MISTERI

DELL’INQUISIZIONE

 

ED

 

ALTRE SOCIETA’ SEGRETE DI SPAGNA

 

PER

V. De Fréréal

 

CON NOTE STORICHE ED UNA INTRODUZIONE

 

di Manuel de Quendias

 

E CON ESTRATTI DI UNA LETTERA

RELATIVA A QUEST’OPERA

DI Edgardo Quinet

 

Nuova edizione Italiana

 

Volume Terzo

 

 

Milano

 

Francesco Pagnoni , editore-tipografo

 

1867

 

 

 

 

 
 
 
Trascrizione dagli originali, in due e quattro volumi, pubblicati in lingua italiana nel 1847 a Parigi, e nel 1867 a Milano.
Quest’opera pregevolissima è oramai di Pubblico Dominio e di libera circolazione (freeware), essendo trascorsi oltre 70 anni dalla morte dell’autore.

 

A cura di Claudio Della Valle  http://web.tiscali.it/geremia2000

 

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Inserire, comprese le virgolette:

“Claudio Della Valle” -  “Il canto della Sorgente” -  “Il luogo di Geremia” - “Della resurrezione dei morti” –

 “In nome del pane” ­­­­- “Lettera a un cristiano mai nato” – “Sulla via del ritorno” – “Riflessioni ed ipotesi sull’Apocalisse di S. Giovanni”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVIII.

Candore ed ipocrisia.

 

Malgrado le fatiche di questa lunga cerimonia che durò fino a due ore dopo mezzogiorno, monsignore Arbues, ritiratosi nel palazzo inquisitoriale, non poté gustare un sol momento di riposo. L’ardore inestinguibile di quell’anima dispotica e passionata dava al suo corpo un continuo bisogno di moto e di attività: era come l’abisso di cui parla l’Ecclesiaste, mai sazio. Uomini siffatti divengono inevitabilmente  la provvidenza o il flagello dell’umanità.

Ciononpertanto un’interna soddisfazione leggevasi sul volto dell’inquisitore; la certezza che Dolores era ormai in suo potere dava ai suoi tratti uno splendore infernale; e come lo spirito delle tenebre, quando un’anima pura cade fra le sue mani, ei gioiva del suo trionfo.

Josè, silenzioso e mesto, sfogliava una Bibbia latina in un canto della camera. Un cupo presentimento sembrava agitarlo. Egli ignorava che la figlia del governatore fosse scomparsa dalla casa di Giovanna, ma la gioia dell’inquisitore avendo qualche cosa di sinistro e di fatale, Josè ne fu spaventato come di una sventura.

Per la prima volta eziandio, e per un istinto segreto, l’inquisitore si sentì disposto alla diffidenza verso il suo favorito; non già che si credesse malsicuro di lui; ma egli trovava un tale incanto in quella soddisfazione sconosciuta, aveva durato tanta fatica a giungere al compimento dei suoi desiderii, che, parlando della sua felicità anco ad un intimo confidente, sembratagli di perdere una parte della sua illusione; perciò tacque.

Solamente ad intervalli un sorriso involontario sfiorava le sue labbra, il suo sguardo scintillava d’uno strano splendore, un rossore passeggero coloriva la sua fronte ordinariamente pallida.

Di quando in quando Josè alzava lentamente i suoi grandi occhi neri di sopra al suo libro per considerare il volto del suo signore.

Ei vedeva che quel volto tradiva emozioni insolite, ma non ne poteva immaginare la causa.

Quando fu vicina mezzanotte, Pietro Arbues non poteva risolversi a differire fino al giorno successivo la felicità di vedere Dolores. Aspettava che Josè si fosse ritirato, e Josè, da vero favorito, si affrettava tanto meno ad allontanarsi, quanto comprendeva che la sua presenza non era allora gradita a monsignore. Poneva un persistenza calcolata a rimaner cogli occhi fissi sulla sua Bibbia, di cui non leggeva neppure un parola.

Finalmente Pietro Arbues perdé la pazienza, si avvicinò a lui sorridendo, e strappandogli il libro dalle mani:

“Lascia, mio Josè” gli disse; “tu riprenderai la tua lettura un’altra volta. Io ho la volontà di dormire, e tu pure, mi sembra, poiché sei pallido come un fanciulla nel giorno successivo ad un ballo.”

“Tuttavia posso giurare a Vostra Eminenza che non sono niente stanco.”

“Il tuo zelo è sì grande, mio buon Josè! Perciò spero, quando tu sarai più avanti negli anni e la morte dei monsignore Alfonso Manriquez mi permetterà d’aspirare al grado d’inquisitore generale, spero, io dico di farti nominare grande inquisitore di Siviglia.”

“Io non voglio però abbandonare Vostra Eminenza,” rispose Josè.

“Povero fanciullo! Hai ragione, tu non mi lascerai; ma per il momento va a dormire, va, figlio mio; noi abbiamo bisogno di ricuperare le nostre forze onde continuare le nostre dure fatiche apostoliche.”

“Egli ha certamente qualche progetto per la testa,” pensò Josè, alzandosi come per allontanarsi.

“L’atto-di-fede è vicino,” aggiunse l’inquisitore; “le prigioni sono piene di eretici giudicati o da giudicare, e bisogna segnalarci in presenza del nostro gran re Carlo V, un monarca sì zelante per la religione del regno!”

Ma dicendo così si vedeva che monsignore Arbues parlava soltanto a fior di labbra, e che l’animo suo era occupato da altri progetti.

Josè, dotato d’una perspicacia straordinaria, comprese che Carlo V era ciò che meno occupava in quel momento il pensiero dell’inquisitore; dissimulò prudentemente, e disse, fregandosi gli occhi:

“Io credo, monsignore, che il sonno prenda me pure; si degni Vostra Eminenza di darmi la sua benedizione, e mi ritiro.”

E il favorito inchinò la sua bella testa coperta di capelli neri, eccettuato un piccolo spazio, dove la tonsura era appena accennata.

Pietro Arbues distese su di lui le mani riunite, pronunziò le parole sacramentali, quindi soggiunse:

“A domani, figlio mio, vieni a vedermi innanzi all’ora della tortura.”

E partì per la porta che conduceva nella sua camera da letto, e di là nella strada per un scala segreta.

In vece di ritirarsi in casa don Josè scese le scale del palazzo: poscia, giunto nel cortile, si nascose dietro un grande oleandro, e aspettò.

Era l’ora in cui, di sovente, Pietro Arbues usciva accompagnato da quattro famigliari, o guardie del corpo degli inquisitori; impiego che aveva loro assegnato Tommaso di Torrequemada, fondatore della milizia di Cristo, la cui vita, essendo spesso minacciata a cagione delle sue crudeltà inaudite, aveva resa necessaria questa precauzione.

D’ordinario Josè seguiva l’inquisitore nelle sue peregrinazioni misteriose. Facendosi un riparo co’ rami frondosi dell’oleandro, disse fra sé medesimo:

“Vediamo dove vuole recarsi senza di me.”

Non tardò a veder partire monsignor Arbues, vestito, al di sopra della sua tonaca e del suo scapolare da Domenicano, d’un ampio mantello alla spagnuola e d’un cappello a larga tesa: precauzione che usava abitualmente per non essere riconosciuto. Pietro Arbues camminava innanzi, i quattro famigliari lo seguivano a qualche distanza, pronti al menomo cenno a difendere, col pericolo della loro vita, quel propugnacolo della fede.

Appena chiusa dietro di essi la porta del palazzo Josè, il quale ne aveva sempre seco la chiave, l’aprì senza farla stridere, e strisciò come una serpe attraverso la porta semiaperta.

Allora vide Pietro Arbues dirigersi verso la strada dell’Inquisizione. Lo seguì a passo lento, tenendosi lontano dai famigliari e camminando senza far rumore, mercé i suoi sandali.

In meno di dieci minuti erano giunti alla porta delle prigioni del Sant’Uffizio.

Monsignore Arbues si fermò, e batté in un modo particolare e convenuto. Josè erasi a poco a poco avvicinato a lui.

Quel luogo era molto oscuro.

Josè strisciò leggermente contro il muro, ed appena l’inquisitore ebbe varcata la soglia, il favorito entrò chiotto chiotto dopo di lui, a rischio d’esser veduto.

Ma Pietro Arbues non pensava a lui. S’avvanzò a gran passi verso la scala che conduceva al primo piano, e siccome era cosa consueta il veder Josè accompagnarlo per tutto, il carceriere lo lasciò entrare senza ostacolo; poscia richiuse accuratamente la porta, e prendendo in mano la sua lanterna e il suo mazzo di chiavi, montò la scala in tutta fretta onde aprire a monsignore la camera che fosse per indicare e onde fargli lume.

I famigliari erano rimasti al di fuori della prigione. Alcuni istanti dopo, il carceriere discese nuovamente, e, senza curarsi del fraticello, entrò nella sua stanza, ove si distese sur una panca per dormire, aspettando che piacesse alla santissima Inquisizione di destarlo un’altra volta.

Josè allora salì, e siccome aveva udito camminare ed aprire una porta sulla sua testa, si fermò al primo piano, pensando che ivi scoprirebbe quello che bramava sapere.

Infatti aveva appena mosso alcuni passi a tentone nel corridoio, che vide un raggio di luce, il quale veniva da una delle celle per il foro della serratura; nello stesso tempo udì due voci a lui ben cognite: l’una apparteneva all’inquisitore, l’altra era quella di Dolores.

Josè fremé di terrore all’accento di quella voce ben nota. Ei non poteva comprendere per quale fatalità Dolores fosse stata rapita dal ritiro che avevale scelto.

“Io m’inganno,” pensò fra sé medesimo, ma lo stesso suono di voce, elvandosi a note più distinte, venne nuovamente a farlo trasalire.

Preso da una mortale ansietà, tentò di vedere attraverso l’angusta apertura dalla quale veniva il raggio di luce. La chiave, che era rimasta al di dentro, non gli permetteva di distinguere gli oggetti. D’altronde il lume gli sembrò che fosse posto di faccia alla porta, e le voci venivano da un punto più lontano; concluse che dovevano essere a destra, dal lato in cui era il letto.

Nell’impossibilità di vedere, si mise ad ascoltare. Ecco ciò che seguiva in quella camera.

Nel momento in cui Pietro Arbues era entrato, la figlia del governatore era seduta sulla sponda del letto, colla testa appoggiata sui guanciali. Dopo il suo ingresso nella prigione, non aveva lasciato i suoi abiti; ma dopo una notte ed un giorno intiero pieni di terrori e d’angosce, cedendo finalmente ad un abbattimento insormontabile, erasi leggermente addormentata. Perciò inclinata su quel letto d’un singolare candore, sul quale i suoi abiti neri staccavano quasi in rilievo, la fanciulla aveva una grazia toccante ed inesprimibile.

L’orlo della sua veste era stato castamente ricondotto sui suoi piedini, di cui non si vedevano che le estremità. Una delle sue mani era, come il suo braccio, gettato attorno al suo personale: l’altra, posta con abbandono sui cuscini, sosteneva quella vezzosa testa pallida ed abbattuta. La sua fronte, sì pura e sì altiera, che somigliava ad un bel marmo, era in quel momento d’un bianco smontato, e solcata verso le tempie di vene turchine e trasparenti. L’ombra delle sue lunghe ciglia, che si delineava sulle pallide gote, dava pure a quel nobile volto una più profonda espressione di tristezza e di scoraggiamento. Pareva si fosse addormentata fra pensieri di morte, volgendo gli occhi sdegnosa da quel mondo di morte nel quale aveva tanto sofferto.

Nel vederla così, più bella nel suo dolore di quello che gli fosse mai sembrata nei giorni della sua prosperità, il feroce inquisitore si fermò commosso e tremante, quasi avesse temuto di commettere un sacrilegio. Una emozione inesplicabile, un rimorso, forse, fé vacillare quell’uomo indomabile, che altro padrone non conosceva fuori delle sue passioni.

Guardò attorno a sé con una specie di terrore, come per assicurarsi che non v’erano nell’aria testimoni invisibili pronti ad accusarlo.

Il più profondo silenzio regnava nella camera, ove non si udiva che la respirazione tranquilla ed uguale della fanciulla addormentata.

Pietro Arbues si sforzò a discacciare quell’importuno terrore che lo aveva assalito:

“Sono pazzo!” disse a sé medesimo.

Si assise sur una poltroncina presso al capezzale della prigioniera.

Dolores non s’era ancora svegliata.

Pietro Arbues ebbe tempo di considerarla per alcuni minuti, e di saziare l’anima sua all’aspetto di lei; ma di mano in mano che la percorreva così con occhio audace, numerando senza pudore nella sua mente i vezzi di quella casta giovinetta, le sue emozioni cangiarono di natura. A quel vago terrore, da cui s’era lasciato sorprendere, succedette uno di quegli accessi di passione frenetica, che lo immergeva in una dolorosa esaltazione. Tuttavolta, ad onta della sua incredibile audacia, e della certezza dell’impunità, non osò commettere il delitto in tutto il suo orrore. Era un segreto rimorso che il fermava? Era il timore di aggiungere un misfatto di più alla massa già enorme dei suoi delitti? Ovvero era per un raffinamento di lussuria che quest’uomo, dalle passioni sfrenate, temeva di trovar scarso piacere in una sì facile vittoria? L’anima umana è un abisso impenetrabile; perciò ci asteniamo dal risolvere la questione.

Il fatto è che quella lotta interna salvò in quel momento la figlia del governatore: Abbiamo detto ch’essa era leggerissimamente addormentata.

L’inquisitore,  immerso in un’estasi profonda, la contemplava con avidità, ma non ardiva destarla. Nel suo delirio, si piegò dolcemente verso la mano che riposava sul guanciale, e vi posò le sue labbra, che bruciavano.

A quel contatto colse un fremito in tutte le membra di Dolores, la quale alzò a metà le gravi sue palpebre, ed all’aspetto di quella cupa figura che sorgeva a lei davanti, mandò un grido di spavento, cuoprendosi il viso con le mani.

“Hai dunque paura di me?” disse Pietro Arbues con dolcezza.

“O monsignore! monsignore! perché mi perseguitate così?” esclamò la giovine con voce interrotta. Fu in quell’istante che Josè l’udì.

“Figlia mia,” rispose Pietro Arbues, ricondotto al suo posto d’inquisitore dallo spavento che inspirava, “figlia mia, il pastore cerca sempre la pecorella che si smarrisce finché l’abbia ritrovata.”

Dolores, che s’era posta a sedere sul letto, guardò l’inquisitore con diffidenza, ed un amaro sorriso sfiorò le sue labbra; poscia disse lentamente:

“Anco il lupo cerca la pecorella per divorarla.”

“Dolores!” riprese il degno scolaro di Domenico di Guzman irritato di vedere la sua  ipocrisia cadere davanti alla rettitudine ed al candore d’una fanciulla; “Dolores! Io vedo con dolore la vostr’anima accecata e pervertita dalle abominevoli dottrine della riforma. Chi ha fede in Dio, ha fede ne’suoi ministri, e voi non credete più in me.”

“Siate giusto e buono come Iddio,” rispose la coraggiosa fanciulla. “io obbedirò al servo quando seguirà i precetti del suo padrone. Ma che mi domandate, monsignore?d’adorare la mano che, per colpire, cerca sempre il posto in cui si trova un capo innocente?volete voi ch’io benedica colui il quale ha fatto di mio padre, del mio nobile padre, un cadavere vivente?”

“Povera insensata! Siete voi sì innanzi nella via della perdizione, che la verità non possa dissipare le vostre tenebre profonde? Ignorate voi che noi colpiamo il corpo caduco onde salvar l’anima immortale?”

“Ah! Monsignore, se tali sono i vostri mezzi di salvare le anime, credetemi, rinunziateci più presto, essi non sono atti che a far dubitare della giustizia divina!”

“Ecco,” proseguì l’inquisitore, “sempre questa ostinazione e questa insubordinazione alle leggi della Chiesa; conseguenze della dottrina di un monaco apostata. Non sapete, o fanciulla, che Dio stesso ha detto: -Ogni albero che non darà buon frutto sarà tagliato e gettato al fuoco, - e ha detto eziandio: -Scacciate la pecora scabbiosa dal gregge?- Ecco perché la santissima Inquisizione, per obbedire agli ordini del suo maestro, estirpa tutti i membri malvagi del cattolicesimo, la perversità dei quali minaccia d’infettare la grande famiglia cristiana.”

“Monsignore, il maestro ha detto questo; ma egli ha detto pure: -Non estirpate il loglio, aspettate il tempo della mietitura. ­Perché, dunque impiegate contro di me le persecuzioni e la violenza? Perché mi avete tolto il genitore? Che v’ha fatto per torturarlo così?”

“Ha pervertito l’anima vostra colla sua colpevole tolleranza. L’Inquisizione, volendo punirlo, ha operato secondo giustizia; poiché è per i padri che la corruzione giunge ai figliuoli.”

L’inquisitore, esprimendosi così, aveva una maestà tutto biblica; anco l’ipocrisia era grandiosa in lui. La sua parola severa, il suo gesto grave e misurato, il suo accento energico e sonoro, la giustezza apparente delle sue arguzie, avevano una gran forza d’affascinazione; ma Dolores, malgrado la sua giovinezza e la sua inesperienza, aveva un troppo retta ragione per lasciarsi convincere.

L’uso abbominevole a cui Pietro Arbues adoperava le pregevoli facoltà della sua intelligenza le inspirava un atto di dispregio, e questo sentimento leggevasi nella sua nobile fisionomia.

Inoltre essa aveva paura di trovarsi sola con lui in quella prigione, nella quale  ei comandava da re.

 Troppo altiera, e troppo candida per dissimulare le sue impressioni, essa temeva tuttavia d’irritare ulteriormente quell’uomo, dal quale dipendeva la vita di suo padre; e su quel viso severo in cui l’intolleranza aveva lasciata la sua impronta di ferro, essa cerva se fossevi rimasta qualche traccia di sensibilità; se quel feroce inquisitore, per cui la morte di un uomo non era che un giuoco, avesse ancora nel cuore qualche fibra che potesse essere tocca.

Ma il volto di Pietro Arbues non esprimeva che una durezza spietata. Soltanto la passione che lo divorava fiammeggiava da’ suoi occhi: la prigioniera abbassò lo sguardo e non osò parlare.

“Dolores!” riprese l’inquisitore con accento soave e tranquillo; “non volete dunque convertirvi?”

“Io sono cristiana di cuore e d’anima, monsignore; perché dunque mi perseguitate?”

“Oh fanciulla! Come t’inganni intorno ai miei veri sentimenti,” disse Pietro Arbues, avvicinandosi alla giovinetta, mentre serrava contro il suo corpo la sua gonnella di seta che strisciava sulla tonaca dell’inquisitore.

“Tu mi abborri dunque?” disse con dispetto.

“Grazia, monsignore! Grazia e pietà!” soggiunse essa, giungendo le mani con terrore: “rendetemi il padre, rendetemi la libertà; io ve lo chieggo nel nome del Dio che adoro, nel nome di quel gran martire che morì sulla croce per redimerci.”

“Oh! Se tu volessi!” proseguì egli, riguardandola con spassionata ammirazione.

Dolores fremé e divenne pallidissima! Si rammentava la scena che alcuni mesi prima, era accaduta nel suo oratorio; ed in quell’istante era in potere dell’inquisitore.

Josè udiva di fuori tutta quella conversazione; egli pure tremò per Dolores; ma mentre accostava il suo orecchio alla serratura per non perdere una sillaba, la porta cedé leggermente, e si avvide che non era stata chiusa. Allora si ritirò alquanto indietro perché non si aprisse maggiormente.

L’inquisitore proseguì, facendo a sé medesimo estrema violenza per restare tranquillo, mentre era divorato da tutte le fiamme della passione.

“Chi vi ha detto, figlia mia, ch’io non ho agito così con voi per ricondurvi alla vera fede, da cui vi eravate allontanata, ad usar quindi della misericordia e della indulgenza del buon pastore? Comprendete dunque che voi mi siete molto cara, e che non intendo farvi alcun male?”

Un moto quasi impercettibile delle labbra fu l’unica risposta della figlia del governatore.

“Oh Dolores!” proseguì il Domenicano, “voi non potete comprendere quanto è grave e faticosa la missione che Dio ci ha imposta di governare gli uomini e di ricondurli nel retto sentiero. Soventi volte il nostro zelo medesimo ci attira l’odio e la collera degli eretici, e la nostra ricompensa quaggiù è di portare incessantemente una croce pesante…Ma,” proseguì con accento penetrante ed ipocrita, “Iddio nella sua bontà, ci riserba talvolta delle consolazioni mai sperate. Vi sono delle anime elette, la vostra, per esempio, alle quali ci è lecito accordare non solo un’affezione spirituale, ma eziandio quella parte d’amor terrestre che, senza offendere la maestà di Dio, l’onora invece e lo glorifica nella sua creatura. Sono queste anime elette che sopra tutto ne sta a cuore di togliere all’errore, perocché sono fatte per servir di esempio alle altre, e per giungere a questo scopo, i mezzi di dolcezza, di tenerezza e di persuasione essendo i più sicuri, la nostra anima attende con ardore a questa conquista gloriosa. Ecco perché vi amo, Dolores, perché vorrei versare in voi questa profonda tenerezza dalla quale il mio cuore è compreso.”

Pietro Arbues parlava con unzione, con calore, e la semplice fanciulla, non potendo farsi idea di tanta nequizia, dubitò un momento se avesse troppo precipitato nel condannar quell’uomo.

“Sarebbe possibile,” pensò essa, “ch’egli non avesse in mira che gl’interessi della religione?”

Essa cessò di considerare l’inquisitore con diffidenza; e guardandolo coi vezzosi suoi occhi:

“Monsignore, disse con nobiltà, “io vi credo; quale interesse avreste ad ingannare una povera fanciulla che non vi ha fatto niente? Ebbene! Se pensate che io sia nell’errore, istruitemi, monsignore, io sarò docile, e non domando che la verità. Voglio praticare con amore la dottrina del nostro divin Salvatore. Se ho fuorviato riconducetemi nel buon sentiero, io vi prometto di seguirlo; ma liberate mio padre, e rendetemi alla sua tenerezza.

“Dolores!” gridò l’inquisitore trionfante, “mia bella Dolores! Io amo di vederti sì docile ed incantevole; sì, io ti renderò a tuo padre! Ti renderò alla libertà. Oh1 qual donna sarà più felice e più amata? Io riporrò in ten tutte le mie affezioni.”

Parlando così, il monaco impudico erasi alzato, il suo sguardo fisso sulla fanciulla, brillava d’uno splendore fiammeggiante.

Per un istinto di pudore messo in guardia, Dolores era discesa dal letto, ed ormai i suoi piedi toccavano il suolo.

L’inquisitore non parlava, ma il suo petto, tumido di desiderii, si sollevava mandando un soffio rumoroso e rapido; solo il nobile candore della giovinetta tratteneva ancora il torrente della sua sfrenata passione.. Seguiva in lui un feroce combattimento.

Per alcuni secondi rimase in piedi spaventato, non osando commettere un nuovo delitto. Nella sua immaginazione vide passare ed aggirarsi come in sogno tutte le sue vittime: esse erano ivi, davanti a lui, che mandavano gridi ed urli, fra cui la parola vendetta!, vendetta!,  rimbombava come un tintinnio d’una campana a martello. Bentosto la sua vista si turbò, la passione lo serrava come fra ardenti tanaglie; allora, pari ad un uomo preso da vertigine che si getta a testa bassa in una voragine, l’inquisitore distese in avanti le sue due braccia, e slanciandosi verso la giovinetta rimasta immobile:

“Ah! Lascia…” gridò con voce spaventevole…

Dolores cacciò un urlo terribile.

“Monsignore!” esclamò Josè, aprendo la porta della prigione.

Pietro Arbues, reso a se stesso da quella inaspettata apparizione, alzò fieramente la testa con un’aria cupa ed irritata:

“Che venite a far qui?”diss’egli.

“Monsignore, io veniva come Vostra Eminenza a tentare di convertire alcuni eretici.”

“Per Cristo! Siete stanco di vivere voi che attraversate così il mio cammino?”

“Monsignore non conosce lo zelo del suo più fedele servitore,” rispose il favorito, con accento ironicamente umile; “ma il servitore non ha nulla a temere da sì buon padrone, e Josè l’inquisitore non ha paura dell’Inquisizione[1].

Dolores guardava con sorpresa il giovine Domenicano; ma con un cenno ei le ingiunse di mostrare di non conoscerlo.

“Uscite!” disse imperiosamente l’inquisitore.

“Io non uscirò che con Vostra Eminenza,” rispose il favorito; “rumori di rivolta circolano nella città, parlasi di cospirazione contro la vostra vita.”

“Davvero?” riprese l’inquisitore, un poco inquieto.

“Sì, monsignore. Io vi accompagnerò dunque, poiché al bisogno questa buona lama di Toledo potria difendere Vostra Eminenza,” soggiunse mostrando un pugnale affilato che portava sotto il suo scapolare; “è un’arme eccellente, monsignore, e non tradirà mai il suo padrone!...”

E Josè accarezzava con il pollice il tagliente di quella lama lucida come specchio.

“Venite adunque, monsignore, e non temete di nulla.”

Pietro Arbues, cedendo suo malgrado alla influenza di Josè, che in quel momento detestava di tutto cuore, si avvicinò a Dolores, e le disse dolcemente:

“Spero di trovarvi domani con sentimenti più sommessi, figlia mia.”

“Oh! Io vi odio!” rispose essa, volgendo la testa con disgusto: “fatemi morire con mio padre, è la sola grazia ch’io voglio da voi!…”

Josè trascinò via l’inquisitore.

“Oh! Voglio vendicarmi di essa!…” esclamò Pietro Arbues serrando i denti con rabbia, “che farò io per sottomettere questo spirito indomabile?”

“Monsignore,” rispose il favorito, “mandatela nella camera della penitenza.”

 

 

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XXIX.

La tortura dell’acqua.

 

 

Difficil cosa sarebbe di formarsi una giusta idea della rabbia e del turbamento dell’inquisitore Pietro Arbues, vedendo le sue più segrete macchinazioni e le meglio ordite svanire per una inesplicabile fatalità.

Malgrado il suo affetto per Josè, non gli perdonava di averlo sorpreso nella prigione di Dolores. Non che immaginasse o comprendesse minimamente l’interesse che il suo favorito prendeva per quella fanciulla, poiché le persone meno accorte sono quelle abituate a servirsi dell’astuzia e della furberia, di più l’inquisitore non aveva il minimo rammarico contro Josè. Ei lo riguardava semplicemente come un ragazzo scapestrato, a volta a volta impudente col maestro, o pieno di baloccaggini incantevoli, che facevano perdonare la sua audacia; ma non gli veniva in mente che Josè, quel grazioso giovinetto, Josè, sua creatura, potesse tradirlo, e bisogna convenirlo, il giovane Domenicano gli era ancora più caro di Dolores. Questa eccitava i suoi desiderii, quegli era sempre pronto a favorire i suoi capricci, ad applaudire alle sue azioni inique, ad incoraggiarlo nel male; quando, la superba anima sua, piegando talvolta sotto il fardello di tante iniquità, ei domandava a sé medesimo, nel segreto della sua coscienza, se quello stesso Iddio, di cui profanava il nome, non serberebbe un giorno per lui vendette eterne e terribili.

Ecco perché quell’uomo, che talvolta disperava del cielo, si gettava con furore in mezzo alle gioie frenetiche della lussuria.

Si rammenti il lettore che era giorno di tortura.

L’atto-di-fede avvicinavasi. Un gran numero d’accusati doveva figurare in un scena di quel lungo e terribile dramma che durò tre secoli.

Josè, colla sua solita audacia, entrò presso l’inquisitore, mentre questi era ancor nel suo letto, stanco d’una notte di veglia.

Alla vista del suo favorito, Pietro Arbues aggrottò il sopracciglio; il giovane Domenicano non si turbò, ed avanzandosi fino al letto fastoso e reale:

“Monsignore ha qualche comando da darmi?” diss’egli con quella voce dolce e sommessa, il cui accento fascinatore era irresistibile?

“La vostra audacia è veramente grande,” disse Pietro Arbues; “dopo la scena di questa notte osate ancora presentarvi davanti a me?”

“Monsignore m’aveva ordinato di vederlo innanzi l’ora della tortura,” rispose umilmente il favorito.

“Io credeva José fedele e Josè non lo è.” Replicò l’inquisitore che non pensava ad una parola di ciò che diceva; tutta la sua collera era svanita ad un sorriso di quell’essere giovane e bello, eccentrico, che era divenuto una necessità della sua esistenza.

“Josè si è esposto al corruccio di Vostra Eminenza per vegliare alla vostra sicurezza; l’umile Domenicano raccoglie i rumori che circolano, vede venir l’uragano, e vuole scongiurarlo: ecco tutto quel di cui è colpevole, monsignore.”

“Siam noi dunque sì deboli che dobbiamo tremare dinnanzi ad alcuni ebrei e ad alcuni marrani ribellati?” replicò Pietro Arbues con altiero sembiante.

“Monsignore,” rispose il favorito, “il serpente che striscia sulla terra morde talvolta il leone, che è il re delle foreste.,Ogni piccol nemico è a temersi, e per abbatterlo sicuramente, è d’uopo dapprima di non lasciarsi assalire. La prudenza è la madre della sicurezza. Vegliamo, monsignore, non è questo il momento di addormentarsi fra i piaceri della terra, il nemico è vicino, prepariamoci a combatterlo.

Pietro Arbues, come tutte le anime ardenti ed appassionate, aveva un lieve tendenza alla superstizione; malattia, del resto comunissima, nel tempo in cui vivea. L’accento profondo di Josè, e la sua ria di convinzione produsser sull’inquisitore l’effetto che il favorito attendevasi. Fra le mani di quel fanciullo, il feroce Arbues diveniva una molle cera.

“Dolores Argoso sarà dunque la sola donna che mi avrà resistito?” riprese bentosto con dispetto, assediato com’era da questo pensiero.

“Dolores Argoso non è una donna come le altre, monsignore; essa comprende che abbandonarsi corpo ed anima per salvare coloro che si amano non è salvarli, e che è meglio morire con essi che sopravviver loro.”

Ciò fu detto con tale accento d’amarezza che colpì vivamente l’inquisitore, e si scosse involontariamente, come se fosse stato commosso da una terribile rimembranza.

Josè lo squadrava con uno sguardo profondo; sembrava assaporare con delizia le torture di quell’anima che dominava a suo bell’agio.

“Sono con voi, Josè,” disse tutto ad un tratto Pietro Arbues, quasi rianimato da una subitanea risoluzione…”Orsù,” soggiunse, “non bisogna far languire i tormentatori, questi bravi ausiliarii… Quanti sono alla tortura d’oggi?”

E come se avesse voluto soffocare le sue angosce e la sua rabbia nelle orribili voluttà della tortura, si mise a contare ad alta voce le vittime che passavano sotto i suoi occhi.Questa tigre lanciata nel circo, pascevasi già dei dolori della preda che doveva divorare.

