce
dell’Apostolo m’abbia dato una seconda vita, e che io non sia più lo stesso
uomo di questa mattina.
Gesù! Quante persone debbo salvare per cancellare
tutto il sangue che ho versato! Vedo bene che bisognerà lasciare la società
della Garduna.-
-L’Apostolo ha detto che una buona azione fa
perdonare molti delitti,- rispose la sirena; -sii dunque tranquillo, anima mia,
e non t’inquietare del resto, Sua reverenza s’è incaricata della cura della tua
anima, e se noi lasciamo la Garduna, il buon Dio, che nutrisce gli animali,
nutrirà pure due creature cristiane.-
Il bravo e la sua compagna si allontanarono.
Estevan e Dolores avevano tutto obliato per piangere
insieme.
-Venite, figli miei,-disse l’Apostolo; - penseremo
domani a scegliere un ritiro per la mia figlia Dolores:-
-Padre mio,- disse Estevan, -bisogna pensare, io
credo, a fuggire questa disgraziata terra di Spagna, che divora i suoi figli
più puri.-
-Fuggire quando mio padre è prigioniero!- gridò
Dolores. -Estevan! L’avete voi potuto pensare?-
-Ma voi perderete senza frutto,- disse il giovane;
-voi partirete sola, Dolores, ed andrete ad aspettarmi fuori dalla Spagna,
mentre io impiegherò il mio credito e le mie dovizie per salvare vostro padre:-
-Salvare i vivi!-disse il monaco a bassa voce,
-quando l’Inquisizione non rispetta neppure le ceneri dei morti!-
-Tacete padre mio,- rispose Estevan che l’aveva
inteso; -non togliamo ogni speranza a questa sventurata fanciulla.-
-Io non lascerò la Spagna che con mio padre,- disse
risolutamente la figlia del governatore.
-Povera fanciulla!-pensò l’Apostolo commosso. - hai
tu pure una di quelle anime fatte per l’abnegazione, le quali conducono sempre
al Calvario.-
-Figlia mia,- egli disse, -domani vi condurrò al
convento delle Carmelitane.-
-Estevan,- disse piano la giovinetta, -guardati!
L’Inquisizione ha gli occhi su di te.-
Erano giunti alla casa dell’Apostolo; Dolores entrò
per prima, Estevan si fermò fuori, non osando varcarne la soglia.
-Venite tutti e due, figli miei,- disse il
Francescano; -passeremo insieme la notte a pregare; venite perché domani è
d’uopo che vi lasciate.-
Estevan li seguì in silenzio.
La porta si chiuse dietro di essi.
_____________________
VII.
Estevan de Vargas
Undici
anni circa avanti all’epoca in cui accadevano tutte queste cose, aveva avuto
luogo l’avvenimento del cardinale Alfonso Manriquez, arcivescovo di Siviglia,
al posto eminente d’inquisitor generale di Castiglia. Già da lungo tempo, sotto
il regno di predecessori di Manriquez, l’odio degli Spagnoli contro il
Sant’Uffizio erasi vivamente scoppiato in ardite cospirazioni, in rivolte
continue, in lagnanze veementi, formulate altamente e recate fino al tribunale
dei papi, di cui la vil compiacenza e l’interesse particolare, coadiuvati dalla
debolezza egoistica dei re, rimasero impassibili innanzi alle miserie della Spagna.
L’Inquisizione
la coprì impunemente di roghi, spopolò le città, isterilì le campagne,
privandole delle braccia che le coltivavano, ed un paese ricco, cavalleresco,
amante delle arti, della libertà, della gloria, ridusse in vaste catacombe, ove
l’aspetto dei morti spaventa i viventi, in una arena vergognosa ove si cadeva
senza combattere, ove la mano infamante del carnefice gettava l’infamia sulla
fronte dei più puri, ad un cenno di quel déspota terribile che portava una
corona di fiamme ed uno scettro di ferro.
Ma
mentre la vile politica dei re lasciava decimare di tal guisa questo bel regno,
alcuni nobili spagnoli dal cuore pieno d’energia e ardente d’amore per la
libertà, protestavano altamente, con pericolo della loro vita, contro le
iniquità del tribunale della Inquisizione[61].
Nel
numero di questi eroici difensori dei diritti dell’umanità trovavansi nobili
castigliani, sapienti e santi vescovi, ed anco alcuni membri del consiglio di
Castiglia. La Spagna era allora in istato d’insurrezione permanente; ma questa
generosa crociata contro l’Inquisizione, non essendo sostenuta dai re, e non
potendo esserlo efficacemente dal popolo, curvato sotto il giogo del fanatismo
e troppo ignorante allora per comprendere la sua vera forza, rimaneva impotente
a distruggere l’idra divoratrice. E tutto si limitava ad alcune inefficaci
misure, ad ingannevoli sevizie, ottenute a gran fatica contro alcuni
inquisitori troppo audaci. Così ventisei anni avanti, Filippo I aveva sospeso
dalle sue funzioni il grande inquisitore Deza e il suo amico l’inquisitore di
Cordova, Lucero, la cui orribile crudeltà dichiarava quasi tutti gli accusati,
che confessassero o no, colpevoli di reticenza, e li faceva quindi condannare[62] come falsi penitenti. Fra i signori
spagnuoli contrari all’Inquisizione il giovane Estevan de Vargas si era fatto
distinguere per l’asprezza della sua indignazione. Discendeva da una di quelle
famiglie moresche, le quali dopo la conquista di Granata avevano volontariamente
abbracciato il cristianesimo[63]. Giovane ardente, passionato, Estevan
possedeva quella bellezza maschia che rivela più l’energia dell’intelligenza
che la forza del corpo. La sua carnagione bruna, di un’estrema finezza aveva
quei toni dorati la cui vaga trasparenza lascia appena indovinare, sotto la
rete delicata delle vene, la circolazione rapida di un sangue ricco ed ardente.
Il
suo occhio nero per ordinario dolce e tranquillo., scintillava al più piccolo
moto dell’animo. Aveva quel personale alto, snello e grazioso proprio delle
belle razze moresche; e sulla pallida fronte i capelli neri e lucenti gettavano
la loro ombra e coronavano quella vezzosa testa, fatta per portare una corona
d’oro, o piuttosto di lauro: perché Estevan aveva la poesia che incanta,
l’eloquenza che persuade e trasporta, e la sua potente filosofia era degna del
maestro che aveva seguito.
Estevan
erasi nutrito del Vangelo.
Senza
abbandonarsi ad alcuna setta particolare, senza adottare le dottrine di Lutero
e di Melantone, senza divenire anabattista o illuminato (alumbrato),
eccessi tutti che gli sembravano egualmente assurdi, Estevan aveva regolato la
sua vita colla pura morale di Cristo; la sua filosofia era la carità, la carità
eccessiva; le sue pratiche, la carità, sempre, sotto tutte le forme; il suo
culto, Iddio, Iddio grande e puro, Iddio scevro di tutte le passioni umane,
Iddio sorgente della vita, che prodiga all’uomo beni senza misura, e non esige
in ricambio che un amore simile al suo, indulgente ai cattivi e soccorrevole a
tutti; e per tutta glorificazione, una vita pura, amante ed affezionata.
Tutto
il resto non era, agli occhi di Estevan, che giuochi più o meno frivoli, o mezzi
vergognosi e colpevoli.
La
sublimità dell’anima sua, la profondità delle sue convinzioni, l’eloquenza
della sua parola davano al giovane filosofo quella potenza di fascinazione che
trascina le masse. Alla sua voce il popolo esaltato sarebbesi sollevato come
per incanto, ed avrebbe fatto tremare il terribile tribunale. Suo padre, membro
del Consiglio di Castiglia nel 1502, aveva colla sua coraggiosa opposizione
favorito lo stabilimento di quella Giunta conosciuta sotto il nome di Congregazione
Cattolica[64], destinata a reprimere gli eccessi e
riparare le ingiustizie dell’indegno Lucero[65]. Disgraziatamente, questa misura tarda e
incompleta non fu che una tregua ingannevole accordata agli Spagnuoli
dall’Inquisizione, idra mostruosa, le cui teste rinascevano sempre dopo essere
state tagliate.
Il
giovane Vargas, divenuto uomo, aveva a lottare contro i medesimi abusi e forse
anco contro maggiori.
Quale
impero un uomo come Estevan aveva dovuto prendere sopra un’anima come quella di
Dolores! L’amore puro, l’amore completo non nasce nelle anime volgari; l’amore
di un essere forte per un essere mediocre non è più amore vero, diviene allora
errore o debolezza. Ma quella fusione perfetta di due anime che le fa vivere
della stessa vita, soffrire degli stessi tormenti,, che unisce i desiderii e le
volontà di maniera che sembra non esistere più che un solo essere in due
individui, quell’amore si forma soltanto nelle anime sorelle, uguali, legate da
una perfetta unità.
Forte
per natura, dotata di un candore sublime, idolatra del vero, che rigetta con
orrore qualsiasi massima falsa o vile, qualsiasi azione attaccata da
simulazione o di menzogna, Dolores aveva in Estevan quella fede cieca che nasce
da ammirazione profonda. L’elevazione del loro spirito, le crudeli peripezie
della loro esistenza, ancora si giovane, le loro tendenze religiosamente
filosofiche, e l’ammirabile purezza dei loro cuori avevano, per così dire,
spiritualizzato il loro amore.
Promessi
l’uno all’altra dal volere dei loro parenti, eglino sentivano che la loro unione
non dipendeva dal consenso degli uomini; che già per una convenzione tacita ed
inviolabile le loro anime erano sposate l’una all’altra, e che la morte stessa
non potrebbe separarle. Così il loro amore era in apparenza tranquillo;
attendevano con gioia, ma senza turbamento ed impazienza, l’epoca che
renderebbe perfetta la loro unione in faccia al mondo. Sentivano che questa
consacrazione poteva aumentare la loro felicità; ma questa felicità
l’attendevano in calma, tanto lo spirito dominava in essi la materia.
Durante
la giornata che Dolore aveva passato nella casa dell’Apostolo, essa gli aveva
candidamente raccontato la sua vita, la sua infanzia religiosa, la sua
giovinezza pura ed illuminata, il suo amore per il nobile Estevan.
E
l’Apostolo, uomo di cuore ardente, pieno d’indulgenza, in cui forse il ridicolo
misterioso di un casto amore rotto dalla mano degli uomini o da quella della
morte aveva solamente cambiato il nome, ed ora si chiama carità; l’Apostolo
commosso da quella tenera confessione, non aveva esitato a dire al giovane:
-Entra
in casa mia con la tua fidanzata; l’amore puro non offende Dio né il cielo. E’
un omaggio reso alla sua onnipotenza.-
E
quando essi furono riuniti tutti e tre in quell’umile dimora, le cui bianche
pareti non avevano altro ornamento che l’immagine di colui che morì sul
Calvario;
-Figliuolo
miei,-disse il frate, -benedite Dio che vi colpisce; le persecuzioni dei malvagi
sono tante corone per l’altra vita. Beati coloro che passano sulla terra
pregando e piangendo!-
-Padre
mio,- replico il giovane, -le vostre parole sono sante e confortevoli, ed io adoro,
come voi, la mano che si aggrava sopra di noi, ma noi altri giovani dalla vita
forte e piena di gagliardia, noi, cavalieri spagnuoli, i cui padri hanno sempre
lealmente servito la religione cristiana o l’hanno volontariamente abbracciata
con fede e convinzione; noi fedeli, osservatori della legge di Cristo, legge di
amore e indulgenza, potremmo noi, senza esser vili, sopportare il giogo di un
potere iniquo, che nel nome di Dio sfida impunemente tutte le leggi divine ed
umane? La rivolta contro di essi non è un dovere?-
L’Apostolo
rimase alcuni istanti senza rispondere: sembrava riflettere profondamente.
-Figliuol
mio,- disse finalmente, -io credo che il potere inquisitoriale sia un abuso che
bisogna combattere colla spada della parola, con la logica, con la verità e non
con la insurrezione figlia della collera e dell’odio, e perciò cieca,
passionata, senza regola, senza freno, senza misura, che va sempre troppo
lungi, e troppo presto si arresta; poca acqua gettata sopra un immenso
incendio, che, in luogo d’estinguerlo, irrita il furor delle fiamme.-
-Si!-
gli rispose Estevan con un atto energico, -ma alla bocca eloquente si pone una
sbarra, si soffoca la verità sotto i catenacci, e la logica... OH Padre mio!
Voi sapete bene quanto sono abili a combatterla. Il cupo genio
dell’Inquisizione l’estingue sotto i nodi delicati di sottigliezze d’ogni
genere, e sotto la stretta di fuoco dell’assolutismo: essi uccidono tutti con
questa frase: -Nel nome di Dio,- e il popolo ignorante china la testa. Egli
teme di divenire sacrilego rivoltandosi.-
-Il
popolo soffre,- disse l’Apostolo; -perché in tutti i tempi la sua forza è la
rassegnazione; quando, troppo stanco del giogo, si rivolta e lo scuote, a che
gli serve ciò? A cambiar di padrone, ecco tutto. Il suo sangue e i suoi sforzi
non servono che ai potenti, ai capi della rivolta; quanto a lui rimane
sofferente e schiavo.-
-Padre
mio,- disse Estevan con voce grave, -quando i capi sono puri, il popolo è felice;
la sventura non è nell’obbedienza, è nell’odio per colui che comanda.-
-Senza
dubbio,- rispose l’Apostolo, -perché colui che è degno di comandare si fa volontariamente
fratello ed eguale di coloro che gli obbediscono; non resta loro superiore che
per la intelligenza...è il pilota che tiene il timone per assicurare la
salvezza dell’equipaggio.-
-Padre,-interruppe
la giovinetta, -che hanno di comune un capo che governa per diritto o per
scelta e questo barbaro potere che nel nome di Dio spopola la Spagna e la
cuopre di gramaglie?-
-Dolores,-
replicò vivamente Estevan, -se colui che governa fosse un buon pastore, non
lascerebbe tosare il suo gregge da avidi speculatori che addentrano le cesoie
fin sotto la carne per aver la lana ed il sangue delle pecorelle. La tolleranza
del re per l’Inquisizione non è che il calcolo di un’avara politica. E’ la sete
dell’oro che copre il regno di roghi.-
L’Apostolo alzò gli occhi al cielo e due sante lacrime
scesero lungo le sue pallide guance.
-Figlio
mio,- disse, -Iddio illuminerà il re sui loro veri interessi, e toccherà il
loro cuore di una compassione efficace. La voce dei predicatori del Vangelo
finirà per essere intesa; molti fra essi, con un coraggio eroico, un coraggio
tanto grande quanto quello che arma la mano di una spada, salgono sul pulpito,
ed esclamano contro gli errori del fanatismo, e con pericolo di loro vita
predicano la dottrina di Cristo nella sua purezza e semplicità primiera.
Speriamo in essi, figlio mio; la forza delle convinzione è più potente di
quella delle armi, e il giorno del trionfo per i veri cristiani non è forse
lontano.-
-Padre,
- disse Estevan, -voi ci raccomandate la pazienza e la rassegnazione, e pertanto
io vi ho inteso nelle nostre chiese elevar la vostra voce eloquente contro gli
Scribi e i Farisei dei nostri giorni, perocché io non m’inganno;-proseguì
considerando la nobile fisionomia dell’Apostolo, -voi siete uno di quei
coraggiosi atleti che fin sotto la scure del carnefice lottano con la parola e
coll’opre contro i discepoli di Domenico di Guzman, quel fanatico di cui la
corte di Roma ha fatto un santo.-
-Io
sono il più umile dei servitori di Dio,- rispose il monaco con vera umiltà, -e
quanto alla corona dei santi Dio solo la conferisce, che legge nel fondo dei
cuori.-
-Io
sono cristiano,- rispose il frate; -ogni controversia mi sembra un sacrilegio
verso quella legge sì semplice, sì umile, sì dolce che ci ha portato Gesù. A
forza di dommatizzare uno si perde in tenebre incomprensibili, e la fede, la
carità, che sono la base del nostro culto, s’intiepidiscono e si snaturano;
perocché qualunque disunione trascina seco rancore o dubbio. La religione
cristiana è sì sempilce! Perché seminarla di difficoltà d’ogni sorta? Perché
soprattutto porla al servizio delle umane passioni?-
-Padre,-
disse Estevan, -la vostra religione è la mia e quella di Dolores: ecco perché
ci ragguardano come eretici.-
-Cristo
pure fu condannato come empio e bestemmiatore. Di che vi lamentate? È bello
soffrire per la sua dottrina.-
Dolores
ascoltava con rapimento quei due uomini di una fede sì pura, e il timore dell’Inquisizione, che l’aveva tanto
tormentata, cancellavasi davanti a quei sublimi pensieri che fortificavano il
suo coraggio.
Passarono
di tal guisa quella notte crudele che ai giovani fidanzati aveva recati cangiamenti
sì deplorevoli nel loro destino. L’Apostolo li consolava o pregava con essi, ed
inspirando loro rassegnazione, dava maggior forza alla loro speranza.
Una
generosa emozione febbrile agitava le vene della fanciulla, la quale avrebbe in
quel momento sofferto il martirio con gioia, se con la morte avesse potuto
salvare i suoi fratelli, rendere la calma e la libertà alla Spagna.
Verso
il mattino una luce pallida mischiava già gl’incerti suoi colori al limpido chiarore
della lampada che ardeva nella camera; fu battuto piano alla porta.
Estevan
e Dolores trasalirono involontariamente.
-Non
temete nulla,- disse l’Apostolo, -è senza dubbio un nostro amico.-
Egli
aprì.
Un
monaco giovane, vestito di una cocolla di stamigna nera, serrata alla vita, e
un cordone bianco si gettò fra le braccia dell’Apostolo, e posando la testa sul
seno di lui:
-E’
tuo figlio,- disse, -che ha bisogno di te.- -Sii il benvenuto,- disse
l’apostolo baciandolo in fronte come avrebbe fatto una madre, -parla figlio mio,
e dimmi che ti conduce.-
Il
fraticello si assise.
-Parla,
figlio mio,- ripetè l’Apostolo mostrando i fidanzati, -sono due fratelli, due
amici; parla, che vuoi?-
-Padre,-
disse il monaco, io ho voluto mettere in pratica le lezioni che tu mi hai date;
ho pensato, come te, che non bisognava contentarsi della predicazione, e che
alla cura delle anime bisogna aggiunger quella del corpo. Aiutato dai doni di
alcune anime pie, e grazie alla sublime rinunzia di alcuni giovani illustri, la
cui anima calorosa e piena d’amore non ha trovato che vuoto nelle gioie della
terra, io ho formato una congregazione numerosissima, animata dal solo
desiderio d’essere utile ai suoi simili e di soccorrere le loro miserie. Per le
nostre cure uno spedale è stato stabilito in Cadice[66] destinato a raccogliere i figli
sofferenti di Gesù Cristo. Noi li cureremo con le nostre mani, e procureremo,
sanando il corpo, di medicare eziandio le ferite dell’anima.-
-Tu
hai avuto un pensiero santo,- disse l’Apostolo; -la vita è bella quando ha sì
nobil scopo.-
-Mio
caro maestro,- proseguì il fraticello, -una sola cosa m’imbarazza. I dolori
dell’umanità sì numerosi e sì varii! Quale specie di miserie cercheremo di
sollevare?-
-Figlio
mio,- rispose l’Apostolo, -fra i figli sofferenti di Gesù Cristo ve ne sono alcuni,
i cui mali, lungi dall’essere un oggetto di pietà per i loro simili, divengono,
al contrario, un oggetto d’odio e di disprezzo, la società intiera li respinge,
e, lungi di affievolire o di sollevare le loro sofferenze corporee, essa aggiunge
ancora i suoi dolori, i dolori morali, mille volte più crudeli. Sono questi che
bisogna compiangere, questi che bisogna raccogliere e consolare[67].-
-Oh
padre!- gridò il discepolo, -la sapienza è in te e la carità parla per la tua
bocca. Tu hai troncato le mie incertezze.-
-Sì,
fra gli sfortunati noi sceglieremo i più sofferenti, tutti coloro che niuno
ardisce avvicinare, e appresteremo loro tanto più di consolazioni e di gioia,
quanto più sono stanchi e più disperati. Grazie, o mio maestro; i nostri poveri
malati ti benediranno perocché tu sei loro padre[68].