Alcuni minuti dopo era in piedi.

“Vieni, figlio mio,” disse a Josè: “lo zelo nostro per la causa del cielo ne consoli degl’inganni della terra, e ci meriti la protezione di Dio!”

Quando giunsero alla prigione, i corritoi erano pieni; i due tormentatori, vestiti della loro lugubre assisa, frustavano, cacciandoli innanzi, sei prigionieri, fra i quali erano tre donne. Una di esse, giovane, grande e bella, quantunque sfigurata dalle sofferenze del carcere, portava fra due file di denti bianchissimi un bavaglio che le vietava di gridare. Quegl’infelici erano nudi fino alla cintola, le donne siccome gli uomini; le loro spalle, contuse dalla frusta, erano coperte di lividure turchine, e ad onta di questo spaventevole supplizio, niuno di essi proferiva il più leggiero lamento.

L’inquisitore passò avanti ad essi senza sembrare commosso; Josè solo fremeva internamente d’una dolorosa pietà.

La donna avente lo sbavaglio era l’ultima. Giunta in faccia a Pietro Arbues, lo guardò fisso, e non potendo parlare, i suoi occhi neri, fatti più grandi dal pallore e dallo smagrimento del volto, i suoi occhi pieni d’odio, di disperazione e di vendetta, si fermarono su quelli dell’inquisitore, come per dirgli:

-Non mi riconosci?-

Pietro Arbues l’aveva infatti riconosciuta, malgrado lo spaventevole mangiamento dei suoi tratti.

“Francesca!” mormorò, abbassando gli occhi davanti a quello sguardo fulminante.

La badessa delle Carmelitane non poteva parlare, alzò gli occhi verso il cielo come per citare il suo carnefice al tribunale del gran giudice.

L’inquisitore passò, ed i carnefici proseguirono il loro crudele ufficio.

Pietro Arbues ed il suo favorito erano per vedere uno spettacolo ben altrimenti eccitante e più fertile in sensazioni della miserabile cerimonia della frusta[2].

Quando furono scesi nella camera del tormento, i birri condussero una giovane e bella donna, d’un pallore spaventevole, sì debole e malata, che aveva appena la forza di sostenersi, il suo occhio oscuro ed estinto, di angelica dolcezza, sembrava implorar grazia. Quando fu in presenza dell’inquisitore, fece uno sforzo per giungere le sue deboli e bianchissime mani.

“Il figlio mio!” mormorò con voce che appena si udiva.

“Figliuola,” disse l’inquisitore, sempre con quell’accento melato ch’ei sapeva assumere, “la vostra sorella è luterana, e venite accusata di averla incoraggiata nella sua apostasia.”

“E’ falso! È falso” rispose la sventurata con tutta l’energia che le lasciava il suo stato di deperimento e di debolezza.

“Non avete nulla da dire per appoggiare questa negativa?”

“Mio figlio! Rendetemi il figlio!” ripeteva quella sventurata con accento lacerante.

Questo figlio, ch’ella reclamava con tanta angoscia, aveva appena otto giorni; poiché quella povera madre, imprigionata mentre ancor lo portava nel seno, era stata sottoposta alla tortura, quasi subito dopo il parto, come lo attestavano i suoi polsi contusi.

Ma sotto il peso di un’accusa sì grave come quella di avere incoraggiata la sorella che aveva abbracciato apertamente il luteranismo ed era passata in Alemagna, usare potevasi soverchio rigore…

Né le sue lagrime, né le sue suppliche, sì pietose che avrebbero intenerito una rupe, commossero lo spietato Arbues; Josè solo nascondeva sotto la sua esterna impassibilità una emozione terribile e profonda. Il suo cuore tremava, oppresso da intensa pietà. Gli abbisognò tutta la forza che gli avevano data lunghi anni di dissimulazione per non prorompere in singhiozzi ed imprecazioni.

Arbues, al contrario, come se il dolore e le lacrime dovessero essere il suo eterno alimento, geloso inoltre di dimostrare il suo zelo per la fede cattolica perseguitando fuor di modo il luteranismo, che sapeva essere lo spauracchi di Carlo V, Arbues fece un cenno, bentosto i tormentatori afferrarono la loro vittima.

Non avevano bisogno d’ordine per sapere quello che dovevano fare: era la seconda volta ch’essa subiva la tortura.

Due uomini vigorosi e robusti portarono un cavalletto nel mezzo della camera.

Quest’orribile strumento di legno, fatto a forma di truogolo, largo abbastanza da contenere il corpo di un uomo, non aveva altro fondo che un bastone sul quale il corpo si curvava per effetto d’un meccanismo, dimanieraché il paziente aveva la testa più bassa dei piedi.

I tormentatori alzarono la povera donna mezza morta, poscia le legarono le membra con corde di canapa.

La vittima li lasciò fare senza mettere un grido. Ma l’inquisitore essendosi avvicinato ad essa per esortarla nuovamente a confessare il delitto di cui veniva accusata, l’infelice protestò di nuovo la sua innocenza.

“Impenitente! Impenitente!” esclamò il grande inquisitore, con sembiante triste e desolato.

A tali parole, due uomini robusti girarono con forza un randello di legno che, serrando le corde colle quali la vittima era legata, la strinsero con tanta violenza che il sangue spruzzò fin sui carnefici. La sventurata mandò un grido d’agonia, debole, ma lacerante; sarebbesi detto che tutta la sua forza di soffrire fosse espressa in quel grido.

I tormentatori asciugarono freddamente col rovesci dell loro larga manica nera il sangue di cui era macchiata la loro cappa.

Pietro Arbues si avvicinò nuovamente.

“Confessate, sorella mia,” le disse con voce carezzante.

La povera donna, che non aveva più forza di parlare, fece colla testa un segno negativo.

Nella posizione in cui era stata posta, essa poteva appena respirare.

“Impenitente!” ripeté l’inquisitore.

I tormentatori posero allora sul volto della paziente un finissimo pannolino inzuppato d’acqua, una parte del quale fu introdotto nella sua gola; l’altra copriva le narici, poscia versarono lentamente dell’acqua nella bocca e nel naso.

L’acqua infiltratasi a goccia a goccia a traverso il pannolino bagnato, ed a misura che s’insinuava nella gola e nelle fosse nasali, la vittima, la respirazione della quale diveniva sempre più difficile, faceva sforzi inauditi per inghiottire dell’acqua ed aspirare un poco d’aria; ma ad ogni suo sforzo, che necessariamente imprimeva a tutto il suo corpo una dolorosa convulsione, i tormentatori giravano il randello, e la corda penetrava fino ai nervi.

Era uno spettacolo orribile.

Josè col volto coperto dalle sue mani, nell’attitudine di una profonda meditazione, asciugava colle sue dita lacrime amare. Il suo cuore palpitava con violenza, e quando talvolta alzava la testa, le sue gote, all’incerta luce delle torce che rischiaravano quel pandemoni, sembravano avere il livido pallore della morte.

Pel corso di quasi mezz’ora i tormentatori versarono così dell’acqua, a goccia a goccia, nella gola della paziente, rianimandola di tanto in tanto collo stringere più fortemente le corde attorno alle sue membra.

Ad ogni nuovo giro di randello, quella misera creatura mandava un grido più debole, un grido di inesprimibile agonia, nel quale si esalava ciascuna volta una parte dell’anima sua.

Finalmente quel grido divenne sì debole, che il medico dell’inquisizione, il quale assisteva d’ordinario a quelle lugubri tragedie, si avvicinò alla paziente, pose le dita sul suo polso, e volgendosi verso il grande inquisitore:

“Monsignore,” gli disse, questa donna non può soffrire ulteriormente senza morire[3].

“Si sciolga,” disse Pietro Arbues, “la tortura è sospesa fino a nuov’ordine[4].”

I tormentatori tolsero subito il pannolino che copriva il viso della torturata; ma quando ebbero sciolti ad uno ad uno i legami che circondavano le sue fragili membra, si avvidero che quelle membra erano state tagliate fino all’osso, tanto le corde erano entrate innanzi nelle carni.

Josè allora si avanzò colpito da inesprimibile orrore, e dopo aver considerato il viso della vittima:

“Monsignore,” disse, “la tortura è finita: questa donna è morta.”

“Credete?” domandò l’inquisitore.

Nello stesso tempo i tormentatori avendola sollevata, ed il suo corpo riprendendo la sua posizione verticale, quella infelice fu presa da un singhiozzo convulso, e un torrente di nero sangue uscì dalla sua bocca; quindi senza aprire gli occhi, mormorò a bassa voce un’ultima volta questa parola, quasi non intelligibile:

“Il figlio!…”

E trasse l’ultimo respiro: e la sua vaga testa pallida e scarmigliata, cadde sul braccio d’uno dei suoi carnefici.

“Iddio abbia misericordia di lei!” mormorò Pietro Arbues.

“Monsignore, se questa donna fosse innocente?” disse piano Josè.

“In questo caso, essa è in cielo,” rispose il grande inquisitore; “perché deplorar la sua morte?[5]

Due birri portarono via il cadavere, ed una nuova vittima comparve davanti a Sua Eminenza.

Era questa un vecchia e degna donna, la cui testa era incanutita nell’esercizio della più sublime carità. Si chiamava Maria di Borgogna, soprannominata la madre dei poveri[6], arrestata il giorno della sommossa sulla deposizione comprata da uno schiavo, il quale pretendeva di averla udita dire:

“I Cristiani non hanno né fede né legge.”

Maria aveva allora novant’anni, e quantunque il Consiglio della Suprema proibisse espressamente di applicare la tortura a persone avanzate di età[7], la coraggiosa vecchia aveva già subito la tortura della corda e quella dell’acqua. Pareva che un forza divina sostenesse quel corpo fragile e debole che non aveva più che alcuni giorni da vivere.

I suoi immensi averi avevano tentato il fisco, e non sapendosi di che accusarla, era stata arrestata come giudaizzante.

“Sorella,” le disse il grande inquisitore, sempre con mansuetudine evangelica, “volete finalmente confessare il vostro delitto ed ottenere il perdono?”

“Io sono innocente!” rispose altiera la madre dei poveri; “avvenga di me quello che Dio vorrà.”

“O santa religione di Gesù crocifisso!” esclamò il Domenicano, “non giungeremo dunque mai a farti trionfare sulla terra?”

“Orsù,” disse ai tormentatori, mostrando un braciere ardente, che illuminava il canto più oscuro della grotta.

“Pietro Arbues!” gridò la vecchia, con un accento inspirato, “tu sei maledetto da Colui che discese sulla terra per benedire!”

“E’ un’ebrea! È un’ebrea!” dissero i birri ed i tormentatori, segnandosi spaventati.

Così parlando, strapparono ad uno ad uno gli abiti della vecchia.

Quando fu quasi tutta nuda, vollero alzarla nelle loro braccia; ma essa li respinse con un gesto pieno di dignità. “Io camminerò,” disse; “dove bisogna andare?”

I tormentatori accennarono colla mano il largo braciere che ardeva nell’ombra all’estremità della camera del tormento.

Maria si diresse con passo fermo da quel lato, e considerò senza impallidire quella voragine di fuoco che sembrava innalzare nell’oscurità le sue mille lingue di fiamma, quasi fosse stata avida della preda che le era destinata.

I tormentatori distesero la paziente sur una panca di legno, a lato del braciere, e ve la legarono fortemente con delle corde, di maniera che le era impossibile fare il minimo movimento.

Maria si lasciò legare senza resistenza. Allora, imprimendo alla panca un movimento di rotazione, la situarono in modo che una delle estremità, quella in cui riposavano i piedi della paziente, toccava quasi i carboni ardenti.

Alla prima azione del fuoco, Maria di Borgogna  mandò un gran sospiro, sola espressione di dolore che attestasse le sue sofferenze.

“Abbiamo dimenticato qualche cosa,” disse tutto ad un tratto uno dei carnefici, vedendo i piedi della vittima divenire eccessivamente rossi, poscia divenir bianchi, come pergamena che arde.

“E’ vero,” disse l’altro, “non ci aveva pensato.”

Andò a prendere in un canto un piccol vaso di terra pieno d’olio, e per mezzo d’una spugna attaccata in cima ad un bastone, ne bagnò i piedi della paziente.

L’azione del fuoco, eccitata dalla presenza di quel corpo grasso, divenne in pochi minuti sì penetrante, che la pelle screpolò, le carni si contrassero, e ritirandosi, lasciarono allo scoperto i nervi, i tendini e le ossa.

L’Inquisizione era dotata d’un abbominevole genio d’invenzione. A questo incredibile supplizio Maria oppose una fermezza eroica, e quando il dolore, divenendo intollerabile, le strappava un involontario lamento, essa gridava come Cristo agonizzante:

“Mio Dio! Perdonate loro perché eglino non sanno quello che fanno.”

Sì, senza dubbio: l’Inquisizione aveva degli strumenti ciechi, fanatici, e per ciò scusabili, i quali non sapevano quello che facevano. Quale corporazione religiosa e segreta non ne ha? Perciò non sono essi che vengono accusati, ma coloro nei quali risiede li spirito della cosa, ma coloro che comandano, e prostituiscono una religione santa al servigio delle più malvagie passioni. Gli altri non sono che strumenti passivi della società, inabili a prender parte agli avvenimenti e alle loro conseguenze, ripari preservatori dietro i quali si ricoverano i capi durante la battaglia.

La religiosa esclamazione di Maria era quella di una martire cristiana, e non d’un’ebrea. Tuttavia il supplizio fu prolungato per tanto tempo quanto lo permisero le sue deboli forze.

Quando fu trasportata nel suo carcere, quella coraggiosa e santa cristiana ebbe ancor forza di dire a Pietro:

“Vi perdoni il nostro Signore, come io vi ho perdonato!…”

La deposizione d’un solo testimone aveva fatto condannare Maria di Borgogna, e questo testimone era uno schiavo; ma Maria era troppo ricca per trovare grazia davanti al Sant’Uffizio.

Josè abbattuto dalle emozioni, poteva appena sostenersi, si chinò leggermente all’orecchi di Pietro Arbues:

“Monsignore,” gli disse, “io mi sento male; l’odore del carbone mi dà la vertigine, ed il cuore mi vien meno come s’io fossi vicino a morire.”

“Bisogna che tu ti abitui a questo,” replicò Pietro Arbues; “Ancora un’altra tortura e tutto è finito.”

Terminava queste parole, ed i birri entrarono nella camera del tormento.

“Monsignore!…” dissero essi esitando.

“Ebbene!…che c’è, parlate.”

“Monsignore, la prigioniera è morta.”

“Morta!” ripeté Pietro Arbues.

“Si è tagliata la gola con un paro di cesoie.”

“Perché gliele avete lasciate?”

poscia quel monaco ipocrita aggiunse con accento di desolazione: “impenitente! Morta impenitente!…”

Questa prigioniera che si chiamava Giovanna Sanchez, apparteneva a quell’ordine, a metà laico e a metà religioso, di donne indicate col nome di devote; essa aveva abbracciato il luteranismo, ed era morta senza rinunziarvi.

“Ogni preghiera per la defunta sarebbe inutile,” proseguì l’inquisitore, alzandosi; “la sua anima appartiene al demonio.”

Così terminò quella seduta.

Pietro Arbues ed il suo favorito uscirono dal palazzo dell’Inquisizione.

“Oh!” disse Josè, aspirando con forza l’aria pura esteriore, e soffregandosi colle mani la fronte come un uomo che si sveglia.

“Tu sei più delicato d’una donna,” disse Pietro Arbues con accento dolce.

“No, monsignore; io ho il coraggio d’un uomo, credetemi,” rispose il giovane monaco con accento serio.

“Ti vedremo alla prova,” proseguì l’inquisitore.

“Oh! Lo vedremo quando il tempo sarà giunto, monsignore, statene certo!…”

 

 

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XXX.

La camera di penitenza.

 

I consigli di Josè non erano andati perduti. Una sera, otto giorni più tardi, in una delle torricelle che formavano i quattro angoli del palazzo dell’Inquisizione, la figlia del governatore era sola, inginocchiata.

Uno gabellino di legno di forma rotonda era posto al suo lato; su di esso appoggiava uno de’suoi gomiti, e colla sua pallida mano sosteneva la sua debole testa.

La cella in cui si trovava Dolores non aveva più di dieci piedi di diametro. Era perfettamente rotonda, ed il parco a vòlta, e le mura, non offrivano allo sguardo che una superficie unita e bianca. Una piccola apertura praticata nella parte più alta della vòlta, vi lascia giungere solamente una luce piena e netta, che non potendo dividersi in alcun spigolo, non produceva la minima penombra, in cui l’occhio, stanco di quello splendore monotono, potesse riposarsi.

Dolores, oppressa dalla noia, dal disgusto e dalla stanchezza, affaticata eziandio dall’unico sedile che le era stato lasciato, erasi inginocchiata sul suolo, procurando così di vincere con un mangiamento di posizione fisica, la cupa disperazione in cui la precipitava l’eterna monotonia di quel soggiorno spaventevole.

Abbattuta da prove incessanti, quella povera fanciulla, sì giovane e pertanto sì forte, domandava a Dio il coraggio di non soccombere. L’amore, quel santo alimento dell’anima, la sosteneva ancora colla sua sublime energia. L’amore di cui non aveva che intravedute le ineffabili delizie, le ispirava il desiderio di vivere ancora per gustare quelle gioie infinite, speranza di colui che soffre e che ama, tesoro divino che il cielo comparte sulla terra a coloro ch’egli destina possederlo un giorno in tutta la sua pienezza.

Nel cuore di quella coraggiosa fanciulla, il suo amore per Estevan non si separava dalle tenerezza per suo padre. Estevan non era il figlio adottivo di Manuel Argoso?

E siccome coloro che amano non disperano mai intieramente, le pareva, fino a che Estevan fosse in vita, tutto non esser perduto per essa.

La notte la sorprese in quelle meditazioni tenere e dolorose.

A poco a poco la luce verticale che piombava attorno ad essa i raggi diretti, si estinse dolcemente, come lampada cui l’olio venisse meno; il crepuscolo venne per gradi, e la vista ormai stanca della prigioniera ne rimase sollevata.

Finalmente venne la notte, e Dolores non distinse più neppure i contorni della sua cella.

“Oh! Qual felicità” esclamò alzandosi, “non veder più quel muro tutto bianco, eternamente bianco! Quel muro circolare ed uniforme che mi rende cieca!”

Mentre terminava queste parole, una luce viva penetrò nella cella, e gli occhi della fanciulla, nuovamente abbagliati, si richiusero involontariamente.

“Son io, non abbiate paura,” disse una voce amica.

Dolores aprì gli occhi: era Josè.

“Oh, grazie!” ella disse, gettandosi piangente sul seno del monaco; “grazie, mio buon Josè, d’esser venuto.”

“Non ho potuto venir più presto,” rispose il fraticello, “temeva di svegliare i sospetti dell’inquisitore.”

“Oh!” gridò Dolores, con un gesto d’orrore, “come potete voi servire quest’uomo?”

“E’ forza!” rispose Josè con accento profondo e convinto.

“Sì, comprendo,” rispose la fanciulla, dopo alcuni momenti di riflessione; bisogna, infatti, che una potente fatalità vi leghi al destino di Pietro Arbues; voi sì buono, sì nobile, sì generoso avreste senza ciò acconsentito a divenire, anco in apparenza, il complice di questo mostro?”

“Voi lo credete, non è vero, Dolores?” disse il favorito con amaro sorriso.

“Oh! Sì, senza dubbio, bisogna che sia così; bisogna che abbiate motivi ben grandi, o che una orribile sventura abbia presieduto alla vostra vita. Così quando io penso a voi, don Josè, a voi che portate con tanto coraggio questa croce pesante, io mi trovo ben piccola e miserabile: poiché vedete, bisogna confessarlo, io soccombo talvolta alle sventure che mi opprimono e mi sembra che la ragione m’abbandoni. La prigionia mi uccide, e questa è forse una giusta punizione del mio orgoglio, che faceva credermi capace di resistere a tutto.

“Povera fanciulla!” disse Josè, gettando attorno a sé un tristo sguardo.

“Sì, don Josè, questo luogo mi uccide; aver sì poc’aria per vivere! Non poter fare tre passi senza urtare una insormontabile barriera e poi vedermi sempre intorno questo muro bianco ed unito… Aver la vertigine come uno che si facesse volteggiare per l’aere sur un’altalena incantata… Chiuder gli occhi e non veder più, e girare, girare ancor col pensiero, sentire il pavimento che fugge sotto i passi come in un sogno, e lanciata nel vuoto, non avere  un angolo dove appoggiarsi… Voler dormire e udire incessantemente all’orecchio uno spaventevole rumore che mi tien desta, chiamar la notte come gli altri chiamano la luce, e temere, infine, il sorgere del sole, la cui luce rinnovella ogni mattino questo interminabile supplizio… Oh! È cosa da divenir pazza, don Josè…e vedete, vedete,” proseguì essa con una spaventevole volubilità, “hanno paura che io non soffra ancora abbastanza, che io possa riposare un istante il mio capo ardente ed abbattuto, quando il giorno è comparso, si porta via il mio letto, e non mi vien reso che alla sera.”

L’espressione animata del volto di Dolores, la sua estrema agitazione, spaventarono il monaco. Bisognava, infatti, che il soggiorno di quella cella avesse qualche cosa di terribile, per condurre a tal grado d’esaltazione quella fanciulla, per ordinario sì dolce e sì rassegnata. José si pentì vivamente di aver consigliato l’inquisitore a rinchiuderla in quel tristo luogo, benché, facendo ciò, non avesse avuta altra intenzione che quella di rendere più facile la evasione di Dolores, per la posizione delle torricelle le quali erano più prossime alla strada, ed avevano inoltre alcune uscite particolari e meno praticate. Non potendovi riparare, tentò di consolare la povera prigioniera con parole d’incoraggiamento e di speranza.

“Tornerò a vedervi più spesso che potrò,” le disse; “tutto questo avrà un termine. Frattanto richiamate tutte le forze della vostra ragione, ed aspettate con coraggio; Dio non vi abbandonerà.”

“Oimé1 non è il coraggio che mi manca,” rispose, “io resisto ogni giorno con tutta la forza della mia volontà contro l’influenza malefica di questa abominevole cella, la quale agisce sì vivamente e sì fatalmente sulle facoltà della mia mente. Talvolta, la sera,dopo aver lottato tutto il giorno contro allucinazioni innumerevoli, alquanto calmate dalla notte che riposa la mia vista, i prendo a riflettere seriamente sulla mia posizione, e dico in conclusione che la fine probabile di tutto questo sarà la tortura ed una condanna a morte.”

“No,” disse Josè, “non lo credete.”

“Oh! Mi sono già abituata a questa idea,” replicò essa nuovamente; “e sono ben determinata a sopportar tutto con coraggio, piuttosto che mostrarmi vile e rinnegare per timore della morte la pura fede del vangelo, che è pure la mia; piuttosto che rinunziare di morire fidanzata al mio nobile Estevan. Ma prima, vedete (e questo lo farò per il bene della mia patria, di questa sciagurata Spagna, della quale si è smunto talmente le vene, che non ha neppure la forza di protestare contro i suoi oppressori), ebbene!, io povera donna, protesterò; quando comparirò davanti a questo iniquo inquisitore di Siviglia, che si pasce del disonore delle femmine e della rovina delle famiglie, gli getterò pubblicamente in faccia la sua infamia, e vedremo poi se il sangue d’una vittima coraggiosa sarà infecondo per la libertà della Spagna.”

“Santa e coraggiosa donna!” disse Josè; “non vi lasceranno neppure quest’ultima risorsa. La vostra causa non sarà mai chiamata in giudizio, e voi morrete nelle carceri dell’Inquisizione, come Francesca di Lerma, che vi entrava la notte in cui vedeste vostro padre!”

“Oh mio Dio, mio Dio!” esclamò la fanciulla con un grido d’orrore: “è possibile che io così sia seppellita viva? Che mi dite Josè, ma ciò è impossibile: vedete bene che la giustizia vi si oppone. Che mi condannino passi; innocente o no, vi sarà stato sempre agli occhi del mondo un atto giuridico per la quiete di coscienza de’ miei giudici. Ma coll’atto arbitrario più odioso si attenti eternamente alla mia libertà, che mi si faccia morire lentamente di disperazione…oh!, ciò non sarà, don Josè, ciò non è possibile, e voi calunniate l’Inquisizione.”

“Francesca di Lerma era la favorita di Pietro Arbues,” rispose freddamente il giovane monaco; “ e siccome Francesca ha voluto convertirsi, Pietro Arbues l’ha fatta rinchiudere nel Sant’Uffizio.”

“L badessa delle Carmelitane!…di che si accusa?”

“I capi d’accusa non mancano alle ingegnose invenzioni del Sant’Uffizio; ma siccome un processo potrebbe compromettere l’inquisitore, non si farà processo; Francesca morrà senz’essere stata giudicata. Credetemi, Dolores, io non calunnio.

“Oh! È orribile, don Josè! e come il nostro re Carlo V, che si dice sì grande, può soffrire simili abusi?”

“L’Inquisizione è più forte del re,” rispose il Domenicano; “la forza concentrata in uno solo si rompe contro la forza di molti riuniti insieme. Tuttavia il nostro re è giusto, e se potesse conoscere tutti gli abusi che si commettono, non v’ha dubbio che cercherebbe di reprimerli. Egli ignora questi abusi; e poi lo sapete che gl’inquisitori, i quali hanno il diritto di accusare e di giudicare i principi ed i re, non sono essi stessi soggetti che al giudizio del sommo pontefice?”

“Bene,” disse la figlia del governatore, con un abbattimento impossibile a dipingersi, “vedo che non posso far altro che rassegnarmi!”

“Io non ho detto questo,” replicò vivamente Josè, “dovesse costarmi la vita, io vi renderò la libertà, Dolores; ma il momento non è ancor venuto. Estevan e Giovanni d’Avila sono a Madrid.”

“Lo so, don Josè; so tutto quello ch’essi han fatto per me.”

“Forse otterranno dal re la grazia di vostro padre.”

“La sua grazia, dite? Ma qual grazia può accordare il re ad un uomo condannato dall’inquisizione? Non mi avete detto che egli non può nulla?”

“L’Inquisizione affine di piacere al re, allenta talora la sua abituale severità,” rispose Josè. “Solamente si accorda al sovrano della Spagna, al grande imperatore Carlo V, il diritto di supplica[8].

“O mio Dio!” disse la figlia del governatore.

“Quando io era ancora bambina, e scherzava sulle ginocchia di mio padre, se udiva pronunziare il nome del re, questo nome mi sembrava raggiare come aureola, e mi figurava un essere bello, potente e magnanimo che con una parola potesse cangiare i tuguri in palagi, le lacrime del popolo in grida di gioia, e che seminasse in tutto il suo passaggio la prosperità, la felicità e la speranza. Re! Imperatore! Queste due parole magiche non sono adunque che un ingannevole simbolo di cui si riveste un uomo mortale e fragile come noi, e cento volte più disgraziato; perché oltre alla schiavitù delle proprie passioni, egli è soggetto a tutte le cose ed a tutti gli uomini che per una influenza qualunque possono attenuare la sua possanza, od attaccare la sua autorità. E questo si chiama regnare, mio Dio! E a che cosa serve l’udirvi chiamare: Sire, ed il veder piegar le ginocchia a voi dinanzi, se non vi rimane neppure il diritto di far giustizia?”

“Giustizia” nome vuoto e sonoro,” mormorò Josè, “questa parola non è che una maschera, Dolores, come molte altre parole d’uso frequente ed abituale. Per me, che m’importa? Che mi cale dei mille nonnulla sì gravi di cui si alimenta la vita religiosa e politica degli uomini, e che si riflettono fino nel domestico focolare? Che mi cale delle lotte di un dogma contro un altro dogma, delle suscettibilità di una setta, dell’orgoglio insensato di un’altra, delle crudeltà di coloro che rimangono vittoriosi? La mia strada è tracciata quaggiù, e per giungere allo scopo, io non debbo insozzarmi in questo fango sanguinolento, sollevato dai piedi di coloro che combattono; io non debbo che passare in mezzo ad essi senza rivolgermi, sicuro di non essere mai attaccato; poiché,” soggiunse accennando alla sua tonaca, “io porto una corazza sulla quale si spuntano tutte le spada.”

Nell’udirlo parlar così, Dolores guardava fisso in volto il giovane Domenicano. Essa credeva di comprendere quel singolare miscuglio di amarezza e di sensibilità, di scetticismo e di confidenza che facevano di lui un essere distinto dagli altri. Josè mostrava ad un tempo ne’ suoi discorsi l’energia dell’uomo più forte, e la sensibilità della più tenera donna. La sua anima, come il suo corpo offriva un seducente insieme delle qualità più opposte vedendo ed ascoltando Josè, si poneva in dimenticanza essere egli monaco ed ufficiale dell’Inquisizione; non si considerava in lui che un essere giovane, seducente, irresistibile, sia che il suo volto, pallido e bello, portasse l’impronta di un dolore profondo, sia che il suo occhio puro e brillante, rischiarato da una luce soave, esprimesse con energia la tenerezza appassionata di quell’anima misteriosa, instabile come i flutti del mare. Aveva un dono che pochi posseggono, la fascinazione.

Fors’anco colui solo il quale ha lottato contro tutte le avversità acquista quella mobilità di fisionomia, quell’abbandono di maniere, quella facilità di linguaggio, ma soprattutto quella mestizia appassionata che attrae irresistibilmente tutte le simpatie, tanto il cuore è naturalmente inchinevole verso ciò che è straordinario. Forse anco quel potere attrattivo di certi individui è un mistero fisiologico che sfugge all’analisi… Si definisce, e vero, colla parola – magnetismo, -ma ci si spieghi che cosa sia il magnetismo.chi lo comprende?

A noi sembra che, per trovarne la causa razionale, bisognerebbe rimontare fino a Dio.

Nell’epoca in cui avevano luogo questi avvenimenti, la parola magnetismo non esisteva. Si trovava più semplice il chiamare magia tutto ciò che non cadeva sotto la mediazione immediata dei sensi esterni. Gli uomini di quei tempi erano molto più spiritualisti di quelli dei nostri giorni: non attribuivano alla materia i prodigi che l’intelligenza superiore reggitrice del mondo prodiga contro di noi. Avevano  spinto le cose un poco troppo, è vero; perché non solo credevano ad uno spirito benefico ed eterno, ma conoscevano eziandio l’influenza dello spirito delle tenebre sull’uomo; e quando un individuo, fornito d’una ragione superiore o d’un gran genio, sorgeva nel mezzo a quegli uomini ignoranti e limitati, non potendo comprenderlo, lo chiamavano stregone perché lo credevano inspirato e servito dal demonio. Talvolta questa superstizione popolare secondò a meraviglia l’ambizione e la politica degl’inquisitori, i quali temevano tutti coloro la cui scienza o filantropia poteva illuminare i popoli. Per questa cagione san Giovanni di Dio, l’illustre fondatore dell’Ordine degli Ospitalieri, che abbiamo già veduto figurare in questi libro, fu alcuni anni più tardi accusato di negromanzia dal tribunale dell’Inquisizione, ed obbligato a ricorrere al papa per ottenere la sua libertà[9].

Ma in tutti i tempi gli spiriti retti si fan superiori a queste superstizioni puerili.

La simpatia che traeva Dolores verso Josè, aveva qualche cosa di dolce e di consonante, esente d’ogni soggezione, somiglievole all’amicizia di una donna per un’altra. Josè perdeva presso di lei l’austerità e la gravitò del monaco; Dolores, la risolutezza un poco imbarazzante che inspira ad una fanciulla un uomo vestito d’abito di prete. Ne risultava per ambedue un incanto inesprimibile.

“Mio buon Josè,” gli disse la figlia del governatore, vedendolo divenir mesto e pensieroso, “mi affliggete parlando di voi; questo argomento vi è penoso e non vi tornate mai senza che vi lasci una ineffabile tristezza.”

“V’ingannate, cara Dolores; non è tristezza: perché mai dovrò affliggermi? Io ve l’ho detto, il mio sentiero è già segnato, ubbidisco ad una fatalità implacabile, di che dunque volete ch’io m’inquieti?”

“Josè, voi mi fate paura; questi sentimenti non sono cristiani.”

“Non parliamo di me,” rispose il giovane Domenicano, “ pensiamo a voi, Dolores, a voi sola; quivi è la volontà di Dio, io sono lo strumento di cui si servirà per liberarvi, sono una vittima di espiazione. Quando la mia missione sarà compiuta, potrò volgere a Dio le mani piene delle benedizioni dei miei fratelli ed allora se ho peccato, non avrò il diritto di gridare a lui: Grazia! Grazia! Poiché io pure sono stato martire, ed il martirio è un battesimo che lava ogni sozzura?”

Parlando così Josè erasi animato, ed una cupa esaltazione infiammava il suo bel viso; era, meno l’acconciamento, la bella testa di Giuditta.

Dolores, assisa per terra colle mani giunte sulle ginocchia, l’ascoltava in silenzio; e mentre i suoi grandi occhi umidi seguivano con uno sguardo atterrito i moti della fisionomia di Josè, lagrime silenziose scorrevano lungo le sue gote.

Essa prese la mano del monaco, quella mano bianca, fine, elegante, di una distinzione notevole, e la strinse affettuosamente: “Josè,” gli disse, “mio buon Josè! che avete?”

“Nulla,” rispose, richiamato a sé da tali parole, “penso alla mia missione sulla terra: sollevare coloro che soffrono. Ecco tutto.”

“Estevan tornerà presto?” domandò la fanciulla cercando di togliere il fraticello alla sua triste preoccupazione parlandogli di sè medesima.

“Avanti otto giorni forse,” rispose Josè, “io saprò subito del suo arrivo, ed avrò certamente delle buone notizie da comunicarvi. Spero molto nell’influenza di Giovanni d’Avila presso il re.”

Qui cade in acconcio di spiegare come Josè aveva conosciuto il viaggio d’Estevan e dell’Apostolo. Si ricordi il lettore che nel loro ultimo abboccamento nella cosuccia moresca, Josè aveva raccomandato a Gioachino di sorvegliare i passi d’Estevan e di rendergliene conto. Dal taverniere adunque della Buona Ventura veniva istruito Josè; lo stesso Gioachino era stato incaricato da Giovanni d’Avila di comunicare la loro partenza a Dolores per rassicurarla. Disgraziatamente, nel desiderio di salvare suo padre, non aveva avuto la pazienza d’aspettare: e la sua imprudenza l’aveva fatta cadere nelle mani del Santo Uffizio.

“Bisogna lasciarci,” disse finalmente Josè, vedendo la prigioniera alquanto rassicurata: “siamo prudenti a fine di rimaner forti.”

“Oh! Non ancora,” esclamò essa, attaccandosi agli abiti del giovane Domenicano; “non ancora, don Josè; vedete bene che io ricado nei miei orribili spaventi, che torno ad impazzare…”

Quelle parole – bisogna lasciarci – l’avevano in un subito ricondotta al sentimento amaro della sua solitudine. I suoi nervi, un istante calmati dalle consolazioni dell’amicizia, subirono una dolorosa reazione. La sua immaginazione si ripopolò di spettri e di fantasmi; tristi effetti d’una prigionia sì crudelmente combinata che faceva soffrire tutti i sensi ad un tempo, agendo singolarmente in una maniera terribile sulla sede di tutte le sensazioni, il cervello.

“Josè, Josè, non mi lasciate!” gli diceva la fanciulla con voce soffocata, “vedete bene che qui io morirò. Oh! Conducetemi, conducetemi con voi: mettetemi in una prigione, se volete; ma non qui, non qui!…”

E smarrita si strascinava alle ginocchia di Josè. quella forte organizzazione morale, quella fanciulla sì pura, sì religiosa, sì affezionata, soccombeva agli effetti terribili del sistema cellulare.

Josè la rialzò dolcemente, versò sull’ardente sua fronte alcune goccie d’acqua rimaste in un vasetto nel quale bevevo, e colla sua mano fresca e carezzante percorse dolcemente a più riprese quella fronte dall’una all’altra tempia: senza dubbio, per un effetto magnetico, quel contatto reiterato sembrò calmare la povera prigioniera.

“Andate, io sarò tranquilla,” disse chiudendo gli occhi, poiché aveva paura di guardare attorno a sé.

In quel momento fu battuto alla porta della cella.

“Entrate,” disse il fraticello, riprendendo presso la prigioniera inginocchiata l’attitudine d’un confessore in faccia alla sua penitente.

Era il custode che riportava il letto in cui dormiva Dolores.

“La prigioniera è sottomessa,” disse il Domenicano, “le lascerete il letto anco di giorno…”

“Vostra Reverenza sarà ubbidita,” rispose il carceriere.

“Addio, sorella,” proseguì Josè; e, chinandosi verso la fanciulla, aggiunse piano: “tornerò presto.” Egli uscì.

Dolores rimase inginocchiata nell’oscurità, colla testa piegata sul petto…

Ara il lettore favorisca di seguirne a Madrid nel palazzo di Carlo V.

 

 

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XXXI.

Madrid.

 

 

In una bella e fresca mattina di maggio, due viaggiatori seguivano la strada che dalla Manica conduce a Madrid. Già sul piano inclinato sul quale è fabbricata, compariva loro la città reale, che erge nell’aere, come una selva d’alberi di nave, i suoi mille campanili acuti, dominati dalle alte cupole di Sant’Isidoro e di San Francesco. Già scorgevano all’occidente di Madrid l’eremitaggio del santo agricoltore, piccola cappella in gran venerazione presso i <madrileni,m a cagione dei numerosi miracoli che vi si operavano. Poetico edifizio, il quale disegnando da lungi nel cupo azzurro del cielo il suo profili grazioso e svelto, somigliava piuttosto ad un capriccio della immaginazione o ad un fantasia d’ottica, che ad un’antica abitazione di agricoltori, convertita in cappella dalla pubblica devozione[10].

Bentosto attraversarono il ponte di Toledo, ammirabile monumento romano gettato sul Mansanare, quel triste fiume che serpeggia nel mezzo d’un piano ancor più tristo; quindi passando la salita alquanto erta della strada giunsero davanti al macello o scuola dei Toreadore. Là si fermarono alcuni istanti per godere del punto di vista; ma ebbero un bel cercare attorno a loro stessi quelle vive tracce della civilizzazione che annunziano la presenza d’una gran città, quella ricca coltura, quella vegetazione variata, le quali attestano che la mano degli uomini non ha risparmiato il terreno, e che l’industria ha per tutto preveduto i bisogni; più lungi, tutt’intorno alla capitale delle Castiglie, era la nudità del deserto, un suolo rosso e biancastro, seminato di pietre acute, che ai raggi ardenti del sole sembravano risolversi in polvere impalpabile.

“O tristezza e nudità!” esclamò il più attempato dei due viaggiatori, nel quale il lettore ha già riconosciuto senza dubbio Giovanni d’Avila, “non si direbbe un immenso cimitero che rigetta dal suo seno ossa senza numero?”

“Sì!” rispose Estevan, “la morte dove dovrebbe palpitare la vita!…[11], l’oziosaggine delle braccia tanto profonda quanto quella dell’intelligenza!”

“No,” proseguì l’Apostolo, “la vita che s’agita nel fondo della tomba per sollevare il peso che l’opprime; la vita che all’insaputa di sé stessa, tende sempre a prodursi al di fuori poiché essa ha orrore delle tenebre.

“E le tenebre l’han vinta, Padre mio; la vedete manchevole dovunque, disperare di sé medesima come si disperava di lei? Vedete, sempre lo stesso silenzio. A Madrid come a Siviglia, una cupa tristezza, un’assenza di moto, tale che spaventa nient’altro che il sordo mormorio dei vermi in un sepolcro; che gemiti soffocati nel fondo dei cuori; ed all’esterno… una muta desolazione! È dunque questa la vita d’una grande nazione?”

“Estevan,” disse il frate, “quando nel cuor dell’inverno considerate un albero nudo ed arido che sembra morto, voi dite che sotto questa scorza rugosa ed annerita che non palesa alcun segno di vegetazione, circola un umore ardente e generoso, che, ai primi raggi del sole coprirà gli spogliati suoi rami di innumerevoli foglie? Così è della Spagna. Attendete che brilli per lei il sole della scienza e della libertà e vedrete quale sovrabbondanza d’umore e di vita si nasconda sotto le apparenze della morte, e come quei cuori ardenti, ora compressi, palpiteranno ai primi albori d’un’éra novella, d’una completa rigenerazione.

“Dio vi ascolti!” rispose Estevan con accento esaltato.

Giunsero alla porta di Toledo.

Questo principale ingresso della città di Madrid, che oggi è un bel monumento di pietra, non era allora che una larga porta di legno a due battenti, chiusa da una pesante spranga; somigliante insomma llla porta d’una fattoria.

I viaggiatori la passarono, ed entrarono in via Toledo.

Questa strada, una delle più belle della città in quest’epoca, si componeva quasi tutta d’innumerevoli alberghi di mulattieri, che per poco erano i soli edifizi che s’incontrassero fino alla piazza del mercato dei grani[12], che terminava convenevolmente quelle due lunghe file d’alberghi.

Arrivando verso quella piazza, Estevan fu sorpreso della quantità di persone di ogni sesso e di ogni età che occupavano gl’ingressi. Tuttavia, malgrado quell’affluenza, non si udiva quel rumore acuto e discorde che accade d’ordinario negli adunamenti popolari; era piuttosto un sordo mormorio, espressione di terrore e di pietà, misto ad un certo raccoglimento.

“Che significa questo radunamento di popolo?” domandò Estevan sorpreso.

“Senza dubbio è un’esecuzione,” disse Giovanni d’Avila; “un infelice reclamato dalla giustizia umana.”

Infatti, nel momento in cui entravano nella piazza, uno spettacolo bizzarro e terribile ad un tempo colpì i loro sguardi.

Un uomo montato sopra un asino senza orecchi[13] veniva dietro a loro. Quest’uomo, vestito di una tunica bianca, aveva coperto il capo d’una berretta verde, sul quale vedevasi una croce del medesimo colore della tunica. Ei camminava nel mezzo di una doppia fila di soldati e di confratelli della pace e carità.

Davanti a lui camminavano lentamente il cappellano della prigione ed alcuni fraticelli dell’Ordine del agonizzanti, preceduti da un croce portata da un sagrestano.

Uno di questi fraticelli stavasi costantemente a lato del paziente, esortandolo a morir cristianamente. Gli altri recitavano con voce triste e monotona le preghiere dell’agonia, mentre due fratelli di pace e carità, armato ciascuno d’un campanello, accompagnava con lugubre titntinnio i versetti e i responsorii.

Il popolo recatasi in folla verso la piazza, tendendo il collo per veder meglio.

Da un altro lato, per una strada adiacente, un gran numero di fratelli di pace e carità venivano a raggiungere coloro che accompagnavano il paziente; quelli avevano percorso la città fino dal mattino, preceduti da un banditore armato d’un campanello, ed incaricato di ripetere dovunque con voce lamentevole: “Date qualche cosa, o fratelli, per dire delle messe e far del bene all’anima di colui che sta per esser giustiziato.”

Questo devoto pellegrinaggio della confraternita di pace e carità era sì esente da ogni specie d’ipocrisia, da quelle ridicole grullerie che accompagnano per ordinario queste sorta d’instituzioni; v’era tanta vera pietà, ed una sì alta idea filantropica in questa associazione degli uomini più eminenti della città per addolcire gli ultimi momenti di coloro ch’erano colpiti dalla legge, e mettere, per così dire, al confronto la giustizia umana e la misericordia divina, che ognuno sentitasi preso da un santo rispetto in preesenza di quei religiosi gentiluomini, tutti delle migliori e più ricche famiglie di Spagna, così riuniti per l’opera più alta della carità cristiana, il confortare coloro cui tutti abbandonano.

“Sublime carità!” mormorò Giovanni d’Avila; “ecco ciò che prova, figlio mio, che i germe della vita è nel cuore della Spagna, e che un popolo sì nobile non può perire.”

“Questi uomini appartengono ad un ordine religioso?” domandò Estevan.

“No, figlio mio; questi uomini non sono che cristiani animati dallo spirito del vangelo; essi raccolgono nel fango delle strade il lebbroso che tutti rigettano, pronunziano le parole di pace su colui che si pente, ed a forza di dolcezza e di tenera compassione toccano il cuore del peccatore indurito. È ben raro che, all’aspetto d’una carità s’ vera, sì perfetta, sì toccante, il disgraziato, di cui la giustizia umana reclama la vita in espiazione de’suoi delitti, non torni sinceramente a Dio e non la vi con una santa morte tutte le sozzure dell’anima sua. Non dispera di sé medesimo, perché gli fanno comprendere che al di sopra dell’umana giustizia, ed a fronte dei suoi decreti inflessibili, v’ha un legge di perdono e d’amore che protegge il pentimento, ed a colui che non aspetta più niente dagli uomini lascia ancora una speranza celeste. Questi fratelli di pace e carità sono veramente gli apostoli di Colui che perdonava alla donna adultera; sono questi i veri missionari della fede cristiana.”

“Non sono essi sottoposti ad alcuna regola?” domandò Estevan con vivo interesse.

“Precisamente no,” disse l’Apostoli; “tuttavia la confraternita di pace e carità è infinitamente più severa di molti ordini religiosi. Così, per essere ammessi a farne parte, bisogna non aver avuto che far  mai colla giustizia e godere d’una reputazione senza macchia; perché questa onorevole corporazione non essendo stata istituita per fanatismo o per calcolo, ma solamente con uno spirito di carità, coloro che la compongono si studiano di mantenerla nella sua primitiva purezza. Così i grandi signori di Spagna, ed i più specchiati tengono ad onore di farne parte. Entrando nella confraternita, bisogna dapprima versare nella cassa una somma di cinquecento franchi, ed impegnarsi inoltre a partecipare delle spese future, che tutte son fatte in favor dei condannati.”

“Lasciatemi, vi prego, avvicinare un poco, signori,” interruppe una vecchia, appoggiata sur una gruccia, cacciandosi come le fu possibile fra Estevan e Giovanni d’Avila, per veder più davvicino, e farsi un riparo della loro alta statura contro la folla popolare, che diveniva ognora più densa; -“vedete bene che il paziente è arrivato a pié della forca.”

Infatti i balconi d’intorno alla piazza si empievano con rapidità; donne giovani e belle, fanciulli vispi ed allegri non temevano di venire ad assistere all’orribile spettacolo d’un appiccamento.

“Che fa dunque la confraternita di tutto il denaro che versa nella cassa?” domandò Estevan, più occupato del suo dialogo con l’Apostolo che dell’esecuzione.

“Questo denaro non è male impiegato, credetemi; dapprima, nella mattina dell’esecuzione, tutti i preti di Madrid pregano e dicono messe per l’anima di colui che va a morte, poscia, durante i tre giorni che precedono l’ultimo di sua vita, e che il condannato passa in una cappella ardente, la confraternita gli appresta tutto quello che egli domanda, cercando così di soddisfare i suoi minimi desiderii, poi finalmente, cosa più utile e più lodevole ancora, se il condannato lascia dei figli una madre od una vedova, quest’infelici possono contare che il loro sostentamento sarà assicurato, e che non avranno a subire giammai le angosce di una vita disonorata resa più spaventevole dalla miseria.”

“Oh sì, sì, e veramente una nobile, una santa istituzione,” esclamò il giovane, il cuore del quale palpitava per ogni grande pensiero, “sì, far della religione il movente delle azioni più generose è onorarla e servirla degnamente.”

“E non crediate già Estesane,” proseguì l’Apostolo, “ che si limitino verso i parenti del condannato  a queste meschine benedizioni, umilianti per quello che dà e per quello che riceve. Non si contentano di dar loro del denaro, no; alla vita del corpo si aggiunge la vita dell’anima: i figli del condannato sono educati con cura, e la compagnia di pace e carità non li abbandona che quando sono in istato di provvedere ai propri bisogni in un modo onorevole.”

Quando Giovanni d’Avila terminava queste parole, accadeva un gran movimento fra il popolo; tutti s’alzavano sulla punta dei piedi; il condannato era fra le mani del carnefice, che lo faceva salire lungo la scala attaccata al patibolo.

I ciechi e gli accattoni recitavano con voce nasale e lugubre preghiere interminabili, alcuni cantavano sur un stessa nota, variata per semi-toni, il Pater Noster e l’Ave Maria. Questa maniera è molto usata in Spagna.

Tutti gli animi erano sospesi.

“Maria santissima!” gridò una fanciulla; “eccolo già attaccato per il collo; oh! Il carnefice gli monta sulle spalle.”

“Mio Dio! Mio Dio!” disse un vecchio mendico dalla barba bianca, “ecco il frate agonizzante che incomincia il Credo.”

Un fremito percorse l’assemblea e non si udì più in quella gran fola di popolo che una voce immensa unita a quella del frate agonizzante, che con accento mesto ed interrotto, recitava il simbolo della fede.

“Credo in Dio , padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo, suo unico figlio.”

A queste due ultime parole, il carnefice, sempre assiso sulle spalle del paziente, fece un movimento di altalena, appoggiando fortemente i suoi piedi sulle mani legate dell’appiccato, e si slanciò con lui nello spazio.

Nel medesimo istante le campane di San Milano mandarono il suono dell’agonia.

L’esecutore e l’impiccato dondolarono nell’aria per tre o quattro minuti. Il frate agonizzante continuava a recitare il simbolo.

“Vergine santissima!” esclamarono ad un tempo moltissime voci stuonate; “ei può ben dire che Dio lo protegge…”

La corda si era rotta; il carnefice e l’appiccato erano caduti l’un sull’altro per terra.

Nel medesimo istante il fratello maggiore di pace e carità distese verso il condannato una lunga bacchetta che teneva in mano.

“Salvo! Salvo!” gridò il popolo.

I fratelli di pace e carità sollevarono subito l’infelice paziente;m ei respirava ancora, lo strangolamento non era stato completo.

In questo tempo una giovane, accompagnata da un fanciullino di cinque o sei anni, avevagli ripiegato il gonnellino e lo batteva a sangue.

“Che ha fatto quel povero fanciullo, che piange calde lagrime?”

“Nulla,” disse la madre, “gli è perché si ricordi di questo fatto, e non sia un ladro quando sarà grande…La corda non si rompe sempre,” aggiunse come per riflessione.

“Che sarà dunque di quest’uomo sì miracolosamente salvato?” domandò Estevan.

“Egli appartiene alla confraternita,” rispose Giovanni d’Avila, “ogni uomo al quale accade una simil cosa, ha salva la vita per solo fatto d’essere stato toccato dalla bacchetta del fratello maggiore di pace e carità; questo è un privilegio assicurato alla società da molte leggi e ordinanze di re Ferdinando d’Aragona, e confermato da Carlo V. Credete, Estevan, che un re possa troppo incoraggiare simili associazioni?”

“E che addiverrà ora di quest’uomo?”

“State tranquillo, la confraternita ne avrà cura, e s’ei non divien probo ed onesto, sarà certamente sua colpa; se invece fosse morto, sette ore dopo, la confraternita avrebbe reclamato il corpo e fatte a sue spese magnifiche esequie.”

Una specie di gitano, che li ascoltava, si mise a ridere borbottando fra i denti:

“Queste magnifiche esequie non gli avrebbero servito a nulla. Qual danno se compar Matteo non avesse fallito il colpo! Un bravo gancio di meno per noi!”

A queste parole Giovanni d’Avila riconobbe nel gitano un membro della confraternita della Garduna.

“Qual contrasto!” esclamò egli, “là il fiore della popolazione, i cuori più puri, la fede più illuminata, qua uomini perditi nei vizi, inabissati nel fanatismo, pronti a tutto per il danaro; da un lato l’opera della vera religione di Cristo; dall’altro i funesti risultamenti di una religione sfigurata, che non è più un freno o una consolazione, ma un mezzo di corruzione, uno sgabello per salire al potere, uno strumento di dispotismo.

“Quest’uomo che è stato salvato era dunque un malfattore e resterà un malfattore, poiché appartiene a questa immonda società della Garduna?” domandò Estevan.

“Forse,” rispose Giovanni d’Avila… “Tuttavia,” aggiunse con un sospiro, “non è ancora venuto il momento in cui il bene dominerà sul male; e in questo sentiero seminato di spine e di pietre, seguito da coloro che camminano verso il bene, si perdono facilmente d’animo coloro i quali non hanno tanta forza per soffrire.”

“Non importa,” esclamò Estevan; “gloria a coloro che camminano, e gloria pure a coloro che periscono! Essi avranno aperta la strada a quelli che verranno dopo.”

“Camminiamo dunque!” disse l’Apostolo; “ La corona dei martiri è ben pregevole quanto quella dei trionfanti.”

La piazza erasi sfollata; Giovanni d’Avila mostrò colla mano l’altro lato della via Toledo che era loro di faccia.

“Per di qua,” disse: “ecco la via che conduce al palazzo.”

 

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XXXII.

La passeggiata del re.

 

 

 

Estevan e Giovanni d’Avila continuarono a seguire la via Toledo fino alla piazza maggiore, che traversarono in tutta la sua lunghezza, poscia prendendo a sinistra la via degli orefici, arrivarono alla chiesa di Santa Maria Maggiore, la più antica parrocchia di Madrid.

Di là passarono sotto l’arco del Palazzo, si fermarono nel mezzo di un’immenso quadrato allungato, d’onde la vista si spingeva fino a las Ventas de Alcorcor[14].

Erano sulla piazza del palazzo.

Alla sinistra stendevasi il campo del Moro, profonda e verdeggiante valle che separa il Mansanare da Madrid, e si estende dalla porta di San Vincenzo fino alla porta di Segovia. Alla loro destra sorgeva el Prelil, monticello alquanto elevato, al pié del quale sono addossati i grandi corpi di guardia del palazzo, e finalmente, in faccia ad essi, il palazzo stesso; un immenso e superbo edificio, che stende lontano le sue larghe ale, che dall’alto della sua vetta domina la capitale delle Spagne.

Questo immenso quadro di granito, forato nei suoi quattro piani da alte ed innumerevoli finestre, aveva un aspetto ad un tempo semplice, nobile ed imponente. Larghi balconi scolpiti ornavano tutta la facciata superiore. Si entrava per tre grandi porte ad arco, ornate di colonne d’ordine corintio del più bell’effetto, ed il tetto piano, di lavagna, formava un terrazzo inclinato, rinchiuso in una balaustrata di pietra. Tutto questo insieme era d’un aspetto grandioso e veramente regio.

“Finalmente eccoci giunti,” disse Estevan, fermandosi per ammirare quel sontuoso edificio; “ecco il termine del nostro viaggio, il luogo in cui sta la nostra ultima speranza.”

“Calmatevi, calmatevi, figlio mio!” disse Giovanni d’Avila, che cercava sempre di reprimere quella tendenza all’esaltazione che rimarcava nel giovane, persuaso che l’esaltazione consuma invano le forze, e toglie quello spirito d’ordine, quella calma sagace di cui l’uomo abbisogna nelle gravi circostanze della vita.

Estevan sorrise con dolcezza, come fanciullo docile verso colui che lo sgrida; la calma inalterabile dell’Apostolo esercitava su di lui un grandissimo impero.

Continuarono a farsi innanzi fino alla principal porta d’ingresso del palazzo reale. Era guardata da numerose sentinelle, ed un gran movimento accadeva nell’interno; il popolo andava e veniva liberamente come nei giorni di grande solennità.

“Entriamo,” disse Giovanni d’Avila, “vediamo quello che accade.”

Dopo aver passata la prima porta, sulla grande scalinata a destra videro una folla di popolo, uomini, donne e fanciulli schierati verso il muro, formanti due file di teste d’una espressione curiosa.

“Il re esce per la passeggiata,” disse l’Apostolo, “ma non sì tosto, perché le truppe non sono ancora sulla piazza. Venite a visitare la corte, che merita qualche attenzione.” Mentre parlava così, due reggimenti di guardie in grande uniforme sfilarono sulla piazza del palazzo, e, preceduti dalla musica, si  schierarono su due linee parallele ai due lati della porta principale.

Estevan e Giovanni erano entrati nella corte d’onore.

Era esso un vasto quadrato perfetto, selciato di larghe pietre di granito lucente, sulle quali eransi incise scannellature romboidali, affinché i piedi dei cavalli potessero appoggiarsi più sicuramente su quella superficie lubrica e polita.

Altre arcate di pietra, sostenute da colonne scannellate, formavano tutto all’intorno un largo peristilio; nel mezzo di ciascuna delle quattro facciate interne s’innalzavano sur un piedestallo due statue colossali dei più celebri imperatori romani.

L’interno di quel magnifico palazzo rispondeva all’esterno, era una sontuosa dimora, degna del grande imperatore Carlo V.

Mentre i viaggiatori ammiravano quella grandiosa architettura, il rumore aumentò sulla piazza e nel palazzo. I tamburi batterono, e la banda incominciò a suonare la marcia regia. Un rumore rapido di ruote si fece udire, le carrozze di servizio, tirate da sei magnifici muli[15], riccamente bardati, condotti da un cocchiere e da un postiglione coll’assisa del re, entrarono maestosamente nella corte d’onore, ne fecero lentamente il giro, e la prima carrozza venne a fermarsi a pié della gradinata.

La folla era divenuta più grande. Estevan e Giovanni d’Avila ebbero a faticar molto per aprirsi un passaggio fino ai primi scalini.

Tutto quel popolo tendeva le mani verso il largo pianerottolo che dominava la scalinata del primo piano, composta di ventitré scalini. Alcuni erano saliti sulla larga balaustrata di granito: altri eransi assisi sul dorso e fino alla testa dei due grandi leoni, che nella loro attitudine fiera e tranquilla, e nella loro immortalità granitica, somigliano a due impassibili sentinelle poste eternamente alla custodia della maestà reale.

Era bello vedere tutti quei visi, giovani o vecchi, la maggior parte sparuti e scoloriti, raggianti di speranza e di felicità, aspettando colui che stava per comparire. Il re, per quel povero popolo sì entusiasta e sì buono, sì dolce e sì paziente, malgrado la sua incomparabile altezza, il re era vivamente l’immagine della divinità, l’immagine della giustizia, della forza e dalle onnipotenza; di colui nel quale risiede al tempo stesso il potere e la bontà, di colui che può e vuole: perocché tutto il bene emana da lui, e la sua felicità è di spargerlo.

Oh! qual bella parte era allora per un re quella di protettore e di giudice! Di             quali sublimi emozioni l’anima sua regale doveva fremere all’aspetto di quel popolo ch’ei teneva, per così dire, tutto intiero nella sua mano! Perocché egli lo rovesciava con un soffio, lo faceva curvare con una parola, e lo rialzava con un sorriso; perché quel popolo, semplice, altero e candido ad un tempo, adorava in lui la maestà del padre, più che la maestà del re, la sua ubbidienza non aveva nulla di servile, perché quando la ubbidienza si riassume in queste due parole: rispetto e amore, questa ubbidienza onora l’uomo in luogo di avvilirlo; essa non è più che un atto di indipendenza, di libero arbitrio.

Quella popolazione spagnuola era là anelante, aspettando colui nel quale risiedeva ogni potere, per lamentarsi ed ottenere giustizia; in quell’epoca il popolo per giungere fino al re non aveva bisogno di indirizzarsi ai suoi ministri. Il re di Spagna non si circondava di reggimenti armati, di barriere insormontabili; ei lasciava il popolo avvicinarsi liberamente alla sua persona, come fa un padre ai suoi figli; e da questa comunicazione libera ed intima nasceva quell’amore immenso ed eterno che univa il popolo al re in un legame morale, impossibile a rompersi: perciò un attentato non è mai stato diretto contro alcun re di Spagna.

Tuttavolta, malgrado l’espressione raggiante di speranza che in quel giorno leggevasi su tutti i volti, non si considerava senza un vivo sentimento di pietà la tristezza profonda scolpita su quelle fisionomie naturalmente serie; si vedeva che quel popolo, tanto poco esigente nei bisogni della sua vita materiale, quel popolo al quale tanto poco avrebbe abbisognato per essere felice, aveva nel cuore una piaga divoratrice; ei portava in fronte la stimmata di quelle lotte spaventevoli dell’inerzia contro gli esseri forti, che egli uccide come la folgore, senza parere di averli toccati.

Ma ad un tratto tutti i cuori fremerono d’un sentimento unanime; una larga porta intagliata si aprì sul primo pianerottolo, ed un usciere batté tre volte le mani. Era il segnale che annunziava il re.

Allora, preceduto dai suoi uscieri di servizio, scortato da quattro alabardieri, si avanzò nel mezzo alle sue guardie del corpo quel gran re Carlo V, che faceva tremare il mondo.

Ei portava il grazioso vestimento di quei tempi, e benché non fosse d’alta statura, aveva nel portamento molta nobiltà, ed il suo viso, giovane e altiero, aveva quell’incanto particolare e potente, che dà uno sguardo brillante e sagace, illuminato dalla fiamma del genio; i suoi lineamenti erano, inoltre, molto delicato e distinti, e se la bontà non dominava sempre su quella fisionomia alquanto altiera, almeno era quasi sempre supplita da quell’aria di grandissima cortesia intorno alla quale molte persone s’ingannarono, e che, i grandi specialmente, chiamano volentieri con altro nome.

Giovanni d’Avila fissò il re con uno sguardo profondo e scrutatore; era l prima volta che lo vedeva sì da vicino.

“Il re ha sembiante di buono,” disse piano Estevan, che lo considerava pure con molta attenzione.

Giovanni d’Avila non rispose: egli aveva più di Estevan l’esperienza delle fisionomie.