Quindi
essi parlarono insieme ancor lungo tempo, quantunque avessero passata la notte
senza sonno, il fervore che li animava, li rendeva poco sensibile alle fatiche
del corpo. Il fraticello sottomise a quegli di cui era discepolo, gli statuti
dell’Ordine che voleva fondare; ne discussero insieme la giustezza, il numero,
l’utilità, e i due giovani fidanzati trassero dal loro conversare questa
conclusione, giusta e vera, che cioè, tutta la pratica della religione cristiana
consiste in questo solo precetto: amatevi gli uni gli altri.
Così
fu fondato quell’Ordine celebre che esiste ancora ai nostri giorni sotto il
nome di Ospitalieri di san Giovanni; perché il fratello altri non era che quel
grande predicatore conosciuto poi sotto il nome di san Giovanni di Dio. Questa
volta almeno Roma fece giustizia, accordandogli la corona dei santi, che la
Spagna gli aveva da lungo tempo decretata.
La
campana del mattino suonò l’Angelus.
Dolore
e il suo fidanzato si unirono ai due monaci in quella preghiera.
Il
giorno compariva.
-Figli
miei,- disse l’Apostolo, -è d’uopo che vi diciate addio. Questa mattina condurrò
la fanciulla nel chiostro per attendervi in pace la volontà del cielo. Quanto a
voi, o giovane, sapete il mio ritiro; io vi ripeto ciò che ho detto ieri alla
vostra fidanzata: -La mia casa è aperta sempre a coloro che piangono.--
Dolores
alzò verso il cielo uno sguardo pieno di dolorosa rassegnazione.
Estevan
non parlò; ma il pallore del suo viso tradiva i combattimenti dell’animo suo.
Strinse con forza la mano della sua fidanzata, tese l’altra all’Apostolo, che
li riguardava con tenera compassione, e partì pronunciando questa sola parola:
-Coraggio!-
Una
lacrima scese sulla pallida guancia della figlia del governatore. L’Apostolo
uscì col suo diletto discepolo.
Egli
tornò a capo d’alcuni minuti; aveva legato i suoi sandali, e la sua mano destra
si appoggiava sopra un bastone di faggio.
Dolores
era inginocchiata davanti all’immagine del Salvatore. All’avvicinarsi del
monaco volse la sua testa verso di lui; vedendolo pronto a partire, si alzò
subitamente, e soffocando un sospiro doloroso che gonfiava il suo petto,
-Padre,- disse, -io sono pronta a seguirvi.-
_______________
VIII.
MANOFINA.
La
figlia del governatore è rimasta sotto la guardia del suo santo conduttore. Torniamo
a Manofina, che abbiamo lasciato sotto l’impressione di una nuova conversione.
Il
bravo riprese lentamente colla sua compagna il cammino del palazzo della Garduna.
Il loro tragitto fu silenzioso; solamente ad intervalli Manofina comprimeva con
ardore il braccio della sirena, che si appoggiava al suo, e con questa muta
stretta cercava d’invigorirsi nella risoluzione che aveva presa.
Giunsero
così alle rovine che servivano d’ingresso alla strana dimora di Mandamiento.
Una
debole luce rischiarava l’interno della sala, che a quell’ora era quasi
deserta. Nessuno dei membri della confraternita era ancora tornato dalle
spedizioni notturne. Solo il maestro attendeva, assiso sopra un avanzo
di colonna troncata, contando con occhio avido un pugno di dobloni; qua e là
alcune vecchie coperte avevano disteso il loro grembiule sul suolo , e
dormivano su quella sottil materassa un sonno profondo e tranquillo.
Avvertito
dal rumore dei passi della giovane coppia che si avanzava nell’ombra, il maestro
alzò subito la testa, e vedendo il bravo, esclamò con aria di giubilo: -Oh! è
Manofina: sempre il primo nelle faccende. Don Estevan de
Vargas?...-
-Sta
bene quanto voi e me,- rispose il bravo con cupa voce.
-Per
san Giacomo,- gridò Mandamiento, -gli stregoni avrebbero rotta la lama del tuo
pugnale nel fodero? ovvero don Estevan possederebbe un talismano che lo
metterebbe al coperto dall’acciaio?-
-Né
uno, né l’altro, maestro. Io sono venuto qui per dirvi che sono stanco di oscurare,
e che non faccio più parte della confraternita. Ecco il denaro che mi avete
dato.-
E
gettò la borsa ai piedi dell’irritato Mandamiento.
-Mille
diavoli!- gridò il maestro, -sei tu che parli, Manofina, o lo spirito maligno
che ha presa la tua forma per ingannarmi?
-Sono
io in carne ed ossa, maestro,-replicò il bravo; -io, che vengo a prender congedo
da voi, e per ringraziarvi della protezione particolare di cui mi avete
onorato.-
Mandamiento
aggrottò il sopraciglio, e si volse verso la sirena, che stava dietro al bravo
con aria umile e occhi bassi.
-E
tu, Colubrina,- disse il maestro, -vuoi tu pure rinunziare ai divertimenti ed
ai benefizii del mestiere per seguire questo pazzo, che non avrà più altro pane
da darti che la melopia[69] dei monaci?-
-Io
vi rinunzio,- rispose la donna avvicinandosi a colui che amava.-
-Razza
di matti!- mormorò il maestro.
Manofina
non rispose.
Mandamiento,
essendosi alzato dispettosamente dal suo seggio di pietra, si mise a camminare
a gran passi per la sala, mormorando parole non intelligibili. Era l’ora in cui
rientravano d’ordinario i membri della confraternita; venivano a render conto
al capo del risultato delle loro rispettive missioni. Appoco appoco la sala si
riempì di gente; il maestro sempre assorto ne’ suoi pensieri, non aveva ancora
guardato né fatto parola ad alcuno.
Finalmente
l’assemblea fu completa; non mancavano che alcuni apprendisti, personaggi
di poca importanza. Tutte le dignità dell’Ordine erano riunite, i quali
rimarcarono che Mandamiento, assorto nelle sue idee spiacevoli, non pensava ad
essi, come se fossero stati dell’altro mondo. Corpo di ferro si avvicinò al
capo, e, tirandolo dolcemente per la manica della sua camicia:
-Maestro,-
disse, -tutti i tuoi figli hanno compiuto la loro missione.-
-No,
non tutti,- gridò il maestro, gettando un cupo sguardo su Manofina, che si teneva
a distanza, al lato della sirena.
Tutti
gli occhi si diressero verso il bravo rinnegato. Manofina non abbassò gli
occhi, guardò i suoi compagni con aria perfettamente tranquilla, e non rispose.
-Che
vuol dir ciò?- esclamarono gli altri; -è possibile maestro?-
-Si,-
riprese Mandamiento con voce solenne; -un garduno non ha compiuta la sua
missione; la società perde ad un tratto uno de’suoi più validi sostegni, e
questa vile defezione ci reca grandi sventure.-
-Si,-
proseguì il maestro, designando con un gesto Manofina e la sua compagna che
sembravano impassibili, -l’ordine perde in essi due dei suoi figli
migliori; ma perde di più, perde la sua riputazione di probità, la sua
rinomanza, finora senza taccia, acquistata con tanti lunghi e perigliosi
servigi[70]. Che diranno i nobili signori? che
diranno le belle dame? che dirà soprattutto il clero, nostra miglior clientela?
che diranno i Domenicani, che hanno riempito i nostri scrigni di dobloni? Noi
passeremo in tutto il regno dell’Andalusia per miserabili scrocconi che
prendono denaro per oscurare, e che non oscurano. Ci paragoneranno alle
guardie che si pagano per arrestare i ladri, e che non arrestano che le persone
oneste, o a quei monaci senza fede che si fanno pagare dieci volte una messa di
cui non dicono neppure la metà.-
-Comprendete
voi, fratelli,-continuò il maestro, animandosi progressivamente al suono delle
sue parole, -comprendete voi in qual collera entrerà il grande inquisitore
quando saprà che un oscuramento da lui comandato non è stato eseguito? e
monsignore arcivescovo non dirà pure che siamo vili e ladri? e noi perderemo la
protezione di don Pietro Peladeras y Martinez y Cabrera el Colmilludo[71], protettore del nostro Ordine, e
lanternaio del re nostro signore don Carlo, che Dio guardi. Oh Manofina!
Manofina! ritorna in te stesso, e ripara un momento di debolezza.-
L’assemblea
avea ascoltato questo strano discorso con profonda stupefazione.
Dopo
che Mandamiento ebbe cessato di parlare, alcuni soffietti ipocriti si
approssimarono a Manofina.
-Fratello,-
gli dissero, -non è possibile che tu ci abbandoni, non è vero?-
-E’
fatto,- rispose il bravo con accento breve.
Da
un altro lato, due coperte delle più vecchie e delle più ributtanti si
erano avvicinate alla sirena, e con dolci parole e con lusinghe avvelenate
cercavano di ricondurla sulla primiera vocazione.
-E’
inutile,- ella rispose; -quel che è detto è detto; noi non cambieremo
risoluzione.-
-Manofina
scroccone,- esclamò un bravo promosso il giorni innanzi.
-Manofina
non è uno scroccone,- rispose quegli, -ha reso il denaro che aveva ricevuto; ma
dichiara davanti a tutti che il mestiere gli dispiace, e che rinunzia ai suoi
titoli ed ai suoi privilegi.-
Manofina
parlava con voce tranquilla: non era più quell’uomo turbolento del giorno
innanzi, avido di azioni perigliose ed orribili, era uomo forte o coraggioso,
convertito dalle parole dell’Apostolo, amante tuttora dei pericoli, ma non dei
pericoli senza scopo; tutto il suo ardore bellicoso si volgeva adesso contro
gli oppressori dei deboli, contro gli sbirri della Inquisizione.
-Alla
tigre! alla tigre![72]- sclamò il nuovo graduato.
-Fratello,-
replicò severamente il maestro, -la confraternita della Garduna non ha mai rilasciato
alla tigre di Siviglia i suoi figli anche i più colpevoli. Se sono deboli,
buoni a nulla o malaccorti, li degrada o li rimanda; se sono traditori li oscura;
ma non incarica mai compar Matteo[73] di vendicarla.
-Maestro,-
disse Manofina, -la confraternita non abbandona i suoi figli, e i suoi figli
neppure la tradiranno; non avrà mai nulla a temere.-
-Figliuol
mio,- replicò il maestro intenerito, -perché vuoi abbandonarci? hai da lagnarti
di me? puoi ancora riparare al tuo sbaglio.-
-Mai,-
rispose Manofina in tono risoluto.
-Sai
tu,- rispose Mandamiento irritato, -che ogni membro infedele merita una punizione??-
-Ogni
membro infedele incorre nella degradazione; degradatemi dunque e tutto sia
finito.-
-Tu
devi sapere che vi sono certi casi in cui si oscura ,- replicò
severamente Mandamiento.
-Non
si oscurano che i traditori, ed io non sono un traditore.-
-Ma...-
-Ma
si potrebbe temere che io lo divenissi, vuoi dire, e allora mi si oscurerebbe,
non è vero?- aggiunse il bravo con aria di diffidenza. -Ebbene! io consiglio a
colui che sarà incaricato di questa missione di dire devotamente il suo confiteor;
perché per la barba del re! avrà un osso duro da rodere. Il mio pugnale non
sarà più all’ordine di chichessia, ma sarà sempre pronto a difendermi.-
La
sfida di Manofina colpì l’amor proprio di alcuni fratelli , i quali
portarono la mano al loro pugnale. La sirena, a cui quell’atto non era
sfuggito, serrò convulsivamente il manico della sua laminetta andalusiana.
Il
bravo promosso il giorno innanzi si avvicinò allora a Manofina con aria
beffarda, e gli disse a voce bassa:
-Io
non avrei mai creduto che tu potessi aver paura, Manofina!-
Il
convertito sorrise sdegnosamente.
-Che
fate voi là,- gridò il maestro; -non sapete che non si parla a voce bassa
durante le sedute solenni?-
-Io
diceva a Manofina,- replicò il nuovo graduato, -che è un peccato che sia
divenuto così poltrone; perché io sostengo che è la paura che gli ha impedito
di fare il suo dovere.-
Queste
parole erano appena pronunziate, che il bravo promosso il giorno avanti, trasportato
come da un vortice dal più vigoroso schiaffo applicato dalla mano del terribile
Manofina, era andato a cadere ai piedi di Mandamiento.
Venti
pugnali brillarono nel momento sopra alla testa di Manofina.
Ma
egli senza sconcertarsi, avvolse il suo mantello intorno al suo braccio
sinistro, afferrò il suo pugnale con la destra, e ponendosi in attitudine di
atleta pronto a tutti sfidare, attese col pié fermo gli assalitori.
La
sirena, vedendolo in quell’atto, avvolse pure la sua mantiglia attorno al suo
braccio sinistro, e ponendosi dietro al bravo, attese col pugnale alzato coloro
che avessero potuto assalire il suo amante per di dietro.
Niuno
ardì fare un moto.
-Ebbene,-
disse Manofina, -questo è tutto?-
-Avanzatevi
dunque, poltroni!- gridò la Colubrina con gli occhi scintillanti come quelli di
una tigre; -avanzatevi per vedere se abbiamo dimenticato di battezzare!-
Mandamiento
rimase impassibile.
Il
bravo, che già una volta era stato rovesciato, si rialzò furioso come un lupo
colpito da una freccia, e si lanciò sopra Manofina, ma, con gran dispiacere
dell’assemblea, cadde di nuovo sul terreno. Manofina coprendogli la faccia col
suo braccio sinistro, gli aveva dato nello stesso tempo un calcio vigoroso che
lo aveva rovesciato addirittura.
Gli
altri membri della Garduna non si erano mossi.
-Signori,
voi siete una massa di vili,-gridò Manofina: -voi volete lasciarmi oscurare
da un giovane pollo che ha più ardore che esperienza.- -Manofina,- disse
allora il maestro, -questo giovane pollo, come tu lo chiami, ha diritto
ad una riparazione, e tu sei troppo bravo per ricusargliela.-
-Io
sono pronto a dargli tutte le soddisfazioni possibili, ma in regola, e da solo
a solo.-
-La
Colubrina ti aiuterà,- risposero gli altri scherzando.
-La
Colubrina si terrà tranquilla come un morto,- rispose il bravo; -fate come
essa, e lasciate, fra questo giovane e me, regolare in pace i nostri conti.-
-All’opera
figliuoli,- gridò Mandamiento, -ed ogni pugnale rientri nel fodero.-
-E
voi, signore Gancino, - aggiunse egli volgendosi verso un giovane garduno che
gli serviva di paggio, -andate a fare la guardia e gracchiate[74] al minimo atomo di pericolo che vedrete
avvicinarsi al corso d’acqua.-
L’inviato
partì.
Si
fece un grande cerchio d’uomini e di donne nella sala della Garduna; il bravo e
Manofina, armati tutti e due dei loro enormi coltelli d’Albacete[75], si avanzarono nel mezzo di quel
cerchio.
E
questo è un fatto che confuta vittoriosamente la qualificazione di traditori
data agli Spagnuoli dagli stranieri, che le persone della più bassa estrazione,
la feccia della popolazione, scrocconi, ladri, diffamati, forzati liberati ed
altri portano in questo genere di combattimenti un lealtà, un generosità
cavalleresca che non si potrebbe aspettare da esseri così abietti. Non vi è
esempio che un baratero[76], abbia colpito il suo avversario dopo
che questi abbia dichiarato di non potere o di non volere più battersi. Se uno
dei due combattenti non ha più mantello, l’altro si spoglia del suo, e si serva
del suo braccio nudo per parare i colpi. Questa generosità è tanto più
rimarchevole in quanto queste persone si battono più sovente per inezie, per
qualche soldo, e spesso anche per meno[77].
Le
armi dei due garduni si trovarono ad essere esattamente della medesima lunghezza,
le loro lame affilate erano della medesima larghezza. Questo esame finito, i
combattenti avvolsero il loro mantello attorno al braccio sinistro a guisa di
scudo; poscia si posero fieramente l’uno in faccia all’altro.
Così
appostati attesero il segnale.
-Avanti
dunque!- A questo grido, i due avversari si lanciarono l’uno verso l’altro,
curvandosi, raddrizzandosi, torcendosi come serpenti, gettandosi indietro per
saltare di nuovo con slancio più sicuro ad assaltare il nemico. In quei
movimenti rapidi ed imprevisti, che non hanno altro scopo che di allucinare il
proprio avversario, affinché non possa sicuramente dirigere i suoi colpi,
Manofina, più tranquillo e più esercitato, aveva un incontestabile vantaggio.
Il
giovane bravo, stordito dalla collera, furioso di perseguitare un’ombra che
incessantemente gli sfuggiva, si lancia disperato su Manofina, trascurando di
difendersi per attaccare, ed offrendo venti volte il suo petto al coltello
micidiale.
La
Colubrina seguiva con uno sguardo scintillante, e col petto affannoso
quell’atroce combattimento, che teneva tutti gli animi in sospensione. Alcuni
degli assistenti pregavano fra sè per il giovane bravo che vedevano già steso
morto nella polvere. Il maestro taceva, il suo viso era impassibile.
Il
giovane garduno, già stanco, si affannava a seguitare quella maniera imprudente
di combattere; venti volte il pugnale di Manofina aveva lambito il suo petto;
ma Manofina, che non voleva ucciderlo, prese il momento in cui il suo
avversario si gettava sopra di lui con la mano orizzontale, col coltello
diretto verso il suo petto, e rialzando prontamente il braccio sinistro, con un
colpo violento e non preveduto mandò il pugnale del giovane a rotolare ai piedi
del maestro.
-Bravo!
bravo!-si gridò da tutte le parti; -bravo, Manofina, tu sei degno ancora
d’essere dei nostri!--Grazie, fratelli,-rispose l’amante della sirena: -grazie,
la vostra approvazione mi basta.-
-Sei
veramente prode, Manofina,- disse il vinto, porgendogli la mano.
Manofina
strinse cordialmente la mano che cercava la sua. Poscia, avanzandosi verso
Mandamiento: -Ora, maestro,- disse, -terminiamo il cerimoniale affinché io sia
libero.-
Mandamiento
comprese che ogni tentativo sarebbe stato inutile per cambiare la risoluzione
del bravo; il maestro levò fuori il suo pugnale, ne appoggiò la punta sul
suolo, e piegando fortemente la lama, la ruppe e ne rimise i pezzi a Manofina,
il quale gli diede il suo in cambio.
Per
quest’atto il bravo rimaneva degradato e indegno di dividere le gesta della Garduna
e di contribuire alla sua gloria.
Mandamiento
prese in seguito il bravo per la mano e lo condusse davanti a un’immagine della
vergine; là Manofina, inginocchiatosi, pronunziò la formola seguente:
-Per
i dolori di Maria e per il sangue del suo Figliuolo, versato per noi, giuro di
non tradir mai la confraternita della Garduna né alcuno dei fratelli
dell’ordine: di non divenir mai membro della giustizia, a detrimento dei
fratelli garduni e di non adoperar mai il mio pugnale contro alcuni di essi se
non per legittima difesa...Iddio mi aiuti secondo la sincerità del mio
giuramento e mi punisca se io vi manco:-
-Amen!-risposero
in coro tutti i membri presenti inginocchiati dietro il bravo.
Terminata
quella ridicola cerimonia, Manofina prese il braccio della sua compagna, e
gettando uno sguardo d’addio ai suoi antichi compagni, uscì dall’antro della
Garduna deciso di non più rientrarvi.
-Fratelli,-
sclamò il maestro dopo che Manofina fu partito, -Noi faremo una nuova messa
alla Madonna dei sette dolori affinché ci mandi un degno successore di questo
povero ragazzo sviato, che ci ha testé abbandonati.-
_______________
IX.
Il favorito dell’inquisitore.
Era
il giorno successivo all’orgia.
Potevano
essere dieci ore del mattino; l’inquisitore si era alzato allora. Il suo viso
portava ancora le traccie degli stravizi della notte precedente, e di quel
sonno intempestivo che affatica e consuma le forze in luogo di ripararle.
Pietro Arbues era di un livido pallore.
All’eccitazione
nervosa, cagionata dalla intemperanza, si aggiungevano le agitazioni di una
passione contrariate, una collera sorda contro gli agenti dei suoi delitti.
Enrico specialmente eccitava al più alto grado il suo risentimento: la
selvaggia passione dell’inquisitore si esaltava per tutti gli ostacoli che
erano venuti a rovesciare i suoi progetti. Il colore bilioso di Pietro Arbues
si mischiava a momenti con macchie violette: il suo grand’occhio d’un turchino
cupo, diveniva giallo come quello di una tigre, e il suo profilo d’aquila,
violentemente contratto. esprimeva una ferocia spaventevole.