Re Carlo V era come tutti gli uomini di gran genio; aveva dei buoni sentimenti; ma da questo, all’essere completamente e sempre buono, v’è un gran tratto.

L’imperatore si avanzò lentamente per discendere, e ad ogni passo che faceva, si fermava per prendere da sé medesimo le suppliche che gli venivano presentate, e rimetterle quindi al capitano delle guardie del corpo, che camminava al suo lato.

A coloro che non avevano suppliche da rimettergli, il re presentava la sua mano a baciare coll’aria più nobile e più paterna; ei sapeva serbare la maestà reale, e aveva genio fino nelle più piccole cose.

Discese così tutta quella lunga scalinata, fermandosi molto a ciascun scalino, accogliendo collo stesso sorriso il povero cencioso ed il ricco contadino, parlando a molti come se li avesse sempre conosciuti, facendo giustizia talora in sull’atto a colui che la dimandava. Quante volte questo altiero conquistatore non ritardò la sua passeggiata, per risalire ne’suoi appartamenti con uno che gli domandava giustizia!

Era nobile e grande questa condiscendenza per coloro che si lamentano, questa sollecitudine a reprimere gli abusi, a soddisfare un urgente reclamo.

Colui che soffriva di una esazione o di una sventura aveva solo da lamentarsi, non era fatto aspettare; non v’era bisogno che il suo lamento, metodicamente formulato, passasse di gradino in gradino, dal primo commesso d’un ministero fino a’più alti impiegati; non aveva a sopportare il contegno insolente di quella gerarchia di imbratta-carte; no, andava direttamente al re, senza impedimento, senza ostacolo; poiché il re era re di tutti, e la riparazione era fatta sull’atto; il supplicante non doveva subire la lunga agonia di una lunga ed incerta aspettativa, che il più delle volte termina con un atroce diniego di giustizia.

“Ecco,” disse Giovanni d’Avila, “il più bell’attributo della regalità, rappresentare la Provvidenza.”

“Possa ella rappresentarla anco per noi!” rispose Estevan.

Carlo V continuava a discendere; la banda suonava la marcia regia con maggiore animazione, e le mule della carrozza sbuffavano malgrado il loro umore naturalmente pacifico.

Quelle fra le persone del popolo che non avevano potuto trovare posto nella scalinata, si affollavano alla porta per avere la loro parte del baciamano.

La giornata era calda e serena, vera gioia e sorriso in quegli splendidi raggi che il sole sembrava gettare come velo sulla tristezza e sul pallore dei volti; l’affluenza era sì grande, che Giovanni d’Avila temé di non potere avvicinarsi al re; trascinò Estevan, cercando di farsi strada con lui nel mezzo della folla, in modo da trovarsi sul passaggio del monarca. Ma ad ogni fermata che faceva il re,  delle mani tese in avanti agitavano per l’aria innumerevoli memoriali, che erano ricevuti tutti con bontà ed immediatamente rimessi al capitano delle guardie.

Carlo V non manifestò la minima impazienza; ei non parve in alcun modo stanco di quei numerosi reclami che lo trattenevano per tanto tempo. Soltanto la sua nobile fisionomia denotava a momenti una intima meditazione, un lavoro costante ed involontario delle facoltà intellettuali, un ardore di genio instancabile, quell’ardore febbrile e divoratore che uccise il monaco di San Giusto per aver cessato d’essere re[16].

Ei giunse finalmente all’ultimo gradino; gli uscieri avevano un poco allontanato la folla, tuttavia era ancor troppo serrata perché Giovanni d’Avila potesse avvicinarsi al re; vedendo che gli era impossibile di farsi innanzi, alzò in aria le sue braccia, e stese verso Carlo V le sue mani supplichevolil.

Alla vista di quel monaco, la cui bella figura e l’abito sacro[17] inspiravano il rispetto, il popolo si trasse indietro spontaneamente; il capitano delle guardie fece cenno al frate d’avvicinarsi, e Giovanni d’Avila, colle mani sempre distese, andò a gittarsi alle ginocchia del re.

Carlo V sorpreso, lo rialzò con bontà.

“Che posso fare per voi, Padre mio?”

“Far grazia, sire, grazia ad uno de’ vostri più fidi servitori; ma ciò saria troppo lungo a dirsi qui,” aggiunse l’Apostolo, gettando uno sguardo sulla folla che li circondava;  “ho bisogno di parlare senza testimoni a Vostra Maestà.”

“Venite domani,” replicò Carlo V, presentando la mano da baciare ad Estevan, che si era inoltrato sino a lui.

“Questo giovane è con me,” disse Giovanni d’Avila.

“Venga domani con voi, Padre; faremo giustizia alla vostra domanda.”

“Dio vi benedirà, sire!” rispose umilmente Giovanni d’Avila.

“All’udienza di donai,” ripeté il re con bontà.

Uno stalliere aprì allora lo sportello della carrozza reale; Carlo V salì con un passo lesto e disinvolto, e la carrozza partì come un dardo seguita dalle vetture di servizio, che portavano i gentiluomini del seguito reale.

In quel momento i reggimenti delle guardie portarono le armi; ed il popolo si ritirò lentamente, felice d’aver veduto colui che, ai suoi occhi, era l’immagine di Dio sulla terra.

 

 

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XXXIII.

Carlo V.

 

 

Le udienze reali non erano in Spagna tali quali uno potrebbe immaginarsele in un paese in cui il cerimoniale d’etichetta aveva alla corte un’imponente severità.

Questa etichetta, generata dall’adorazione figliale e per poco fanatica degli Spagnuoli verso il loro re, era semplicemente una tradizione conservata dal carattere costante di quel popolo affettuoso, grave e pensatore, per natura nemico di ogni innovazione nelle sue abitudini; era un omaggio reso ad un padre dai suoi figli.

Ma lungi che queste forme rispettose di un amore profondo e di una deferenza affettuosa, tendessero ad allontanare il popolo dal sovrano, lo riavvicinavano invece per la sicurezza stessa ch’egli inspirava al re: sicurezza tanto grande, che tutti i giorni per parecchie ore, il primo che venisse poteva entrare nel palazzo ed ottenere udienza[18].

Il re riceveva per ordinario da dieci ore del mattino fino a due ore dopo mezzogiorno.

Estevan e Giovanni d’Avila furono esatti nell’appuntamento che loro aveva dato Carlo V, nel giorno successivo al loro arrivo in Madrid: a dieci ore precise salivano insieme la gran scala del palazzo.

In faccia ad essi, sul secondo pianerottolo, aprivasi la porta della prima anticamera. Entrarono senza che i due alabardieri di fazione alla porta opponessero il minimo ostacolo.

Niuno era ancora arrivato.

L’usciere delle cortine rimise loro una carta avente il numero 1, e i due viaggiatori andarono ad assidersi sur una delle due panche coperte di seta rossa che ammobiliavano l’anticamera.

Quell’anticamera aveva tre porte chiuse solamente da larghe portiere di velluto. Una di esse, in faccia alla porta d’ingresso, metteva sulla sala del trono; quella a destra conduceva agli appartamenti del re, la terza, a sinistra, era quella degli appartamenti dei principi.

L’Apostolo ed il suo giovane compagno poterono ammirare alcuni quadri delle scuole fiamminga ed italiana, di cui le conquiste di Carlo V avevano arricchito la reggia.

In questo tempo, alcune altre persone d’ogni sesso e d’ogni condizione giunsero l’una dopo l’altra, e riceverono alla lor volta dall’usciere un numero d’ordine.

La sala del trono rimaneva sempre chiusa e si udiva il rumore d’una conversazione animata, ma di cui non si distingueva la minima parola.

L’imperatore era in conferenza con un ambasciatore di Tunisi.

Quest’udienza si prolungò circa una mezz’ora, durante la quale dominava sempre la voce di Carlo V, talora insinuante e persuasiva, tal’altra breve, accentuata, dominatrice, piena di quella potenza energica di volontà che era proprio del carattere di lui.

Alle inflessioni variate di quella voce sarebbe stato impossibile indovinare i veri sentimenti del re. Esse presentavano lo stesso carattere delle sue parole ambigue, astute, profondamente calcolate, talmente accorte, che gli lasciavano sempre il mezzo di confutare i suoi avversari, qualunque fosse l’interpretazione che avessero data a’ suoi atti, alle sue parole, o ai suoi scritti. Lo spirito di Carlo V era una rete delicata nella quale rimanevano presi.

Finalmente l’inviato tunisino si ritirò, ed un usciere della camera, sollevando la larga portiera, chiamo ad alta voce il numero 1. Estevan e Giovanni furono introdotti nella sala del trono.

Era un luogo d’un’incredibile magnificenza.

A destra ed a sinistra, ad uguale distanza, quattro grandi porte, chiuse da portiere di velluto rosso, conducevano agli appartamenti del re ed a quelli dei principi.

Negl’intervalli delle porte una tavola intarsiata e dorata portava enormi candelabri d’argento massiccio, alcune statuette ed alcuni vasi cesellati.

Tre enormi specchi di cristallo di ròcca erano attaccati alla soffitta, coperta d’innumerevoli dorature di una delicatezza squisita e d’un’ammirabile finitezza. Al di sopra delle porte correva tutto attorno di quella sala una larga cornice dorata, nel sopraornato della quale vedevansi ricchi trofei, e sulla parete superiore, largo spazio che separava la cornice dalla volta, alcuni affreschi, dovuto al pennello dei più celebri pittori, rappresentavano una quantità di personaggi vestiti delle diverse vestimenta di tutte le nazioni della terra. La Spagna aveva così personificato le sue conquiste, che abbracciavano le quattro parti del mondo.

Finalmente, verso l’estremo superiore della sala, un trono di velluto e d’oro innalzavasi sotto un magnifico baldacchino ornato d’emblemi d’ogni sorta, il più considerevole dei quali era un pellicano che apriva il suo seno per nutrire i suoi figli; nel mezzo brillavano le armi di Spagna. Finalmente, due leoni vegliavano, satelliti immobili, sui gradini del trono imperiale.

Larghe ed alte finestre lasciavano cadere una splendida luce su tutta quella magnificenza.

Alcuni grandi di Spagna, vestiti alla moda del tempo, ciarlavano qua e là a voce bassa.

Il re, leggermente preoccupato, passeggiava a passi lenti da destra a sinistra.

Nel moneto in cui Giovanni d’Avila entrò nella sala il re lo riconobbe.

Ei si avanzò in modo grazioso verso di lui, riguardandolo tuttavia con occhio pieno di diffidenza.

“Che vuoi?” gli disse finalmente, con accento di benevolenza.

“Giustizia, sire,” rispose Giovanni d’Avila, ponendo un ginocchio in terra e baciando la mano dell’imperatore: “giustizia contro l’Inquisizione, che abusa de’ suoi diritti e compromette la Vostra Maestà colle sue crudeltà inaudite.”

Alla parola Inquisizione Carlo V, quel fiero déspota, non poté astenersi da una leggiera emozione, e, comprendendo che il colloquio saria stato più grave di quello che avesse pensato da principio, fe’ cenno ai gentiluomini del suo seguito d’allontanarsi.

Quando fu solo con Giovanni d’Avila ed il giovane Vargas, Carlo V, riassumendo il tuono dispotico e severo che gli era famigliare, disse la Francescano:

“Sapete voi, Padre mio, che abbisogna un gran coraggio per osare di lamentarsi apertamente dell’Inquisizione?”

“No, sire,” rispose l’Apostolo; “abbisogna soltanto in grande amore per la giustizia.”

“Questo amore è pericoloso e raro nei tempi che corrono,” replicò il re.

“E’ perciò, sire, che veniamo a cercarlo fino a’ pié del trono, non trovandolo altrove.”

“Ebbene, vediamo di che si tratta: parla senza timore; innanzi tutto bramo, voglio fare giustizia. Che cosa ti è stato fatto?”

“A me nulla, sire” rispose Giovanni d’Avila:

“ma voi avete un servitore fedele che si chiama Manuel Argoso…”

“Governatore di Siviglia, credo,” interruppe vivamente Carlo V.

“Egli stesso, sire. Vostra Maestà gli aveva conferito questo titolo onorevole,m e giammai uomo ne fu più degno; ma l’inquisitore Pietro Arbues aveva da ricompensare una delle sue creature: ha dunque fatto gettare Manuel Argoso nelle carceri dell’Inquisizione, e messo nel suo posto un uomo della più vile estrazione, un uomo spregevole, venduto a tutte le sue fantasie.”

“In fatti… io rammento,” disse il re dopo un istante di riflessione; “io medesimo ho firmato la nomina di quest’uomo, che m’era stato raccomandato dall’inquisitore di Siviglia… Mi si accertava che aveva resi eminenti servigi alla religione. Ma,” proseguì Carlo v, “sapete, Padre, che questa cosa è infinitamente grave? L’antico governatore di Siviglia è, a quanto pare, colpevole d’eresia; numerosi testimoni hanno deposto contro di lui; egli è stato convinto di luteranismo, ed io non posso arrestare il cammino d’un processo intentato dal Sant’Uffizio. Per Dio!” proseguì, “non ho potuto salvare il mio povero benedettino Virues, i sermoni del quale formavano la più piacevole distrazione della mia vita.[19]

“Dei testimoni! Sire,” disse Giovanni d’Avila con amarezza; “non sa la Maestà Vostra che il funesto diritto dell’Inquisizione, il quel le permette di non rivelare giammai il nome dei testimoni che hanno deposto contro un accusato, fa commettere tutti i giorni gli abusi più mostruosi; e basta che un uomo sia nemico di un altro per compromettere la sua vita, e trascinarlo davanti al tribunale dell’Inquisizione?”

“Manuel Argoso aveva dei nemici?” domandò il re.

“Nessuno, sire. Manuel Argoso era generalmente amato; un sol uomo in Siviglia aveva forse dei motivi…”

“Chi era quest’uomo?”

“Quest’uomo, sire, è il grande inquisitore di Siviglia.”

“Padre,” disse con severo accento Carlo V, “ per accusare con tanta leggerezza un gran dignitario dell’Inquisizione, dimenticate qual profondo rispetto dobbiamo agl’inquisitori e a tutto ciò che è inerente al Sant’Uffizio, istituito dal mio nobile avo e dalla mia santa Isabella la Cattolica?”

“Sire,” rispose il monaco, “io non posso dimenticare il rispetto dovuto ai preti del Signore, essendo io medesimo uno dei suoi ministri. Approvo e venero tutto ciò che tende a propagare ed affermare fra noi la santa religione di Gesù Cristo; ma protesto contro gl’inganni e l’ipocrisia dei ministri indegni, che diventano sacrileghi, e profanano questa santa dottrina rendendola strumento delle loro malvage passioni, e facendosene un manto per coprire la loro ingiustizia, la loro turpitudine, e le loro iniquità.”

Carlo V era un uomo di genio, amava il coraggio e l’ardire; tutto ciò che aveva un’impronta di grandezza eccitava in lui una viva simpatia; e benché il suo timore dell’Inquisizione fosse grande, considerò con profonda ammirazione quell’uomo leale e coraggioso che osava in presenza del re gettare così l’anatema sur una istituzione della quale il re stesso non pronunziava il nome che tremando.

“Padre,” disse finalmente con voce tranquilla, “qual prova avete dell’inimicizia di Pietre Arbues verso il governatore di Siviglia, e dell’ingiustizia del suo procedere contro questi?”

“Sire,” rispose Giovanni d’Avila, facendo allusione alle confidenze che aveva ricevute da Dolores, “vi sono cose che appartengono al segreto della confessione e che non è permesso divulgare, queste cose io non le dirò, perché mi sono state confidate al tribunale della penitenza; tuttavia quando la vita e l’onore di un uomo sono in perielio, bisogna, senza mancare al proprio dovere, dire tutto quello che è possibile svelare per salvarlo. Affermo dunque, giuro qui davanti a Vostra Maestà, che l’inquisitore di Siviglia ha agito contro Manuel Argoso per pura vendetta personale, che l’ha falsamente accusato d’eresia, e…”

“Chi proverà falsa l’accusa?” interruppe vivamente Carlo V. “L’eresia! Ecco la vera piaga del regno. Le dottrine di Lutero han penetrato per tutto; e questo monaco insensato che si crede più abile dei Padri della Chiesa, più santo del papa stesso, ha squassata su tutta l’Europa cattolica la falce della discordia. La sua dottrina è abbominevole e perniciosa, e non saprei approvare abbastanza lo zelo che gl’inquisitori del mio regno spiegarono contro gl’insensati che si lasciano da quella sedurre… Ecco gli uomini,” proseguì Carlo V, “ogni novità gl’incanta; una parola rimbombante e sonora li solleva. Indipendenza, libertà religiosa, sono parole vuote che li commuovono, che fan loro prendere in odio il giogo ecclesiastico; e si lasciano sedurre, come fanciulli, dal piacere di sottrarsi all’autorità di coloro che li governano, e non vogliono comprendere che la felicità è nell’ubbidienza, che la sicurezza, che la prosperità degli Stati e quella delle famiglie non possono avere migliore garanzia che l’accordo unanime dei governanti e dei governati, ma no, essi vogliono sottrarsi alla legittima autorità della Chiesa, vogliono ragione di cose che dovrebbero essere adorate ciecamente, e da questo ragionamento nascono le sollevazioni, le rivolte. Hanno negata l’autorità del papa, chi sa che non finiscano per negare quella del re? Credetemi, Padre, non difendete i seguaci di Lutero; è una razza abbominevole ch’io detesto.”

Giovanni d’Avila aveva ascoltato in silenzio questa lunga apostrofe di Carlo; ei lo lasciò sfogare senza interromperlo, il suo odio contro i protestanti; poscia, quando l’esaltazione del re fu un poco calmata, non trovando ostacolo, Giovanni d’Avila prese Estevan per la mano e lo presentò al re dicendo:

“Sire, ecco la mia risposta alla Vostra Maestà; io riprovo com’essa tutto ciò che tende a snaturare la religione di Gesù Cristo: ecco perché lotto contro gl’inquisitori che la fanno odiare, pretendendo di difenderla. Questo giovane si chiama Estevan de Vargas. Suo padre fu fatto membro del consiglio di Castiglia da re Filippo I; egli è sempre stato un religioso cristiano, un zelante difensore della monarchia. Estevan ha seguito l’esempio di suo padre. Ebbene, l’inquisitore Arbues, non potendo perseguitarlo in via giuridica, ha voluto attentare alla sua vita.”

“Che dite voi, Padre?” disse severamente Carlo V.

“Ho la prova autentica di ciò che asserisco,” rispose il frate, “e posso darla a Vostra Maestà.”

“Tacete,” mormorò il re; “voi ne avete dette abbastanza da mandare al Quemadero la metà della Spagna.”

“Vostra Maestà è discreta,” replicò Giovanni d’Avila, sorridendo con accortezza.

“Per Dio! Possiamo noi contare sulla vostra discretezza, come voi potete contare sulla nostra? Diteci il vostro nome perché noi non sappiamo ancora con chi parliamo.”

“Giovanni d’Avila,” rispose semplicemente l’Apostolo.

A questo nome, riverito in tutta la Spagna, che portava in sé l’idea di tutte le virtù, Carlo V, preso da quel rispetto involontario che inspirano tutte le vere grandezze, si mise a considerare l’Apostolo con vivo sentimento d’ammirazione.

“Io non mi stupisco più del vostro coraggio, Padre mio, “ gli disse finalmente: “vedo con dolore gli abusi della Inquisizione, poiché ora non mi è più permesso di dubitarne.”

L’imperatore avrebbe voluto aggiungere: E innanzi a voi io posso parlarm+

Ne con libertà.

E fece così, sicuro che non aveva a temer nulla da un simile testimone. L’amore apparente di Carlo V per l’Inquisizione era lungi dall’essere sincero; era del rimanente, come tutti i sentimenti di questo monarca, regolato esattamente nelle esigenze della sua politica.

Lungi dall’essere religioso con convinzione e fermamente attaccato alla dottrine di Roma, Carlo V avrebbe anzi accolto di buon animo quelle di Lutero, se le idee indipendenti della riforma non avessero spaventato il suo sospettoso dispotismo. Nemico dell’Inquisizione nella sua giovinezza, ei la proteggeva nell’età matura, e benché la detestasse, la blandiva come il più potente ausiliare delle sue esazioni, del suo amore al potere, del denaro e della conquista.

Tuttavia ei si rivoltava spesso contro di lei nell’interno dell’animo, poiché ebbe più d’una volta a lagnarsene. Carlo V era re della Spagna, l’Inquisizione era il re di Carlo V.

Una cosa mancava al genio di quel grande imperatore, cioè il comprendere che la più bella gloria d’un re sta nel favorire i progressi dei lumi, che è più facile, più glorioso e più dolce regnare sopra uomini liberi, che sopra un popolo di schiavi; e ciò è nel vero spirito del Vangelo. La riforma tendeva ad istruire le masse, a spandere per tutto i tesori della scienza; e certamente Carlo V comprese male i suoi veri interessi quando le divenne ostile; egli avrebbe trovato un appoggio più solido nella filosofia illuminata e nella lealtà dei protestanti, che nel dispotico ed ambizioso fanatismo dei monaci. Ma egli non comprese ciò, e lasciò cadere la bilancia dal lato in cui pensò che la facesse pendere il suo interesse.

“Padre,” disse a Giovanni d’Avila, “noi deploriamo vivamente gli abusi dell’Inquisizione, e vorremmo poterli reprimere, ma pensate che questa formidabile istituzione, fondata con uno scopo utile e religioso, è oggi più potente della stessa Roma, e che il papa non osa lottare contro di lei[20].”

“L’imperatore Carlo V ha osato lottare contro il papa,” replicò Giovanni d’Avila facendo allusione alla risposta di Carlo V ad un breve che papa Clemente VII aveva lanciato contro di lui alcuni anni innanzi; “l’imperatore lotterà contro l’Inquisizione; poiché vi sono di mezzo i diritti della giustizia e i diritti dell’umanità.”

Un sorriso di soddisfazione spuntò sulle labbra del monarca; ei non ricordava senza un vivo senso d’orgoglio quel virulento manifesto pubblicato in Alemagna, capolavoro d’energia, di amarezza e di diplomazia, che ricondusse a lui gli spiriti, inaspriti dalle sue proteste anteriori contro le dottrine di Lutero. Giovanni d’Avila aveva fatto vibrare la corda sensibile, rammentando all’imperatore quest’atto di alta politica, che somigliava ad un atto d’indipendenza, ed aveva sì bene favorito i suoi interessi nel Nord.

Carlo V guardò il monaco con benevolenza, e gli disse con l’accento più gentile e più regale del mondo:

“Vediamo, Padre mio, come possiamo provarvi il desiderio che sentiamo di favorirvi? Procuriamo soprattutto di conciliare la giustizia con gl’interessi del regno. Impediamo agli abusi dell’Inquisizione, ma non l’abbattiamo; essa è un serpente che si rivolge per mordere, tosto che si tocca, e le sue ferite sono sempre mortali.”

“Il leone non teme i morsi del serpente, e Vostra Maestà è re per comandare,” replicò l’Apostolo; “non è che coll’energica sua volontà che essa imporrà a questi arditi profanatori d’una legge tutta amore, le inaudite crudeltà colle quali hanno spopolata ed impoverita la Spagna. Che cosa avevano fatto quelle famiglie moresche perseguitate con tanto ardore dall’inquisitore generale Adriano, le quali hanno a migliaia abbandonato il paese, portando sotto un cielo straniero le loro ricchezze e la loro industria, sorgente della prosperità del regno?

“I moreschi eransi rivoltati,” disse Carlo V.

“I moreschi imitavano il cammello nel deserto, che getta il carico a terra quando è troppo pesante,” rispose Giovanni d’Avila.

“Adriano Florencio era di carattere dolce e pacifico,” replicò il re; “non agiva che con buona intenzione.”

“Adriano Florencio era debole, sire; ei lasciava fare il male senza reprimerlo ed ingannava la Vostra Maestà sulla vera condotta degl’inquisitori[21].”

“Monaco! Tu sei molto ardito,” gridò il re, l’orgoglio del quale non soffriva che si credesse capace d’ingannarsi e d’essere ingannato dagli altri.

“Io dico il vero a Vostra Maestà, sire,” rispose il frate, “e la verità ha il diritto d’essere ascoltata. Gl’inquisitori di Spagna non sono preti, ma carnefici; essi opprimono il popolo; ed il re è il difensore del popolo.”

Così parlando, Giovanni d’Avila guardava il re in volto, senza audacia, senza furfanteria; una santa maestà raggiava nel suo viso.

Carlo V si sentì soggiogato da quell’insieme di semplicità e di nobiltà, di genio e di santità, che faceva dell’Apostolo un genio sì rimarchevole.

“Continuate,” disse l’imperatore.

“Sire,” proseguì il monaco, “un uomo è stato falsamente accusato ed ingiustamente torturato. L’inquisitore di Siviglia ha commesso questo delitto: egli deve ripararlo. Ordini Vostra Maestà a Pietro Arbues di porre in libertà don Manuel Argoso.

“Non lo posso fare,” disse il re meditabondo.

“Ah! Sire,” gridò Giovanni d’Avila, “sarà dunque invano che il vostro bel regno di Spagna avrà salutato con tanti applausi il vostro avvenimento alla corona? Vostra Maestà avrà promesso invano alle Cortes di far cessare le persecuzioni e i supplizi, e di estinguere i roghi?[22] No, sire, voi non vorrete mancare alle vostre promesse. Manuel Argoso è innocente, e voi lo proteggete, sire, voi salverete la vita d’uno dei più puri servitori della vostra monarchia. Una parola di Vostra Maestà basta,” proseguì il monaco con trasporto; “dite questa parola, e il vostro nome sarà benedetto in tutta la Spagna: perocché la giustizia del re è la salvaguardia della felicità dei popoli.”

“Questo giovane è parente di don Manuel Argoso?” domandò Carlo V, accennando don Estevan de Vargas.

“Io doveva divenire suo figlio,” rispose Estevan, con aria modesta e sicura.

“Manuel Argoso ha dunque una figlia?” “Un angiolo,” rispose Giovanni d’Avila; “la più bella e la più casta di tutta la Spagna; comprendete ora, sire, perché il governatore di Siviglia è accusato d’eresia?”

Carlo V si morse le labbra; non era la prima volta che si muoveva una simile accusa contro gl’inquisitori del regno.

Il re si avvicinò con vivacità ad una tavola su cui erano molte penne, della carta e tutto quello che abbisogna per iscrivere.

“Vuoi tu questa volta servirmi da?” disse indirizzandosi al giovane Vargas.

“Sono agli ordini di Vostra Maestà,” rispose Estevan, avvicinandosi alla tavola.

“Scrivi,” disse il re.

Estevan prese una penna ed un foglio di carta.

L’imperatore dettò prestissimo, senza curarsi del segretario, secondo il suo costume.

 

 

 

Eminenza!

don Manuel Argoso conte di Cevallos, in questo momento nelle prigioni del Sant’Uffizio di Siviglia,  è stato sempre nostro fedele servitore, e l’abbiamo sempre tenuto per buono e zelante cattolico. L’accusa d’eresia che pesa sovr’esso ne sembra esagerata, e potrebbe essere l’opera di qualche nemico del conte, cui tornasse vantaggioso il perderlo. È perciò che speriamo che Vostra Eminenza cercherà di scoprire la verità e di render giustizia al nostro servo fedele. Ne giova sperare eziandio che Vostra Eminenza vorrà terminare il suo processo al più presto, e nel modo più conforme alla “giustizia ed alla carità cristiana.

“Dal nostro palazzo in Madrid, il dì 20 maggio 1534.

Carlo[23].”

 

Scritta questa lettera, il re la sigillò da sé medesimo col suo sigillo reale, e la rimise a Giovanni d’Avila, dicendogli:

“Noi abbiamo veduto molto volentieri davvicino l’Apostolo dell’Andalusia. E voi, giovane,” aggiunse indirizzandosi ad Estevan, “quando sarete divenuto genero di Manuel Argoso, tornate alla nostra corte, e vi accorderemo un grado degno del nome che portate.”

“Rendo grazie a Vostra Maestà, sire,” rispose il giovane Vargas; “potete disporre del mio braccio e della mia vita.”

Il re ringraziò Estevan con un gentil sorriso, e rientrò ne’ suoi appartamenti. Lo stesso giorno Giovanni d’Avila ed Estevan lasciarono Madrid.

 

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XXXIV.

Rodrigo de Valero.

 

 

Erano scorsi quindici giorni dopo l’udienza nella quale abbiamo veduto a colloquio Giovanni d’Avila e Carlo v.

Tornato in Siviglia, fu prima cura d’Estevan l’informarsi di Dolores. Josè gli aveva raccomandato di non andare mai senza di lui nella casa di Giovanna; e siccome non poteva presentarsi al palazzo inquisitoriale, ove abitava il favorito di Pietro Arbues, Estevan si recò di notte alla taverna della Buona Ventura, pensando che Gioachino o la sua sorella potrebbero istruirlo sulla sorte di colei che amava, e su quello che accadeva all’Inquisizione.

Quando il giovane Vargas arrivò alla taverna, non v’era alcuno al di fuori, non essendo ancora giunta l’ora della cena. La Graziosa era dunque sola nella sua cucina, ove preparava le differenti vivande che destinava ai suoi clienti.

Di quando in quando lasciava il suo fornello per andare a guardare nella strada, a vedere se arrivava alcuno; poscia tornava in cucina, mormorando fra i denti:

“Ecco l’ora in cui gli operai han terminato le loro faccende e i frati i loro sermoni. Orsù,” proseguì,” “sbrighiamoci; essi cadranno qui fra breve come una nube d’uccelli affamati.”

Mentre diceva queste parole, vide un giovane cavaliere inviluppato in un mantello, che dirigevasi verso la taverna. La Graziosa si trasse indietro per lasciargli libero il passo. Il cavaliere entrò, e dopo aver guardato intorno a sé, parve soddisfatto di trovarsi solo.

Allontanò una panca, e si assise, col dorso voltato verso la porta, davanti ad una delle lunghe tavole che trovavansi in quel lurido ridotto.

“Che desidera vostra signoria?” domandò la Graziosa con quella voce soave, propria delle donne dell’Andalusia, e il cui incanto cresce in ragione della buona cera del cavaliere cui si dirigono.

“Dammi una tazza di cioccolata,” rispose Estevan, levandosi il cappello a larga tesa che copriva la sua vaga testa, e passandolo al suo fianco.

“Che bel cavaliere!” pensò l’Andalusiana, mentre si occupava di servirlo.

Quando ebbe posato d’innanzi a lui la tazza, il bicchier d’acqua e le pasticche, accompagnamento obbligato d’ogni rinfresco spagnuolo, Estevan, guardando l’ostessa con amicizia e confidenza, le disse chiamandola col suo nome:

“Siedi presso di me, Graziosa, ho gran bisogno di te quest’oggi.”

“Di me, signore?” rispose la giovane attonita; “che posso fare per Vostra Signoria?”

“Tu conosci la signora Dolores, la figlia del governatore di Siviglia?”