Si
avvicinò ad un braciere che ardeva nel mezzo della camera e presentò le sue
mani intirizzite a quel calore benefico; aveva freddo: la violenza delle sue
sensazioni riconcentrava nel cervello tutto il calore vitale.
-Dolores!-
esclamava, -Dolores!-
La
sua immaginazione esaltata gli rappresentava come in uno specchio magico la
bellezza sovrumana della figlia del governatore ; trasalì sulla seggiola,
e i denti gli si serrarono in un’accesso d’indomabile frenesia.
-Oh
quanto era bella!- continuò Pietro Arbues, irresistibilmente perseguitato dalla
immagine della giovinetta, -quanto era bella in quel suo terrore! Oh averla
vista così presso di me...averla tenuta qui in mio potere senza temere né la
sua collera, né le sue grida!...ciò sarebbe
avvenuto senza la viltà d’Enrico....-vile schiavo, ei non sa che adulare e non
servire; razza maledetta, che bacia la polvere dei nostri sandali e
indietreggia dinnanzi al pericolo quando si tratta di soddisfarci.
-Ma
che?-proseguì il feroce inquisitore, alzando fieramente la testa, -non sono io
qui il padrone, e non posso ottener con la forza ciò che l’astuzia non ha
potuto fare?-
-Olà!-
disse, avvicinandosi ad una portiera di seta che lo separava da un’anticamera
ove stavano i famigliari di servizio, -facciasi venire il mio segretario...-
Il
segretario accorse.
Era
un giovane nobile di povera famiglia, che per evitare la miseria e le persecuzioni,
erasi messo al servigio di Sua Eminenza.
Tutto
era al servigio dell’Inquisizione!
-Don
Filippo,-disse l’inquisitore, -è stato arrestato questa notte il governatore di
Siviglia? è stato condotto nelle prigioni del Santo Uffizio?-
Don
Filippo s’inchinò.
-Monsignore,
gli ordini di Vostra Eminenza sono stati eseguiti.-
Un
lampo di gioia brillò negli occhi dell’inquisitore.
-Dite,
vi prego, che si mandi Josè,- proseguì Arbues. Il segretario uscì.
L’inquisitore
si mise a camminare a gran passi nella camera. -Almeno,- disse, -io mi
vendicherò di lei e poi,- continuò Pietro Arbues, sempre parlando fra sé
medesimo, -spero che quei maledettissimi gitani, che io proteggo, avranno
compiuto la loro missione meglio dei miei famigliari: d’ordinario i figli della
Garduna non falliscono i loro colpi. Questo Estevan, ch’io odio, non esiste già
più; avrò almeno privato Dolores di questo odiato rivale.-
Mentre
parlava così, la figure pallida di Josè si mostrò alla porta della camera. A
questa vista la fisionomia dell’inquisitore s’i addolcì d’una maniera
singolare.
-Entra,
Josè; la tua presenza mi è sempre cara.-
Il
novizio era infatti uno di quegli esseri indispensabili ai potenti disoccupati
del mondo, che sono sempre stati designati sotto il nome di favoriti: strumenti
di bene o di male secondo la perversità della loro anima: esseri deboli, che
regnano per la dolcezza e per la compiacenza, ed a cui pertanto nulla resiste:
influenze misteriose, fatali come il destino, genii famigliari del padrone, e
sembrano agire in virtù di un talismano incantato; poiché il giorno in cui
questo talismano fugge loro, cadono trascinati da quell’irresistibile potere
che li abbatte così come li ha elevati, senza causa e senza scopo.
-Monsignore
ha dormito male questa notte?-domandò il favorito con voce carezzevole.
-Sì,
ho dormito male, Josè; ho passato una notte penosa e crudele.-
-Monsignore,
vi è pure nel palazzo un pover uomo che ha dormito male, essendo stato colpito
nel suo corpo e nella sua anima per il servigio di Vostra Eminenza.-
Gli
occhi di Pietro Arbues scintillarono di corruccio. Josè proseguì senza
sconcertarsi:
-Quest’uomo,
monsignore, per poco non ha perduto la vita al servigio di Vostra Eminenza, e
quando è tornato presso di voi coperto di percosse e di sangue, Vostra Eminenza
l’ha cacciato come una bestia immonda, e poscia ha ricusato di ascoltare la sua
giustificazione.-
-Josè,-
gridò l’inquisitore con collera, - sai tu che se un altro osasse intercedere
per Enrico...- -Vostra Eminenza l’ascolterebbe come si degna ascoltarmi,-
proseguì il favorito con accento tranquillo; - poiché Vostra Eminenza è giusta
avanti a tutto, e si rimprovera nell’anima la sua crudeltà verso questo povero
Enrico.-
-Un
traditore!- mormorò Arbues.
-Un
vostro servitore fino alla morte, monsignore; un servitore bravo, fedele e di
cui avete bisogno. Chi farete ora governatore di Siviglia?-
-Per
la pantofola del papa! voi scherzate, maestro Josè; io non so quale di noi due
sia più pazzo: voi, giovane, senza cervello che m’intrattenete in simili ciance
od io, grande inquisitor di Siviglia, che vi ascolto.-
-Monsignore,-disse
Josè, - io vi proverò subito che siamo savissimi tutti e due.-
-Io
sono curioso di vedere come tu mi proverai questo.-
-Niente
di più facile, monsignore. Voi avete tolto alla nobile città di Siviglia il suo
onoratissimo e onorevolissimo governatore, il conte Emanuel Argoso: ecco la
città senza Mentore, e Vostra Eminenza senza ausiliare. In questi tempi
d’eresia, monsignore, un aiuto è cosa di cui Vostra Eminenza non può fare
senza.-
-Che
vuoi conchiudere?- disse l’inquisitore, che cominciava ad ascoltare con compiacenza.
-Io
voglio provarvi, monsignore, che il migliore aiuto dell’inquisitore è il
governatore della città, e che è urgente che questo governatore sia una
creatura della Eminenza Vostra. ora dove troverete un uomo più affezionato di
questo povero Enrico, che nel semplice ratto di questa ragazza ha sofferto due
o tre battesimi, come dicono quei dannati boemi della Garduna, ed il bagno
più completo che si possa immaginare?-
Pietro
Arbues sorrise leggermente; l’influenza del favorito aveva calmato la febbre
che ardeva il suo sangue.
-Enrico,
governatore di Siviglia!- esclamò ad un tratto in un accesso di spontanea
gaietà; -ma sai tu, Josè, che esso è uomo da nulla!-
-Più
grande sarà il potere di Vostra Eminenza, ne farà quello che vuole,- rispose
Josè senza sconcertarsi.
Una
risata, ma senza trasporto né simpatia, una risata da inquisitore rispose
solamente a questa arguzia. Josè soggiunse colla persistenza di un figlio
prediletto: -Monsignore, è d’uopo ch’io chiami questo povero Enrico; affinché
si giustifichi ed implori il ritorno delle vostre buone grazie.-
-E’
dunque pentito dell’insuccesso della sua spedizione?-
-Egli
ha la contrizione perfetta, monsignore.-
-Invero,-
disse Arbues, -un uomo che ha ricevuto tre battesimi, e che possiede la contrizione
perfetta, merita certamente l’assoluzione. Va dunque a cercarmi Enrico, mio
buon Josè.-
Il
novizio baciò la mano dell’inquisitore con un ardore febbrile; qualcuno che
avesse potuto vedere la sua testa inchinata sulla mano di Petro Arbues avrebbe
giudicato, dalla espressione odiosa e feroce della sua fisionomia, che il
favorito avrebbe volentieri lacerato co’ suoi denti la mano del padrone invece di imprimervi un bacio ipocrita. Josè
uscì.
-Alfin
de’ conti,- disse a sé medesimo l’inquisitore, -l’idea di questo fanciullo non
è forse sì cattiva. Enrico, governatore di Siviglia innalzato da me e da me
solo sostenuto, diverrà l’istrumento docile dei miei voleri, il littore a cui
io dirò. batti, e che batterà. Sì, Josè ha ragione, e la sapienza risiede in
lui.-
Mentre
terminava queste parole, il favorito accorreva, seguito da Enrico.
Il
famigliare era ancor pallido; la sua testa confusa, il suo braccio ferito era
inviluppato di fasce, il suo andamento ipocrita dava a quel viso magro e
affaticato l’aspetto ancor più malaticcio e più sofferente. Alla sua vista la
fronte dell’inquisitore si acciglò nuovamente. Il disgraziato mise un ginocchio
a terra, e con un gesto sollecitò il favore di baciar la mano a Sua Eminenza.
Pietro
Arbues guardò il suo favorito. -Orsù, un po’ d’indulgenza,- disse lo sguardo di
Josè.
-Io
vi perdono, Enrico,- disse il grande inquisitore: -ringraziate don Josè, che ha
perorato per voi meglio che non avrebbe fatto un avvocato, e raccontatemi
minutamente la spedizione notturna che vi è stata cagione di quelle ferite.-
Enrico
non si fece pregare due volte; raccontò nuovamente a Sua Eminenza tutto ciò che
noi già sappiamo sul ratto di Dolores, senza mancare di attribuirsi tutto
l’onore dei colpi dati e ricevuti; infatti ei non prendeva che il bene dei
morti, era una eredità e non un furto. Quando ebbe finito, l’inquisitore, un
poco acquetato, o per meglio, interamente addolcito in suo favore, gli disse
con accento in cui spiccavano la benevolenza e la protezione:
-Enrico,
io ti credo fedele, e benché tu non sia riuscito in questa intrapresa, spero
che in avvenire i tuoi sforzi e le tue cure per il servizio di Dio faranno
dimenticare questo fallo, e per provarti che non serbo contro te alcun
risentimento, e che ti considero, al contrario, come servitore più affezionato,
io scrivo al sovrano e gli domando per te il titolo di governatore di
Siviglia.-
-Il
conte Argoso è egli morto?-domandò Enrico fra la sorpresa e la gioia.
-Fa
lo stesso,-mormorò Josè fra’ denti; -egli è nelle prigioni del Sant’ufficio.-
-Monsignore,-disse
un famigliare, sollevando un lembo della portiera di seta, -maestro
Mandamiento domanda di parlare a Vostra Eminenza.-
-Estevan
è morto,- pensò l’inquisitore.
-Fate
entrare il maestro della Garduna,- disse appoggiando con ironia su queste ultime
parole. Mandamiento fu introdotto. Questi restò in piedi con la testa coperta
in presenza dell’inquisitore.
Quell’uomo
selvaggio aveva un’idea talmente bizzarra e fanatica delle prerogative della
sua carica, che credeva trattare fra potenza e potenza.
Enrico
fece cenno a Mandamiento di scuoprirsi, il maestro rispose con uno
sguardo di disprezzo.
L’inquisitore
sorrise, e volgendosi verso il Garduno:
-Ebbene,-
disse, -è tutto finito non è vero?-
-Non
è fatto nulla,- replicò Mandamiento con aria cupa.
-Che!
Estevan de Vargas?...-
-Estevan
de Vargas corre i campi. e neppure un capello è caduto dalla sua testa. Per la
prima volta dopo la sua esistenza la Garduna ha contato un traditore nel suo
seno, e questo traditore si è trovato fra i suoi figli più bravi,- proseguì
Mandamiento con dolore comico. Egli si doleva della diserzione di Manofina come
un padre di famiglia dei traviamenti d’un figlio unico e diletto.
-Per
Satana!- gridò l’inquisitore, battendo il piede con rabbia, -tutti mi
tradiscono dunque in questa circostanza? come si chiama il traditore?- disse
con accento breve.
-Ho
giurato che niuno lo saprebbe, monsignore, e questo nome importa poco a Vostra
Beatitudine. Io son venuto presso di lei solamente per restituirla la somma
avanzata a... colui che era stato incaricato della spedizione.-E con la più scrupolosa
probità, il bandito pose sulla tavola le monete d’oro ricevute per assassinare
don Estevan.
-Non
v’ha dunque nessuno fra’ tuoi gitani che voglia incaricarsi di questo?- domandò
l’inquisitore.
-Oh!
i bravi ed i fidi non mancano presso di noi, e ardisco promettervi per
l’avvenire...ma abbiamo perduto le traccie del nostro uomo, e mi abbisognerebbe
una proroga.-
-A
ciò non si badi,- rispose l’inquisitore, -se mi prometti che don Estevan non ti
sfuggirà. Riprendi dunque il tuo oro, Mandamiento, esso non è che un acconto;
più la bisogna sarà difficile, più grossa ne sarà la ricompensa, mio
brav’uomo.-
-Sia;-
disse il bandito, riprendendo le monete d’oro; -da qui a otto giorni, monsignore,
io posso promettere a Vostra Reverenza che il giovane avrà ricevuto il
battesimo da mano maestra.-
-Amen,-
disse Josè, ed uscì con aria indifferente. -Non sapreste dirmi, Mandamiento,
-domandò Arbues, -in qual luogo si è rifugiata la figlia del governatore di
Siviglia?-
-Monsignore
non mi avea incaricato della cura di custodirla,- replicò il garduno.
-Proprio
la risposta di Caino al Signore,- azzardò dire Enrico.
Si
tollerava da Josè ciò che non soffriva dal famigliare; Arbues aggrottò il
sopraciglio; aveva l’anima troppo preoccupata per fermarsi su simili
spiritosaggini.
-Mandamiento,-
continuò, -ecco una cattura per la quale l’oro de’ miei scrigni sarà prodigato;
procura di scoprire questa giovane, e di condurmela.-
-Sana
e salva?- domandò freddamente il bandito.
-Per
Cristo!- gridò l’inquisitore, che giurava indifferentemente per le cose sante e
per quelle riprovate; -per Cristo; senza che le cada un capello della testa,
intendi tu? senza che le si cagioni il minimo spavento. Non avete donne voi
altri che fanno questo mestiere? Si scuopra dov’è questa giovane, essa non
diffiderà di un individuo del suo sesso; s’impieghi l’astuzia; finalmente tu
devi sapere come bisogna agire.-
-Oh!
la sirena!- pensò Mandamiento, -quella era diritta e furba.-
-Monsignore,-
continuò ad alta voce, -si farà il possibile, ma io non prometto nulla; ciò è
più difficile di quello che lo si pensi.-
-Monsignore,-disse
Enrico a voce bassa, -la scuoprirò io: non sarò presto governatore di
Siviglia?-
Arbues
congedò il maestro garduno.
Quel
personaggio strano uscì con la testa alta e con lo sguardo sicuro; egli aveva
un’alta idea della sua importanza, e questa follia esaltata eziandio da una
esistenza affatto eccentrica, e dalla tendenza naturalmente orgogliosa e
poetica dello spirito spagnuolo, imprimeva a tutti i suoi gesti, a tutti i moti
di Mandamiento qualche cosa di solennemente selvaggio che la parola è impotente
a tradurre.
Quando
fu fuori, Arbues alzò le spalle.
-Essere
in contatto con questa gente!- mormorò: -e tutto ciò per colpa della milizia di
Cristo! Se i famigliari avessero abbastanza di zelo, avremmo noi bisogno di
questi zingari?-
-Monsignore,-
disse Enrico, -se questi zingari non ci servissero, ci farebbero la guerra.-
-Forse
è vero,- rispose Arbues.
Il
famigliare, rientrato in grazia, continuò a ciarlare con l’inquisitore. Ciò che
essi dissero non lo sappiamo; ma sicurissimamente l’inferno dovette sorridere a
quella intima conversazione, a quelle confidenze ciniche od empie scambiate fra
quei due orribili personaggi, e se Dio non si sdegnò di vedersi mescolato a
tutto questo, fu perché la sua bontà è infinita, fu perché soffre i cattivi
sulla terra, non a fine di purificare i buoni, come è stato detto, ma perché è
padre, e il padre è sempre indulgente anco verso i suoi figli più perversi.
Appena
il signor Mandamiento avea fatto alcuni passi nella strada, che si sentì arrestato
per la manica della veste. Il maestro si rivolse, e non fu poco sorpreso di
riconoscere il favorito di monsignore in colui che lo aveva così fermato.
-Sua
Beatitudine avrebbe forse dimenticato qualcosa?-domandò lo zingaro.
-Sua
Beatitudine si è dimenticata di dirti che io non voglio che don Estevan
de Vargas muoia,- rispose Josè.
-Bisognava
rammentarsene,- replicò Mandamiento sul medesimo tuono.
-Purché
tu lo sappia, non è tutto ciò che ci bisogna?- disse il novizio.
-Monsignore
mi ha dato delle caparre per oscurare don Estevan,- continuò il bandito, -ed io
nulla conosco che m’impedisca di fare la volontà di monsignore.-
-Fuor
che la mia,- disse Josè con autorità. -Io non voglio che don Estevan muoia, intendi
bene,Mandamiento! ed io renderò la caparra a monsignore; sii tranquillo su
questo punto e vattene.-
Il
maestro conosceva la onnipotenza di Josè sull’inquisitore; il tuono risoluto
del novizio lo gettava nell’indecisione: bisognava dispiacere al padrone?
bisognava dispiacere al favorito?
Mandamiento
rifletté un istante; poscia rivolgendosi verso il fraticello, che lo interrogava
con lo sguardo acuto: -Reverenza,- disse, -checché debba accadermi sarete
obbedito.-
Un
cortigiano non avrebbe fatto di meglio.
-Bene,-
disse Josè, -checché ti accada reclama contro di me;- e, facendo passare una
borsa piena d’oro nelle mani del garduno, il favorito disparve al voltare di
una strada.
-Questo
è un dono,- pensò Mandamiento, considerando il ricco presente del giovane
monaco; -nulla è meglio acquistato di quello che viene regalato; io posso
dunque tenerlo.- Il maestro della Garduna si allontanò, cantando a mezza voce
una di quelle vecchie ariette spagnuole che i gitani cantano ancora
nell’Andalusia.
__________________
X.
La professione.
A
poca distanza di Siviglia, sopra ridente collina cui bagna il piede il
Guadalquivir, s’innalzava un convento di Domenicani, vasto e sontuoso edifizio,
fabbricato nel mezzo di un’oasi, abbellito al di dentro di tutte le
ricercatezze del vago e del comodo, per rendere senza dubbio più facile ai
figli di Domenico di Guzman la rinunzia e l’abnegazione. Quel convento o, per
meglio dire, quel palazzo,antica stanza di un principe moro, serviva di asilo
ad una trentina di monaci destinati ad alimentare i tribunali
dell’Inquisizione. Parecchi fra loro avevano figurato molto nell’alto grado di
inquisitor provinciale; tutti facevansi distinguere per il loro zelo senza
pietà per l’estirpazione dell’eresia, e monsignor Arbues amava particolarmente
quel santo asilo, ove talora veniva a riposarsi delle sue penose
funzioni.
In
quel giorno un affare importante lo chiamava in quel soggiorno di beatitudine;
una splendida cerimonia si preparava, alla quale la presenza dell’inquisitore
compartire doveva maggior solennità.
Erano
trascorsi due mesi dopo la sparizione della figlia del governatore. La passione
di Pietro Arbues, benché non estinta, lasciava alcuni istanti di tregua a
quell’anima ardentemente dispotica, ed i piaceri pungenti del dominio
intiepidivano per istanti i disinganni del suo amore sfrenato. Del resto
Dolores non formava il solo pensiero della vita dell’inquisitore. In quel
giorno Josè, suo favorito, doveva fare la sua professione al convento dei
Domenicani, e l’amicizia di Pietro Arbues per quel giovane, dotato di bellezza
femminina, era viva abbastanza per far diversione ad una passione più ardente.
Fino
dal mattino di quella giornata solenne era un gran moto nel convento, la cappella
vasta, rotonda, che avea conservato sotto i suoi ornamenti cristiani una
fisionomia moresca, era stata parata di ghirlande e fiori.
La
Madonna del Rosario, protettrice speciale dei Domenicani, aveva vestito i suoi
abiti da festa, la seta ed il velluto avevano velato la casta immagine dell’umile
madre del più umile fra gli uomini, e questa modesta regina degli angelo andava
splendida di diamanti e di perle come una regina della terra. Il marmo bianco
delle colonne disparve sotto un tessuto di rose: ceri innumerevoli splendevano
sull’altare, ed all’olezzo inebriante dei profumi, allo splendore mondano delle
drapperie, all’eleganza mitologica del colonnato, alla profusione dei fiori che
riempivano il recinto, si sarebbe detto il tempio di una Venere antica,
trasformato ad un tratto in cappella cristiana: solamente nel posto dell’idolo
pagano erasi messa l’immagine della Vergine del cielo, e in uno dei lati della
navata la statua in piedi del cupo protettore dei Dominicani richiamava con la
sua severa fisionomia a gravi pensieri che l’aspetto di quel luogo ridente
avrebbe, senza di ciò, difficilmente inspirati.
A
destre, nella volta un seggio ricoperto di velluto, e sormontato di un
baldacchino elegante era stato preparato per monsignore il grande inquisitore;
alla sua dritta, sopra una poltrona alquanto più bassa, doveva assidersi il
priore del convento, che per ordinario occupava il primo posto. Quel giorno
bisognava conformarsi alle leggi della gerarchia.
Verso
nove ore un canto solenne rimbombò sotto le vòlte della cappella, già piena di
numerosi invitati, dame e signori per la maggior parte.
I
monaci preceduti da uno stendardo si avanzarono lentamente in due file,
cantando Gloria in excelsis. Ciascuno di essi aveva un cero acceso in
mano.
Quelle
cupe figure male nascondevano, sotto un ascetismo selvaggio, le passioni affatto
terrestri; tuttavia quella lunga processione d’uomini vestiti delle insegna
della morte (il bianco ed il nero) aveva qualche cosa di lugubre che ghiacciava
di spavento.; il priore, vestito degli ornamenti episcopali, chiudeva la
marcia.
Terminati
i canti, i monaci si fermarono facendo ala, il priore passò in mezzo ad essi,
due monaci, che compivano l’ufficio di diaconi, lo seguivano: essi
accompagnavano il novizio, vestito del ricco e grazioso vestimento dei
cavalieri spagnuoli. Tutti e quattro andarono ad inginocchiarsi nel mezzo
dell’absidia, su cuscini di velluto che erano stati preparati per riceverli. Un
signore spagnuolo serviva di padrino a don Josè.
Monsignor
Arbues occupava già il posto che gli era riserbato.
Dopo
il Vangelo ebbe luogo il sermone d’uso, discorso ampolloso e mistico sulle
beatitudini della vita claustrale; frasi senza ordine, oscure e lambiccate,
piene di profondo ed incomprensibile ascetismo, che nulla diceva al cuore,
nulla all’immaginazione, ma che attendeva sempre all’unico scopo di Roma: Estinguere
per dominare.
L’uditorio
ne fu soddisfatissimo; tuttavia l’eloquenza del predicatore non impedì alle
belle dame presenti alla cerimonia di adocchiare santissimamente il giovane
novizio, e di ammirarne il bel volto e il bell’aspetto.
Ma
Josè era pallidissimo, e il suo occhi nero aveva una strana espressione, e
lampi di cupa gioia passavano sul suo viso.
Dopo
la messa il priore si avanzò verso il novizio.
-Che
siete venuto a fare così vestito nella casa di Dio?- gli domandò esso.
-Io
cerco la salute dell’anima mia,- rispose Josè.
-Pensi
tu ritrovarla nel mezzo delle pompe del mondo?-
-Ebbene,
io rinunzio alle pompe del mondo.-
-Ciò
non basta, bisogna rinunziare alla carne e alla tua volontà.-
-Io
farò voto di castità, e sarò umile e sottomesso verso colui che vorrà condurmi
nella via della salute.-
-Va
dunque,- disse il priore.
Due
monaci s’impossessarono del novizio, e lo condussero dietro l’altare nel luogo
preparato per riceverlo. Era un luogo oscuro, rischiarato solamente da una
lampada sepolcrale appesa alla volta; nel mezzo, sul terreno coperto di un
drappo nero, una bara coperta da uno strato, attorno alla quale ardevano
quattro ceri bianchi, sembrava aspettare che la si facesse discendere sotto
terra. Sul coperchio della bara un teschio da morto collocato su due ossi in
croce, mostrava due file di denti d’una bianchezza eburnea.
Al
di sopra, fissati in terra dall’asta, s’innalzavano come due stendardi
sinistri, la gran croce d’argento e la manga[78] ,che si portava nei funerali. Verso l’estremità superiore
della tomba allato di un inginocchiatoio, sormontato da un crocifisso di
piombo, vedevasi una tavola coperta di nero, ove erano posti i nuovi abiti
destinati al novizio. Infine, all’altra estremità dirimpetto
all’inginocchiatoio, una gran lastra di lucido metallo attaccata al muro,
rifletteva e moltiplicava tutti questi oggetti lugubri.
Quel
luogo si chiamava la tomba della salute[79]. Là il novizio fu lasciato solo. Ei si spogliò delle sue
vesti profane, rivestì l’abito dei Domenicani, una tunica bianca ed uno scapolare
nero: severo abito, che sembra essere l’assisa della morte; poscia depose il
berretto. ornato di piume, per non aver mai altra acconciatura fuorché i suoi
capelli rasi, e invece della dorata cintura cui era appesa la spada, si cinse i
lombi di corda, insegna della povertà: poi finalmente lasciò i ricchi
stivaletti e calzò i sandali, che non doveva più lasciare. Tutto questo durò
circa mezz’ora. La mano del novizio tremava come se avesse avuto la febbre; il
cuore gli batteva colpi ineguali e precipitati, un sudore freddo scorrevagli
sul viso bianco e levigato, s’inginocchiò davanti al crocifisso, e con voce
amara e lamentevole si mise a pregare. Dei singulti laceranti uscivano dal suo
petto; mormorava parole incomprensibili, ed un nome ch’egli solo poteva
comprendere, tornava costantemente sulle sue labbra.
Frattanto
l’organo riempiva la cappella della sua grandiosa armonia; il canto dei monaci,
rimbombante e forte, si elevava in note vibranti e metalliche; i nervi del
giovane novizio già eccitati da lungo digiuno, si esaltarono smoderatamente;
quei canti umani, quel suono dell’organo, che somiglia a voce gigantesca di un
altro mondo, presero per caso un carattere strano e fantastico; in luogo di
pensieri religiosi e santi, idee infernali si impadronirono del suo
cervello...quei canti sacri si cangiarono per lui in spaventevole ironia;
invece di fiori, d’incensi e di lumi non vide altro che sangue e patiboli...la
voce dei monaci gli parve il riso spaventevole d’altrettanti demoni, assistenti
freddamente all’agonia del genere umano; e nel suo pensiero mormorò queste oscure
parole del Vangelo: -Essi andranno tutti nella geenna, laddove sono
pianti e stridor di denti.- Il
novizio sentì allora una mano di fuoco posarsi sulla sua mano nuda e fredda;
una voce derisoria, aspra, infernale mormorò ai suoi orecchi nel mezzo d’un
terribile rumore:
-Vieni!...-
Nel
medesimo tempo, cedendo quasi contro la sua volontà all’ascendente del conduttore
invisibile, senza neppur avere la pena di rialzarsi per camminare, Josè si
sentì ruvidamente trascinar d’abisso in abisso attraverso un’atmosfera calda e
soffocante fino ad una incommensurabile profondità. Là si fermò; era nelle
viscere della terra. Una densa nube l’inviluppava come in un grave manto di
tenebre. La sua respirazione divenne rapida, penosa ed ininterrotta; credette
d’essere rinchiuso vivo in una tomba. Ma in quel momento una porta s’aprì a lui
dinanzi, e gli lasciò vedere il più strano spettacolo. Era un luogo immenso, spaventevole,
ardente, da cui usciva una fiamma infetta.
Mostri
bizzarri e schifosi volavano nello spazio al di sopra del cupo vapore di fuoco,
portati su larghe ali membranose, simili a pergamena nera ed indurita. Quei
mostri mandavano urli di gioia sinistri e feroci; ridevano in coro con voce
lugubre e aspra come il rumore di una tabella:
-Eccoli,
eccoli!..-
Josè
si pose a guardare. Innumerevoli legioni di monaci si affollavano all’ingresso
di quel vasto pandemonio. Egli li vide tutti sfilare l’uno dopo l’altro; - ed a
misura che arrivavano in quel luogo, spogliavano la loro forma primiera; -ed al
chiarore rosso dell’incendio eterno li vedeva prendere forme oscene e bizzarre,
e, malgrado quella trasformazione, conservare i desiderii, le tendenze e le
intelligenze dell’uomo, ed essere ridotti a seguire gli istinti dell’essere
immondo di cui avevano rivestite le spoglie!- ovvero prendevano insieme la
forma di due animali d’istinti contrari, e, soggetti ai bisogni di quelle due
opposte nature, trovavano in quella eterna contraddizione spaventevoli
sofferenze e desiderii impossibili a soddisfare. Quel supplizio atroce,
inconcepibile, inventato da una immaginazione in delirio, fece trasalire il
novizio; un riso stridulo ed interrotto uscì dalla sua gola...aveva veduto
l’inquisitore Arbues, sotto la forma d’una tigre, col becco e zanne d’un’oca.
A
quella faticante allucinazione tenne dietro una prostrazione quasi completa;
quando vennero a cercare Josè per condurlo alla chiesa, poteva appena sostenersi;
il suo passo era lento e mal sicuro, il suo volto pallido si piegava sul petto,
ed un alito faticoso usciva dal suo seno.
Ma
avvicinatosi all’altare, ei vide Pietro Arbues assiso sul suo seggio
episcopale; quella vista sembrò rianimarlo; un lampo d’odio brillò sul cupo suo
occhio; il sangue gli tornò al cuore; era rientrato nella realtà della vita.
Allora s’inginocchiò umilmente sulla nuda pietra, non più scortato dal suo
padre adottivo, com’era al cominciamento della cerimonia, ma solo; non aveva
altro padre fuorché Dio. Pronunziò i suoi voti con voce ferma. Il priore li
ricevette, e dopo l’ultima formola l’organo ricominciò il suo canto sublime, ed
i monaci intuonarono il Te Deum.
Questo
era il rendimento di grazie a Dio per aver tolta un’anima al demoni.
Finito
il canto, si distese il professo in una bara, e si incominciò l’uffizio dei
morti. In quel tempo Josè, stanco per le emozioni e la fatica si addormentò di
un sonno profondo. Sembrava che la tomba fosse il solo luogo in cui trovasse
pace e riposo: il panno mortuario che lo cuopriva lo aveva disgiunto dalla vita
e dai dolori che porta seco. Il moto che fecero i monaci levando il feretro per
trasportarlo nelle catacombe, non poté risvegliare il monachello; quando uscì
da quel sonno letargico era solo nelle fosse sotterranee dell’abbazia, circondato
di tombe e di ossa.
Tali
erano le cerimonie che accompagnavano la professione di un monaco Domenicano,
un volta adottato, era bentosto iniziato nei piaceri egoistici della vita
monastica, ammenoché non avesse presa sul serio tutta codesta fantasmagoria.
Quando
Josè si svegliò, un sospiro profondo sollevò il suo petto, e gettò attorno a sé
uno sguardo sinistro.
-LA
morte!- mormorò egli, -sì, la morte è dolce, essa riunisce...ma io, non posso morire
ancora...oh, oh!- gridò con energia; -avanti di morire è d’uopo ch’io mi vendichi!...Fernando!-
proseguì con voce sorda, come se, allontanadosi da quel luogo funebre, avesse favellato
ad un essere invisibile: -Fernando! attendi ancora, fra poco!...-
______________
XI.
Una passione d’inquisitore.
Da
due mesi Dolores, miracolosamente liberata dalle persecuzioni di Petro Arbues,
viveva placidamente sotto la protezione dell’Apostolo nell’asilo che aveva
scelto. Da due mesi pure l’infelice Manuel Argoso, l’antico governatore di
Siviglia, languiva segretamente[80] nelle carceri dell’Inquisizione, vasti
sepolcri, da cui fa meraviglia che abbiano potuto uscire esseri viventi.
Malgrado
le sue ricerche e lo zelo d’Enrico, nominato per sua influenza governatore di
Siviglia, l’inquisitore non aveva potuto scoprire il ritiro di Dolores Argoso,
nascosta nell’abbazia delle Carmelitane sotto un nome che non era il suo. La
sua impura passione era cresciuta, e nell’impotenza in cui era di soddisfarla,
un disgusto profondo, una rabbia interna e divoratrice rodeva il cuore di quel
prete immondo, che ogni giorno cercava di soddisfare il suo bisogno di vendetta
sugli infelici che era chiamato a giudicare. Spronato dalle insinuazioni di
Josè, eccitato negli istinti perversi della sua feroce natura da quel
fraticello, che sembrava esser divenuto il suo cattivo genio, Pietro Arbues
accumulava sulla sua testa le maledizioni della Spagna, ma né l’aspetto dei
supplizii, né le lugubri solennità del patibolo potevano assopire quel bisogno
di brutali emozioni, quei desiderii ardenti e carnali che la memoria della
bella Andalusiana sollevava nell’animo dell’impudico Arbues.
Facendo
gravare sul governatore il suo sdegno e la sua collera, l’inquisitore non aveva
avuto altro scopo che quello di costringere col terrore l’infelice fanciulla ad
abbandonarsi a lui; aveva agito da uomo astuto, da uomo che conosce il cuore
delle donne. Arrestar lei medesima, gettarla nelle carceri dell’Inquisizione,
abbandonarla alla tortura, alla morte che cos’era tutto ciò? L’eroica
giovinetta poteva soffrire e morie: essa amava!... ma arrestare suo padre,
abbandonarlo ai tormentatori dell’Inquisizione, destinarlo all’ignominia ed
alla morte, era questo un supplizio atrocissimo per la figlia del governatore.
veder consegnare ai carnefici del terribile tribunale quel padre vecchio e onorato,
quel padre che l’aveva amata dell’amore più tenero che le aveva resa la vita sì
felice e sì dolce, da non essersi avveduta che le mancava la madre, quella
sventura era lo scoglio a cui doveva frangersi il coraggio della giovinetta;
perciò Pietro Arbues non si sdegnava che di una cosa, cioè di non trovarla.
Invano
la milizia di Cristo era stata posta alla ricerca di lei, invano la tenebrosa
confraternita che aveva per capo il vigilante e furbo Mandamiento aveva
ricevute le più magnifiche promesse di danaro e di protezione; un potere
provvidenziale sembrava estendersi sulla giovinetta che il più santo degli
uomini aveva presa sotto la sua custodia; ovvero nei celesti decreti il momento
della persecuzione non era ancora arrivato per essa. Quel momento non doveva
tardare a venire. Il disordine di Pietro Arbues era sì profondo e sì amaro che
le stesse abitudini della sua lussuriosa vita avevano perduto per esso la loro
piccante attrattiva. L’orgia gli sembrava insipida; le donne che il vizio o la
paura abbandonava ai suoi impudici desiderii, lo lasciavano freddo od irritato
al finire di quelle passeggiere ebbrezze, il cui facile ritorno gli diveniva
insopportabile. La memoria solo di Dolores aveva per lui un incanto celeste; ei
si immergeva a suo talento in una solitudine assoluta popolata di quella
immagine che lo rapiva; non che quell’anima depravata fosse suscettibile di
vera passione, ma in conseguenza di quella legge misteriosa, la quale vuole che
l’essere più perverso subisca talvolta la influenza di un essere bello e puro,
e senza poter comprendere la sua essenza divina, né elevarsi alla sua altezza
per il pentimento che rigenera l’uomo, si faccia volontariamente e con delizia
lo schiavo di quell’essere adorato. Disgraziatamente nella passioni di tal
natura, lo spirito resta così soggetto ai sensi, che, questi soddisfatti, la
scintilla dell’amore che aveva ammolito la rupe si estingue, e non resta più
altro che un essere brutale e feroce, laddove per alcuni istanti si era creduto
di vedere un uomo.
Immerso
nelle incredibili allucinazioni di una passione non soddisfatta, giunta al suo
ultimo periodo, l’inquisitore di Siviglia aveva cercato sotto la cupa verdura dei
suoi giardini un rifugio contro i fantasmi che lo perseguitavano. Egli provava
di fuggire a se stesso. ma lungi dal calmare l’azione del suo sangue le
emanazioni balsamiche degli aranci fioriti, filtro potente, capace di turbare
la ragione del più savio, esaltavano smoderatamente le fibre del suo cervello.
Torrenti di voluttà parevano circolare attorno a lui con quegli odori inebrianti.
L’aria era già tiepida come lo è in estate nelle regioni del nord, benché non
fosse ancora che la fine di aprile. Nel cielo azzurro scintillavano migliaia di
stelle, che sembravano tanti sguardi fascinatori.
La
notte non era serena, e vapori biancastri e diafani passavano come rapide ombre
sugli oggetti; sarebbesi detto una danza di spiriti impalpabili, e leggiere
creazioni di un altro mondo, venute un istante in questo per assistere allo
svegliarsi della natura, al giocondo fiorire della primavera.
nessun
rumore distinto turbava il silenzio di quella fantasmagoria; ma il mormorio
delle foglie somigliava a misteriosa armonia di baci furtivi, e forse anco in
quell’immensa fecondazione della natura intiera nel momento del suo ridestarsi,
la mano invisibile e potente che la rimuove fino nelle sue viscere produce quel
rumore vago ed ineffabile, quel mormorio strano ed armonioso che sfugge sovente
alla percezione dell’udito materiale, ma che si fa sentire nell’anima nelle sue
ore di raccoglimento e meditazione. Bentosto, stanco e spossato per i
combattimenti incessanti della natura, per quella irritazione senza oggetto,
che snerva ad un tratto lo spirito ed il corpo, Pietro Arbues si lasciò cadere
sopra una delle panche di marmo poste qua e là in quella voluttuosa oasi. Ivi
appoggiò fra le sue mani la fronte, che bruciava, e lagrime di rabbia e di
dispetto caddero da quegli occhi feroci, il cui sguardo tremar faceva tutta una
provincia.
Una
lassezza estrema s’impadronì di lui; rimase così alcuni istanti senza parlare,
senza che i sospiri del suo vasto petto tradissero il dolore che lo divorava.
vinta come un timido fanciullo, la tigre inquisitoriale dormiva quel sonno
terribile che spaventa. Tutto ad un tratto un passo leggiero si fece sentire
sulla sabbia, i rami degli aranci si separarono con un fremito sordo, e il
rumore di una respirazione interrotta turbò il silenzio che regnava in quel
luogo. Nel mezzo del sonno fittizio, Pietro Arbues udì quel rumore, ma al
momento, sotto l’influenza di una specie di letargo cagionato dalla violenza
delle sue sensazioni anteriori, ei non aprì gli occhi, non avendo né la forza
né il desiderio di sapere chi veniva a turbarlo così. Era sotto l’incanto di un
sogno e l’immagine di Dolores, la sola che, durante il suo sonno si
riproducesse agli occhi dell’anima sua, la immagine di Dolores, mescolandosi al
rumore reale che facevasi sentire, la visione dell’inquisitore acquistò tale
lucidità, che gli sembrò di vedere la donna da lui desiderata.
Qualcuno
camminava effettivamente a quella volta, e l’inquisitore credette pure di
vedere Dolores avanzarsi fino a lui; quando essa fu vicina ei distese le braccia
verso di lei, e prese con una stretta appassionata il suo favorito Josè, che
mandò un grido acuto, trovandosi così fra le braccia di Pietro Arbues.
Pietro
Arbues aprì gli occhi, ed all’aspetto della figura che gli era davanti la
respinse con violenza. Josè andò a cadere ad alcuni passi sulle zolle. Era
pallido come uno spettro, ed il suo cuore batteva appena.
-Maledetto
questo sogno!- gridò l’inquisitore con voce sorda; -io ho creduto abbracciare
il corpo sottile di una donna.-
Josè
non rispose, non aveva la forza di parlare. Una memoria terribile era surta nel
suo pensiero, e nel momento in cui Pietro Arbues l’aveva preso per le braccia,
si era sentito freddo per un terrore spaventevole.
Questo
terrore si dileguò ben presto. L’inquisitore passò la mano sulla fronte come
uomo che cerca di richiamare le proprie idee; poscia, guardando il suo
favorito, che era restato in terra immobile ed esterrefatto, scoppiò in una
gran risata.
-Povero
fanciullo!- disse, -ti avevo preso per una donna.-Un sudore freddo coprì la
fronte del giovane Domenicano.
-Andiamo,
alzati,- proseguì l’inquisitore, -e fa con me il giro di questi boschetti, aiutami
a scacciare i folletti di cui l’aria è piena questa sera. I genii della Giralda[81] si sono dati appuntamento presso di me.