La sorella di Gioachino guardò Estevan con occhi stupefatti.

“Non so quel che volete dire, signore,” ella rispose; “io non conosco la persona di cui mi parlate.”

“Tu la conosci, e conosci l’Apostolo eziandio,” disse Estevan, il quale conobbe la risposta essere stata suggerita dalla diffidenza. “Ebbene, Graziosa, non temere, è l’Apostolo che m’invia, e desidero sapere se la signora Dolores è sempre nella casa in cui don Josè l’aveva nascosta…Ma parla dunque,” proseguì Estevan, avvedendosi del subitaneo pallore che aveva coperto le guance brune e fresche della giovine. La sorella di Gioachino, invece di rispondergli, si alzò ad un tratto, e corse verso la cucina gridando:

“Ah! Mio Dio! Ecco la pentola che versa; sono da voi subito signor cavaliere.”

In quell’istante la porta della taverna fu aperta, e Gioachino stesso, col suo abito di guardia, si fermò sorpreso di vedere colà sì poca gente: ma dopo avere ravvisato Estevan, che al suo giungere erasi rivolto verso di lui, una espressione di tristezza si sparse sulla mobile fisionomia di tavernaio.

“Finalmente mi risponderete voi,” disse il giovane signore; “io ho interrogato invano vostra sorella e non ho potuto saper niente da essa. Sedete presso di me, Gioachino, e ditemi quello che è accaduto dal giorno che ho lasciato Siviglia.”

La Graziosa s’era fatta innanzi sulla porta della cucina.

Gioachino si avvicinò ad Estevan, e si fermò in piedi davanti a lui con aria imbarazzata.

“Ma parlate dunque, ve ne supplico!” gridò il giovane Vargas: “la mia sposa sarebbe malata?”

“Signor cavaliere,” rispose Gioachino con imbarazzo, “io non ardisco in verità…”

“Che c’è dunque? Mio Dio!” dimandò il giovane con impeto.

Gioachino abbassò la testa senza rispondere. Estevan si alzò con un movimento disperato, e correndo verso la Graziosa le prese le due mani, che strinse con forza, dicendole con angoscia:

“Parla tu, Graziosa; che è stato della figlia del governatore? È morta o è viva? Che che ne sia, rispondi; voglio saper tutto.”

La Graziosa guardò allora suo fratello, come per domandargli consiglio.

“Tu puoi parlare,” disse Gioachino, comprendendo quello sguardo: “per me non ne avrei la forza: pala sorella mia; questo è lo sposo della giovine signora.”

“Signor cavaliere,” disse allora la Graziosa, presa da eccessiva timidezza in presenza di quel dolore ch’essa stava per destare, “promettetemi almeno di non affliggervi troppo.”

“Ma che cos’è stato?” gridò Estevan in un’angoscia inesprimibile.

“Signore, la vostra sposa…”

“Ebbene?”

“”E’…”

“Che cosa? Finisci dunque per amor del cielo!”

“All’Inquisizione…….” Rispose la Graziosa con tremula voce.

“Oh!” gridò Estevan, battendosi la fronet; “avrei dovuto dubitarne…un Domenicano!”

“Signor cavaliere,” disse con vivacità Gioachino, “guardatevi dall’accusare don Josè: egli è innocente.”

Ma le proteste di Gioachino non servivano a distruggere le prevenzioni d’Estevan. Ei si rimproverava d’essersi confidato al giovane frate; e siccome è in noi la tendenza ad accagionare altrui delle sventure che ci colpiscono, biasimava amaramente in sé medesimo l’imprudente confidenza di Giovanni d’Avila.

“Tu hai dunque veduto la mia sposa,” domandò a Gioachino,” poiché sei spesso di servizio in quell’abbominevole prigione?”

“No, signore,” rispose la guardia, “ma Sua Reverenza don Josè l’ha visitata più volte; e son certo,” aggiunse a bassa voce, “che si occupa dei mezzi per liberarla.”

Le labbra d’Estevan si atteggiarono ad un sorriso amaro e sarcastico; un sospetto terribile sorgeva in sua mente; ei conosceva la profonda immoralità dei monaci, e in quel momento la notizia della morte di Dolores gli saria stata forse meno dolorosa del timore che aveva concepito.

Oppresso sotto il peso di tante diverse emozioni, ei si lasciò cadere sulla panca, e posando i gomiti sulla tavola, mise la testa fra le sue mani.

Il rumore di due voci piuttosto alte gli fecero bentosto rialzare la testa; due uomini erano entrati nella taverna della Buona Ventura, uno portava il vestimento elegante e severo dei cavalieri dell’epoca, l’altro era vestito con una negligenza sordida.

“Voi qui, Estevan!” disse quest’ultimo, stendendo la mano al giovane Vargas.

“Io stesso, don Rodrigo.”

“Era un secolo che non vi si vedeva,” soggiunse don Rodrigo de Valero, che il lettore già conosce; “ho piacere d’incontrarvi, e vi domando il permesso di presentarvi un mio amico, don Ximenes de Herrera, un nobile signore aragonese, che avrà a grado di fare la vostra conoscenza.”

Esprimendosi così, don Rodrigo de Valero presentava ad Estevan quel gentiluomo aragonese che abbiamo già visto figurare alla festa del conte di Mondejar.

I due giovani signori si fecero reciprocamente tutte le pulitezze in uso a quell’epoca di costumi cavallereschi; ma Valero, avvedendosi ben presto dell’eccessivo pallore d’Estevan e del fuoco insolito che brillava nei suoi occhi neri, gli disse con accento di paterna affezione:

“Che avete, don Estevan? Pare che soffriate.”

“Io non ho nulla, signor Rodrigo,” rispose il giovane con sembiante che smentiva le parole.

“Voi m’ingannate,” riprese Valero; “però sapete che potete aver confidenza in me.”

“Lo so,” rispose Estevan, “e so pure che voi siete il più grande nemico dell’Inquisizione; ma questo giovane signore?…” soggiunse accennando con lo sguardo don Ximens.

“Questo giovane signore è un cavaliere leale e di uno spirito indipendente, “rispose Valero; “senza di ciò non ve l’avrei presentato come mio amico. Parlate, ditene ciò che vi affligge; noi siamo pronti a far causa comune con voi.””Oh! don Rodrigo,” esclamò Estevan, felice di trovar finalmente un cuore in cui poteva versare tutta l’amarezza del suo; “noi viviamo in un secolo abbominevole; la giustizia è bandita dalla terra!”

“Perché è caduta fra le mani dei monaci,” rispose Valero con accento aspro.

“Credete, o signori,” proseguì Estevan, “che non contento d’aver gettato nelle carceri dell’Inquisizione il governatore di Siviglia, Pietro Arbues ha pur fatto arrestare sua figlia, la più nobil donna di tutta la Spagna?”

“Sua figlia?” esclamò don Ximenes de Herrera, gettando a Valero uno sguardi d’intelligenza.

“Oh!” disse Valero con vivacità, “ve l’aveva detto, don Ximens, che quel giorno non sarebbe passato senza denunzie od anco qualche cosa di peggio.”

“Voi sapete dunque ciò che è accaduto, don Rodrigo?” domandò Estevan con ansietà.

“Calmatevi, calmatevi,” rispose il vecchio cavaliere; “io vi dirò tutto ciò che sappiamo.”

E don Rodrigo de Valero narrò in brevi parole al fidanzato di Dolores gli avvenimenti che avevano avuto luogo durante la festa del conte di Mondejar, eccettuato il tradimento di quest’ultimi, che era rimasto un segreto per tutti, meno che pel grande inquisitore.

Estevan ascoltò tutto con profonda ammirazione per Dolores ed un alto disprezzo pei suoi carnefici; ma i suoi terrori aumentarono: ei diffidava di Josè e conosceva Pietro Arbues.

“Sapete, signori,” disse finalmente, “che non bisogna meravigliarsi di questo sordo fermento di rivolta nascosto sotto l’obbedienza apparente e passiva degli Spagnuoli?”

“Gli Spagnuoli,” rispose Valero, “non sono ancora che un corpo a cui manca una testa; soffrono e si agitano in dolorose convulsioni sotto il giogo del dispotismo; ma non hanno l’intelligenza che concepisce, combina e ordina i mezzi di rompere i ceppi che li opprimono.”

“Non vale il dire: -Io soffro-;  torcendosi sotto le catene,” proseguì il vecchi cavaliere, “si addentrano maggiormente nella carne; bisogna avere la perseveranza, che le lima anello per anello, o l’audacia e la temerarietà, che ad un tratto rompono lo scettro del dispotismo.”

Così favellando, il volto del vegliardo, animato dal sacro amore della libertà, aveva una sublime espressione, e la sua fronte spaziosa brillava sotto i suoi capelli bianchi come sotto una corona.

“Don Rodrigo,” disse Estevan, “non è il capo che manca al corpo, son piuttosto i soldati che mancano al capo; la nostra armata d’uomini liberi è troppo debole per lottare con successo contro queste innumerevoli truppe di monaci e di famigliari.”

“Di maniera che,” replicò il sarcastico Valero, “si potrebbe quasi involgere la Spagna in un’immenso cappuccio.”

“Oh! Don Rodrigo,” esclamò Estevan; “questo non è il momento di scherzare, la mia fidanzata è nelle carceri del Sant’Uffizio, e suo padre è forse già condannato.”

“Non vi sarà facile il salvarli, mio povero Estevan.”

“Io salverò il governatore; lo spero almeno,” rispose il giovane, “ma Dolores, mio dio! Dolores!”

“E con qual mezzo, se lice saperlo, ,” domandò il vegliardo, “sperate di strappare agli artigli dell’avvoltoio inquisitoriale, che si chiama Pietro Arbues, la preda ch’egli ha afferrato?”

“Oh!” disse il giovane con fiducia, “v’ha in Spagna un potere più grande di quello dell’Inquisizione.”

“Questo potere dove lo troverete?”

“Sul trono, don Valero, ed il re…”

“Il re è il primo servo dell’Inquisizione,” replicò il vecchio, “credetemi, cercate altrove il vostro appoggio.”

“Però mi sembra,” disse don Ximenes, “che l’autorità del re sia superiore a quella d’un monaco che finalmente…”

“Non sapete, o signori,” interruppe Estevan, “che giungo oggi da Madrid, e che l’imperatore, Carlo V si è degnato di darmi una lettera per l’inquisitore di Siviglia?”

“E dopo la vostra partenza,” disse con sdegno Rodrigo, “il grande imperatore Carlo V avrà, senza dubbio, fatto partire un corriere apportatore d’un secondo dispaccio che arriverà aventi il vostro, don Estevan.”

“Oh! Tradimento!” esclamarono nello stesso tempo i due giovani cavalieri.

“E’ possibile?” domandò il fiero e leale Estevan; “so che il re è ambizioso ed avido di ricchezze; ma che sia furfante a tal punto, non lo posso credere.”

“Come lo sapete, don Rodrigo?” soggiunse l’aragonese.

“Come i miei capelli bianche hanno veduto più cose delle vostre belle capigliature nere, signori? Credetemi, in fatto d’appoggio, non fidatevi mai che su voi medesimi, o sopra un altro voi stesso, se il cielo vi ha fatto questo raro presente: ma soprattutto non contate mai sull’amicizia d’un monaco o sopra una protezione reale; è una vela leggiera che volge ognora al vento dell’interesse personale; colui che vi si fida urta il più sovente in uno scoglio.”

“L’esperienza è una cosa amara,” replicò Estevan, con accento di dolore.

“Ecco perché la vecchiezza è triste,” rispose Valero. “Tuttavia,” soggiunse, “l’esperienza non rende tutti i vecchi egoisti, duri, indifferenti alle altrui sofferenze; essa non serve talvolta che a renderli più saggi…o più coraggiosi,” riprese, “perché il vero coraggio è il puro risultato della saggezza.”

Durante quest’animata conversazione, i tre signori non avevano veduta la testa d’un fraticello avanzarsi alla porta della cucina nella penombra formata verso il fondo della sala dalla scarsità e piccolezza dei lumi; era Josè, il quale, entrato per la porta della scuderia e veduti quei tre signori occupati in una discussione sì viva, aveva ascoltato senza dire parola, poiché gl’importava di sapere tutto quello che riguardava Estevan e Dolores. Le parole di Rodrigo de Valero presero per esso un senso che Estevan non aveva pensato a dar loro; Josè aveva quell’acume d’intelligenza che da una parola trae immense deduzioni, e non si ferma che agli ultimi limiti delle tirate conseguenze.

S’indirizzò dunque a Gioachino che, assiso in un canto della cucina, appoggiava il mento sur una delle mani, e gli disse:

“Gioachino, vedi tu quei tre signori che parlano con Estevan de Vargas?”

“Sì, Reverenza…”

“Guardali bene al fine di riconoscerli.”

“Li riconosco,” rispose la guardia.

“Tu li osserverai e mi renderai conto di tutte le loro azioni.”

“Bisognera pur renderne conto a monsignore il grande inquisitore?”

“No, a me solo,” replicò severamente don Josè.

2Bene, a voi solo, Beatitudine! Ho inteso perfettamente,” rispose Gioachino, il quale adorava Josè: poiché quell’uomo rozzo ed ignorante comprendeva istintivamente la superiorità d’animo del fraticello, e subiva pure l’influenza dell’adorabile bontà di Josè.

i tre signori continuavano la loro conversazione.

“Voi dunque sperate molto da questa lettera di Carlo V?” domandò Ximenes de Herrera.

“Se debbo credere a don Rodrigo, non c’è da farvi gran conto; non importa, proverò. Io debbo tentare tutti i mezzi possibili, e se questo non riesce…”

L’arrivo di  una quantità di gitani e di frati di tutti i colori, interruppe in quell’istante Estevan.

Il giovane conte, non trovandosi volentieri in simile compagnia, benché a quell’epaca sì in Sapgna come in francia i nobili frequentassero volentieri le taverne, trascinò Valero ed il suo amico nella strada.

“Addio,” gli disse; “sono costretto a lasciarvi.”

“Dove ci rivedremo?” domandò Valero.

“Non lo so,” rispose Estevan.

“Udite,” palò Valero con accento grave; “io dubito che la vostra lettera di Carlo V serva a poco; se non riuscite, venite a trovarmi al Muelle. Io passeggio là tutte le sere prima di cena…Forse,” soggiunse, “troveremo il mezzo di liberare il governatore di Siviglia a sua figlia.”

“Che volete dire?” domandò Estevan.

“Vi spiegherò questo quando non avrete altro mezzo di salvezza per coloro che amate: addio.”

Estevan si allontanò pieno di duolo e di timore.

Valero e don Ximenes rientrarono nella taverna. Era un piacere tutto particolare del sarcastico osservatore Rodrigo quello di studiare le varie fisionomie dei ricorrenti della taverna, monaci, e popolani, i quali riflettevano scambievolmente sui loro i diversi sentimenti che s’inspiravano gli uni con gli altri. Così l’egoismo e la rapacità dei monaci, il loro immenso disprezzo per il genere umano, erano scritti in tratti sparuti e gialli sui meschini volti del popolo o sulla fisionomia maliziosa dei ladri, mentre nei giocondi sembianti dei monaci, nella loro straordinaria pinguedine, e perfino nella loro umile ipocrisia, leggevasi il rispetto profondo e cieco d’un popolo ingannato, che credeva fare opera meritoria spogliandosi fino alla pelle per ingrassare quei frati sfaccendati.

“Sediamo,” disse Valero al suo giovane amico; “qui vengo a fare la mia messe di disprezzo e di coraggio…”

Nell’istante in cui stavano per assidersi, il suono argentino di un campanello suonò lentamente l’Ave Maria ad una chiesa vicina. I monaci che cenavano nella taverna si alzarono gravemente, e si posero a recitare l’Ave Maria, con voce rauca e nasale, con occhi bassi e ipocriti, che però si fermavano con gran compiacenza sulle gambe nude o sulle brune spalle di alcune gitanelle, venute quivi per cenare.

Frattanto Josè erasi avvicinato alla tavola a cui erano seduti Valero e don Ximenes. Il popolo rispondeva in coro all’orazione recitata dai monaci.

Valero rimase con le labbra chiuse, e non fece neppure il segno della croce.

Erasi appena pronunciato l’ultimo amen, che un Gerolomita, il quale trovatasi a lui vicino, l’apostrofò con accento di collera:

“Sei dunque eretico per non pregare con noi?”

“Tocca a voi pregare in pubblico ed inginocchiarvi nei templi,” rispose gravemente Valero; “voi avete tante turpitudini da espiare, che non sarebbe troppo il passare tutta la vostra vita in ginocchio, pregando Iddio di farvi misericordia.”

“Che dice questo mendico?” domandò un monaco della Mercede, guardando con aria sdegnosa gli abiti più che negletti del vecchio gentiluomo.

“Io dico,” replicò Valero, “che tu hai pagato più Jugeri di terra coll’oro dei fedeli, che tu non abbia riscattato di prigionieri.”

Il monaco si alzò cogli occhi scintillanti di rabbia, e si avanzò con gesto minaccevole verso l’uomo che osava così sfidarlo.

I gitani e le genti del popolo abbassavano la testa sulle loro scodelle per nascondere la soddisfazione che cagionava loro questo litigio.

Josè considerava Valero col suo occhio profondo e scrutatore.

Il vecchio gentiluomo restò fermo al suo posto. E con l’accento più freddo, più tranquillo, vedendo il monaco col viso rosso per il furore, “Che volete da me?” gli domandò.

“Ti voglio insegnare come si debbono rispettare i ministri del Signore!” rispose il monaco con voce soffocata dalla collera.

“I veri ministri del Signore sono dolci come il loro maestro,” riprese Valero, senza sconcertarsi, “sono buoni verso i deboli e li servono, invece di opprimerli.”

“Ben risposto,” disse piano un bravo, il quale era nientemeno che Corpo di Ferro.

Il monaco alzò violentemente la mano sul vecchi signore come per colpirlo.

Josè si gettò vivamente a lui dinanzi, dicendogli con freddezza: “Lasciate quest’uomo, reverendo, vedete bene che è pazzo.”

“Ah! Sì, è Valero,” esclamò un giovane Carmelitano, che non aveva ancor detto nulla; “non lo riconoscete, Padre?”

“Pazzo o no, ei deve pregare ed inginocchiarsi davanti alle sante immagini,” rispose brutalmente il monaco.

“Senza dubbio,” replicò Valero; “adorare come voi il legno e la pietra, ed insultare colle opere il re del cielo; non è cos’ che voi altri adorate Iddio?”

“E’ un eretico,” esclamò il Gerolomita, cercando di eccitare la collera del monaco della Mercede.

“E’ un pazzo, vi dico,” replicò freddamente Josè.

“I pazzi dicono talvolta cose sensate,” rispose Valero, guardano Josè in viso.

Josè alzò leggermente le spalle, e guardò Valero con un’aria che voleva dire: E’ meglio passare per pazzo, che essere abbruciato.

“E’ un seguace di Lutero!” continuò il Carmelitano.

“Reverenza,” si azzardò a dire Gioachino, il quale temeva una disputa più viva, “questo vecchio signore è insensato, ve l’assicuro, il nostro santissimo inquisitore non ha mai voluto farlo arrestare in causa di ciò.”

Un mormorio dei più espressivi corse nell’assemblea.

Le parole del pazzo, piene di verità, trovarono eco nell’anima di quel popolo oppresso, degradato dal fanatismo e dalla miseria. I soli gitani, colla superba indifferenza degli esseri nomadi per tutto ciò che è fine alle questioni morali, continuarono tranquillamente il loro pasto; tuttavia in quelle anime incolte, degradate, ma piene d’una selvaggia poesia, le parole di colui che chiamatasi il pazzo risuonavano in una maniera piacevole e sonora, perocché risvegliavano a loro insaputa, una delle più vive simpatie in quegli uomini selvaggi; esse erano espressioni di una fierezza altiera e d’un immenso amore per la libertà. Se la disputa fra Valero ed i monaci fosse divenuta seria, malgrado il rispetto che inspira il loro abito, forse i monaci non sarebbero stati favoriti. Il popolo spagnuolo aveva abbastanza da lagnarsi di essi per usar volentieri delle rappresaglie quando gli si porgesse il destro. Ma non accadde nulla; i monaci, da uomini prudenti, riuscirono finalmente a pacificare il monaco della Mercede, opponendogli la follia di Valero; ciò non per tanto ebbero un bel da fare; il popolo non rimase convinto di questa follia. Il popolo ha un istinto che raramente l’inganna; i suoi giudizi sono talvolta più sicuri di quelli della scienza. Egli ha una filosofia tutta particolare, alla quale converrebbe talvolta riportarsi.

Questo incidente mise Valero in grande venerazione fra i clienti della taverna.

Quando uscì, tutti gli occhi lo seguirono con uno sguardo obliquo, poiché non si ardiva testimoniare davanti ai monaci l’interessa che aveva inspirato. Ma nulla sfuggì all’occhio penetrante di Valero, che era dotato di una sagacità ammirabile.

Quando fu nella via con don Ximenes de Herrere:

“Don Ximenes,” egli disse, “l’avventura di questa sera potrà esserne utile: quelle persone ora faranno quello che vorrò.”

 

 

 

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XXXV.

La testimonianza.

 

 

 

Le sedute del tribunale della Inquisizione erano divenute quotidiane; il momento dell’atto-di-fede avvicinatasi: ogni giorno nuove condanne venivano ad aumentare il numero delle vittime che dovevano figurarvi. Il mostro insaziabile non si lasciava abbattere; colpevoli o no, gli abbisognava la sua messe completa: decima reale, destinata al vincitore di Francesco I.

Ogni mattina Estevan e Giovanni d’Avila si recavano di buon ora alla sala d’udienza; grazie al suo abito religioso, l’Apostolo vi entrava senza difficoltà.

Un rumore vago era corso il giorno innanzi nella città, che il governatore doveva in quel dì essere giudicato; oltracciò Gioachino, inviato da Josè, aveva avvertito Giovanni d’Avila. Si assise dunque con Estevan sulla panca destinata ai testimoni[24].

A poco a poco la sala si empiva di gente;m i birri ed i famigliari andavano e venivano qua e là occupati di cose diverse; i loro passi rimbombavano come eco lugubre in quella immensa sala.

I tormentatori, secondo la loro abitudine, stavano, come spettri, immobili alla sinistra del tribunale.

Finalmente l’ora suonò; gl’inquisitori entrarono per la porta posta dietro  al tribunale, ed andarono ad assidersi gravemente ai loro posti. Gli scrivani occupavano già il loro. La sala era in quel momento piena di monaci e di famigliari.

La portiera che rimaneva alla sinistra del presidente si aprì, e gli accusati comparvero, condotti dagli sgherri e guidati dai tormentatori.

Chi si avanzò per primo versi l’asta triangolare che doveva servirgli da sedile, era una donna; essa portava l’abito delle Carmelitane.

Il secondo era un prete Domenicano. L’assemblea lo vide con stupore figurare fra gli accusati.

Seguivano altre due vittime; erano due uomini nel fior della vita. Uno portava sull’austero suo volto l’impronta della meditazione e dei profondi studi; l’altro, di una fisionomia schietta ed aperta, aveva quell’abbattimento doloroso che s’impadronisce così presto delle persone naturalmente gioconde quando sono colpite da una grave sventura. Questi due inquisiti andarono a situarsi alllato della Carmelitana.

Il quinto era Manuel Argoso, il quale, guarito dalle sue contusioni camminava quasi senza difficoltà; ma il suo volto portava sì profondi i segni delle sue sofferenze, che Estevan non lo riconobbe più.

“Ecco il governatore,” gli disse Giovanni d’Avila a voce bassa.

“O, mio Dio! È impossibile!” disse Estevan; e si pose a cercare in quei lineamenti emaciati, in quella sparuta fisionomia, in quegli occhi quasi estinti, che potevano appena sopportare la luce del giorno, i tratti rimarchevoli del nobile conte di Cevallos. Egli aveva perduta quella espressione fiera e cavalleresca che lo distingueva fra i più grandi signori di quei tempi. Un’incredibile espressione d’amarezza faceva contrarre le sue labbra scolorite. Egli si assise.

Gli sgherri e i tormentatori presero il loro solito posto.

Allora Pietro Arbues guardando gli accusati, disse alla religiosa:

“Alzatevi.”

La Carmelitana obbedì, e ad un cenno dell’Inquisitore alzò il velo che fino ad allora aveva coperto il suo volto.

Giovanni d’Avila trasalì; egli aveva riconosciuto Francesca di Lerma. Malgrado le sofferenze del carcere, il viso della badessa delle Carmelitane era ancora d’una incomparabile bellezza. La sua robusta e vivace giovinezza aveva resistito all’aria infetta, al cibo abbominevole dell’Inquisizione, all’assenza quasi completa di movimento; la sua nobile fisionomia non aveva perduto nulla della sua altiera espressione, essa fissò il suo occhio nero e penetrante sul volto dell’inquisitore, cercando di turbare la sua coscienza, ma l’attore era pronto alla sua parte, Pietro Arbues rimase impassibile. Allora senza attendere le domande d’uso, la badessa delle Carmelitane, alzando fieramente la voce:

“Di che sono accusata?” disse.

“Di luteranismo,” replicò freddamente l’inquisitore. “Voi avreste dovuto attendere alle mie domande, sorella,” soggiunse con tuono melato.

Francesca sorrise sdegnosamente. “di luteranismo!” ella disse; “e come potete provarlo?”

“Sorella, Iddio prende sempre cura di svelare i delitti nascosti, affinché siano riconosciuti e puniti secondo Giustizia.”

“Iddio non può avere scoperto un delitto che io non ho commesso,” rispose la Carmelitana.

“Sorella,” continuò Pietro Arbues; “sarebbe più conforme allo spirito della nostra religione il confessare il vostro delitto, e pentirvene.”

“Quest’accusa è assurda,” rispose Francesca, con un leggiero movimento di spalle; “Chi ha mai pensato di rendermi eretica? Chi m’accusa finalmente, monsignore.”

“Questo libro, trovato presso di voi,” rispose Pietro Arbues, mostrando la Bibbia luterana involata da lui nell’appartamento di Francesca il giorno del loro penultimo colloquio.

Francesca riconobbe perfettamente la legatura di quel libro ch’essa aveva sfogliato con tanto piacere insieme alle sue favorite, indovinò subito per qual tradimento Pietro Arbues erasi impadronito di quel volume, obliato da Caterina; e nel profondo stupore in cui la gettò quella vista, serbò un momento di silenzio, imbarazzata di rispondere ad una prova sì convincente che valeva tutti i testimoni possibili.

Da quel momento ella disperò di sua salvezza, comprese bene che se Pietro Arbues non avesse avuto l’intenzione di farla morire, non si sarebbe servito di una prova così irrecusabile. Vedendosi perduta, accettò quella estrema posizione con gran coraggio. Quella donna sensuale, che aveva amato tanto la vita e sì poco pensato all’eternità, si divise in modo subitaneo da questo mondo, nel quale non aveva marcato i suoi giorni che per delle colpe. La sua religione superstiziosa e fanatica s’illuminò, per cos’ dire, sull’orlo della tomba; un raggio discese dal cielo sopra di lei, e volle chiudere la sua carriera con un atto di rassegnazione e di coraggio.

Essa alzò lentamente i suoi occhi che erano rimasti bassi per alcuni minuti, e guardando l’inquisitore con aria fiera ed inspirata ad un tempo:

“Monsignore,” disse, “io sono una grande peccatrice, e tutti i supplizi coi quali l’Inquisizione punisce i recidivi, gl’infedeli e gli eretici non basterebbero per estirpare tutti i miei delitti…non è vero, monsignore?” aggiunse con uno sguardo penetrante che coprì d’un impercettibile pallore il viso di Pietro Arbues. “Punitemi dunque,” proseguì, “punitemi coi tormenti più spaventevoli: ma in quest’atto di giustizia, monsignore, non obliate di punire tutti i colpevoli. Rammentate che colui il quale suggerisce il delitto pecca più ancora di colui che lo commette. Io non ho peccato sola, monsignore; punite adunque anco il mio complice, e la giustizia eterna sia soddisfatta.”

“Voi sola siete accusata,” rispose il giudice, senza guardare Francesca.

“Monsignore,” esclamò essa, “so bene che io sola porterò la pena de’ miei misfatti, peorcché, chi oserebbe accusare coloro i quali hanno missione di giudicare gli altri? Io sarò adunque in questo modo la vittima espiatoria, ma lassù…”

“Si riconduca questa donna nella sua prigione,” interruppe freddamente l’inquisitore; “essa non ha la sua ragione, l’ascolteremo un’altra volta.”

“Monsignore,” esclamò Francesca di Lerma, mostrando il cielo con un gesto energico, “v’è lassù un tribunale supremo che condannerà i giudici prevaricatori. Pietro Arbues! Tu sei un prete infame, e non vedrai mai la faccia di Dio! Fammi morir subito,” aggiunse; “la giustizia celeste saprà punire il monaco impudico, l’inquisitore carnefice!…”

Francesca non poté continuare; ad un cenno di Pietro Arbues i tormentatori le sbaragliarono la bocca e le legarono le mani. Essa lascò fare senza opporre la minima resistenza; ma avendo veduto Giovanni d’Avila, gli rivolse un mesto sorriso d’affezione e d’addio.

Poscia traversò la sala con tanta dignità, come se fosse stata nel mezzo alle zitelle della sua abbazia. Questo avvenimento eccitò una profonda emozione nell’anima di quelli fra gli astanti che non erano venduti al Sant’Uffizio[25]. L’inquisitore non era amato, ed una simile scena non poteva aumentare la venerazione degli abitanti di Siviglia per Sua Eminenza.

Pietro Arbues interpellò il primo dei due giovani accusati ch’erano sul sedile.

“Come vi chiamate?” gli domandò.

“Antonio Herrezuelo.”

“La vostra professione?”

“Avvocato.”

“Antonio Herrezuelo, siete accusato di professare la religione riformata.”

Antonio Herrezuelo non rispose.

“Che cosa avete da dire in vostra difesa?” proseguì l’inquisitore. Lo stesso silenzio da parte dell’accusato.

“Antonio Herrezuelo; è vero che avete abbracciato la religione di Lutero?”

“Io professo la vera religione di Cristo,” rispose Antonio.

“La religione che voi chiamate la religione di Cristo è quella degli apostati, e non quella della Chiesa,” replicò l’inquisitore.

“Quando la chiesa sfigura ed avvilisce le tradizioni evangeliche, e confida a mani impure la custodia del gregge di Gesù Cristo, bisogna bene che i dotti si facciano essi medesimi i depositarii della legge, e col Vangelo alla mano condannino coloro che han fatto del Vangelo un codice di lussuria e di brigantaggio.”

Giammai parola così ardita non era forse stata pronunziata in presenza dell’Inquisizione. Si riconosceva in essa l’ardimentoso coraggio dei seguaci del gran Lutero, il loro eroico disprezzo della vita terrestre, l’incredibile fermezza di quegli uomini gravi e severi che guardavano come un violazione della legge cristiana ogni mollezza ed ogni abbandono alle gioie della vita, e cercavano di ricondurre gli uomini alla semplicità dei primi secoli cristiani.