Io sogno e non vivo più della mia vita reale; andiamo Josè, aiutami dunque a
rientrarvi, te ne prego.-
Josè
aveva avuto il tempo di rimettersi durante quella spiritosa scappatella;
s’alzò, e, salutando sua Eminenza, le domandò notizia della sua salute.
-Sto
bene, benissimo, mio Josè,-disse l’inquisitore con aria di giubilo. I sogni
penosi della sera non avevano lasciato alcuna traccia. Pietro Arbues era così
fatto, passava rapidamente da una sensazione ad un’altra; tale è lo stato delle
persone che hanno nell’animo molta e poca profondità. Tuttavia l’immagine di
Dolores non era talmente cancellata, che non tornasse bentosto ad assediare la
mente dell’inquisitore, il quale, continuando a passeggiare nei giardini a lato
del suo favorito, diede alla conversazione il giro naturale che doveva imprimerle
l’occupazione della sua mente.
-Josè,-
domandò egli, -neppur tu dunque sai nulla?-
-Niente,
monsignore, non ho potuto scoprire niente.-
Quella
domanda e questa risposta erano molto oscure; ma quei due uomini si comprendevano
con una parola: Josè conosceva a fondo l’anima dell’inquisitore.
-Che
posso fare?- mormorò Arbues con rabbia; -ho messo in moto tutta la milizia di
Cristo; ho sollevato con un po’ d’oro
tutta questa miserabile razza di gitani, che fan professione di spionaggi e di
omicidi!...nulla! Dolores avrebbe lasciato il regno? questa figlia tenera e pia
avrebbe, per salvare il suo capo, abbandonato il padre alla mia vendetta?-
Pietro
Arbues diceva il vero quando assicurava aver cercato in tutti i conventi di Siviglia.
Quello delle Carmelitane non era stato eccettuato, ma una circostanza
semplicissima aveva salvato Dolores. Siccome non aveva manifestata l’intenzione
di farsi monaca ed era vivamente raccomandata dall’Apostolo, le si lasciava una
libertà quasi assoluta: essa non seguiva degli esercizi del convento che quelli
necessari per una donna del mondo buona cattolica. Dolores amava molto i fiori,
e nell’immenso giardino dell’abbazia aveva scelto un luogo solitario, in cui
coltivava di propria mano le piante da lei maggiormente amate. Nel tempo della
visita dell’inquisitore si trovava in quel luogo lontano dall’abitato. Pietro
Arbues aveva pertanto domandato alla badessa se aveva notizie o nuove professe
oltre quelle che conosceva; ma Dolores non era né l’una né l’altra, e la
badessa considerandola come una libera pensionaria, il cui soggiorno sarebbe di
poca durata, nulla aveva detto della sua presenza a monsignore inquisitore. Non
fu dunque né per prudenza, né per precauzione, fu semplicemente per oblio. Ecco
perché l’inquisitore restò persuaso che la figlia del governatore aveva lasciato
Siviglia.
-Monsignore,-
disse Josè, -se realmente questa giovane ha voluto fuggire alle persecuzioni
della Inquisizione, non potete dunque scrivere ai tribunali d’Aragona e di
Castiglia, a quelli di Malaga e di Cuenca, a tutti quelli della Spagna, e
finalmente al re, perché si mettano per ogni dove i birri del Sant’Uffizio
sulle tracce della fuggitiva?-
-No,
no!-replicò vivamente Arbues: -non è la sua morte che mi abbisogna, e essa, essa
sola.-
-Il
governatore di Siviglia non è nelle prigioni dell’Inquisizione?-
-Senza
dubbio, ed è perciò che non posso comprendere la fuga della sua figlia; essa è
tanto forte e coraggiosa! ama tanto il suo vecchi padre!- Oh venga, venga!-
proseguì l’inquisitore con una specie di delirio: -con qual felicità io le
dirò:- Tuo padre sarà libero, ma sii mia.- Ed ella si abbandonerà a me per
salvare suo padre.-
-E
suo padre non sarà salvato!- mormorò sordamente il favorito, gettando uno sguardo
di iena sull’inquisitore.
-Che
dici sì piano, Josè!- disse Pietro Arbues.
-Io
calcolava, monsignore, quai nuovi tormenti si potrebbero inventare per ispaventare
quella giovinetta nel caso in cui la si trovasse.-
-Chi
è là?- disse ad un tratto Pietro Arbues, inditreggiando di un passo.
-Il
vostro fedele Enrico, che vi cerca, monsignore,- rispose il nuovo venuto, che
non era altri che il governatore di
Siviglia, Enrico, antico famigliare del Sant’Uffizio.
-Porto
buone nuove a Vostra Eminenza,- rispose umilmente il governatore, -ed ho
creduto...-
-Parla,
vediamo, che c’è?-
-Dolores
Argoso...-
-Ebbene?-
-E’
al convento delle Carmelitane dall’altra parte del Guadalquivir.-
-Dolores!
E da quando?-
-Da
due mesi.-
-Tu
mentisci,- gridò l’inquisitore, -ho visitato io stesso il convento, e Dolores
non vi era.-
-Vi
è, monsignore, io ve lo giuro per l’ostia santa, ne ho la certezza e ve lo
proverò.-
-Bravo
Enrico,- gridò l’inquisitore con una esplosione di gioia, -bravo Enrico! come
hai scoperto ciò?-
-Monsignore,-
rispose il famigliare, inchinandosi in una maniera grottesca, -Vostra Eminenza
mi accordi l’assoluzione di questo peccato; mi sono travestito da monaco ed ho
confessato la badessa.-
-Per
Dio!- disse Pietro Arbues, -ecco un’idea non venuta a me che son prete.-
-Vostra
Eminenza mi da l’assoluzione?- proseguì Enrico con sguardo ironico.
L’inquisitore fece nell’aria un gran segno di croce, ed il nuovo governatore di
Siviglia, rialzando fieramente la testa, si pose in attitudine di uomo che
comprende tutta la importanza dei suoi servigi.
-Va
bene,- esclamò l’inquisitore fregandosi le mani, -a noi due, ora, fiera
Lucrezia.-
-Rientriamo,-
proseguì; -Enrico deve intrattenermi coi particolari del suo governo.-
-Come
va l’eresia?- continuò Pietro Arbues, camminando.
-Monsignore,
essa guadagna passo per passo e di una maniera spaventevole, i conventi stessi
non sono esenti da questa lebbra[82].-
-Diavolo,-
disse l’inquisitore, -bisognerà metterci buon ordine, e riscaldare lo zelo cattolico,
trattando come eretici tutti color che non denunzieranno l’eresia.-
-Chi
è stato arrestato questa settimana?-
-Quindici
o venti persone solamente, monsignore.-
-Di
riguardo?-
-Ma
sì, per la maggior parte; due o tre dottori in teologia, che si avvisano di
trovare degli sbagli nel testo latino della Volgata, ed alcuni altri della
medesima tempra, i quali, mentre si dicono cattolici, sono zelanti ammiratori
di Martin Lutero.-
-Fra
costoro,- disse Pietro Arbues, -ve ne sono alcuni che odio in una maniera tutta
particolare; sono orgogliosi che impegnano tutto il loro sapere, tutta la loro
eloquenza a distruggere il potere dell’Inquisizione. Giovanni d’Avila, Luigi di
Granata, Giovanni soprannominato Giovanni di Dio, ed alcuni altri illuminati,
che fanno da apostoli ed al bisogno da martiri per gettare fino nel cuore dei
popoli profonde radici di rivolta e d’indipendenza...ma, per Cristo! essi si
romperanno come vetro contro l’inquisizione.-
Monsignore,-disse
Josè, - non avete dunque il potere di rendere mute queste bocche?-
-Sì,-esclamò
Arbues, - io sono stanco di tali prediche senza fine, le quali non tendono
nientemeno che ad ispirare al popolo il desiderio ed il coraggio della libertà.
Queste persone si fanno semplici ed umili per essere forti, ed il popolo crede
in esse perché si fanno popolo per parlargli; ma, per Dio! ciascuna delle loro
parole è un colpo d’ascia nella cattedra di San Pietro, e se il vicario di
Cristo intende i veri interessi della Chiesa, mi lascerà incrudelire contro di
essi, e bruciarli come semplici laici, poiché essi sono eretici di fatto, e ad
onta del loro carattere ecclesiastico, si separano dalla Chiesa romana col
cuore e con la volontà.-
-Monsignore,-disse
freddamente Josè. -per far perire l’albero è necessario svellere le radici;
finché resterà un solo eretico in Spagna l’eresia si riprodurrà come quelle
cattive piante di cui non bisogna lasciare il minimo residuo in terra.-
-Ci
metteremo buon ordine,- replicò l’inquisitore, -e, per la Santa Vergine! noi
svelleremo perfino la terra che li porta per distruggerli.-
-Non
si può far troppo per Iddio,- disse Enrico con accento ipocrita. -Io ho già
pensato a questo,-proseguì con aria d’importanza.
Mentre
parlavano così erano arrivati alla porta dell’appartamento dell’inquisitore.
-Vieni
Josè,- disse Pietro Arbues.
-Monsignore
m’abbia per iscusato, ma ho da preparare un sermone per domani.-
-E
dopo il tuo sermone tu ci accompagnerai al convento delle Carmelitane.-
-Sono
gli ordini di Vostra Eminenza,- rispose il favorito prendendo commiato
dall’inquisitore. Arbues e il nuovo governatore di Siviglia entrarono soli.
Josè
uscì. Mentre passava la soglia del palazzo inquisitoriale, una donna vestita di
nero dal capo ai piedi, gli si fece incontro, e pensando dal suo abito di
Domenicano che appartenere dovesse al Sant’Uffizio, si avanzò verso di lui con
le mani giunte e con l’accento di incredibile dolore.
-Reverendo,-
sclamò essa, -fatemi parlare a monsignor Arbues,-
-Chi
siete?- domandò Josè sorpreso; -che venite a fare presso l’inquisitore?-
-Voglio
domandargli al vita di mio padre,- rispose la giovane con esaltazione; -di mio
padre, che è innocente, e che si accusa d’eresia; di mio padre che era
governatore di Siviglia, e che oggi...-
-Dolores!-
sclamò Josè, considerando con ardente curiosità la nobile figura della giovane,
mezzo nascosta sotto i suoi merletti neri.
-D’onde
sapete voi il mio nome?- disse ella tremando.
-Dolores
Argoso,- proseguì il Domenicano con voce dolce e piena di tenerezza; -Dolores
Argoso, non t’avvicinare a questa casa, poiché qua è per te il disonore e la
morte.-
-Come
sapete questo?- domandò essa spaventata.
Il
Domenicano trascinò Dolores, che si lasciò guidare senza resistenza.
-Vieni,
mia povera fanciulla,- proseguì il monaco, affrettandosi ad allontanare Dolores
dal palazzo dell’inquisitore; -vieni, e se ami restar pura, se vuoi che tuo
padre sia salvo, nasconditi, oh! nasconditi soprattutto agli sguardi di Petro
Arbues!-
-Ebbene,-
ella disse, prendendo confidenza, perché, malgrado il suo abito terribile, il
Domenicano aveva nella voce un accento irresistibile d’affettuosa tristezza;
-ebbene, che bisogna fare per salvare mio padre?-
-Nasconderti
e lasciarmi agire,- rispose Josè. -Confidami la tua causa, o giovinetta:-
-A
voi?- ella disse guardandolo con occhio alquanto dubitativo, perché si rammentava
appartenere egli all’Inquisizione.
-Sì,
a me,- rispose con amarezza; -a me, che sotto quest’abito sinistro porto un
cuore caldo ed ardente.-
-Egli
è sì giovane!- pensò Dolores, considerando alla pallida luce della notte la nobile
figura e le piccole e bianche mani di Josè.
-Oh
mio Dio! perché siete Domenicano?-
-Forse
per salvarti,- disse Josè intenerito: -credimi, fanciulla, e non credere di penetrare
i misteri della mia vita: l’abito non è talvolta che un maschera la quale
nasconde le ferite del cuore.-
-E
voi pure?...-esclamò Dolores, che sentivasi trascinata verso quel fraticello da
una irresistibile simpatia.
-Non
prenderti cura di me, occupiamoci di te sola. Che sarà ora di te?- -Quello che
piacerà a Dio,- ella disse. -Dove ti nasconderai?- -Io ritornerò al convento delle
Carmelitane.-
-Guardatene
bene!- disse Josè; -l’inquisitore ha scoperto il tuo ritiro, e domani deve
assicurarsi da sé medesimo della verità di un rapporto che gli è stato fatto
questa sera a tale oggetto.-
-Come
ha potuto saperlo?- domandò Dolores, -l’Apostolo non ha detto il mio nome a
nessuno, neppure alla badessa.-
-Povera
fanciulla! tu domandi come l’Inquisizione violi tutti i segreti e tutte le coscienze?
essa conosce tutto, ti dico, e nulla v’ha per essa d’inviolabile, nemmeno la tomba![83]-
-Oh
mio Dio! mio Dio!-gridò Dolores, nascondendosi la testa fra le mani. Essa diede
un libero corso alle lacrime che la soffocavano.
-Calmati,
calmati, sorella mia,- disse Josè, servendosi di quel nome per inspirare
maggior confidenza alla fanciulla, ed anche perché sentivasi trascinato verso
di lei da una comunanza di pene.
-E’
vero, Padre mio, non è permesso neppur di piangere.-
-No,-
disse Josè, -il rumore dei singulti irrita la tigre, e la sua sete di sangue
diviene più ardente.-
-Piano,
padre mio, piano; potremmo essere ascoltati.-
-Sì,
hai ragione, v’ha intorno di noi un’eco delatore in ciascuna pietra. Silenzio!
silenzio dunque! ma avanti di lasciarmi,povera fanciulla! dimmi, che sarà di
te?-
-Rassicuratevi,-
ella disse, -io ho un asilo: e voi mi promettete di salvare mio padre?-
-Per
quello che io ho maggiormente amato! Se tuo padre morrà,- disse Josè, -vorrà
dire che non avresti potuto salvarlo sagrificandoti; intendi, Dolores?-
-Vi
credo,- disse serrandogli le mani, che cuopriva di lagrime; -vi credo; ma dove
potrò rivedervi, Padre mio?-
-Ascolta,-
disse Josè: -all’estremità della via degli Zingari nel sobborgo di Triana, esiste
un luogo orribile, immondo, che si chiama la Taverna della buona ventura.
–Vero nido d’avvoltoi, dove il furto, l’omicidio e il brigantaggio si danno
appuntamento ogni sera. – L’aspetto di quel luogo è ributtante e lugubre: là
non sentirai che risate ciniche o spaventevoli maledizioni. – Quel luogo è
frequentato da tutto ciò che la Spagna racchiude d’impuro, dai banditi, dalle
meretrici, dagli zingari e dai monaci. – E là dalla bocca dei monaci escono
pure bestemmie e parole oscene; l’ebbrezza confonde in un comune abbrutimento
coloro che la società rigetta dal suo seno, e coloro che si arrogano il diritto
di governarla. – Là si elaborano i vergognosi delitti, gli assassinii
giuridici, le ingiuste persecuzioni, le false delazioni, pugnale a due fendenti
che uccide a colpo sicuro, i ratti notturni, le uccisioni ed il furto; perché
in quel lupanare immondo si trovano strumenti per tutti i delitti.
-Che
dite, Padre mio?- disse Dolores spaventata.
-Ebbene!-
proseguì il monaco, -bisogna venire in quel luogo a trovarmi.-
-Sogno
io forse?- gridò la povera fanciulla: -che domandate, padre mio?-
-Tu
venivi presso l’inquisitore questa sera; ebbene credimi, fanciulla, il luogo di
cui ti ho fatto l’orribile quadro è mille volte meno pericoloso del palazzo di
Pietro Arbues.-
Gli
occhi di Josè scintillavano di cupa fiamma; le sue guancie, ordinariamente pallide,
erano divenute di un rosso ardente; sembrava divorato da un febbre interna.
Dolores
lo credette pazzo. Ma ad un tratto rendendo dolce la sua voce, ordinariamente
gravissima, ed a cui l’esaltazione dava una vibrazione sonora, Josè guardò
Dolores con tenerezza.
-Va,
povera fanciulla,- disse, -non temere di venir dove Josè ti
dirò d’andare; vorrei salvarti a costo della mia vita! La taverna della buona
ventura,-proseguì, -appartiene ad
una guardia che ha nome Gioachino, bravo ed onesto giovane che mi è
affezionato, ed alla sua sorella, la Graziosa, un’eccellente fanciulla, che si
getterebbe nel Guadalquivir per far servizio a qualcuno. Queste brave persone
sono povere, campano la loro vita come possono, ma tu fidati di loro. Se hai
bisogno di me, dirai solamente a Gioachino, o alla sua sorella: Vorrei vedere
il padre Josè. E tu mi rivedrai: ma sii cauta, non uscire che di notte e
mascherata.-
-Non
temete di nulla io no vi comprometterò. Ma,-riprese, -non debbo temer?...-
-Nulla,-disse
Josè, -non si sospetterà mai che tu frequenti quel luogo; soltanto vieni
travestita da popolana.-
Così
parlando, erano giunti dirimpetto al ponte di Triana; quando l’ebbero
traversato, Josè si volse verso Dolores.
-Qual’è
il tuo cammino?-le domandò Josè. -Questo,-disse mostrando alla sua destra la
riva del Guadalquivir. -Ed io quello,-disse Josè indicando la via dei
Gitani.-Addio, Dolores; confida in me: ma pensa che tu non puoi nominarmi che
davanti a due persone, Gioachino e sua sorella. Addio, sii prudente.-
-E
voi, padre mio, abbiate pietà di me,-gli disse allontanandosi.
Josè
seguì la via dei Gitani. Dolores proseguì lungo il Guadalquivir. Era la via che
conduceva presso l’Apostolo.
________________________
XII.
Il Bazar.
In
preda a quella specie d’allucinazione comune a tutti coloro la cui vita ad un
tratto si fa sventurata, Dolores varcò in poco tempo la distanza che la
separava dalla casa dell’Apostolo.
Malgrado
la singolare benevolenza che le aveva testimoniata un membro dell’Inquisizione,
essa non era perfettamente tranquilla e le faceva pena di non trovarsi sotto la
protezione del suo santo amico. La sua brama di rivedere l’Apostolo era tanto
più violenta, in quantoché, dopo il suo soggiorno alle Carmelitane, non l’aveva
visto che una volta, e non aveva avuto che allora notizie di Estevan. Quello
sventurato giovane, sospetto all’Inquisizione in causa delle sue larghe idee
filosofiche, ed inoltre esoso a Pietro Arbues, che vedeva in lui un rivale
amato; quello sventurato giovane non aveva dovuto la vita che all’intercessione
di Josè, il quale, come già sappiamo, aveva annullato, comprando il maestro
della Garduna, gli ordini crudeli dell’inquisitore. Ignorando il destino di
colui che amava, Dolores provava timori mortali.
-E’
libero ancora?-domandava a sé stessa con ispavento; e tale crudele incertezza accelerava
i battiti del suo cuore, e le faceva affrettare il cammino per arrivare al più
presto.
Quando
fu vicina alla casa dell’Apostolo essa fu sorpresa di no vedere attraverso
l’anguste finestre brillare la pallida luce della lampada che illuminava le pie
veglie dell’uomo di Dio.
Tuttavia
il cancello del giardino era aperto e cedè agevolmente. Era una specie di grata
fatta di leggieri fusti di palma sopra una cornice di legno.
Dolores
picchiò alla porta della casa. ma la porta era chiusa e niuno rispose.
-Oh
mio Dio! ei non vi è!-disse la misera fanciulla, atterrita da quella nova disgrazia.
Picchiò nuovamente con maggior forza ed insistenza, ma fu invano: la porta
rimase immobile, niuno venne ad aprirla.
Allora
Dolores percorse il giardino, recinto spaziosissimo ove crescevano alberi fruttiferi,
coronati di viti striscianti, patrimonio dei fanciulli e dei passeggieri
stanchi, i quali venivano a spogliare impunemente quei begli alberi dei loro
frutti e quelle viti dei loro grappoli dorati. L’Apostolo l’aveva permesso,
senza di che la venerazione da lui ispirata li avrebbe garantiti, e la semplice
barriera di vinco del suo giardino non sarebbe stata mai varcata. Dolores esplorò invano tutti i nascondigli di quel
luogo campestre; non v’era alcuno! evidentemente l’Apostolo non era lontano. Ma
siccome la sua casa isolata era lungi da ogni abitazione, niuno poteva dirle
ciò che era stato. Che fare? Essa non poteva tornare alle Carmelitane, v’era
troppo pericolo per essa. Nella città?