L’inquisitore non volle udirne di più; ebbe paura di quella scintilla elettrica sì facilmente comunicata dalla parola d’un uomo coraggioso, che basta talvolta a destare un immenso incendio.

“Basta,” egli disse, “quest’uomo confessa il suo delitto, e vi persevera: si riconduca alla sua prigione.”

“Di’ piuttosto che si riconduca al supplizio!” esclamò il dotto con entusiasmo, “grazie, mio Dio! Io morrò per la tua causa. Il sangue versato non sarà infecondo; la verità splenderà un giorno sul mondo!”

Un tormentatore si avvicinò per mettergli lo sbavaglio, l’accusato lo respinse con dignità.

“E’ inutile,” egli disse, “non ho altro da dire.” Quindi volgendosi all’altro giovane, che era suo compagno di carcere, gli fece un cenno amichevole come per incoraggiarlo.

Si condusse via Antonio Herrezuelo.

L’altra vittima si alzò quando le fu ordinato.

“Il vostro nome?” domandò l’inquisitore.

“Guglielmo Franco.”

“Guglielmo Franco, voi siete accusato d’aver commesso un sacrilegio percuotendo un prete del Signore.”

“Io ho percosso un’infame che m’aveva disonorato,” rispose Franco; “ un ministro indegno, che coperto del suo abito sacro ha portato in casa mia la disperazione e l’onta; m’ha sedotto una donna ch’io amava, e dalla quale aveva avuto dei figli; un mostro, che aveva benedetto il mio matrimonio, e ne ha rotto egli stesso i legami. Io voleva ucciderlo, e l’ho soltanto cacciato dalla mia casa.”

L’inquisitore si morse le labbra; pareva che in quel giorno tutti gli accusati che comparivano fossero congiurati contro l’Inquisizione, e dotati di quel coraggio distruttore degli abusi, nato da una lunga e crudele oppressione, che inspira un superbo sdegno della vita. Ma egli aveva tanto di destrezza da neutralizzare l’effetto di quelle coraggiose parole.

“Guglielmo Franco,” disse con dolcezza, “è assai doloroso per noi l’udire uscire dalla vostra bocca simili bestemmie; lo spirito delle tenebre vi accieca, figlio mio; egli vi suggerisce questi sentimenti impuri. Vostra moglie è persona piena di virtù e di vera pietà; che v’è di straordinario nell’intrattenersi di frequente col suo santo direttore? Voi eravate all’incontro indifferente e freddo per le pratiche religiose, avete trascurato di fortificare l’anima vostra colla preghiera e gli esercizi di pietà, il demonio allora se n’è impadronito; vi ha inspirata una cieca gelosia, un sentimento abbominevole, figlio mio; ed invece d’ammirare la vostra casta sposa, che procedeva con passo fermo nella via del cielo, preso da una delittuosa follia avete percosso l’unto del Signore. Pentitevi, figlio mio; vi si ricondurrà nella vostra prigione, ed il nostro fratello ed elemosiniere don Josè vi intratterrà religiosamente, e procurerà di strappare l’anima vostra al demonio e alla fiamme dell’inferno.”

“Ah! Mio Dio!” esclamò Franco, “io non temo l’inferno dell’altro mondo; ne ho abbastanza in questo![26]

L’inquisitore fece un segno di croce mentre i tormentatori conducevano via il prevenuto.

Pietro Arbues si volse quindi verso l’assemblea: “Fratelli,” disse, “preghiamo per l’anima di questo povero insensato, posseduto dallo spirito maligno.”

Ed inginocchiandosi il primo per dar l’esempio, borbottò a bassa voce alcune preghiere latine; poi, alzatosi, interpellò il quarto accusato.

Era un vecchio sacerdote Domenicano[27].

“Fratello,” gli disse Pietro Arbues, “mi duole infinitamente il vedere un uomo coperto di quell’abito santo che io stesso ho l’onore di portare, seder sulla panca degli accusati. In un’epoca in cui l’eresia, figlia dell’inferno, veglia come una prostituta alle porte della Chiesa Romana, chiamando a sé tutti coloro che vi entrano o che ne escono, con parole di seduzioni e di licenza, che le guadagnano il cuore dei deboli, noi vigili sentinelle di Roma, noi, colonne eterne della fede cattolica, non dovremmo noi raddoppiare di zelo e di attività per custodire la nostra religione minacciata, invece di lasciarci sedurre dall’errore, e di predicarlo agli altri?”

“Monsignore,” rispose il Domenicano, che aveva ascoltato questa strana requisitoria con un’apparente indifferenza, “ io comprendo, meglio d’ogni altro, quanto sia importante al sostegno d’una religione che coloro i quali la seguono, la confessino con coraggio e la difendano fino alla morte. Confesso adunque qui, in presenza di Dio, che quando io sono comparso per la prima volta davanti a questo tribunale, sono stato vile ed infedele rinnegando una dottrina che è la mia; sì, io ho abbracciato e predicato la novella religione, perché mi è sembrata essere la sola conforme a quella degli apostoli e dei primi cristiani, insegnata dallo stesso Gesù Cristo. Dichiaro inoltre ch’io non ho avuto complici nella mia abiura, che sono luterano solamente di cuore e di anima, per la convinzione del mio spirito. Nessuno adunque sia perseguitato per causa mia. Ho confessato, fatemi morire, ma risparmiatemi la tortura, io la temo mille volte più della morte.”

“Fratello,” rispose l’inquisitore, “oggi il vostro spirito è turbato; forse le penitenze che v’imponente…”

“Io ho tutta la mia ragione,” interruppe Boxas.

“Avete però dichiarato davanti a noi d’avere, solo per errore e senza intenzione, introdotte alcune eresie nelle vostre prediche; e siccome siete stato sempre attaccato fermamente alle dottrine della Chiesa cattolica, vogliamo credere che non siate fuorviato, fratello, verremo nio stessi a visitarvi nella vostra prigione, e forse Iddio esaudendo le nostre preci, manderà su di voi il suo Spirito Santo. Andate, fratello, e rientrate in voi stesso, vegliate e pregate; colui che prega non cade in tentazione.”

Domenico di Boxas si alzò senza rispondere; ei comprendeva perfettamente il senso di quelle parole melate.

“Che sant’uomo è monsignore Arbues!” dicevano alcune persone poco perite di ciò che accadeva fuori della sala del tribunale.

“Pietro Arbues farà forse grazia a colui, mercé il suo abito,” disse piani Estevan all’Apostolo.

“Quegli e gli altri saran bruciati senz’altre formalità,” rispose Giovanni d’Avila; “l’Inquisizione ha un talento meraviglioso per abbreviare i processi che la compromettono.”

Ciò fu detto a voce molto bassa, ma non tanto però che sfuggisse agli orecchi d’un famigliare che stava in piedi a pochi passi di distanza.

I famigliari avevano occhi di lince, e udito favoloso.

Non rimaneva da esaminare che il governatore.

Il cuore di Estevan palpitò con violenza e un gran silenzio si fece nella sala.

Manuel Argoso aveva udito tutto ciò che era avvenuto con una profonda indifferenza. A coloro che conoscevano l’Inquisizione, queste sedute non ispiravano che una specie di emozione, quella che nasconde l’orrore dell’ingiustizia e da una profonda pietà per delle vittime innocenti. Ivi l’anima non era eccitata dalla cupa e drammatica poesia d’un dibattimento giudiziario. Ivi non avvocato per disputare alla spada delle legge un testa innocente o colpevole; ivi non erano che carnefici e vittime: a che avria servito difendersi? Lottare contro l’Inquisizione era lo stesso che lottare contro la fatalità! Come fatalità, l’Inquisizione emetteva decreti irrevocabili dettati in precedenza; e, come la fatalità implacabile e cieca, essa colpiva senza posa e senza pietà.

Oh! Era veramente una cosa derisoria il vedere quegli uomini abbigliati di nero, rivestire d’una solenne fantasmagoria i loro atti ridicoli ed arbitrari; ma era pur bello il vedere quel popolo nobile della Spagna, schierato in battaglia contro quel lugubre drappello, succedersi e ristringersi, per così dire, di generazione in generazione per combattere a passo a passo il colosso, riempir molte volte in ciascun secolo il vuoto immenso lasciato nelle sue file dalla morte delle innumerevoli vittime cadute sul campo di battaglia, e distruggere cos’, a poco a poco quell’edifizio di morte, rimasto per tanto tempo in piedi nelle Spagne.

Questa è cosa di grandissima importanza da osservarsi per lo storico filosofo. Al finire del regno di Filippo II, i trionfi dell’Inquisizione sono andati sempre a indebolirsi in una maniera quasi impercettibile, sotto gli sforzi perseveranti degli eroici Spagnuoli; e quando ha finalmente crollato nel 1820 sotto gli ultimi colpi dei patrioti, essa è caduta come un antico edifizio lentamente minato, le cui fondamenta sarebbero state distrutte a poco a poco  da migliaia di braccia occupate per dei secoli a togliere ogni giorno un grano d’arena[28].

Quel giorno fu pure un giorno di combattimento, ma l’inquisitore, quel valente atleta dell’oscurantismo, non si dava per vinto per cos’ poco. Egli aveva all’occasione la perfida pazienza del rettile, il quale attende che il suo nemico si volga, per morderlo di dietro[29].

Liberato dagli accusati il coraggio dei quali avrebbe potuto comprometterlo, si rialzò a tutta la sua altezza, unendo tuttavia la più perfetta moderazione di parole a quell’orgoglio intimo di cui era gonfio.

“Alzatevi, fratello,” disse a Manuel Argoso.

Il governatore si alzò con un’aria completamente indifferente, come un uomo a cui ogni speranza è stata tolta, e che niun interesse lega più in questo mondo.

“Figlio mio,” proseguì l’inquisitore, gettando uno sguardo obliquo verso la panca dei testimoni, ov’erano assisi Estevan e Giovanni d’Avila: “figliuol mio, voi lo vedete, la religione cattolica, questa santa religione che è quella della Spagna, è ovunque fortemente minacciata. Più colpevoli ancora sono coloro i quali, in questi tempi di controversia religiosa, non usano dei poteri di cui sono rivestiti per fermare il progresso dell’eresia; non che la Chiesa possa perire, essendo essa appoggiata su basi eterne, ma per evitare dei mali immensi, e strappare alla perdizione migliaia di anime che ogni giorno si precipitano nelle voragini dell’inferno. Voi, figliuol mio, che per la vostra elevata posizione avevate una grande autorità in Siviglia, voi avete a rimproverarvi non solo una personale compiacenza per le dottrine pestifere di Lutero, ma eziandio una criminosa indulgenza per coloro che la praticavano….per degli eretici che eravate in obbligo di denunziare al Sant’Uffizio.”

“Era io dunque la spia, o il governatore della città?” rispose Manuel Argoso, alzando fieramente la testa.

“Sempre la stessa ostinazione!” mormorò Pietro Arbues con una tristezza ipocrita. “Voi confessate dunque finalmente,” riprese con accento insidioso, “ che non solamente avete avuto commercio con gli eretici, ma che siete eretico voi stesso?”

“Io non confesso nulla di tutto questo,” replicò Manuel; “ho già risposto a simili domande; ho subita la tortura senza confessare, perché questo sarebbe stato mentire, ed io non mentirò, neppure per evitare il rogo.”

“Eppure, figliuol mio, dei testimoni vi accusano, e niuno prende la vostra difesa, niuno viene a protestare contro le prime deposizioni. Vediamo, figliuol mio, quali sono i vostri testimoni?”

“Eccolo,” disse Giovanni d’Avila.

Egli ed Estevan si alzarono.

Pietro Arbues guardò il Francescano ed il giovane cavaliere con una pietà sdegnosa.

“Noi siamo qui per protestare della innocenza di don Manuel Argoso, conte di Cevallos,” proseguì l’impetuoso Estevan.

“Come vi chiamate?” domandò l’inquisitore.

“Estevan, conte di Vargas,” rispose il giovane con alterezza.

“Signor don Estevan,” proseguì Pietro Arbues, “noi non possiamo ammettervi alla testimonianza, il vostro avo non si nominava Vargas, ma Venegas; egli non era cattolico, bensì maomettano; egli ha cangiato di nome cangiando di religione. Noi non possiamo accettare come testimoni in discolpa che uomini di puro sangue cattolico e spagnuolo.”

“Monsignore,” replicò Estevan, rosso d’indignazione, “il re don Filippo I, fu meno difficile di Vostra Eminenza; ei giudicò che il discendente di una tribù che aveva dato dei re a Granata, il rampollo di una schiatta valente e fedele che s’era volontariamente dedicata alla causa del re di Spagna, meritava qualche ricompensa, egli fece mio padre del consiglio di Castiglia. Il figlio d’un consigliere alla corte di Castiglia non ha il diritto di comparire come testimone davanti al Sant’Uffizio?”

“Tali sono i nostri statuti, figlio mio, io non posso violarli in alcuna maniera. Sedete dunque, interrogheremo questo sant’uomo.”

Durante il dialogo dell’inquisitore e d’ Estevan, Manuel Argoso, preso d’ammirazione e di riconoscenza per l’affetto del giovane, non aveva cessato di esprimergli con gli sguardi il dispiacere che provava nel vederlo esporsi così per lui.

Non ostante, quando Giovanni d’Avila s’alzò a sua volta per rispondere alle interpellazioni dell’inquisitore, un raggio fuggitivo di speranza passò negli occhi dello sfortunato Manuel.

“Che cosa avete da dire in difesa dell’accusato?”

“Vengo a protestare qui, dinanzi a tutti, che Manuel Argoso si è sempre condotto da vero cristiano e da cavaliere leale; che ei non ha mai fatto nulla da meritare la censura di Roma. Io lo dichiaro adunque innocente di tutte le colpe delle quali viene accusato.”

“Padre,” replicò Arbues, con il più umile accento, “la vostra testimonianza è d’un gran peso e mi duole assai il dirvi che, malgrado il nostro profondo rispetto per la vostra persona, noi non possiamo contentarci della vostra sola testimonianza. Gli Statuti della santissima Inquisizione esigno l’asserzione di dodici testimoni[30] per rimandare assoluto un accusato. Dove sono gli altri testimoni, Padre mio?”

“Io son solo,” rispose Giovanni d’Avila; “ma poiché la mia testimonianza non serve, monsignore, forse Vostra Eminenza non ricuserà di credere a questa.”

Nello stesso tempo Giovanni d’Avila presentava al grande inquisitore la lettera di Carlo V.

Questo incidente causò una viva sorpresa fra gli astanti.

Pietro Arbues, senza sconcertarsi, spiegò lentamente la lettera regale, la lesse da cima a fondo, pesando bene ciascuna delle sue espressioni; poscia gettò lo sguardo sopra un’altra lettera aperta sul banco.

Era una nota di Carlo V, che conteneva queste parole:

Don Manuel Argoso, conte di Cevallos, in questo momento nelle prigioni del Sant’Uffizio, è, dicesi, innocente dei delitti di cui si accusa. Don Manuel Argoso m’ha sempre servito fedelmente, e desidero che sia favorevolmente giudicato dal santissimo tribunale di cui Vostra Eminenza è il capo. Tuttavia, siccome la causa di Dio deve passare innanzi alla mia, siccome il santo tribunale è il solo competente in queste materie delicate, desidero che tutto avvenga in modo che ne risulti il trionfo della nostra santissima religione e la maggior gloria di Dio. Questa lettera solamente dev’essere tenuta per valevole presso il Santo tribunale, e presso Vostra Eminenza, che Iddio guardi per lunghi e prosperi anni.

Dal palazzo in Madrid, il maggio 1534.

Don Estevan de Vargas non dev’essere perseguitato.”

L’inquisitore confrontò un momento le due firme le quali erano perfettamente uguali, siccome eguale esattamente era il formato delle due missive.

Pietro Arbues piegò le due lettere insieme, le introdusse nella manica della sua tonaca, e guardando Giovanni d’Avila e il giovine Vargas: “penseremo a quello che dobbiamo fare,” egli disse. “Don Estevan de Vargas, e voi, Padre mio, potete ritirarvi. La seduta è terminata,” aggiunse l’inquisitore, alzandosi.

L’effetto di queste ultime parole fu pronto come la folgore, e colpì l’udienza di terrore. L’infelice Argoso volse uno sguardo disperato verso i suoi difensori, come per dar loro un supremo addio.

Giovanni d’Avila si affrettò a condur via Estevan, esterrefatto per lo sdegno e la sorpresa, nel timore che, ricuperando le sue facoltà, per un istante smarrite, non perdesse sé medesimo con qualche parola imprudente o focosa.

Quando ebbe sollevato la portiera di velluto nero che era dietro la sua poltrona, Pietro Arbues si fermò un momento sulla soglia; poi distese la mano verso Giovanni d’Avila con un gesto minaccioso, e mormorò fra i denti:

“A noi due, ora, monaco matto!”

 

 

 

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XXXVI.

Cospirazione.

 

 

Era sera; gli oggetti erano velati da quella semioscurità crepuscolare cui nelle contrade meridionale succede sì presto la notte.

Alcuni passeggeri tardivi abbandonavano lentamente la Muelle per recarsi all’Alameda.

Due cavalieri s’incontrarono, e quantunque fosse loro impossibile di distinguere a vicenda i loro lineamenti si fermarono quasi nello stesso tempo.

“Siete voi, don Rodrigo Valero?” dimandò colui che veniva dalla parte della città.

“Sono io don Estevan; voi non avete tardato a recarvi all’appuntamento che io v’ho dato l’altro giorno alla taverna.”

“Tre giorni,” rispose il giovane conte con aria cupa.

Ebbene,” proseguì Valero, abbassando la voce per timore d’essere inteso.perché i famigliari dell’Inquisizione s’insinuavano per tutto come gnomi invisibili; ebbene, mio giovane amico, siete riuscito nella vostra intrapresa? Ed il governatore…”

“Il governatore sarà bruciato fra otto giorni se non giungiamo a liberarlo.”

“Ah! Io ve l’aveva detto, il re è il primo servo della Inquisizione; meglio sarebbe stata presso l’Inquisizione la protezione d’un Garduno di quella dell’imperatore.”

“Oh! Valero! Valero!” disse Estevan con rabbia, “se sapeste quale abisso d’iniquità è l’anima di Pietro Arbues!”

“Lo conosco meglio di voi,” rispose il vecchio signore: “ma voi non potete cambiarlo, ed ora si tratta di pensare ai mezzi di liberare il governatore di Siviglia.”

“Voi m’avete promesso d’aiutarmi, Valero; parlate, che bisogna fare? Sono pronto a tutto.

“A tutto! Ne siete sicuro, don Estevan?”

“A tutto! Ve lo giuro, “ rispose il giovane conte, esasperato all’ultimo punto dall’abbominevole iniquità dell’inquisitore.

Ascoltate, don Rodrigo; mio padre era membro del Consiglio di Catiglia, ed ha lottato costantemente per la libertà e la prosperità della Spagna. Un profondo oblio per il suo figlio è stata la ricompensa dei suoi servigi; ma non è ciò che risveglia la mia collera, poiché fo poco conto dei vanionori della terra, e disprezzo i favori delle corti. Non è adunque questo il motivo del mio odio contro il barbaro potere dell’Inquisizione, che suggerisce tutti i decreti del potere reale, e tiene, per così dire, in tutela il vincitore del mondo. Io ho ben altri motivi di odiarlo!

Ero l’amico intimo del governatore di Siviglia, ero il fidanzato di sua figlia, hanno mutilato il padre, carcerato Dolores. Forse Pietro Arbues o alcuno di quei monaci indegni ha usato contro di essa abbominevoli violenze. Io mi sono presentato come testimone del governatore, ma si è ricusata la mia testimonianza, e aggiungendo il disprezzo e l’insulto all’ingiustizia, mi si è rimproverata la mia nobile origine come una macchia. Ho fatto, finalmente, il viaggio di Madrid per implorare la giustizia di Carlo V, e l’imperatore ha dettato a me stesso una lettera per l’inquisitore, nella quale gli ha ingiunto di non condannare il conte di Cevallos. L’inquisitore, ad onta di questa lettera, ne rimanda senz’aver fatto giustizia.”

“Io ve l’aveva detto, povero mio Estevan!”

“Oh! Vedete don Rodrigo, tutte queste iniquità esacerbano l’anima; la riempiono di fiele e d’odio; si giunge a detestare l’umanità intera, che produce tanti mostri.”

“Non v’ha altri mostri che gl’inquisitori,” disse Valero; “bisogna colpirli.”

“Come si può fare ciò?”

“Ascoltate, o giovane; voi non siete il solo in Spagna che abbia il cuore esulcerato dall’ingiustizia e dalla persecuzione; migliaia di vittime serbano nel fondo dell’anima loro un odio sordo e compresso, il quale non richiede che una scintilla per scoppiare. L’Inquisizione ha riempito la Spagna di vedove, di vecchi senza figli, e di figli orfani; ha seminato l’ingiustizia, raccolga vendetta; il popolo, malcontento ed oppresso, comincia a comprendere che basterebbe scuotersi per rompere il suo giogo; la luce, venuta da lungi, rischiara già gli spirit d’un lontano, ma vivo riflesso. Il popolo è pronto, non gli mancano che i capi. Siam noi. Due altri giovani signori che conoscete, divideranno con noi questa gloria: don Ximenes de Herrera ed il giovane don Carlos.”

“Il genero del conte di Mondejar!” interruppe vivamente Estevan.

“Doveva esserlo,” rispose Valero; ma le cose sono cangiate da qualche giorno; don Carlos è ora più nemico dell’Inquisizione, che era poco prima amante della figlia del conte di Mondejar.”

“Io diffido di queste conversioni improvvise,” rispose Estevan.

“Avete torto, questa è sincera, o piuttosto la lealtà innata del giovane don Carlos s’è offesa delle condizioni che gli furono imposte al suo matrimonio; ed ha amato meglio rinunziare a donna Isabella, che divenir infame per ottenerla.”

“Ciò è differente,” disse il giovane Vargas, “ed io lo stimo quanto prima lo disprezzava.”

“Ebbene!” proseguì Valero, “siamo dunque i capi di una cospirazione contro l’inquisitore Arbues, contro il carnefice di Siviglia!”

“Che volete dire?”

“Voglio dire,” continuò Valero, “ che è tempo che la Spagna esca dal suo torpore. L’atto-di-fede è vicino; in questo tempo ordiniamo un’armata di uomini liberi: voi, don Ximenes, don Carlos ed io ne saremo i capi… Abbiamo già molti seguaci. Io m’incarico di sollevare il popolo. Il giorno dell’atto-di-fede, quando la processione sarà riunita sulla piazza di Siviglia, mentre si leggerà la sentenza ai condannati, daremo il primo segnale gettandoci sugl’inquisitori, il popolo farà il resto, e noi libereremo le vittime.”

“Grazie, Valero,” disse Estevan, serrando vivamente la mano del vegliardo: “Grazie! È questo un pensiero che io vagheggio da molto tempo.”

“Morto l’inquisitore,” proseguì Rodrigo, “il resto diverrà facile.”

“Morto! Voi dite? Volete uccidere l’inquisitore?”

“La morte del malvagio è una giustizia,” replicò Valero.

“Don Rodrigo!” disse Estevan, “a questa condizione non sono dei vostri.”

“Perché?” disse il vegliardo; Pietro Arbues non immolerà vittime innumerevoli? Se si uccide per slavarli è questo un gran delitto?”

“Il suo delitto almeno è rivestito di forme giudiziarie,” replicò Estevan, “il nostro sarebbe un assassinio; non posso acconsentirvi.”

“Tuttavia non v’è che questo mezzo,” disse il cupo Valero.

“Se abbiamo forze, non possiamo,” disse Estevan, “rapire i prigionieri, e renderci padroni dell’inquisitore senza attentare alla sua vita?”

“Il serpente che si lascia in vita finisce, un giorno o l’altro, col mordervi,” disse Valero.

“Il sangue insozza colui che lo versa,” replicò Estevan. “Pensate a un altro mezzo, don Rodrigo, io non posso accettare quello che mi proponete.”

“Ma,” proseguì Valero, “i famigliari e gli sgherri sono in gran numero, noi non possiamo lusingarci di essere sì numerosi da rapire i prigionieri e l’inquisitore stesso sena una gran perdita di gente; mentre giungendo a spegnere Arbues, si libera la Spagna da un mostro che decima l’Andalusia.”

“Un mostro che sarebbe bentosto surrogato da un altro,” rispose Estevan. “Credetemi, don Valero; non basta abbattere un ramo per sradicare un albero. Quando avremo ucciso Pietro Arbues, avremo distrutto l’Inquisizione? Per abbattere questo colosso formidabile, bisogna scavare lentamente il terreno nel quale deve un giorno inabissarsi: ma questa gloria non è riserbata a noi, credetelo. Ora si tratta di liberare il governatore di Siviglia, liberiamolo senza attentare alla vita di alcuno.”

“Non saremo mai in tal numero da far questo,” disse Valero.

“Lo saremo più che non credete; siete ricco, don Rodrigo?”

“Come un gentiluomo che ha sempre avuto più orgoglio che rendite,” rispose il vecchi signore. “La mia gioventù è stata molto dissipata; e se non fosse notte, non mi avreste fatta questa domanda,” aggiunse facendo così allusione alla semplicità più che negletta de’ suoi abiti.

“Ebbene! Io ho la fortuna d’esserlo,” disse il giovane Vargas, “e col danaro tutto può accomodarsi. Lasciatemi fare, don Valero, io vi fornirò più braccia di quelle che abbisognano in questa faccenda.”

“Oh! Comprendo,” disse Valero, “vi dirigerete, senza dubbio, a quella maledetta società della Garduna; ma, mio caro, quelle persone sono vendute all’Inquisizione.”

“Quelle persone sono vendute a chi le paga. Lasciatemi agire, e non macchiamo di sangue questa eroica insurrezione contro i carnefici della nostra patria.”

Intanto erano giunti davanti ad una casa di bella apparenza. Le finestre del balcone erano illuminate: Rodrigo batté alla porta.

“Che fate?” domandò Estevan.

“Entro in casa mia,” rispose Valero, “o, per meglio dire, in casa del mio amico don Ximenes de Herrera, che mi ricovera in casa sua perché non ho, come suol dirsi, né casa, né tetto. Seguitemi, don Estevan, parleremo tutti e tre del nostro progetto.”

Erasi aperta la porta: don Estevan e Valero salirono al primo piano, ov’era l’appartamento del giovane signore aragonese. Don Ximenes, era solo. Parve leggermente sorpreso alla vista di Estevan.

“Don Ximenes,” disse il vecchio signore, “noi abbiamo finalmente un degno complice della nostra santa lega, contro gli oppressori; don Estevan de Vargas è de’ nostri.”

Ximenes stese la mano al giovane conte.

“Siam dunque amici,” disse, “uniamo i nostri cuori e le nostre volontà per questa santa causa.”

“Avete avvertito don Carlos?” domandò Rodrigo. “Don Carlos non è più libero,” rispose mestamente don Ximenes;  è stato arrestato il giorno del Santo e gettato nelle carceri dell’Inquisizione.”

“Ecco un’altra vittima!” disse Rodrigo; “e come l’avete saputo questo?”

“Dalla giovane Isabella, che l’adora, e che, malgrado la devozione fanatica che si è cercato d’inspirarle fino dalla sua infanzia, brucerebbe volentieri tutti gl’inquisitori per liberare quegli ch’ella ama!”

“Tre capi basteranno,” disse Estevan, “e coll’aiuto del quale parlava testé a don Rodrigo…”

“Quale aiuto?” domandò don Ximenes de Herrera.

Estevan allora gli spiegò quello che sperava dalla Garduna, e con qual mezzo intendeva farla agire.

“Mi ripugna,” diceva, “aver ricorso a simil gente; ma credetemi, signori, non sdegnate questo mezzo; se queste persone non fossero per noi, sarebbero contro di noi, e Dio sa ciò che avverrebbe della nostra impresa.

“Voi li conoscete dunque?” domandò Ximenes, sorridendo leggermente.

“Non scherzate, don Ximenes: disgraziate circostanze mi hanno forzato ad impiegarli. Essi hanno già liberato una volta Dolores dalle Mani dell’Inquisizione; sventuratamente la sua pietà filiale l’ha perduta.”

“Sì, sì, lo so,” disse il giovane aragonese; “l’ho veduta la sera in cui, senza dubbio fu arrestata.”

“Ebbene! Signori, queste persone possono aiutarmi a salvala una seconda volta. Io m’incarico di vederli e di trattare con essi.”

“Ed io m’incarico di sollevare le masse,” disse Valero[31].

“Ed io di dirigerle all’uopo, aggiunse don Ximenes.

“Io voleva la morte dell’inquisitore,” riprese Valero, “ed era giusto che fosse punito; ma don Estevan ha fatto come voi, don Ximenes, non ha voluto che si versasse sangue.”

“Forse ve ne sarà troppo,” dissero nel medesimo tempo i due giovani signori.

“E’ tardi,” rispose Estevan: “un garduno non tradisce mai chi gli ha dato del denaro.

Addio, signori, non dimenticate il nostro appuntamento.”

Vedremo ben tosto quale fu il risultato dei suoi passi presso la Garduna.

 

 

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XXXVII.

Due eremiti.

 

 

A poca distanza da Siviglia, dal lato della casa del’Apostolo, vedevasi una specie di caverna scavata nella ròcca a pié d’una collina selvosa, la cui cima sporgeva verso il fiume.

L’ingresso di questa grotta, quasi circolare e dell’altezza di un uomo, somigliava ad una corona di fiori.

Il pallido citiso, la bianca brionia, il susino selvatico, il cui fiore esala un soave profumo di vaniglia e di cacao, e il berbera dai grappi di corallo, crescevano a profusione sul leggiero strato di terra vegetale che copriva il granito di cui questa collina era formata. Le loro redici e  i loro rami flessibili si stendevano qua e là come migliaia di braccia, e i loro fusti servivano a ritenere attorno all’orifizio della grotta quella terra mobile e leggiera, che, senza di ciò ne avrebbe otturato l’ingresso con continue frane.

L’interno di quella grotta, alquanto umida, era tappezzato di scolopendre e capelveneri, piante sobrie, nutrite nelle fessure del granito, che pendevano dalla volta in ciocche d’un verde lucido.

Era notte. Dieci ore erano suonate all’orologio della cattedrale.

In un angolo di quella grotta, un uomo ed una donna erano seduti sopra una stuoia grossolana di Valenza, che serviva loro di seggiola e di letto ad un tempo.

Verso l’ingrasso, in un altro angolo, un fuoco vivo di ramo d’ulivo illuminava gli abitanti di quella singolare dimora, e serviva al tempo stesso di scacciare l’umidità della grotta, alquanto fredda, malgrado il calore del clima e della stagione. La donna, giovane, bella e ben fatta, era seduta sulla stuoia in attitudine graziosa.

L’uomo, vestito di semplici brache di tela, e della sua camicia aperta sul petto, era disteso sulla stuoia, ed il suo braccio sinistro appoggiato sulle ginocchia della sua compagna, sosteneva la sua testa. Questo uomo serbava un profondo silenzio; il suo volto, rozzo e pieno d’energia, aveva una singolare espressione di abbattimento e di tristezza; non alzava mai gli occhi sulla sua compagna, che lo considerava con una espressione profonda d’amore appassionato e di malinconia.

La fisionomia, l’attitudine di quei due personaggi erano in armonia colla solitudine melanconica della loro abitazione.

Manofina e la sua compagna, attuali possessori di quella caverna, erano quasi divenuti romiti cessando d’essere garduni.

Il fiero bravo subiva in quel momento la spaventevole influenza del suo assoluto mangiamento di vita. L’inerzia dell’anima e del corpo opprimeva quella forte e vigorosa natura. L’uomo fisico dominava troppo in lui perché potesse contentarsi d’un puro spiritualismo. Aveva tanto di poesia, di accortezza, d’istinto, da essere facilmente sedotto dall’attrattiva del bene e convertito dalla sublime carità dell’Apostolo; ma le sue facoltà energiche e potenti richiedevano l’esercizio attivo, e non la contemplazione estatica o la rassegnazione passiva. Manofina avrebbe sopportato il martirio, perché là pure v’è lotta ed esercizio di forza morale in mancanza di lotta fisica; ma rinunziare ad un tratto alla sua vita piena d’avventure e di perigli; lasciare il pugnale, e vivere continuamente d’ozio e di meditazione, era cosa superiore alle forze del bravo. L’amore stesso della sirena non bastava più ai bisogni di quell’anima turbolenta e vagabonda. L’inerzia incominciava a vincerlo; Manofina aveva la febbre dell’inazione. Alcuni giorni ancora, e sarebbe divenuto idiota o insensato, tanto impero ha la materia sullo spirito, quando questo non è stato da lunghissimo tempo abituato a dominarla costantemente per un esercizio continuo e per lotte incessanti.

La sirena erasi, meglio di lui, avvezzata a tale esistenza negativa. Il vuoto dell’anima non esisteva per essa, era donna, ed amava; però, quantunque non dividesse per lo intero i sentimenti del bravo, pure soffriva nel vederlo soffrire, e la sua ingegnosa tenerezza non aveva altro scopo, altra preoccupazione fuorché quella di consolarlo.

Vedendo che da più di un’ora Manofina, immobile, appoggiato sulle sue ginocchia, non le aveva indirizzata la parola, Colubrina passò la sua gentil manina nella ruvida e nera capigliatura del bravo.

Manofina si scosse, e alzò verso la compagna lentamente i suoi occhini, pieni di mestizia.

“Che vuoi, anima mia?” le disse.

“Vorrei vederti felice,” rispose mesta la sirena. Il bravo trasalì, come se gli fosse stata posta una mano sur una ferita, ma non rispose.

“Oh! Vedi Manofina,” proseguì la giovine con un’espressione appassionata; “tu hai un bel dire ch’io m’inganno, e mostrarti felice quando incontriamo gli antichi compagni, ma veggo chiaro in tutto questo: ti annoi, soffri, e questo ritiro, che ti sembrava sì dolce il primo giorno, è divenuto per te più tristo d’una prigione.”

“Oh! Colubrina, non biasimarmi,” rispose il bravo, docile come un agnello. “io ho fatto tutto quello che hai voluto; ho ubbidito all’Apostolo: ebbene! Mio malgrado perdo il respiro, e mi sembra a momenti che questa montagna che ci ricovera, abbia a crollare sopra di noi. Vedi, anima mia, v’è qualche cosa in me, ch’io non comprendo ancor bene, e che pure vorrei conoscere, perché questa vita diviene intollerabile, e sarebbe tempo di finirla. Aveva fatto giuramento al maestro della Garduna, e gli aveva promesso d’ubbidirgli per tutta la mia vita, e tu sai se sono stato per molto tempo fedele alla mia promessa.”

 “Oh! Sì; tu eri il più valente dei nostri fratelli,” esclamò la sirena (l’istinto della gitana si risvegliava); “sì, la Garduna può credere che non troverà mai chi ti eguagli!”

“Ebbene!” proseguì il bravo, “il maestro mi aveva ordinato d’oscurare don Estevan de Vargas…”

“E poi?” disse la sirena.

“Non è rimprovero ch’io ti faccio,” continuò Manofina; “ma tu mi hai pregato di non oscurare questo giovane cavaliere; tu hai arrestato il mio braccio e intenerito il mio cuore; poi è venuto l’Apostolo… Finalmente ho mancato al mio giuramento, e ho lasciato vivere don Estevan…-Poscia,” aggiunse il bravo, con aria feroce, “siccome un delitto porta ognora seco altri delitti, ho rinnegato la Garduna, ho abbandonato i miei fratelli…ed ora…oh! Ora,” proseguì con cupa energia, “io ch’era sempre il primo al pericolo, passo la mia vita per terra come un cane; io, che viveva col mio pugnale, vivo ora colla melopia dei monaci; e finalmente la notte… sì, la notte, vedi, mentre tu dormi al mio fianco, se il vento agita i rami degli alberi, a me sembra sentire lamenti d’agonia!… quando un lampo traccia nell’aria una linea di sangue, credo di vedere uno spettro che passa innanzi a me per sfidarmi o spaventarmi…e finalmente…finalmente…io, che tante volte ho sfidato la morte…tremo al grido d’un insetto…al muoversi d’una foglia…Sono divenuto vile…, ho paura…”

Terminando  queste parole, il bravo era divenuto d’un pallore livido, un freddo sudore copriva la sua fronte di bronzo, ed i suoi occhi, cupi e fieri, esprimevano una indicibile sofferenza.

La sirena sollevò nelle sua braccia la testa di Manofina, ed appoggiandola al suo seno con una adorabile tenerezza, come avrebbe fatto una madre col suo figlio malato, lo baciò dolcemente in fronte, come se il contatto delle sue labbra avesse il potere di calmarlo.

Era, infatti, un balsamo consolante per il cuore del bravo; chiuse dolcemente gli occhi per non vedere più i fantasmi che l’assediavano, ed appoggiò la sua testa sul seno della sirena, come per comprimere le violenti pulsazioni delle sue tempie.

“Mio caro, perché soffri?” disse la gitana; “perché ti rimproveri come un delitto la più bella azione della tua vita?”

“Io temo che Iddio mi punisca per aver tradito il giuramento fatto alla confraternita.”

“L’Apostolo ti ha dato l’assoluzione, che temi?”

“E’ vero, l’Apostolo è un santo, e non ci avrebbe ingannati,” disse il bravo, alquanto rassicurato.

“Non ha forse pregato Iddio di renderti la vita quando eri ammalato?, e tutti si allontanavano da te temendo di prendere la tua malattia?”

“Eccetto te, mia Colubrina, te che andasti a cercare l’Apostolo per risuscitarmi, e che non hai avuto paura d’attaccarti al mio male.”

“Io non ebbi gran merito in questo; che avrei fatto io se tu fossi morto? Mi sarei ammalata, e sarei morta io pure dopo di te.”

“Oh! Vedo bene che tu mi ami!” gridò Manofina, con una gioia mista d’orgoglio; “vedo bene che tu m’hai detto sempre la verità.”

“Povero Manofina!” ella disse, “io t’amo perché Iddio lo vuole, ed è pure per sua volontà che abbiamo lasciato la Garduna.”

“Lo credi?” disse in modo semplice il bravo.

“L’Apostolo me l’ha detto, io credo tutto quello che dice l’Apostolo,” rispose la giovine.

“Tu hai forse ragione, Colubrina,” mormorò il bravo, pensieroso…”Oh! Ma,” proseguì ad un tratto con lieve amarezza, “vivere senza far nulla, senza correre pericoli, senza esporre la sua vita di giorno e di notte, senza che alcuno vi dica mai: -Bravo Manofina, ben fatto!- vedi anima mia, è cosa da impazzire. Meno male se potessi salvare qualche vittima dall’Inquisizione, come diceva l’Apostolo; battermi contro i famigliari del Sant’Uffizio, come quella sera in cui abbiamo salvato quella giovane signora, lo rammenti?”

“Ciò era ben fatto,” disse la sirena, “l’Apostolo aveva ordinato di salvarla.”

“Senza di te però,” proseguì Manofina, gli occhi del quale si animavano alla rimembranza di quella pugna notturna, “senza di te, Colubrina, era finita per me; Manofina non avrebbe più impugnato il suo coltello d’Albacete.”

Così favellando, il bravo accarezzava con compiacenza il manico del suo pugnale spagnuolo, la cui larga lama sfavillava al chiarore indeciso del focolare.

“Calmati,” disse la sirena, “sta tranquillo, la guerra non è finita; avremo ancor molti nemici da combattere. Il tuo pugnale non diverrà rugginoso; vi sono in Siviglia tante povere persone perseguitate dall’Inquisizione!…Non ti rammenti che l’Apostolo ci ha raccomandato di salvarle ogni volta che lo possiamo?”

“Ma dove trovarle?” aggiunse Manofina “dacché ho lasciato la Garduna, il mio coltello non è uscito dal fodero che per tagliare i giunchi del Guadalquivir, coi quali tu fai le stuoie che ci servono di letto.”

“Sta quieto,” disse teneramente la sirena; “l’occasione si presenterà e presto.”

E, sorridendogli col più lieto sembiante, faceva vedere due file di denti bianchissimi. In quel momento un soffio venuto dall’esterno agitò vivamente la fiamma del focolare; i rami delicati e frondosi, che pendevano all’ingresso della caverna, si separarono con un prolungato mormorio.

“Chi è?” gridò il bravo alzandosi tosto, e portando la mano al suo pugnale.

“Hai forse volontà d’uccidermi, fratello?” domandò il nuovo venuto con accento chiaro e sonoro.

“Vergine del Carmine!” esclamò la sirena; “chi avrebbe pensato che fosse Gioachino che veniva a visitarci a quest’ora!”

“Hai bisogno di noi?” soggiunse Manofina.

“Bene, ben, Manofina!” esclamò Gioachino; “sempre lo stesso, brav’uomo; tut non hai perduto il tuo coraggio, benché sii divenuto eremita.”

“Ah! Mio Dio!” disse il bravo, “quanto tempo è che questo non mi era stato detto!…Tu sei felice, Gioachino,” proseguì, “tu vai, tu vieni, tu lavori, tu sei buono a qualche cosa finalmente; mentre io…”

La sirena gli appoggiò leggermente la mano sulla bocca per impedirgli di continuare; ma questo bastava a Gioachino per indovinare lo stato morale del bravo; aveva letto fino all’ultima sillaba ciò che avveniva nell’anima del suo antico compagno.

“Bene,” pensò; “s’annoia, dunque è de’ nostri.”

“Che c’è di nuovo a Siviglia?” domandò Colubrina cercando di deviare la conversazione.

“Oh! Molte cose,” rispose Gioachino con aria misteriosa.

“Raccontaci,” esclamarono nello stesso tempo la sirena ed il bravo, tendendo il collo verso di esso con un movimento di curiosità.

“Pazienza,” disse Colubrina, ricacciando sotto i suoi piedi la sottana rossa che ondeggiava sulla stuoia, “siedi là, Gioachino, e dinne quello che accade.”

“Sì, siedi,” aggiunse Manofina, gli occhi del quale brillavano d’impazienza; “sentiamo, fratello, che cosa accade.”

Gioachino si assise.

“Debbo dirti, Manofina,” continuò l’accorto Gioachino, “ che la società della Garduna non ti ha ancor rimpiazzato.”

“Lo credo,” replicò con vivacità la sirena…

“lo sperava forse?” proseguì con indicibile vanità di donna e d’amante.

“Lasciate parlare, Colubrina,” disse il bravo.

“Diceva dunque, “riprese Gioachino, “che il tuo posto è ancor vacante alla Garduna.”

“E poi, udiamo,” disse Manofina.

“Però la società non continua meno ad essere valente, leale e fedele a coloro che la impiegano.”

“Mi fai forse un rimprovero?” mormorò sordamente il bravo.

“No, Dio me ne guardi! Voleva solamente dirti che le funzioni della Garduna divengono ogni giorno più importanti, e che…”

“Ebbene! Che cosa m’importa?” interruppe bruscamente il bravo; “sai che non ne fo più parte.”

“E’ tua colpa,” disse Gioachino.

“L’Apostolo me l’ha proibito, “ replicò l’amante della sirena.

“Perché vieni a tentarlo, Gioachino?” disse Colubrina: “questa non è parte da buon fratello.”

“Se mi lasciate il tempo di parlare,” borbottò il giovane taverniere, “non perdereste così il vostro tempo in parole inutili.”

“Ebbene! Parla; noi non diremo più niente; staremo ad ascoltare…”

“Intanto mi fate perdere il filo del discorso; tacete dunque una volta… Dov’eravamo? Ah! Va ben! La Garduna è sempre più florida, gl’inquisitori la pagano per oscurare gli eretici, gli eretici vogliono pagarla per oscurare…no, per arrestare gl’inquisitori.”

“Come?” disse Manofina, il cui sguardo si animava d’un fuoco strano ad ogni parola di Gioachino. “Oh! Amici miei! Se sapeste quello che avviene,” proseguì questi, “il governatore di Siviglia sta per essere bruciato, e la sua figlia è in prigione per tutta la sua vita.”

“Gesù mio!” esclamò la sirena, “e di Estevan che ne è stato?”

“Silenzio,” disse Gioachino, ponendo un dito sulle sue labbra, e volgendo la testa da tutti i lati come se avesse temuto d’essere ascoltato; “di lui non bisogna parlare, perché forse sarà messo in carcere egli pure, e…”

“Sii tranquillo,” si affrettò a dire la Colubrina; “qui non vi sono famigliari; non abbiamo altri vicini se non gli avvoltoi e le serpi; e questi sono meno a temersi di quelli.”

“Oh amici miei!” continuò il taverniere, “se sapeste quello che si prepara!”

“Finalmente ti spiegherai?” disse Manofina, con impazienza.

“Ecco,” riprese Gioachino; “don Estevan de Vargas, che vuole ad ogni costo salvare il suo suocero e la sua sposa, ha risoluto di rapire il governatore e sua figlia il giorno dell’atto-di-fede, e di arrestare gl’inquisitori.

“Ci sono!” gridò Manofina.

“Aspetta; tu non potrai far tutto solo; perciò è necessario che la società della Garduna, che è sempre pronta a battersi per vendicare gl’innocenti, sia a parte del complotto per assicurare il successo.”

“Sai bene ch’io non appartengo più alla società,” rispose mestamente Manofina.

“Giusto per questo tu ci puoi favorire, fratello,” disse Gioachino, vedendo che aveva già fatto il più, e che Manofina stava per cedere.

“Spiegati, fratello.”

“Ti ho detto già che il maestro non ha potuto ancora surrogarti, e che piange la tua perdita. Ora noi abbiamo bisogno dell’aiuto del maestro della Garduna per condurre a buon fine la nostra intrapresa. Tocca dunque a te, Manofina, d’andarlo a trovare; tu sei sempre stato il suo favorito, e non ricuserà di far parte del complotto se tu gli prometti d’essergli compagno, poiché nella speranza di riacquistarti alla società, farà tutto quello che vorrai.”

“Se gli lascio questa speranza, l’inganno,” rispose il bravo, vivamente combattuto fra i suoi istinti bellicosi,  il suo trasporto sfrenato per il pericolo, e la promessa da lui fatta all’Apostolo.

“Tu non avrai bisogno d’ingannarlo,” replicò Gioachino; “s’egli ha una vana speranza, peggio per lui; tu non sarai obbligato a mantenere quello che non gli avrai promesso. oltracciò,” soggiunse, “Estevan è ricchissimo, e stimo che la ricompensa ch’io sono autorizzato a promettere in suo nome alla confraternita valga la pena che si serva. Orsù, preparati a seguirmi; questa è l’ora; vieni a trovare il maestro, e sbrighiamoci; l’atto-di-fede è fissato fra otto giorni; non v’è tempo da perdere per disporre le cose. Partiamo!”

Chi avesse potuto, in quel momento, studiare la fisionomia del bravo, sarebbe rimasto spaventato dell’immenso poema di emozioni che si svolgevano dall’anima sua nel tempo che Gioachino favellava. Tutte le forze vitali di quell’uomo energico, da tanto tempo inattive, eransi ridestate ad un tratto. Il suo cuore balzò con violenza entro il suo petto, e la febbre dell’entusiasmo, l’ardente esaltazione del coraggio lungamente compresso, davanti a quella virile figura erano in una grandiosa espressione.

Vi si poteva leggere ugualmente un supremo disprezzo del pericolo, ed un profondo fanatismo religioso.

Era venuto il momento di eseguire il comando dell’Apostolo, di colui che riguardava come l’inviato di Dio.

Stava finalmente per combattere in favore della giustizia, combattere contro gli oppressori a pro degli oppressi, secondando le sue tendenze ed i suoi gusti, acquistarsi il paradiso di Gesù Cristo; il paradiso!…quel sogno sublime dei miseri e degli afflitti…

Il bravo era rimasto un momento annientato sotto il peso di tante sensazioni, oppresso dall’immenso piacere che provava.

La sirena lo considerava ansiosa, attendendo la decisione del suo damo.

Finalmente Manofina si alzò, dié un balzo come toro selvaggio, e stringendo attorno ai suoi fianchi la cintura rossa a cui era appeso il suo pugnale, gridò con voce potente:

“Partiamo!”

La sirena, più lesta d’una capra delle montagne, era già in piedi al suo lato.

“Dove vai?” domandò Gioachino a Colubrina.

“Con voi,” rispose fieramente la sirena; “non si va senza di me.”

“Sicuramente,” disse il bravo, stringendola con tenerezza al suo petto; “Possiamo camminare l’uno senza l’altro?”

Uscirono tutti e tre dalla caverna. 

 

 

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XXXVIII.

Il ballo del lampione[32].

 

A misura che Manofina si avvicinava al Palazzo della Garduna, le sue narici si dilatavano, e parea fiutar l’aria come avrebbe fatto un cavallo arabo riconoscendo la tenda del suo padrone.

La sirena stessa non poté fare a meno di provare quel fremito leggiero che si sente alla vista dei luoghi per tanto tempo diletti, e che si credeva di non rivedere mai più.

La notte era tranquilla, tiepida e bruna, la luna era disparsa da molto tempo dietro l’orizzonte.

Era una notte deliziosa per amanti o spasimatori.

Mentre stavano per varcare la prima cinta di mura che circondava il palazzo, si fermarono alcuni istanti, stupefatti e rapiti ad un tempo dallo spettacolo che loro si offriva. Una gran luce veniva dalla porta semiaperta, e uditasi di dentro il suono d’una chitarra, accompagnata da una voce d’uomo e da lievi accordi del pandero[33].

“Come sono allegri!” disse la sirena con un sospiro.

“Qual è dunque il santo del giorno?” domandò Manofina.

“Forse è la fine d’una novena,” rispose Gioachino.

“Entriamo,” disse la sirena, i cui piedi impazienti, si muovevano spontaneamente in cadenza al suono di quella musica conosciuta.

La sirena era la maggior danzatrice di fandango in Siviglia; cantava inoltre la cana in maniera da far delirare un anacoreta.

Affrettarono il passo, e mentre passavano davanti a un gruppo d’alberi, videro nell’oscurità tre uomini di cui non poterono riconoscere né i lineamenti né gli abiti. Questi uomini erano ritti dietro il gruppo d’alberi, e parlavano insieme a voce bassa.

Il bravo era troppo preoccupato per porre attenzione ad essi. Gioachino finse di non vederli, e la sirena non pensava in quel momento che al ballo; già vedeva le teste dei ballerini coperte di nastri di diversi colori ondeggianti come bandiere al vento, e seguenti tutte le ondulazioni che loro  imprimeva la passione od il capriccio.

Oh! Era veramente una bella festa il ballo del lampione, il più animato e il più allegro che da lungo tempo siasi veduto in Siviglia.

Tuttavia, malgrado la loro impazienza, quando furono giunti verso la porta, il bravo e la sirena si fermarono; un sentimento più forte del loro desiderio, il pudore dell’orgoglio, se può chiamarsi così, li trattenne sulla soglia di quella dimora ch’essi avevano volontariamente abbandonata; stettero in forse.

“Ebbene! Entriamo!” disse Gioachino.

“Entra tu,” disse Manofina alla sua compagna.

“Prima tu, Gioachino,” disse la sirena: “tocca a te introdurci.”

“Oh! Io non farò tanti complimenti,” rispose il taverniere con una galanteria tutta andalusiana; “entra dunque con me, Colubrina, poiché non osi entrar sola…E tu, Manofina, seguici e vedrai che saremo ben ricevuti.”

Nello stesso tempo Gioachino finì d’aprire la porta in tutta la sua larghezza, e si avanzò con aria di trionfo nel mezzo dell’assemblea. Manofina lo seguì a poca distanza.

“Dio guardi le vostre signorie!” disse Gioachino, levandosi gentilmente il cappello. A quella inattesa apparizione un grido di sorpresa si alzò nella sala, e l’assemblea, un momento prima sì attenta al ballo, si fermò piena di curiosità ed avida di sapere per qual motivo il bravo e la sua compagna tornavano fra loro.

Appena avevano posto piede nel palazzo, che l’occhio penetrante di Mandamiento li aveva riconosciuti.

Stavasi costui all’estremità della sala, tranquillo, sorvegliando con una gravità piena di benevolenza i piaceri de’ suoi figli, poiché quanto il maestro era severo e dispotico nel fare eseguire i suoi voleri, altrettanto sapeva, con una indulgenza calcolata e con apparenti concessioni, soggiogare e rendere contenti quelli ch’ei dominava. Mandamiento sarebbe stato un re popolarissimo, se in quell’epoca la regalità non fosse stata una cosa sacra, che non poteva trasmettersi che per eredità, ed alla quale niuno s’avvisava di giungere.

La sirena camminava timidamente con gli occhi bassi. Una viva luce inondava la sala. In ogni colonna erano affisse due grandi torce di ragia, che mandavano verso il soffitto a volta, lampi di fiamme e nuvole di fumo.

Sul suolo, intorno alle colonne, eransi distese moltissima stuoie di Valenza. Ogni donna avea la sua, che le serviva di seggiola, ed in tal guisa seduta, lasciava appoggiare su sé medesima un uomo, seduto parimenti per terra, il quale si adagiava sulle ginocchia di essa come sui bracci d’una poltroncina.

L’assemblea era disposta in una doppia fila di uomini e donne; era una scena d’aspetto bizzarro e pittoresco.

I Sivigliani, bruni, svelti ed agili, vestiti dei loro abiti di gala, presentavano nelle loro fisionomie originali e variate un insieme di effetto singolarissimo.

Il mezzo circolo formato dalle persone sedute era occupato dai ballerini.

Il lascivo fandango era allora, come lo è oggidì, il ballo favorito degli Andalusiani, il più delizioso dei loro divertimenti; or che doveva essere desso per i garduni, gente senza freno e senza ritegno, nature febbrili e passionate, razza del deserto ancor troppo vicino alla sua origine per averla dimenticata?

Una folle ebbrezza presiedeva a quella festa. I più graziosi novizi della società si pavoneggiavano nel loro elegante costume di majos[34] colla mano appoggiata sul fianco, cogli occhi rivolti in alto, facendosi sentire a venti passi di distanza col sonoro tintinnio dei loro bottoni d’argento, e camminando in modo da mostrare con vantaggio le loro gambe agili e muscolose.

Le giovani ballavano o ciarlavano guardando con civetteria i giovani più eleganti.

Le vecchie parlavano fra loro dicendo male delle giovani, e adocchiando anco i giovanotti.

Tuttavia l’apparizione di Manofina e di Colubrina aveva, come dicemmo, prodotta tal sensazione, che il ballo fu per un momento rallentato, e tutte le teste si volsero dal loro lato.

A fine di non disturbare il ballo, la sirena fece il giro del circolo per andare in fondo alla sala; ma il maestro non le diede tempo, facendosele incontro con tutta galanteria, e, guardandola col suo più grazioso sorriso, le disse con aria di cortesia:

“Qual santo del paradiso ti ha inspirato il buon pensiero di venire da noi, figlia mia? Sii la ben venuta,…e Manofina pure,” aggiunse, stendendo al bravo la sua mano larga e callosa.

Manofina, alquanto confuso, strinse, non senza ripugnanza, la mano del maestro; sembratagli fosse quasi un impegnarsi presso di lui; ciò che non voleva fare.

A quella benevole accoglienza del maestro verso gli ex-garduni succedette un grido generale d’approvazione. Tutti i garduni si affollarono attorno ai loro antichi compagni, e vi furono abbracciamenti innumerevoli ed acclamazioni assordanti.

Alcune sirene di fresco arruolate guardavano con occhio di gelosia quella bella e graziosa Colubrina che non aveva rivale in Siviglia.

Ma bentosto una di esse, volgendosi verso una vecchia, le disse con riso di trionfo  e di contento: “Guardate colei, che non ha neppure un nastro nuovo sul capo: la sua sottana è sporca come se non ne avesse avute altre dacché è nata, e le sue calze cadono a pezzi.”

“E’ divenuta gialla come il zafferano dacché ci ha lasciati,” rispose la vecchia; “e ha scelto un cattivo momento per presentarsi vestita in quel modo in sì buona compagnia. Ecco cosa vuol dire fare i superbi e abbandonare la compagnia. Davvero era più bella quando quando faceva l’occhio tenero a quel grosso priore che Manofina ha così battezzato all’occhio sinistro.”

“Taci una volta, vecchia,” disse Graffio, che in quel momento le si trovava vicino; “Colubrina è sempre la più bella ragazza di Siviglia; è più bella essa in cenci, che le altre con nastri e perle.”

L’opinione di Graffio era generalmente divisa dagli uomini, e coloro che non lo dicevano, lo provavano abbastanza coi loro sguardi e coi loro gesti.

Dal suo lato Mandamiento non cercava di dissimulare il suo giubilo. Ei condusse la sirena sur una stuoia ch’era rimasta vuota verso l’estremità della sala, e, dopo averla pregata di sedersi, “Divertiti, figliuola,” le disse, “io vado a parlare un poco con Manofina.”

Così dicendo, Mandamiento prese la mano del bravo e facendo segno a Gioachino di seguirlo, li condusse a qualche distanza dal circolo in un canto isolato.

Poscia, solo con essi, disse loro:

“Suppongo, figliuoli miei, che la presenza di Manofina in questo luogo non sia senza motivo, e desidero di conoscerlo. Forse il nostro caro Manofina si trova in qualche situazione pericolosa che reclama il nostro soccorso? Quantunque non faccia più parte della nostra onorevole confraternita, e niun dovere c’impegni verso di lui come fratelli, siamo sempre disposti, come amici e come compagni, a venire in suo aiuto ogni qualvolta ciò sia possibile…senza derogare alle regole della nostra onorevole confraternita.”

“Fratello Mandamiento,” si affrettò a rispondere Gioachino,” non si tratta in questo momento di venire in soccorso di Manofina, si tratta, al contrario, di farlo acconsentire a prestarci il suo.”

Mandamiento fece un atto di sorpresa.

“Ho da proporti un’operazione… e delle più gravi,” proseguì Gioachino, “ecco perché sono venuto qui con Manofina. Adesso ascoltami.”

“Parla,” disse il maestro, maggiormente sorpreso.

“Avvi in Siviglia,” continuò Gioachino, “un giovane signore ricchissimo, che ha bisogno di te.”

“Per la barba del re!” esclamò Mandamiento.

“Io sono sempre al servizio dei giovani signori che hanno molto denaro.”

“Questo giovane cavaliere te ne darà molto. In ricambio ecco quello che bisogna fare.”

“Oscurare il suo rivale?” interruppe il maestro.

“Più di questo, veramente,” disse Gioachino; “un’operazione che la confraternita non ha mai eseguita.”

“Per la Madonna!” esclamò il maestro, “quello che tu mi dici comincia a mettermi in guardia. Di che si tratta dunque? Spiegati.”

Gioachino guardò attorno a sé con aria misteriosa: nessuno poteva udirli, erano a più di quindici passi distanti dal circolo in cui ballavano. Tuttavia, per maggior prudenza, il taverniere spinse Mandamiento ed il bravo fino alla colonna più lontana; poscia, essendosi chinato verso il maestro, gli disse piano: “Bisogna aiutarci a liberare il governatore di Siviglia il giorno dell’atto-di-fede.”

“Come ciò?”

“Portando via il grande inquisitore, che voi riterrete prigioniero. Due giorni basteranno perché don Estevan possa giungere al primo porto di Spagna ed imbarcarsi per un altro paese.”

“Fratello,” rispose il maestro, “hai ben pensato a quello che tu domandi? Sai tu che in simile impresa potemmo rischiare la vita?…”

“Contro duecentomila reali,” aggiunse vivamente il taverniere; “questa è la somma che don Estevan de Vargas offre di darvi in ricompensa.”

“Duecentomila reali!” disse Mandamiento, stordito per l’enormità della somma, “duecentomila reali per…”

“Per portar via monsignor Arbues, e tenerlo in prigione per due giorni nei sotterranei della Garduna,” si affrettò a dire Gioachino.

“Sì,” riprese il maestro, “e quando monsignore Arbues sarà tornato in libertà, ci farà bruciare come eretici. Mi credi dunque un balordo, Gioachino? Oscurarlo, alla buon’ora, i morti non possono più far del male, ma portarlo via, no, no, io non porto via che le ragazze.”

“Sua signoria non vuole che si oscuri.”

“Sua signoria è semplice come una pecorella; senza la compiacenza di Manofina e gli ordini di…ma basta, io me n’intendo… Se don Estevan è ancora in vita, non è per volontà dell’inquisitore.

“Oh! A me non importa della vita dell’inquisitore,” disse Gioachino, “ma se parli a don Estevan di oscurarlo non acconsentirà mai, ed il governatore di Siviglia sarà bruciato.”

“Bene! Bene! Saremo discreti,” disse Mandamiento, sorridendo con riso di demone.

-Duecentomila reali!- pensò fra sé medesimo, -per aver il piacere di pugnalare questo maledetto inquisitore, che mi guarda bieco e non mi fa più far nulla dopo che ho risparmiato don Estevan. Duecentomila reali è una bella somma…Di più monsignore Arbues sarà certamente sostituito, ed il nuovo inquisitore, che non avrà meco alcun rancore, ci farà certamente lavorare… Tutto è adunque a vantaggio della confraternita in questo affare.-

Tali furono le rapide riflessioni del maestro della Garduna, ma da valente diplomatico, si guardò dal farne parte a quelli con cui trattava, indirizzandosi a Gioachino che aspettava la risposta gli disse:

“E Manofina consentirebbe ad essere di questa spedizione?”