Quale
delle sue conoscenze avrebbe osato esporre alla vendetta dell’Inquisizione
domandandole un asilo? E poi tutte le porte non si sarebbero chiuse per la
figlia di un uomo accusato d’eresia? Essa aveva ancora la risorsa della
taverna, ma la pittura che gliene aveva fatta Josè le tolse il coraggio di
cercarvi rifugio. Amò meglio passar la notte nel giardino. era la notte ancor
fredda, malgrado la bellezza della primavera, la prossimità del fiume rendeva
l’aria alquanto umida. Dolores non aveva altro abito che una veste di seta
nera, ed una mantiglia di trina.
Gli
alberi erano coperti di foglie e di fiori; un’erba densa cresceva ai loro
piedi. Dolores si rannicchiò contro un enorme fico d’Adamo, fece scendere i
suoi lunghi capelli attorno le sue spalle come un manto, rotolò la sua
mantiglia intorno alla sua testa, e alzando verso il cielo il supplice suo
sguardo, si assise in terra sull’erba fresca e folta.
Sperava
che l’Apostolo non tardasse a rientrare. Ma le ore passavano; tenuta desta
dall’inquietudine, Dolores soffriva per la freschezza della notte; a momenti
alcuni passi si facevano sentir sulla via; allora essa alzava la testa per
guardar da quel lato, sperando di veder giungere colui che era venuta a
cercare; ma il passeggiero si allontanava, e Dolores ricadeva nel suo
assopimento.
Vicino
ad essa il Gualquivir portava le sue onde pacifiche con un rumore eguale e
monotono: il grillo elevava l’acuto suo canto nel silenzio della notte, e
talvolta uno zeffiretto di primavera, soffiando leggermente, agitava la cima
degli alberi da cui cadeva allora una pioggia rugiadosa ed odorifera. Ma per la
sfortunata fanciulla quella notte magnifica era piena di vaghi terrori e di
presentimenti sinistri. Verso il mattino, stanca di dolore e di lassezza, si
addormentò. Addormentandosi aveva freddo, bentosto le parve che un calore dolce
riscaldasse le sue membra irrigidite; essa era in un palazzo di fate. Sotto una
soffitta celeste, cupola immensa di quello splendido palazzo, una gran lumiera
d’oro, accesa dalla mano di genii, ascendeva lentamente nella volta, elevata da
esseri invisibili, ed a misura che saliva aumentava di splendore e di calore,
finché, finalmente, spandeva nel palazzo torrenti di luce e di fiamma. Ma
appena la lumiera d’oro ebbe toccata la cupola, che quel palazzo magnifico, popolato
d’esseri trasparenti di una bellezza maravigliosa, cambiò d’aspetto ad un
tratto. i mobili brillanti, i fiori che l’adornavano disparvero. Le ali delle
silfidi e dei genii caddero in polvere dorata; i loro corpi, sì belli,
divennero deformi, ed assunsero una trasparenza rossastra, un calore estremo
minacciò di ardere il palazzo; Dolores volle allontanarsi per fuggire a quel
supplizio insopportabile; ma quei mostri si posero in cerchio attorno di essa
per impedirle di uscire, ed uno di loro alzò sulla sua testa un immenso
specchio ardente, sotto il quale si sentì bruciare come in un rogo. Svegliata
dalle sofferenze di quel sogno, Dolores aprì gli occhi.
Il
sole ardente e luminoso, era salito lentamente verso il cielo, e mandava i suoi
raggi sul viso della fanciulla. Essa aveva dormito lungo tempo: erano dieci ore
del mattino. Attonita, essa volse i suoi sguardi attorno a sé, come per
raccogliere le sue idee interrotte dal sonno, e gli avvenimenti della sera
ritornando allora al suo pensiero, fu presa da un amaro scoraggiamento. Dolores
era forte di cuore e d’animo: ma era troppo giovane, troppo poco abituata alle
vicende incessantemente rinascenti di un’esistenza sventurata; sapeva troppo poco
delle cose di quaggiù per indurirsi spontaneamente contro le disgrazie che la
colpivano all’improvviso; v’era nel suo coraggio più di rassegnazione che di
energia, non era veramente forte che a fronte di un gran pericolo.
Per
i dolori ordinari dell’esistenza non aveva dapprima che lacrime, l’energia non
veniva che dopo la riflessione; Dolores aveva lo spirito giusto ed elevato e si
fortificava col ragionamento. Così sono tutte le donne che si chiamano forti.
Il loro coraggio non è che un eterno combattimento della loro ragione contro il
loro cuore, eccettuato nelle cose in cui il cuore è interessato; allora sfida
da sé solo il più fiero coraggio d’uomo. Fuori di questo, la forza delle donne
non è che il dono di saper soffrire. Sarebbero donne se fossero altrimenti?
Dolores restò alcuni momenti oppressa sotto il peso di questo nuovo infortunio.
Volse i suoi sguardi verso la casa...tutto era nello stato della sera innanzi;
le finestre erano chiuse, ed un silenzio di morte vi regnava. Per essere ancora
più sicura, Dolores accomodò i suoi abiti, rialzò i suoi magnifici capelli che
l’avean coperta; abbassò la mantiglia sulla sua fronte, ed andò nuovamente a
battere alla porta dell’Apostolo. Ma fu invano: l’Apostolo non era tornato.
Dolores era sola, abbandonata, senza asilo, senza pane, e non osava avventurarsi
di giorno nelle vie di Siviglia, temendo d’esservi riconosciuta ed arrestata.
pertanto s’era determinata di rendersi alla taverna; era la sua ultima risorsa,
si abbandonò dunque alla Provvidenza. Ma per non esporsi ad essere sorpresa dai
birri dell’Inquisizione risolse di attendere la notte per avventurarsi nella
città.
In
alcuni luoghi del giardino erano piantate alte canne da zucchero. Alberi
d’America, che crescono sì vigorosi e sì belli sotto il caldo sole
dell’Andalusia, intrecciavano la loro cupa verdura ai rami della vita, appena
coperti di foglie nascenti, ed alle pesche fiorite, che si spandevano al sole
in raggi rosei e profumati. Dolores scelse un ricovero nell’aiuola delle canne
da zucchero, decisa di passare in tal guisa quella lunga giornata. Attese fino
alla sera, divorata da un’inquietudine, oppressa dalla fatica e dalla fame, non
avendo mangiato dal giorno innanzi. Schiacciò fra’ suoi denti alcuni rami di
canna da zucchero, e bevve nelle sue mani l’acqua limpida del Guadalquivir per
estinguere la sete che la divorava; ma era troppo poco per ristorare le sue
forze. Tuttavia si trovò felice nella sua solitudine di quel soccorso dovuto
alla sola Provvidenza.
In
quella lunga giornata molte persone passarono sulla strada, alcuni fanciulli
entrarono nel giardino dell’Apostolo per prendere delle farfalle; furono questi
i soli incidenti che turbarono la povera abbandonata. Essa si tenne ben
nascosta fra i rami, e niuno sospettò che la vezzosa Dolores Argoso, la figlia
di uno dei più ricchi signori della Spagna, fosse là come un mendicante,
obbligata a dormir sulla nuda terra, priva di nutrimento e di ricovero.
Finalmente
il sole discese all’orizzonte; era l’ora in cui tutti ordinariamente facevano
in Ispagna il sonno del dopopranzo. Dolores
pensò che poteva senza timore uscire dal suo nascondiglio. Josè gli
aveva raccomandato di non uscire che travestita; bisognava dunque pensare prima
a procurarsi un abito.
Dolores
non aveva denaro; ma la sua veste di seta era di una magnifica stoffa, e la sua
mantiglia della trina più fina. Pensò dunque di rendersi al Bazar per
farvi un cambio. Là soltanto poteva, senza denaro, procurarsi un convenevole
travestimento.
Uscì
dal giardino, si coprì il viso, e riprese la strada che aveva fatta la sera
innanzi, perocché il bazar trovavasi nel quartiere di Triana.
All’estremità
della via dei Gitani esisteva allora una piazza irregolare, a cui mettevano
capo una quantità di vicoli sudici ed oscuri, ove erano i macellai della città.
Da un lato di quella piazza in alcune baracche di legno, poste l’una a fianco
dell’altra come case, stavano dei mercanti di spoglie animali. Sul davanti di
quelle baracche si vedevano appesi ad uncini di ferro fegati di bue, di
vitello, di montone ed anco di porco, cuori e reni de’ medesimi animali,
cervelli sanguinosi in cranii tutti aperti. Poscia in immensi serbatoi d’acqua
sporca nuotavano le teste, i piedi, gli intestini ammucchiati in disordine.
Tutte quelle carni, disgustevoli e schifose, spregiate dai ricchi erano
destinate a servire di nutrimento al popolaccio di Siviglia.
Ora
facciamoci un’idea, se possibile, dell’odore esalato da quel luogo immondo, a
cui veniva ad aggiungersi anco il fetore dei macelli.
Poi
per terra, sul lastrico della piazza, figuratevi una moltitudine di donne
malvestite, situate simmetricamente alla fila, avente cischeduna avanti a sé un
immenso straccio che le serviva di banco. Oh! se siete amatore di contrapposti
non potete far meglio che visitare il bazar di Siviglia, là anco oggidì
troverete di tutto, dal cencio che serve a far delle fila fino al manto di
corte della duchessa; dalla scodella di legno in cui mangia lo zingaro, fino
alla Madonna d’argento davanti alla quale s’inginocchia. Talvolta questa
Madonna sarà coperta di un cappellaccio vecchio da uomo destinato come essa ad
esser venduto. Più lungi una corona a palle di corallo pende ad una grata,
coperta ancora di grasso e di sego: un magnifico servito servito di argento
dorato sta allato un orinale. una mantiglia è talvolta sospesa ad una granata,
talvolta è un Cristo accompagnato da un superbo paio di pistole, che pendono
dalle due braccia della croce; finalmente il bazar era un capharnaum
incredibile, in cui eran messe a mostra tutte le miserie, da quelle del grande
di Spagna, troppo prodigo delle sue rendite, fino a quella dell’ultimo degli
sventurati, il cui sudore era assorbito dalla rapacità dei monaci; era un
insieme confuso di cose disparate od eterogenee, l’immagine più vera, più
esatta della conversazione di un re costituzionale. E non faccia meraviglia
questo miscuglio bizzarro di ricchezze e di miserie. le rivenditrici del bazar
non sono come quelle del Tempio di Parigi, non vendono, cioè, per loro conto,
ma vendono per tutti e sono semplicemente mezzane di confidenza. La chiesa
confida loro la sua Madonna da vendere per acquistarne un più bella, la gran
dama le sue gioie per pagare i suoi debiti o peggio; la cortigiana i suoi
ornamenti, di cui si stanca dopo un’ora; e la donna del volgo i suoi abiti
della domenica, che è talvolta obbligata a vendere per acquistare del pane. La
mezzana del bazar fa tutto per tutti; sa soddisfare i più incontentabili; fa
vendite, cambi, ma raramente lascia sfuggire una vittoria, l’utile, ed un largo
utile, rimane sempre dalla sua parte. Nell’epoca in cui accadevano questi avvenimenti
un cotal commercio era ancor più considerevole che ai giorni nostri, in causa
delle numerose spoglie dei condannato dall’Inquisizione, che toccavano ai loro
delatori, i quali le facevano vendere.
Quando
Dolores arrivò sulla piazza del bazar indietreggiò d’un passo, colpita
dall’eccessivo fetore di quel luogo; ma bentosto, facendo forza a sé medesima,
proseguì avanti, e si avvicinò tremando ad una rivenditrice ancor giovane, la
cui fisionomia le ispirò maggior confidenza che quella delle altre. ma quando
queste donne compresero che essa aveva l’intenzione di comprare,
l’attorniarono, e fecero un rumore da stordire. Ciascuna trattava la sua
mercanzia coi gesti più o meno espressivi, ed una chiacchiera da affascinare
uno stregone.
-Signorina,-diceva
una, -comprate questo bel collare di perle fine, il quale apparteneva alla
principessa Giovanna, figlia della regina Isabella, e che è stato venduto alla
sua morte da una delle dame d’onore a cui lo aveva regalato.-
-Vedete,-diceva
l’altra, -questa collana di smalto, ornata di croce di rubino?I pater
sono di smeraldo; è stata benedetta dal nostro Santo Padre. Si acquistano cento
giorni d’indulgenza ciascuna volta che si dice, signora.-
-Comprate
questa,-gridava una terza, sollevando dei mucchi di trine di Fiandra,la cui
rete delicata era coperta di rabeschi e ricami.
-Signora,
quest’anello benedetto, che preserva dai malefizii.-
L’anello
in questione era semplicemente un anello d’oro grossissimo, il gastone [castone]
del quale figurava una mano chiusa col pollice fra il medio e l’indice. Era un
resto di superstizione moresca adottata dai cristiani, ed alla quale il popolo
prestava tal fede che, per isciogliere tutti i malefizii degli stregoni,
bastava il presentar loro la mano chiusa col pollice passato fra le accennate
due dita; ecco perché si attribuiva una virtù tutta particolare all’anello di
cui abbiamo parlato.
Malgrado
il suo dolore, Dolores sorrise leggermente; non divideva le superstizioni del
suo tempo e non credeva punto ai malefizii.
Fortunatamente
per essa, il suo riso fu sì impercettibile che nessuno vi fece attenzione; io
non so se, senza questo, non avrebbe corso grandi pericoli.
-Vediamo,-disse
la prima mezzana, a cui Dolores erasi avvicinata; -voi non volete niente di
tutto questo, è vero, signorina? Tenete, comprate questa bella immagine della Madonna:
questa vi porterà felicità, mi fu data da un sant’uomo, quello che noi
chiamiamo l’Apostolo; aveva bisogno di denaro per soccorrere un disgraziato;
quanto a lui, non ha mai bisogno di nulla, perciò io gli ho dato del denaro
subito, senza aspettare di averla venduta.-
-L’Apostolo!-sclamò
Dolores; -conoscete l’Apostolo, buona donna?--Santa Maria!-disse la mezzana,
-chi non lo conosce a Siviglia? non è egli che ci consola e dà del pane ai nostri
figliuoletti?-
-Sapete
dove sia in questo momento?-proseguì Dolores.
-No,-disse
la mezzana; -egli è come il buon Dio invisibile; ma si trova sempre, quando si
ha bisogno di lui.-
Delusa
nella speranza che aveva per un momento concepita di conoscere dove era il suo
protettore, Dolores pensò di fare il suo cambio al più presto possibile. -Io
non voglio comprare la vostra Santa Vergine,-disse timidamente, -io no avrei di
che pagarla, ma ho bisogno d’un vestimento completo di popolana, e se voi
volete darmene uno in cambio del mio...-
-In
cambio del vostro, signorina?-disse la mezzana, squadrando Dolores con uno
sguardo di rivendicatrice, che apprezza di uno sguardo il valore di un abito, e
vede subito i suoi minuti difetti dalla leggiera radatura del gomito fino alla
riga biancastra che la polvere imprime sull’orlo del vestito più nuovo, per
poco che sia stato portato. -Compreso anco la vostra mantiglia?-continuò la
mercantessa, esaminando la bella trina che copriva i vaghi capelli della
giovane.
-Senza
dubbio,-disse Dolores, -me ne darete una di seta.-
Gli
occhi della mercantessa brillarono di cupidigia; tastò la sottana di stoffa
della giovinetta, e dopo essersi bene assicurata che la vita e le maniche erano
nuove, andò a cercare una veste di rascia violacea ed una mantiglia nera di
seta.
Quest’abito
tornava bene al personale di Dolores. -Questo mi piace,-disse la giovane. -Vi
sta bene?-domandò la mezzana.
-Sì,
credo che mi starà bene.-
-Prendetelo,
signorina! ma quanto mi volete rifare?-Dolores aprì i suoi grand’occhi,
e guardò la mercantessa con istupore. Il suo abito valeva dieci volte quello
che le veniva offerto.
-Sì,
quanto mi rifate?-replicò la mezzana. -Ma io non posso rifarvi
nulla,-disse la povera Dolores; -vi ho pur detto che io non aveva denaro.--Oh!
allora è differente; se non avete denaro povera fanciulla, prendetelo pure, mi
dovrete il resto, Dio mi liberi di dare un dispiacere ad una bella ragazza come
voi!-
-Come
debbo fare per ispogliarmi?--venite, venite,-disse la mercantessa, -la mia casa
non è lontana di qui.-
In
fatti, di faccia al suo banco di rivenditrice, la mezzana possedeva una baracca
di legno, ove suo marito vendeva carni putride. Dietro alla bottega v’era una
stanza quadra, con una sola materassa per terra, ed un baule, in cui la mezzana
serrava i suoi ornamenti: era quella la sua dimora, nella quale condusse
Dolores.
Mentre
l’aiutava a spogliarsi, vide sotto la veste di Dolores una pezzuola da collo,
la quale era fatta di un magnifico punto di Brusselles. -Signora,-disse la
mercantessa, -poiché voi non avete denaro da rifarmi pel nostro cambio,
mi contenterò di questo straccio.-
-Prendetelo,-rispose
Dolores con un moto di disgusto; -tanto questo non si adatterebbe al mio nuovo
vestiario; ma datemi almeno una pezzuola di cotone, affinché non senta sul mio
collo questa lana ruvida.-la mercantessa le recò un fazzoletto che non era
nuovo, ma la cui bianchezza era assai soddisfacente. Dolores ne fu contenta,
non potendo aver meglio.
Quando
fu vestita, si guardò in una piccola lastra lucida di stagno, che serviva di
specchi alla rivenditrice; rimase contenta della sua metamorfosi. Il suo
vestiario grossolano nascondeva passabilmente
e l’eleganza
del suo personale. S’involse nella sua mantiglia ed uscì.
-Serbatemi la
vostra protezione, signora,-le disse la mercantessa.
Ma Dolores non
l’intese, e s’incamminò rapidamente verso la via dei Gitani.
_______________
FINE DEL VOLUME PRIMO.
[1] Ahi serva Italia! Di dolore
ostello;
Nave senza nocchiero in gran tempesta,
Non donna di province, ma bordello!…
[2] Gregorio IX fece decretare
da molti Concili che nessun laico potesse leggere i libri santi in lingua
volgare, sotto pena d’esser scomunicato e perseguitato dall’Inquisizione come
eretico. La bolla che recava questa proibizione fu pubblicata in Spagna nel
1231.
[3] Innocenzio III nell’anno di
grazia 1208.
[4] Segno sacramentale.
Come i frammassoni ed altre società secrete, i famigliari della Inquisizione
avevano dei segni, dei toccamenti e delle parole conosciute da loro solamente,
per mezzo delle quali si riconoscevano gli uni con gli altri.
[5] Questo quartiere, separato
dalla città di Siviglia per il Gadalquivir, è sempre stato, ed è anco oggidì,
il sobborgo in cui le persone di cattivi costumi, contrabbandieri, forzati
liberati e simili, stabiliscono i loro domicilio.
[6]Hito. Questa parola diminutiva di
chito (silenzio) e di san benito (scapolare di panno giallo col
quale l’Inquisizione vestiva le persone condannate a figurare in un atto-di
-fede), è una delle parole sacramentali di cui parla la nota 4. Questo
scapolare si chiamava pure zamarra. Ogni persona che aveva portato il san
benito rimaneva eternamente disonorata e privata d’ogni diritto civile e
politico.
Questa condanna si estendeva a tutti i suoi
discendenti.
[7] Coraza. Era un
berretto alto ed acuminato, come quello che portavano le donne nel medio evo:
questo berretto, con cui si coprivano i condannati al rogo, era dipinto di
diavoli, di fiamme e di mille altre mostruosità bizzarre. La parola coraza
fa egualmente parte del vocabolario sacramentale dei famigliari.
[8] Dio. Nel gergo
mistico dei famigliari questo nome significava l’inquisitor generale del
regno, quello della provincia, o l’inquisizione presa in senso
collettivo.
[9] Chiton. (silenzio).
Il terrore che l’Inquisizione inspirava agli Spagnoli era tale, che, nel timore
d’essere denunziati da quello stesso col quale parlavano, gli Spagnoli
l’avevano fatto passare in proverbio. Si dice ancor oggi in Spagna: -En
cosas de Inquisicion, chiton! (sugli affari dell’Inquisizione, silenzio)-,
per esprimere il pericolo che si corre a parlare di cose che debbono esse
tenute segrete.
[10] Le taverne, come le descrive
l’autore, sono rare oggigiorno, anco nel quartiere di Triana. Non ne ho vedute
che tre o quattro nel 1822. In Spagna, come in ogni altro luogo, le taverne,
che formavano la delizia dei nostri padri, sono state trasformate in magnifici
caffè ove uno si inebria, è vero, ma con maggiore spesa, ma circondato da
specchi e dorature, bevendo in bicchieri di cristallo liquori e vini inferiori
forse di qualità, ma molto più cari ed aventi nomi forestieri. I tavernai,
anticamente persone della feccia del popolo, spesso avanzi di galera, sono oggidì
trasformati in cittadini onorevoli; e mediante una patente, possono
essere ad un tempo mercanti, usurai, ladri, sagrestani, devoti, elettori,
spesso eleggibili e talvolta anco eletti.
[11] Vedi nota 8
[12] Saavedra (Giovanni
Perez de), soprannominato il Falso nunzio, fu un intrigante celeberrimo
per la sua destrezza nel contraffare ogni specie di carattere. Fu egli che,
aiutato da un gesuita, stabilì in Portogallo la Inquisizione e la compagnia di
Gesù per mezzo di false bolle del papa e di false lettere di Carlo V e del
principe Filippo,
poscia Filippo II. Saavedra non si contentò di
favorire gl’interessi dei gesuiti e quelli dell’Inquisizione. La sua abilità
nel contraffare boni reali, e titoli di credito contro lo Stato e contro i
particolari gli procurò somme considerevoli. L’inquisitore Tabera fece
finalmente arrestare questo miserabile nel momento in cui usciva da una chiesa
a Malaga, e l’Inquisizione, che faceva bruciare migliaia d’oneste persone per
una parole, si contentò di condannare questo scellerato a dieci anni di galera.
E’ vero però che il Sant’Uffizio profittò dei lavori del falso nunzio;
il tribunale inquisitoriale stabilito per lui, e, quel che più monta, tutti gli
impieghi e dignità che Saavedra aveva conferite furono confermate dall’inquisitor
generale.
Diciannove anni più tardi (nel 1562), Filippo
II chiamò il falso nunzio alla corte e ve l’impiegò. Questo mostro, che di sua propria
mano erasi fatto vescovo, nunzio e legato a latere morì a Madrid nel
1575, ricco di più di quattrocentomila ducati, e onoratissimo.
Così furono stabilite in Portogallo la
compagnia di Gesù e la Inquisizione, due istituzioni degne l’una dell’altra, e
nondimeno nemiche, senza dubbio, perché tutte e due tendevano al medesimo
scopo, il dominio.(Llorente, Storia dell’Inquisizione). Chi sa che, per
le vaste combinazioni del suo genio, il padre Lacordaire non pervenga a regalare
alla Francia un’Inquisizione perfezionata! Frattanto la Francia possiede già i
domenicani nei dipartimenti della Meurthe e del Basso-Reno.
[13] Marrano (porco): così chiamansi in Ispagna i Moreschi e gli Ebrei
convertiti alla religione cattolica.
[14] Accadeva sovente che alcune vittime destinate al rogo si
riconciliavano con la Chiesa, vale a dire confessavano dei delitti e dei
misfatti che non avevano commessi, e si confessavano appié al patibolo. In
questi casi l’Inquisizione sentiva commuovere le sue viscere materne, ed
accordava ai condannati la grazia di essere strangolati avanti esser dati alle
fiamme (Annali dell’Inquisizione).
[15] Si chiamavano così i
famigliari del Sant’Uffizio dappoiché sotto Alessandro IV, Torrequemada, fece
nel 1494 armare i più giovani di coloro che lo componevano. -Questa strana
milizia,- dice Llorente, Storia dell’Inquisizione, -era numerosissima, Torrequemada erasi
mostrato sì crudele, aveva sì bene incoraggiato lo spionaggio, che un gran
numero d’illustri gentiluomini giudicando che era più prudente appartenere
all’Inquisizione che di essere tosto o tardi dichiarati sospetti, si
offrivano volontariamente come famigliari del Sant’Uffizio: l’esempio dei
gentiluomini congiunto ai privilegi che Ferdinando d’Aragona accordò ai famigliari
trascinò una quantità di persone del volgo. Bentosto vi furono tanti
famigliari quante persone sottomesse alle cariche municipali, di cui ogni
individuo che apparteneva all’inquisizione era esente. I famigliari armati
costituivano quello che si chiamava la milizia di Cristo; questa milizia
faceva l’uffizio di guardia del corpo, tanto presso gl’inquisitori generali,
quanto presso gl’inquisitori provinciali.
La milizia di Cristo fu creata in Francia da
Domenico di Guzman l’anno 1208, durante il regno di Filippo II, re di Francia,
e del papa Innocenzo III.
[16] I cattolici di Spagna facevano sì poco conto dei bei monumenti
che i Mori avevano lasciato nel paese, che, ad eccezione di alcuni più
rimarchevoli, di cui s’impadronirono i monaci, tutti furono abbandonati ai
mendicanti, ai gitani ed ai malfattori che li posseggono ancora.
[17] La confraternita della Garduna (confraternita della
rapina). Sotto questo titolo esisteva in Ispagna, fino dall’anno 1417, una
società segreta, composta di briganti d’ogni specie. Questa società
perfettamente organizzata, aveva per oggetto la direzione in grande d’ogni
specie di delitti a favore di chiunque avesse vendetta da esercitare,
risentimenti da soddisfare. Si incaricava al più equo prezzo e con garanzia di
dare colpi di pugnale, mortali o no, secondo il gusto del committente, di
annegare, di bastonare ed anco di assassinare. L’assassinio costava caro,
bisognava avere una certa importanza nel modo per ottenerlo; ma una volta
promesso ci si poteva contare; perché la confraternita della Garduna poneva una
esattezza disperante in eseguire le commissioni una volta che se n’era
incaricata.
La confraternita della Garduna si componeva
d’un gran maestro chiamato hermano major (fratello superiore), che
abitava la corte, ove spesso occupava un posto eminente. Questo fratello
superiore indirizzava i suoi ordini ai capatazes (maestri delle provincie);
questi li facevano eseguire con un’esattezza e uno zelo che farebbero onore a
più di un funzionario pubblico.
Il corpo della Garduna, assai numeroso, si
componeva di guapos (specie di Bravi), generalmente grandi spadaccini,
assassini arditi, banditi consumati il cui coraggio era a prova della tortura
ed anche della forca. Nel gergo della Società questo guapos erano
chiamati ponteadores, (pungitori, datori di colpi di punta). Dopo i punteadores
venivano i floreadores (badaluccatori); questi erano giovani mariuoli
astuti, la maggior parte fuggiti dal bagno di Siviglia, di Malaga o di Metilla,
si chiamavano fratelli aspiranti. Venivano in seguito los facelles
(i soffietti), così chiamati perché il loro impiego nella società era di
soffiare nell’orecchio del maestro dell’Ordine ciò che sapevano delle case
della città, nelle quali s’introducevano, in virtù delle loro maniere ipocrite.
I facelles erano tutti vecchi bacchettoni nell’aspetto, che si vedevano
sempre in chiesa con una corona in mano, menoché nelle ore di servizio presso
il maestro della Garduna, o presso l’inquisitore; perché la maggior parte di
questi vecchi cumulavano l’impiego di famigliare del Sant’Uffizio con quello di
spia della Garduna. La Garduna aveva pure un gran numero di ricettatrici di
furti che chiamava coberteras (coperte) dal verbo cubrir
(coprire, nascondere); e una gran numero di giovani dai dieci ai quindici anni,
che designava col nome di chivatos (caprioli). I chivatos erano i
novizi dell’ordine. Bisognava almeno essere chivatos per un anno innanzi
di meritare l’onore di lavorare in qualità di postulante. Un postulante
che avesse ben meritato della confraternita diveniva guapo a capo di due
anni di servizio .Dopo quella di maestro e di gran maestro era questa la
più alta dignità che conferiva la compagnia. Oltre le persone che ho
indicate, la Garduna contava un gran numero di serenas (sirene). Erano
donne belle e giovani, per la maggior parte gitane. Le sirene erano le
odalische della dignità dell’Ordine. Erano esse che traevano le persone
indicate loro in luoghi favorevoli per le operazioni della Garduna. A tutte
queste persone si aggiungevano delle guardie, degli scrivani, dei procuratori,
dei monaci, dei canonici, dei vescovi ed anche degli inquisitori, i quali erano
tanti strumenti protettori della Garduna, di cui avevano soventi volte bisogno,
e che dava loro del denaro, e si avrà un’idea di quella società, la quale ha
desolato la Spagna per più di quattro secoli.
La Garduna stabilita al principio del secolo
decimoquinto, fu intieramente distrutta nel 1821 dai cacciatori delle montagne,
sotto i miei ordini. Le carte di questa singolare ed orribile società, le quali
consistevano in molti registri contenenti gli ordini del giorno, gli statuti
della confraternita ed un gran numero di lettere furono da me depositate alla
cancelleria criminale di Siviglia il quindici settembre 1821. Vi esistevano
ancora nel 1823. Francesco Cortina, maestro di quella Società nel 1821,
arrestato con una ventina de’ suoi complici fu appeso sulla piazza di Siviglia
insieme a sedici de’ suoi coaccusati il 25 novembre 1822.
A tempo e luogo darò una traduzione degli
statuti della Garduna. In questo capitolo l’autore copia quasi parola per
parola l’ordine del giorno del 15 febbraio 1534.
[18] Mandamiento (comando).
[19] Floreo è una parola che viene da florear
(badaluccare) ; nel gergo dei ladri spagnoli florear significa dar colpi
di coltello; floreo dunque deve essere tradotto uccisione col pugnale.
[20] Gli spagnoli danno questo nome alle persone di bassa classe, la
cui negletta educazione ha riempito la Spagna di mariuoli e di ladri.
[21] Così si chiamano le guardie.
[22] E’ una specie di striscia di cuoio di cui si serviva il carnefice
in Ispagna per frustare coloro che erano condannati alla frusta e
all’esposizione.
[23] Così chiamatasi il cavalletto, asta triangolare, sulla quale si
mettevano a cavalcioni gli accusati che non volevano confessare. Quest’asta,
che era uno degli strumenti di tortura di cui si serviva l’Inquisizione, era
pure impiegata dalla giustizia ordinaria.
[24] Le angosce che precedono lo strangolamento.
[25] Nel linguaggio dei graduni questa parola significa confessare.
[26] I barcollamenti degli appiccati.
[27] In Ispagna le persone condannate all’esposizione son fatte
passeggiare sopra un asino per tutta la città, col corpo nudo fino alla
cintola.
[28] La marina reale in
termini di gergo significa le galere del re, in cui i forzati erano condannati
a remigare per molti anni; i forzati di chiamavano allora galeotes.
[29] Le mani della giustizia.
[30] Uncini, ladri.
[31] La prigione.
[32] Gli appiccati.
[33] Condotti alle galere.
[34] Condannati sull’asino per tutta la città.
[35] Le donne di cattiva vita, specialmente persone che fanno
l’orribil mestiere di corrompere la gioventù, erano punite in Ispagna di una
maniera singolare. Non è ancor molto tempo che quando una donna era convinta
d’essersi prostituita o di aver trascinata un’altra a far ciò, si condannava ad
essere impiumata. Ecco come aveva luogo l’esecuzione di questa sentenza. Alle
ore undici del mattino il boia si recava presso la condannata, e, aiutato da’
suoi giovani, la spogliava intieramente fino alla cintola. Poscia copriva il
suo capo con una coraza, dopo di che si faceva salir la condannata sopra
un asino, e si attaccava il suo collo ad una specie di cerchio di ferro,
fissato ad una sbarra pure di ferro, la cui estremità inferiore si appoggiava
sul basto dell’asino; poscia si faceva passeggiare lentamente fra due file di
soldati e di guardie e scortata da una folla di popolo. Dietro la condannata
camminavano due giovani del boia, i quali portavano un gran paniere colmo di
penne di pollo, il banditore pubblico ed il boia stesso. La cavalcata si fermava
nelle principali strade e piazze della città, ed a ciascuna fermata il
banditore pubblico leggeva ad alta voce la sentenza che condannava la paziente
ad essere impiumata, spiegandone il motivo; il banditore pubblico finiva sempre
con questa formula: -così si paghi chi ha fatto ciò.-
Pronunziate queste parole, prendeva delle
penne e le gettava sul miele di cui era coperto il corpo della condannata;
queste penne vi rimanevano attaccate, il che in capo a qualche tempo le dava un
aspetto schifoso e grottesco ad un tempo, che faceva ridere la folla. In gergo
questo si chiama esser passato al miele.
[36] Rubando.
[37] Meritato d’esse denunziato.
[38] Il guapo fa qui allusione a certe confraternite che, anco
nel 1820, percorrevano le vie delle città di Spagna domandando per fare delle
novene alla Madonna del Rosario, e a qualunque altra Madonna, delle elemosine
che impiegavano santissimamente per fare dei pasti gustosi dopo aver
levate le spese. Ora queste spese consistevano in una dozzina di moccoli di
cera che si portavano fuori in tante lanterne piantate a capo d’un bastone, e
nel pagamento d’un facchino incaricato di portare uno stendardo coll’effiggie
della Madonna. Il numero di queste confraternite, ascendeva a sessantanove
soltanto in Madrid nel 1820. In quest’epoca pure si poteva appena passeggiare
nelle strade delle grandi città della Spagna durante la sera senza incontrare
molti rosarii, vale a dire molte compagnie d’ipocriti e d’imbecilli, posti su
due file che recitavano il rosario ad alta voce e con aria più che distratta,
senz’altra interruzione fuorché la voce stridula de los demandaderos
(gli accattoni) che belavano a ciascun termine d’Ave Maria: -Dateci qualcosa
per la Madonna del Rosario, fratelli!-E le monete cadevano involte in un pezzo
di carta, che ardeva, affinché l’accattone potesse vederle! Oh! Monaci di
Spagna, ecco i vostri tratti!
[39] I fratelli della Garduna passavano per tre gradi come i
frammassoni; erano dapprima chivatos (apprendisti o novizi), poi postulanti,
poi, finalmente erano ricevuto guapos (maestri). Soltanto dopo aver
ottenuto quest’ultimo grado potevano essere incaricati delle uccisioni e degli
assassini che si commettevano alla confraternita.
[40] La Garduna non era una società irregolare. Ecco gli statuti che
la governavano.
Art. 1. Ogni galantuomo fornito di buon
occhio, di buon orecchio, di buone gambe e pronta lingua può divenire membro
della Garduna. Potranno divenirlo pure le persone rispettabili d’una
certa età che desidereranno servire la confraternita, sia tenendola al giorno
delle buone operazioni da farsi, sia dando i mezzi per eseguire le dette
operazioni.
Art. 2. La confraternita riceverà eziandio
sotto la sua protezione ogni matrona che avrà sofferto per la
giustizia, e che vorrà incaricarsi della conservazione e della vendita
dei diversi oggetti che la divina Provvidenza si degnerà di mandare alla
confraternita, non che le donne giovani che saranno presentate da qualche
fratello. Queste ultime a condizione di favorire con tutta la loro anima e
con tutto il loro corpo gli interessi della confraternita.
Art. 3. I membri della confraternita saranno
divisi in chivatos, postulantes, guapos e facelles. Le matrone
saranno chiamate coberteras e le giovani serenas. Queste ultime
devono essere giovani, svelte, fedeli ed attraenti.
Art. 4. I chivatos, fintantoché avranno
imparato a lavorare, non potranno intraprendere nulla da sé soli, e non si
serviranno del pugnale che in propria difesa. Saranno nutriti, alloggiati e
mantenuti a spese della confraternita. Ciascuno di essi riceverà a quest’uopo
dai capi centotrentasei maravedis (un franco) al giorno. Nei casi di qualche
distinto servigio reso da un chivato, questi passerà subito
all’onorevole categoria di postulante.
Art. 5. I postulanti vivranno dei loro artigli;
questi fratelli saranno esclusivamente incaricati degli eclissi, operati
a mano lesta per conto ed a favore dell’Ordine. Per ciascun eclisse il fratello
operante riceverà il terzo lordo, dal quale trarrà qualcosa per le anime del
purgatorio. Degli altri due terzi uno sarà versato alla cassa per sovvenire
alle spese della giustizia (per pagare le guardie, i cancellieri ed anco
i giudici che proteggeranno i fratelli), e per far dire delle messe per le
anime dei nostri fratelli trapassati, e l’altre per essere a disposizione del
gran maestro dell’Ordine, obbligato a vivere alla corte(*) per vegliare al
benessere e alla prosperità di tutti.
Art. 6. I guapos avranno per essi gli oscuramenti,
i sotterramenti, i viaggi, i bagni ed i battesimi.
Di queste due ultime operazioni potranno incaricare un fratello postulante,
sotto la loro responsabilità. I guapos avranno il terzo lordo del
prodotto di tutte le loro operazioni; soltanto daranno il trenta per cento del
loro provento per l’alimentazione e il mantenimento del chivato, e quello
che vorranno per le anime del purgatorio, il rimanente del prodotto delle loro
operazioni sarà distribuito come è detto nell’articolo 5.
Art. 7. Le cobertas riceveranno il
dieci per cento su tutte le somme che realizzeranno, e le sirene sei maravedis
per ciascuna pesata (franco) versati nella cassa dai guapos,
tutti i regali che riceveranno da nobili signori, dai monaci ed altri membri
del clero apparterranno loro in proprio.
Art. 8. Il capataz, o il capo di
provincia, sarà nominato fra i guapos che avranno almeno sei anni di servizio,
e che saranno benemeriti della confraternita.
Art. 9. Tutti i fratelli debbono piuttosto
morire martiri, che confessori, sotto pena di esser degradati, esclusi dalla
confraternita, ed al bisogno perseguitati da essa.
Fatto a Toledo l’anno di grazia 1420 ed il
terzo dopo l’istituzione della nostra onorevole confraternita.
Firmato:
El Collmiludo.
(*)
Nel 1534 il gran maestro della Garduna stava ancora a Toledo. Non fu che
molto più tardi, sotto il regno di Filippo III, che si stabilì in Madrid, ove
divenne segretario del monarca, sotto il nome di Rodrigo Calderon, grazie alla
debolezza del duca di Lerma ed alla potente protezione del gesuita Francesco
Luigi de Allaga, confessore del re, ed inquisitore generale della Spagna dal
1618 al 1621.
[41] Colpi di pugnale.
[42] Ricevendo il suo salario, ciascun garduno aveva il costume di
gettare qualche soldo in una cassetta attaccata al muro sotto una immagine
della Vergine nella sala della Garduna.
[43] Assassinare
[44] Annegamenti.
[45] Rubamenti sulla strada maestra
[46] La posta.
[47] Assassinio.
[48] La corte criminale.
[49] Mandamiento aveva ragione. Fra le carte prese nell’arresto di
Francesco Cortina, e nella distruzione della Garduna nel 1821, si trovava un
registro sul quale i comandi che diversi membri dell’Inquisizione avevano
diretti alla confraternita nello spazio di centoquarantasette anni, vale a dire
dal 1520 fino al 1667, ascendevano a mille novecentoottantasei, ed avevano
prodotto centonovantotto mila e seicentosettanta franchi, vale a dire cento franchi
circa per ciascuno. Fra questi comandi fatti dai propagatori della
fede, i ratti di donne figurano per un terzo circa, le uccisioni e gli
assassinii formano, presso a poco, un latro terzo, le correzioni, vale a dire
gli annegamenti, i colpi di pugnale, le false denunzie e le false testimonianze
il rimanente. Questo registro depositato alla cancelleria criminale di
Siviglia, fu uno dei documenti più aggravanti contro Francesco Cortina e
correi. Per rendere testimonianza alla verità debbo aggiungere che nessun
comando fatto da membro dell’Inquisizione figurava in quel registro dopo il
1797.
[50] Isabella di Castiglia, moglie di Ferdinando d’Aragona, ebbe
orrore della crudeltà del Sant’Uffizio, e si oppose per moltissimo tempo allo
stabilimento dell’Inquisizione moderna di Castiglia. Torrequemada, confessore
di Ferdinando, uomo astuto quanto fanatico, sotto pretesto di servire la
politica avara del re, più che impetrare, strappò a forza questo consenso della
religiosa Isabella, dappoiché nella sua qualità d’inquisitor generale volle
dominare sopra l’autorità reale. La nobile regina rispose un giorno ad una
nuova esigenza dell’inquisitore, che osò accompagnare con le mianccie: -Monaco!
Non dimenticate che un ordine reale ha stabilito l’Inquisizione, ed un ordine
può annullarsi.-(Cronicas de los ryes
catolicos don Fernando de Argon y dona Isabel de Castilla. Per Luigi Ponzio
de Leon storico di Castiglia.)
[51] Si sa che verso questa stessa epoca Carlo V stabiliva
l’Inquisizione spagnola nei Pesi Bassi, sotto il nome di tribunale spirituale;
più tardi, sotto Filippo II, questo tribunale fece perire più di milleottocento
persone nello spazio di tre anni (Meiners,
Storia della Riforma). L’America e tutte le possessioni spagnole d’oltremare e
dell’Italia erano pure sotto il giogo dell’Inquisizione spagnola.
[52] Banditore di notte.
[53] I chivatos o apprendisti della Garduna servivano principalmente a
fare da sentinella durante le operazioni dei garduni. In caso di pericolo o
d’allarme, imitavano a meraviglia il grido di un animale o il canto d’un
uccello. La notte era la voce del grillo, il grido del barbagianni o della
civetta, il gracchiare delle ranocchie o il miagolare del gatto, secondo la
stagione o la consegna che avevano ricevuto. Il giorno era l’abbaiare del cane
o il grido degli animali che dividono la vita e le abitudini con gli uomini.
[54] Il sereno è la guardia notturna. In tutte le grandi città di
Spagna alcuni uomini incaricati di vegliare alla sicurezza pubblica e di dare
l’allarme, in caso d’incendio, passeggiano ciascuno nel suo quartiere, armati
di una lancia. Chiamata cuzo, di una lanterna e di un fischio di rame.
La lancia serve loro a difendersi ed anco ad attaccare al bisogno, la lanterna
a far loro lume ed a fornir luce alle pattuglie in caso di necessità, ed il
fischio a chiamarsi gli uni con glia altri in caso di attacco contro qualche
malfattore. I sereni sono obbligati a bandir l’ora ogni cinque minuti per
constatare che vegliano. L’utile istituzione dei sereni rimonta al secolo
decimoquinto. Fu Isabella di Castiglia che li creò nel 1495 a Granata, per
vegliare sopra i Mori della città che temevasi sempre dovessero ribellarsi. I
sereni esistono ancora nella maggior parte delle grandi città della Spagna.
Sarebbe da desiderarsi che la polizia di Parigi che ha la pretensione di
vegliar bene alla sicurezza pubblica, mettesse qualche cosa di simile nei
dintorni dei ponti e agli ingressi del canale , ove, in mancanza di luce e di
agenti di polizia, la vigilanza dei sereni perverrebbe forse a diminuire il
numero dei cadaveri che si veggono giornalmente esposti alla Morgue.
[55] Il calzare notturno era una specie di calza di cuoio di bufalo,
il quale si adattava con fibbie e nastri ai piedi dei muli che trascinavano le
vetture impiegate agli arresti notturni dell’Inquisizione. La prima di quella
calza consisteva in un denso strato di stoppa, cucito tra due pezzi di cuoio.
Così, calzati i muli potevano camminare a pochi passi di distanza da un uomo
senza che questi fosse avvertito per alcun rumore del loro avvicinarsi. Questo
calzare, dovuto al genio infernale dell’inquisitore Deza, esisteva ancora
nell’arsenale inquisitoriale di Malaga nel 1820, quando le porte del
Sant’Uffizio furono fracassate, ed i prigionieri liberati al grido di Viva
la libertà! In questa stessa epoca, lo sventurato generale Torrijos,
liberato dalle carceri dell’inquisizione, ove era da due anni rinchiuso, si
impadronì di uno di quei calzari. Due altri furono presi da un inglese, Thomson
Wilkings, che li conservava ancora nel 1838 a Londra, Paddington place,
ove li mostrava a tutti i suoi amici. Si vede che questo tribunale, che
pretendeva di essere il difensore della religione di un Dio di pace, sapeva
prendere le sue precauzioni perché gli eretici non gli sfuggissero.
[56] Gli Spagnuoli, gli Andalusiani specialmente, hanno una destrezza
prodigiosa a maneggiare quest’arme micidiale. I famigliari del Sant’Uffizio,
principalmente i birri, non uscivano mai per una spedizione senza avere in
tasca il nodo scorsoio. Questo laccio di seta serviva loro raramente per
strangolare un nemico che resisteva. Chi avrebbe osato resistere
all’Inquisizione? Il nodo scorsoio era singolarmente impiegato a strangolare i
cani, che, abbaiando, potevano dare l’allarme, e al bisogno, per estinguere le
grida dei prigionieri finché si fosse potuto metter loro un bavaglio. Si veda
come la crudeltà dell’Inquisizione era freddamente ed abilmente calcolata.
[57] Il Papa.
[58] L’autore fa qui un anacronismo volontario. L’inquisizione non fu
stabilita in Portogallo, che nel 1551 o 1552 dal falso nunzio Giovanni
Perez de Saavedra, di cui ho già parlato.
[59] Questa scena d’orgia, che l’autore ha descritto sembrerà
esagerata, e forse malevolenta a qualcuno dei nostri lettori: tuttavia simili
scene avevano sovente luogo presso i grandi dignitari della chiesa di Spagna.
Si legge nello storico Mariana,
che mentre il maestro di casa del re Enrico III era obbligato di mettere in
pegno il mantello del suo padrone per comprare da pranzo, i signori della corte
si abbandonavano presso l’arcivescovo di Toledo, residente in Burgos, a tutti
gli eccessi della tavola, in compagnia di molti vescovi e di altri grandi
prelati di Castiglia.
[60] I Gesuiti
[61] Si crede generalmente che la Spagna abbia subito con pazienza e viltà il giogo del dispotismo e dell’Inquisizione: è un errore. Gli Spagnoli non hanno mai cessato di lottare per la loro libertà politica e per la loro liberà religiosa. Fin dal principio del secolo decimoquinto i comuni e le Cortes hanno sempre protestato con energia contro il dispotismo ipocrita o stupido del re e contro l’avarizia insaziabile dei monaci di Roma. Padilla, Porlieur, il grande giustiziere d’Aragona, e migliaia d’altri coraggiosi difensori dei diritti dell’umanità han pagato col loro sangue gli sforzi che hanno fatto per liberare la Spagna dal dispotismo reale. Giovanna Bohorques, Maria di Borgogna, soprannominata la madre dei poveri, Rodrigo de Valero e molti altri cristiani secondo Gesù Cristo, sono stati martiri, il cui sangue ha fecondato la religione del Vangelo, e segnato in fronte con una stimmate d’infamia i superbi carnefici che osavano chiamarsi ministri di un Dio di pace.
E non si dica che tutti coloro i quali sono stati perseguitati dalla Inquisizione fossero eretici. Giovanni d’Avila, san Giovanni di Dio, santa Teresa, san Giovanni della Croce, frate Luigi de Leon, frate Luigi di Granata, Mariana, vale a dire uomini che Roma stessa si è vista costretta di proclamare santi, od uomini il cui talento ha riempito l’Europa, hanno pure sofferto le persecuzioni di quell’odioso tribunale, che sarebbesi potuto chiamare succursale dell’inferno, ed hanno costantemente lottato con la loro eloquente parola contro quel potere iniquo, contrario a tutte le leggi di Dio e degli uomini. (Processo verbale dell’Inquisizione e Storia generale di Spagna, per Mariana.)
[62] Quando una vittima dell’Inquisizione confessava tutto ciò che si voleva, ed assoggettavasi a tutte le penitenze ed a tutte le umiliazioni che si esigeva da essa, il tribunale era costretto a rilasciarla, e contenersi in qualche grossa multa a termine delle leggi inquisitoriali stesse. Il genio distruttore e avido di Deza e di Lucero trovò il mezzo di non contentarsi di sì poco, accusando quelli che sfuggivan loro di tal guisa di aver fatto confessioni senza sincerità, dichiarandoli falsi penitenti. Questi erano bruciati o condannati alla prigione perpetua, e tutti i loro beni confiscati. (Storia dell’Inquisizione regno di Deza.)
[63] Qualche tempo prima della presa di Granata, eseguita da Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, vale a dire verso l’anno di grazia 1493, un gran numero di cavalieri delle tribù degli Ebencerragi, Gomeles e Gazulez
[64] Durante il regno dell’inquisitore generale Deza e del suo protetto l’inquisitore di Cordova, Lucero, le crudeltà, o, per meglio dire, le iniquità del Sant’Uffizio esasperarono sì fortemente gli Spagnuoli, che da tutte le parti si alzarono voci eloquenti contro quegli uomini, i quali sotto il nome di difensori della fede, avrebbero fatto dubitare della fede degli apostoli stessi. Deza, dopo essere stato sospeso dalle sue funzioni da Filippo I, riprese il suo posto alla morte di quel principe, accaduta nel 1506, nel quarto mese del suo regno, e bentosto cancellò tutto quanto aveva fatto il Consiglio della Suprema, e rimise Lucero nelle sue funzioni. Fin d’allora cominciò una persecuzione feroce contro il santo vescovo di Granata, Ferdinando de Talavera, e contro il savio Antonio de Nebeija; quest’ultimo fu denunziato al Sant’Uffizio per aver scoperto e corretto molti errori che esistevano nel testo latino della volgata. Queste persecuzioni, congiunte alle crudeltà di Lucero stancarono gli Andalusiani, i quali si sollevarono, forzarono le prigioni del Sant’Uffizio, e ne fecero uscire i detenuti che erano un numero incalcolabile. Il fiscale, il cancelliere del tribunale dell’inquisizione e molti impiegati subalterni furono arrestati a Cordova, e Lucero non dovette la sua salvezza che ad una pronta fuga. Questi avvenimenti congiunti coll’arrivo in Ispagna di Ferdinando V, reggente del regno, inspirarono tanto terrore a Deza, che rinunziò da se stesso al suo impiego, dopo aver fatto bruciare vive duemila e cinquecento persone, e l’effige di altre ottocentoventinove ed aver condannato alla prigione perpetua o alla galera con confisca dei beni trentaduemila e novecentocinquantadue accusati.
Fu per conoscere i processi di numerose persone
arrestate all’occasione di queste turbolenze che l’inquisitore Cisneros,
successore di Deza, più politico e non meno crudele del suo predecessore, sollecitò
ed ottenne dal re permissione di formare una giunta composta di ventidue
persone fra le più considerevoli del regno, per terminare convenevolmente i
processi intentati agli abitanti di Cordova dall’inquisitore Lucero. Questa
giunta che prese il nome di congragazione cattolica, tenne la sua prima
assemblea a Burgos nel 1508. Dopo un lavoro di molti mesi, la giunta dichiara:
1. che i testimonii uditi da Lucero nell’affare Cordova erano indegni di fede;
2. che tutti gli accusati che si trovavano in prigione erano innocenti e
dovevano essere immediatamente messi in libertà; 3. che la memoria di coloro
che erano stati bruciati sarebbe riabilitata; 4. finalmente, che le case
spianate per ordine di Lucero e di Deza dovevano essere ricostruite a spese del
tesoro. Questa decisione della congregazione cattolica, ricevette la sua intera
esecuzione dopo essere stata solennemente pubblicata a Valladolid in mezzo agli
applausi del popolo, che credeva aver finalmente rotto il giogo
dell’Inquisizione. Povero popolo! Nella sua lealtà ignorava che l’Inquisizione
accordandogli una tregua ingannevole, si riserbava di colpirlo meglio in
avvenire, dopo averlo bene inviluppato nell’immensa rete di quelle astuzie
senza nome, che il clero ha saputo sempre impiegare per ingrandire la sua
potenza temporale.(Storia dell’Inquisizione).
[65] Lucero aveva ricevuto dagli Spagnuoli l’epiteto di tenebroso. Lucero in ispagnuolo significa stella brillante.
[66] Ospizio fondato da S. Giovanni di Dio verso la metà del secolo XVI, per il trattamento della lebbra, e di quella crudele malattia importata in Europa dai compagni di Cristoforo Colombo [ la sifilide n.d.c].
[67] Lettera di san Giovanni d’Avila a san Giovanni di Dio, suo discepolo.
[68] San Giovanni di Dio ha consacrato sessant’anni della sua vita a sollevare l’umanità sofferente. Egli ed isuoi discepoli hanno scoperto la maggior parte degli specifici adoprati anco oggidì nel trattamento delle malattie che si studiavano di guarire. Avanti la sua morte san Giovanni di Dio fornì la Spagna di più di sessanta spedali, tutti serviti dai monaci del suo Ordine. Perché tutti i monaci non hanno saputo attirarsi le bendizioni del popolo come i Fratello Ospitalieri?
[69] Melopia. Così chiamavasi in Ispagna la minestra, o, per meglio dire, l’gnobile miscuglio che i monaci distribuivano ai numerosi mendicanti di cui era pieno il paese, grazie al fanatismo ed alla crudeltà dell’Inquisizione. La parola melopia è una correzione della parola mezelopia (miscuglio), derivante dal verbo mezelar (mescolare). L’autore nel suo capitolo XVI darà dei particolari esatti e sventuratamente troppo veri su quella carità monastica.
[70] Ci potremmo difficilmente formare una giusta idea del fanatismo che i malfattori Spagnuoli pongono nell’adempimento delle loro promesse. Crederebbero rendersi gravemente colpevoli e disonorarsi per sempre se, dopo aver ricevuto del denaro per commettere un omicidio mancassero al loro impegno. Essi hanno, se è permesso esprimersi così, la probità del delitto; tanto la lealtà ha profonde radici nel cuore di quel popolo sì orribilmente snaturato da un cattivo sistema politico, assoggettato alle insaziabili esigenze di Roma ed alla incredibile ferocia dell’Inquisizione.
[71] Infatti eravi in quell’epoca un impiegato alla corte le cui funzioni stavano fra quelle di favorito del re, e soprattutto dei gran signori della corte, e quelle di buffone, o, per meglio dire, cumulava questi due impieghi. I Sivigliani pretendono anco oggidì che il Colmilludo fosse il capo della Garduna, e quando vogliono esagerare l’abilità o la scelleratezza d’un bandito dicono: Es mas ladron y mas malo que el Colmilludo; è più ladro e più malvagio del Colmilludo.
[72] La giustizia.
[73] Il carnefice.
[74] I malfattori e tutte le persone senza casa e senza tetto che vivono di rapine e baratterie camminano in ischiere e circondati da giovani adepti, che fanno sentinella durante le loro operazioni. Questi giovani, esercitatissimi ad imitare il canto del grillo, l’abbaiare del cane, il miagolare del gatto ed il gracchiare delle ranocchie, avvertono con queste voci coloro che sono occupati in qualche faccenda proibita. Accade spesso che, in pieno giorno, nel mezzo di una passeggiata, si oda un concerto di ranocchie, una disputa di gatti, e tutto ad un tratto si vegga fuggire una schiera di ladri che erano occupati a derubare, a giuocare alle carte o ai dadi, delle persone semplici del basso popolo, e spesso dei fanciulli.
[75] Coltelli lunghi ed acuminati, di una tempra incomparabile di cui si servono i duellisti in Ispagna.
[76] Così chiamasi in Ispagna certi ladri, i quali, senz’altro capitale che un mazzo di carte, percorrono i mercati, le fiere, gl’ingressi delle carceri correzionali, presentando le loro carte, o per meglio dire, facendole pagare un tanto la partita a quelli che vogliono giuocare. I barattieri sono tanto gelosi gli uoni contro gli altri che spesso decidono con una sfida al coltello quale di loro presterà le proprie carte.
[77] Un duellista di coltello avendo incontrato il suo nemico addormentato a piè d’un albero, lo svegliò e gli offrì gentilmente di battersi; proposizione che l’altro accettò con egual gentilezza. Terminato il duello il meno ferito dei due combattenti aiutò l’altro a ritirarsi nel primo corpo di guardia, sostenendolo come un amico tenero ed affezionato. Giunto al posto che io comandavo ambedue si misero fra le nostre mani. Furono mandati allo spedale, alle infermerie della prigione di città, poiché leggi severe proibivano in Ispagna la sfida al coltello, la più pericolosa di tutte le sfide. Uno di loro dovette soccombere alle sue ferite, l’altro fu appiccato. Egli aveva amato meglio costituirsi che abbandonare il suo avversario moribondo in mezzo ai boschi, ciò che sarebbe stata una macchia indelebile; sarebbe stato disonorato per sempre agli occhi di tutti i barattieri, di tutte le civetta, e agli occhi di tutta la schiera dei forzati liberati o fuggiti. Quell’abbandono sarebbe stato guardato come un atto di viltà più degradante della mannaia del carnefice, più infamante delle galera. Abbandonare un bravo, il quale erasi volontariamente esposto ai perigli di una sfida al coltello, non era cosa possibile nei costumi spagnuoli.
[78] E’ una specie di vessillo rotondo, che ha la forma di una torre terminata a punta e sormontata da una croce: è di velluto nero, ornata da un gallone d’oro per le persone maritate e le vedove, e d’un gallone d’argento per i celibi, i giovani ed i fanciulli.
[79] La tomba della salute era presso i monaci quello che per i framassoni la camera di meditazione. In quella tomba tutto era calcolato per agir sull’immaginazione del neofito, che, già esaltata per tre giorni di digiuno quasi assoluto, penava in modo incompatibile. Ho sentito dire da padre Antonio, monaco onestissimo, e buon vivente quant’altri al mondo, il giorno successivo alla sua elezione al priorato dei monaci di S. Girolamo in Madrid, che quantunque amasse meglio d’esser priore del suo convento, che grande di Spagna di prima classe, avrebbe rinunziato volentieri a questo posto, se gli fosse stato mestieri rinnovare le cerimonie della professione, e rimanere un’ora sola nella tomba della salute. -Io credo,- egli dice, -che si dovrebbe chiamare la caverna di Satana; perché se io credessi al diavolo, non dubiterei di averlo veduto con tutta la sequela dei demoni e degli spiriti. Dopo aver udito le esortazioni del maestro dei novizi, dopo aver passato tre giorni in digiuno, quasi senza bere, ed esser rimasto una mezz’ora nella tomba della salute, io comprendo la tentazione di sant’Antonio e vi credo.-
Questo discorso di un monaco non prova che alle cerimonie gravi e piene di semplicità del culto cristiano, i monaci hanno sostituito una fantasmagoria ridicola ad un tempo ed empia, fatta più per allucinare i sensi, che per elevare lo spirito?
[80] Tutti gli storici i quali hanno scritto sull’Inquisizione si accordano a dire che quando una persona era stata arrestata e rinchiusa nelle carceri del Sant’Uffizio, non si lasciava comunicare con chicchessia, nemmeno co’ suoi più prossimi parenti: di più poi, se qualcuno osava intercedere a favore di un prigioniero, o cercava di scolparlo, era immediatamente sotto la stessa imputazione di colui che aveva preso a difendere.
[81] per una tradizione moresca giunta fino ai giorni nostri, credesi generalmente fra il popolo che la Giralda sia stata fabbricata dai genii, che ne facciano tuttavia la loro abitazione.
[82] -Le dottrine di Lutero e di Calvino non commovevano soltanto l’Alemagna, l’Inghilterra, la Svizzera, la repubblica di Genova e il mezzogiorno della Francia, in Ispagna, nei conventi specialmente, esse avevano pure numerosi partigiani. Sembra certo che un gran numero di Spagnuoli, fra i quali si contavano degli ecclesiastici, avessero trovato il mezzo di procurarsi libri pubblicati in Alemagna dai protestanti di Spira.- (Llorente, Storia dell’Inquisizione.)
[83] Nel 1559, in un atto-di-fede generale che ebbe luogo a Valladolid sotto gli occhi del principe don Carlo e della principessa Giovanna, si arsero le ossa e la statua di una donna per nome Eleonora de Vibero y Casalla, morta da buona cattolica, accusata e convinta, dopo la sua morte, per mezzo di deposizioni strappate a testimoni sottomessi alla tortura, di aver prestata la sua casa ai Luterani di Valldolid per celebrarvi le cerimonie del culto protestante. Questa dama dichiarata morta nell’eresia, e la sua memoria condannata all’infamia fino nella sua posterità; i suoi beni furono confiscati, e la sua casa smantellata, con proibizione di ricostruirla. Sulle rovine di quella casa si alzò un monumento con una iscrizione relativa a questo avvenimento.