“Senza dubbio,” rispose tosto il bravo.

“Trovi dunque che la Garduna è una buona madre e ritorni a lei?” domandò insidiosamente il capo.

“Maestro, io non ho detto ciò,” replicò Manofina; questa spedizione mi piace, voglio aiutarvi, se lo desiderate, in compagnia della sirena,” aggiunse con orgoglio. “Voi sapete, maestro, che la sirena vale quanto un bravo per il coraggio e per l’ardire.”

“Intendo,” disse Mandamiento, “intendo; la sirena e tu siete contenti di prender parte a questa operazione in causa della promessa ricompensa.”

“Maestro,” rispose Manofina, “io non ho mai ricusato un salario onestamente guadagnato: ma se questa volta giudicate convenevole non darci nulla, poco importa; dividerò volentieri i pericoli di questa spedizione, senza esigere ricompensa, poiché pensate che non vi abbiamo più diritto non essendo più membri della confraternita.”

“E perché non ne sarete più membri?” continuò Mandamiento, essendo questo il punto a cui voleva venire.

“Non tentarmi, maestro,” disse Manofina: “quel che è fatto è fatto, io non ci tornerò. Soltanto dimmi se accetti il mio aiuto e quello di Colubrina; questo è quel che domando. In tal caso tu mi renderai per un giorno la mia autorità di bravo, mi darai una truppa da comandare, e sta tranquillo, io m’incarico del rimanente.”

“Ebbene!” disse Gioachino, “è convenuto, Maestro? Posso condur qui don Estevan ed i suoi amici perché v’intendiate insieme e disponiate la bisogna?”

“Lo può,” rispose Mandamiento, lieto della risoluzione di Manofina, ad onta delle sue restrizioni, poiché nutriva speranza di ricondurlo intieramente a sé; poscia, volgendosi al bravo:

“Vedi, figliuol mio,” dissegli, “se la confraternita ed io conserviamo amicizia per te; non abbiamo ancora trovato alcuno dei nostri più abili postulanti degno di succederti, ed il tuo posto è ancor vacante alla Garduna. Prendilo dunque per il giorno della progettata spedizione, e Iddio ti ispiri in seguito! Possa tu prendere una buona e saggia risoluzione.”

“Corro ad avvertire don Estevan,” disse Gioachino; “è d’uopo che tutto si accomodi questa sera.”

“Va,” disse Mandamiento, “nulla è più favorevole ad una operazione di questa specie del tumulto d’una festa. E tu, Manofina,” aggiunse, “non vai a ballare un fandango colla tua graziosa Colubrina?”

“Sì, davvero,” disse il bravo.

E Manofina andò a prendere la sirena per la mano onde condurla nel circolo dei ballerini. Ad onta della povertà del suo abito, tutti si affollarono a veder ballare la sirena, la quale era sì bella, sì malinconica, s’ interessante, che era impossibile vederla e non amarla; oltracciò ballava benissimo.

Intanto Gioachino era uscito dal palazzo, ed erasi diretto verso il gruppo d’alberi, ove poco innanzi tre uomini parlavano insieme. Erano ancor fermi nello stesso posto, e pareva che aspettassero. Il taverniere si avanzò verso di essi, facendo a bella posta un po’ di rumore. Quantunque fosse buio, Estevan lo riconobbe.

“Ebbene!” gli domandò questi.

“Tutto è pronto, il maestro della Garduna farà tutto quello che vorrete.”

“Ve l’aveva detto?” disse Estevan, volgendosi ai suoi compagni, don Rodrigo de Valero e don Ximenes de Herrera: “ora siamo sicuri dell’esito.”

“Don Estevan,” mormorò il vecchio signore, “voi avete stimato utile di unire alla vostra intrapresa questi gitani, sia pure; ma voi non conoscete la metà della vostra forza, se io avessi la vostra età, se io fossi bello come voi, e mi chiamassi don Estevan de Vargas, vorrei colla mia sola parola sollevare la popolazione di Siviglia e metter sossopra la Spagna.”

“Don Rodrigo,” rispose Estevan, “voi parlate in questo momento come un giovane; lasciatemi dunque parlare a mia posta come un vecchio.

Voi mi accordate una gran potenza di fascinazione, ebbene, io voglio credere di possederla, e persuadermi che potrei agevolmente, grazie alla memoria del mio genitore, ancor viva nel cuore degli Spagnuoli, sollevare Siviglia contro gl’inquisitori. Supponendo che ciò potesse verificarsi, qual bene ne emergerebbe per la Spagna? A che l’opera nostra servirebbe? A far perire migliaia di uomini senza rendere miglior sorte a coloro che rimarrebbero. Sapete, don Valero, che per infrangere assolutamente il giogo dell’Inquisizione bisognerebbe che tutta la Spagna fosse riunita in un accordo unanime di sentimento e di volontà? Le parziali insurrezioni generano la guerra civile, depauperano, distruggono un paese ma non lo cambiano: sono reiterati salassi fatti sopra un corpo robusto, i quali lo fanno respirare un giorno per ruinarlo alla fine. E’ la scienza. È la filosofia che possono di per sé sole rigenerare la Spagna e renderla libera. Fino a quel punto non lo speriamo; noi non siamo destinati a vedere quei bei giorni.”

“Perché dunque cospiriamo?” interruppe Valero.

“Per un solo fatto,” replicò Estevan, “per un interesse particolare. Io per liberare quelli che amo, voi e don Ximenes, per amicizia verso di me.”

“Estevan ,” disse don Ximenes, “voi calunniate le nostre intenzioni restringendole ad un interesse particolare.”

“No,” riprese Estevan, “non le calunnio; noi abbiamo l’anima grande e calda, gemiamo dei mali dell’umanità; tre mesi prima avrei detto come voi, don Rodrigo, che solo l’amore di nostri sofferenti fratelli, l’amore del popolo avvilito e perseguitato ne spingeva a quest’atto di rivolta. Ho appreso dipoi a meglio analizzare i sentimenti dell’uomo, e dico, che se Iddio ci avesse creati per essere i rigeneratori della Spagna, ci avrebbe accordati altri mezzi d’azione, e ci avrebbe forse fatti nascere un secolo più tardi; ovvero avremmo avuto il dono dell’apostolato, e saremmo stati umili e coraggiosi come Giovanni d’Avila, come Giovanni di Dio ed altri: anime sublimi talmente infiammate del santo amore degli uomini, che fanno una completa astrazione di sé medesimo d’ogni sentimento personale in favore della grande umana famiglia. A costoro il diritto di agitare la Spagna fino nelle sue viscere, e di rigenerarla nello spirito. Quanto alla rigenerazione colla spada, è una ferita sopra una piaga, non altro e se cospiro oggi con voi, signori, non è che io ne attenda un bene per i miei fratelli che soffrono, è perché amo, e voglio salvare quella che amo. Questo è egoismo, credo,” aggiunse egli sorridendo con amarezza.

“Estevan,” disse don Ximenes, “voi siete più valente di noi, e all’occasione sareste anco più forte.”

“Qualunque sia il motivo della nostra insurrezione, egli è sacro. Andiamo dunque,” disse Valero, “e siate nostro capo, Estevan, voi siete più eloquente di Cicerone, ed avete una franchezza alla quale non si può resistere.”

“Dove dobbiamo andare?” aggiunse il vecchio signore, indirizzandosi a Gioachino.

“Seguitemi, signori,” disse Gioachino, “ e per non destar sospetti, entrate al ballo senza cerimonie, divertitevi, chiacchierate con belle ragazze. Voi signor Estevan, vi consiglio di far ballare la sirena.”

“Chi farò ballare io?” domandò il vecchio Rodrigo.

“stia tranquillo,” disse sorridendo il taverniere; “le ballerine non mancano alla Garduna, ve ne sono di tutti i colori e di tutte le età.”

Gioachino rientrò solo nella Garduna.

La danza era in quel momento viva ed animata. Un allegro bolero, ballato da Manofina e dalla sirena, teneva tutti gli animi in sospensione. La sirena col collo teso in avanti, cogli occhi fiammeggianti ed umidi, colle sue manine armate di castagnette, ondulava come una serpe, piegando con una grazia meravigliosa il suo personale gentile e pieno di garbo. Il bravo, animato dalla musica, dai vezzi della Colubrina, ed eziandio agli applausi dell’assemblea, spiegava con inconcepibile ardire il vigore e l’elasticità delle sue gambe. Svelto come un vero figlio dell’Andalusia, il bravo aveva muscoli d’acciaio, e quella grazia audace, selvaggia, frutto di un’esistenza vagabonda e di un’immensa libertà.

All’ultimo passo del bolero un applauso unanime e prolungato si alzò nella sala.

I tre signori entrarono in quel momento.

Il loro arrivo non cangiò in nulla il trasporto di quella onorevole società il Spagna le persone titolate si mescolano volentieri alle persone del volgo, senza che i primi credano di drogare alla loro dignità, e senza che i secondi tengasi onorati di tale condiscendenza.

Gioachino si avvicinò al maestro.

“Ecco il giovane signore che deve pagare,” gòi disse, accennandogli don Estevan de Vargas.

“Quello stesso che Manofina doveva oscurare,” osservò Mandamiento; “sembra che fra questo giovane e l’inquisitor di Siviglia sia una guerra a morte. Bene! Bene!” proseguì fregandosi le mani, “dove c’è da mangiare si mangia. È meglio, Gioachino, che rimangano qui; dopo la festa parleremo d’affari; ora la Garduna ha bisogno di cenare.”

Infatti nel mezzo del cerchio dei ballerini, una sirena e due o tre apprendisti avevano preparato il pasto.

Sopra una grande stuoia distesa per terra vedevansi molti piatti di terra cotta pieni di gazpacho[35], un enorme guizado[36] e quattro capretti arrostiti. Non cucchiai, non forchette. I garduni ignoravano completamente l’uso di questi oggetti di lusso.

“Signori,” disse loro con cortesia, “vogliono degnarsi di dividere il pasto de’ miei figli?”

“Volentierissimo,” risposero essi.

E prendendo ciascuno una stuoia, si assisero per terra come gli altri, senza timore di sciupare i loro abiti di seta.

Estevan si pose accanto alla sirena.

L’amante del bravo, già dispostissima in favore di questo bel giovane, a cui aveva salvato la vita, lo guardò con dolce tristezza, e le vennero le lagrima agli occhi pensando che la vaga sposa di lui era nelle carceri dell’Inquisizione, e che l’infelice Estevan era forzato a sorridere.

Mentre l’assemblea faceva sparire le vivande con un appetito da garduni, Estevan, facendo sembiante di mangiare, diceva a Colubrina:

“Tu ballerai con me, non è vero?”

“No, signore,” rispose essa con una tristezza affettuosa. “Io amo il ballo, e mi stimerei onoratissima di ballare un fandango con vossignoria; ma grazie al cielo, stasera non avrete questo disturbo. Il ballo è terminato oggi, e dopo cena ognuno anderà per le proprie faccende; già voi non potete aver volontà di ballare.”

“Buona Colubrina!” rispose Estevan.

“Siate tranquillo;” disse quella a bassa voce; “balleremo altrimenti fra otto giorno, poiché vi sarò io pure… Ma mangiate, e non parliamo più di ciò; ecco delle sirene che sono gelose di vedervi parlare con me.”

La cena disparve con una rapidità meravigliosa. Don Rodrigo mangiava come un gitano, e sogguardava le ragazze. Don Ximenes rideva di cuore con una graziosissima sirena che avrebbe volentieri cambiato il suo bravo con quel bel signore vestito di velluto. Niuno sospettava che quella apparente gaietà nascondesse una congiura.

Ma tostoché Mandamiento vide finita la cena, fece un cenno, il suo volto poco prima atteggiato al sorriso, divenne imponente e severo. I garduni si alzarono tutti ad un tratto, e ciascuno secondo gli ordini ricevuti dal maestro prima di cominciare il ballo, si recò al posto che gli era stato indicato.

 

 

FINE DEL VOLUME TERZO.

 

 

 



[1] Quantunque in generale tutti fossero soggetti alla giurisdizione degl’inquisitori, v’era un’eccezione per i papi, per i loro legati e loro nunzi, per gli ufficiali e famigliari del Sant’Uffizio; dimodoché quand’anco erano denunziati come eretici, l’inquisizione non aveva altro diritto fuorché quello di ricevere l’istruzione segreta, e di mandarla quindi al papa. La stessa eccezione aveva luogo per i vescovi; ma i re ed i principi erano sottomessi alla giurisdizione degli inquisitori. (Storia dell’Inquisizione, cap. II, seconda parte.)

[2] Ogni lamento era inibito ai prigionieri dell’Inquisizione. Quando un infelice mandava qualche gemito gli si metteva uno sbavaglio per molte ore, e se ciò non bastava, si frustava crudelmente lungo i corritoi. La punizione della frusta era inflitta pure a coloro che facevano rumore nelle camerate, o che contendevano fra loro: in simil caso tutta la camerata diveniva solidaria e si frustavano tutti quelli che la componevano, senza distinzione né d’età né di sesso; dimanieraché fanciulle, monche e dame di distinzione erano sovente spogliate dei loro abiti e battute spietatamente insieme a uomini giovani e vecchi. (Storia dell’Inquisizione, cap. V, terza parte.)

[3] La tortura dell’acqua fu applicata a donna Giovanna Bohorques sotto Filippo II:

[4] La crudeltà degl’inquisitori si spinse tant’oltre, che il Consiglio della Suprema videsi costretto a proibir loro di applicare più d’una volta la tortura alla stessa persona, ma quei monaci trovarono bentosto il mezzo d’eludere quest’inibizione. Così, quando avevano torturato un disgraziato per molto tempo, lo rimandavano nelle prigioni, dichiarando che la tortura era sospesa fino al momento in cui giudicavano a proposito di continuarla.(Storia dell’Inquisizione, cap. V, terza parte.)

[5] Gl’inquisitori, mentre convenivano che la tortura poteva uccidere tanto gl’innocenti quanto i colpevoli, sostenevano doversi dare la tortura, perché se alcuni cattolici innocenti perivano per essa, andavano addirittura in paradiso. Ragionamento degno dei preti d’un Dio di pace! (Guida dell’Inquisizione, di Ximens Cisneros.)

[6] Maria di Borgogna aveva ottantacinque anni quando fu arrestata come sospetta di giudaismo. In mancanza di prove, gl’inquisitori la tennero cinque anni in prigione, sperando poterne trovare abbastanza per condannarla ed impadronirsi dei beni immensi che possedeva. Stanchi d’aspettare, i giudici del Santo Uffizio sottomisero molte volte alla tortura quella sventurata, malgrado le disposizioni del Consiglio della Suprema che inibivano di dare la tortura a persone che avessero più di sessant’anni. Maria sopportò tutto senza lagnarsi, dichiarando sempre ch’essa era cattolica, apostolica e romana. Morì nella sua prigione protestando la sua innocenza. Tuttavia gl’inquisitori continuarono il suo processo e la condannarono alle fiamme: i suoi beni divennero preda dell’Inquisizione e del fisco, ed i suoi figli e i figli de’suoi figli furono dannati ad un’eterna infamia! (Storia dell’Inquisizione.)

[7] “La tortura non potrà essere applicata, sotto verun pretesto, né ai fanciulli aventi meno di dieci anni né alle persone aventi più di sessant’anni.” (Regolamento di procedura, articolo 5.)

[8] Questo era tutto quello che l’Inquisizione aveva lasciato ai monarchi ed al papa stesso. I papi ed i re avevano il diritto di cassare le sentenze dell’Inquisizione, ma l’Inquisizione aveva l’accortezza di riprincipiare le sue persecuzioni, d’intentare nuovi processi, e finiva sempre coll’impadronirsi delle vittime che la giustizia del papa o quella del re le aveva sottratte per qualche tempo.Testimoni i vescovi di Savoja e di Calahorra. Anco le suppliche del re erano il più spesso impotenti. Gl’inquisitori resistevano loro apertamente sotto il pretesto di servir gl’interessi della religione e di distruggere l’eresia. (Storia dell’Inquisizione, e Storia della Spagna, per Mariana.)

[9] Leggesi nella Storia dell’Inquisizione, cap. VI, parte VI: “San Giovanni di Dio, fondatore d’un ordine ospitaliere consacrato alla cura ed all’assistenza dei poveri malati, fu arrestato con sospetto di eresia e di negromanzia, e la sua generosa filantropia l’avrebbe forse fatto languire lungo tempo nelle carceri dell’Inquisizione, se il papa non vi si fosse vivamente opposto.”

[10] L’eremitaggio di Sant’Isidoro è situato sopra un’altura all’occidente della capitale. Questo eremitaggio è l’antico podere nel quale il santo era stato impiegato in qualità di garzone, e di cui il clero ha fatto una magnifica cappella a spese della pubblica devozione. Sant’Isidoro deve far parecchi miracoli ogni anno, sotto pena di perdere la sua riputazione, che è immensa, e che produce somme enormi al capitolo della collegiale di Madrid; ma questi miracoli sono di facile esecuzione ed alla portata dello spirito limitato d’un contadino; Sant’Isidoro, oggi protettore di Madrid, non era che un villano assai rozzo, che percuoteva alcune volte la sua moglie, santa Maria de la Cabeza, solo per gelosia. I miracoli che fa Sant’Isidoro si riducono a riconciliare gli amici e gli amanti in collera, riconciliazione che ottengono bevendo l’acqua del pozzo, a cui il santo faceva bere le sue bestie quand’era garzone di podere; l’acqua di questo pozzo, oggidì convertito in fontana, guarisce pure l’emicrania, purché il malato si diverta molto dopo averla bevuta; ora v’è sempre un gran divertimento all’eremitaggio di Sant’Isidoro il 16 maggio giorno della sua festa. In quel dì la libertà e la gioia sono grandi nei dintorni dell’eremitaggio. In quel giorno più di duecentomila persone si recano quivi per bere l’acqua riconciliatrice, far buone merende sull’erba, mangiare delle schiacciate e ballare colle più belle ragazze del paese. In quel dì la libertà e la gioia sono grandi nei dintorni dell’eremitaggio.

Non c’è bisogno di dire che, onde l’acqua della fontana vi riconcili col vostro nemico, bisogna ch’egli e voi la beviate nello stesso tempo, il che è facilissimo se siete convenuti in antecedenza dell’ora nella quale dovete rendervi alla fonte miracolosa. Come pure non c’è bisogno di dire che onde questi miracoli possano effettuarsi, bisogna aver fede; in quest’ultimo caso entrate nell’eremitaggio, baciate le reliquia del santo, fate l’elemosina e andate a bere; il miracolo non si farà aspettare. La cappella di Sant’Isidoro non ha perduto di voga; l’acqua della fontana è più miracolosa di prima.

[11] Il popolo spagnuolo, più di tutti gli altri popoli, sembra essere stato creato per le grandi, per le nobili azioni. Dotato di rara intelligenza, di gran perspicacia e di retto giudizio, lo Spagnuolo è atto a tutte le scienze, a tutte le arti…E pertanto gli Spagnoli in generale han poca scienza, e le arti son da molto tempo appena coltivate in Spagna. Leggendo la storia di questo popolo infelice, è forza accusare l’Inquisizione o, per dir meglio, Roma, Roma che ha creato l’Inquisizione e la conserva ancora, di tutta l’inerzia e di tutta la nullità che hanno trasformato la Sapgna in un immenso cadavere.

[12] Il mercato dei grani è pure il luogo delle esecuzioni. Su questa piazza il difensore della libertà, l’immortal Riego, fu ignominiosamente appeso nel 1823 dopo esser stato trascinato sopra un traino attaccato alla coda d’un asino. Avanti di morire, il nobile Riego fu insultato dallo stesso carnefice: “io ti tengo, frammassone, figlio del diavolo” e questa volta pagherai tutto quello che hai fatto.” Tali furono le parole che colui del quale la giustizia si serve come di una spada, rivolse all’uomo che nel 1820, tutta l’Europa l’aveva salutato col nome di liberatore della Spagna!

[13] In Spagna i condannati allo strangolamento son condotti al luogo del supplizio copra un asino che appartiene al carnefice. Anticamente il boja vendeva i suoi asini il giorno dopo una esecuzione per ricomprarne altri alla vigilia di un’altra esecuzione. Alcuni asini venduti dal boia, essendo stati riconosciuti, attirarono orribili diatribe sui loro possessori. Furonvi oneste fanciulle che non trovarono marito perché qualcuno della loro famiglia aveva comprato uno di questi animali. Tali inconvenienti han dato luogo ad una legge che ordina al carnefice di tagliare le orecchie a tutti gli asini di cui si serve,m e che sono comperati e nutriti a spese dello stato

[14] Fu in questa spianata che il 7 luglio 1822, si sgozzarono ottomila Spagunoli, fra cui tre mila guardie nazionali di Madrid o soldati dei reggimenti d’Almansa e di Ferdinando VII e cinquemila guardie reali che re Ferdinando VII eccitò a rivoltarsi contro la costituzione del 1812, allora in vigore, per abbandonarli, il giorno appresso, dopo che essa li ebbe vinti. Fu per questa battaglia, in cui la guardia reale perdé più di quattromila uomini, tutti vecchi soldati della guerra dell’indipendenza, che la tigre coronata creò una decorazione, la quale più tardi fu un segno di proscrizione. Che cosa potevano attendersi gli Spagnoli da un re, il quale dopo aver venduto la Spagna a Napoleone, ha perseguitato, ha fatto morire o mandati alle case di forza coloro che l’avevano difeso dal 1808 al 1815, e che, morendo, ha lasciato la guerra civile al suo paese!

[15] Le carrozze del re di Spagna sono tirate da cavalli soltanto la domenica e i giorni feriali.

[16] Si sa che l’imperatore CarloV lasciò il trono per andare a rinchiudersi nel convento di San Giusto; ma quello che pochi sanno si è che, dopo la sua morte, l’inquisitore di Castiglia ardì fare il processo alla memoria del padre di Filippo II. Secondo i signori de Thom, d’Aubugné e Laboureur, Carlo V fu dopo la sua morte accusato e convinto d’aver corrispondenza continua coi protestanti della Germania, e di non essersi ritirato a San Giusto che per potere liberamente in quella solitudine finire i suoi giorni in esercizi di pietà conformi alle sue disposizioni segrete, e per far penitenza, in espiazione dei cattivi trattamenti ch’egli aveva fatto soffrire ai principi del partito protestante… In appoggio di tali accuse citavasi la scelta da lui fatta del dottor Cazzalla, canonico di Salamanca, per suo predicatore, e di Costantino Ponzio, vescovo di Dresda, per suo confessore: due personaggi sospetti d’eresia. Un’altra prova di cui si servì l’Inquisizione per colpire la memoria di Carlo V furono le numerose inscrizioni trovate nella sua cella di San Giusto, inscrizioni fatte dalla mano del monarca sulla giustificazione e la grazia nel senso degl’innovatori. Infine, il testamento di Carlo V servì pure all’Inquisizione per attaccare la memoria dell’imperatore. Questo testamento non conteneva punto legati religiosi, ed era disteso in una maniera sì differente da quella usata dai zelanti cattolici, che l’Inquisizione credé avere il diritto di formalizzarsene.

Così dopo che l’Inquisizione stimò di potersi mostrar rigorosa senza incorrere nella disapprovazione di Filippo II, cominciò ad attaccare l’arcivescovo di Toledo, Cazzalla e Costantino Ponzio. Questi tre personaggi furono condannati al rogo insieme al testamento dell’imperatore. Filippo II, destatosi al rumore che questo recesso scandaloso faceva in Spagna, cominciò dal gioire di veder abbattuta la gloria di suo padre, ma bentosto ebbe timore delle conseguenza d’un orribile attentato, ed a forza di bassezza e di concessioni, ottenne dall’Inquisizione che si separasse Carlo V da quest’affare. L’Inquisizione non ardì ricusar tutto al re; ma siccome le abbisognavano le sue vittime, nel 1559 fe’ bruciar vivo il dottor Cazzalla coll’effigie di Costantino Ponzio, morto alcuni giorni innanzi nelle prigioni del Sant’Uffizio. L’arcivescovo di Toledo si appellò a Roma, e a forza di amici e di denaro fu dichiarato buon cattolico. A tal prezzo l’Inquisizione di Castiglia non colpì la memoria di Carlo V.

[17] Si sa che in Ispagna l’abito monastico apriva tutte le porte e facilitava l’accesso presso tutti i dignitari del regno. La sottana non ha, presso a poco, lo stesso privilegio nel bel regno di Francia?…

[18] le udienze accordate dal re non sono più difficili ad ottenersi oggi, che al tempo di Carlo V. Chiunque vuol parlare al re di Spagna non deve che recarsi al palazzo avanti dieci ore, ed aspettar a sua volta nell’anticamera reale. Questa facilità di parlare al monarca non è cessata nei tempi di rivoluzione e di sommossa. I re di Spagna, come tutti gli Spagnuoli , non oserebbero sospettare la possibilità d’un regicidio!…

[19] Alfonso Virues era un Benedettino versatissimo nelle lingue orientali, autore di molte opere, e gran predicatore. Caduto in sospetto d’eresia nel 1534, Virues fu arrestato dal Sant’Uffizio, e rinchiuso nelle carceri dell’Inquisizione di Siviglia. L’imperatore, tenendo per fermo che Virues fosse la vittima di qualche monaco geloso, ordinò che fosse messo in libertà, ma non fu ubbidito. Invano Carlo V esiliò Alfonso Manriquez, allora inquisitore del regno; Virues rimase per quattro anni nelle carceri dell’Inquisizione. (Storia dell’Inquisizione, cap. IV, parte quarta.)

[20] nel secolo decimosesto l’Inquisizione sfidava la potenza di Roma: infatti molti cardinali sono stati imprigionati e condannati a diverse pene in Roma, quantunque la persona d’un cardinale sia sacra anco per i re. Si sa che Enrico III fu scomunicato da Sisto V, per aver osato punire il cardinale di Guisa, convinto di ribellione e d’attentato conto lo stato. Ma l’Inquisizione non era il re dei re, ed il terrore dei papi stessi?

[21] Adriano Folrencio, terzo inquisitore generale di Spagna, si dice che fosse meno crudele de’ suoi predecessori e de’ suoi successori. Adriano Florencio fu forse il più debole degl’inquisitori o il più accorto. Durante il suo regno, che dorò circa cinque anni, l’Inquisizione di Spagna condannò ventiquattromila persone, delle quali mileseicentoventi arsi vivi, e cinquecentosessanta in effigie. Fu Adriano Florencio che stabilì il secondo tribunale dell’Inquisizione in America, e distese la sua giurisdizione su tutte le Indie e sull’Oceano. Fu pure Adriano che impedì a Carlo V di riformare l’Inquisizione, com’egli aveva promesso ai Castigliani, agli Aragonesi ed ai Catalani nel 1518. (Storia dell’Inquisizione, cap. III, parte quarta.)

[22] Al suo giungere in Spagna, consigliato dal suo precettore Guglielmo de Croy e dal suo gran cancelliere, Selvagio, l’imperatore Carlo V era dispostissimo ad abolire l’Inquisizione, o almeno ad organizzare la procedura del Sant’Uffizio secondo le regole del diritto naturale e sul modello di tutti gli altri tribunali. Le Cortes di Castiglia, credendo fosse giunto il momento di liberare la Spagna dal giogo dell’Inquisizione, s’adunarono al cominciare dell’anno 1518, per domandare al re l’abolizione del Sant’Uffizio, o, per lo meno delle riforme che la condotta degl’inquisitori aveva rese indispensabili. Carlo V fece redigere un nuovo codice da Selvagio, e promise alle Cortes di imporne l’esecuzione agl’inquisitori. Ma nel momento in cui la giustizia stava per trionfare, il cancelliere Selvagio morì, e Adriano Folrencio, terzo inquisitor generale della Spagna, ed eletto papa il 9 gennaio 1522, dopo la morte di Leone, seppe cambiare le disposizioni del re, ed a furia di menzogna farne un appassionato difensore dell’Inquisizione.

Tuttavia Carlo V promise solennemente alle Cortes che obbligherebbe l’Inquisizione a rispettare i privilegi e le costumanze di Castiglia, d’Aragona e di Catalogna, e ad osservare i santi canoni.

Le Cortes cedettero alla buona fede di Carlo V, e gli manifestarono la loro riconoscenza con un donativo in danaro. Ma i Castigliani, gli Aragonesi e i Catalani tardarono poco a comprendere che le promesse di Carlo V erano ingannevoli quanto quelle dei suoi predecessori. (Storia dell’Inquisizione, cap. III, parte quarta. Annali d’Aragona, sessione delle Cortes nel 1518; e Storia di Spagna, di Fernand de Higuera, tom. I.)

[23] Questa lettera è apocrifa in ciò che riguarda il testo, la data ed il soggetto, ma è vera come tipo e come fatto. Carlo V ne ha scritte molte nello stesso senso; queste lettere sono state sovente considerate come nulla dagl’inquisitori, ed invero Alfonso Virues, ad onta delle raccomandazioni dell’imperatore, languì per quattro anni nelle prigioni del Sant’Uffizio in Siviglia. Poi dobbiamo aggiungere che molto spesso le lettere che l’imperatore scriveva in favore di alcune vittime dell’Inquisizione, erano distrutte da altre lettere da cui le faceva seguire, del rimanente la doppiezza di Carlo V è conosciutissima; chi non sa l’astuzia che l’imperatore usò con Francesco I, mentre questo monarca era prigioniero a Madrid? Francesco I, essendo maltissimo pel dolore che gli cagionava la perdita della sua libertà, Carlo V andò a visitarlo. –“Venite a vedere se la morte vi sbarazzerà presto del vostro prigioniero?” gli domandò il re di Francia. – “Voi non siete mio prigioniero,” rispose Carlo V, “ma mio fratello ed amico; io non ho altro pensiero, che quello di rendervi libertà e tutta la soddisfazione che potete aspettarvi da me:” quindi l’abbracciò.

Le promesse dell’imperatore produssero un effetto salutare, e Francesco I si ristabilì dopo lunga convalescenza. Quando l’imperatore seppe il suo prigioniero ben ristabilito, divenne nuovamente severo e freddo a suo riguardo. Indarno Francesco I ricordò a Calo V la promessa che avevagli fatta durante la sua malattia, Carlo v non lasciò la sua preda che dopo aver ottenuto il 15 gennaio 1530, il trattato che mise la  libertà del re di Francia ad un prezzo oneroso per la nazione.

[24] Benché fosse il più iniquo dei tribunali, benché procedesse, non secondo le leggi della giustizia e del diritto comune, ma secondo il capriccio, l’Inquisizione voleva passare per imparziale e soprattutto per misericordiosa, quanto alla sua imparzialità, è divenuta proverbiale in Spagna, dove si dice anco oggidì, parlando d’un giudice prevaricatore: “E’ giusto ed imparziale come un inquisitore.” Tuttavia in tutte le sale d’udienza, una panca era disposta per i testimoni. Però quando un testimone in discolpa dell’accusato osava venire ad assidersvisi, l’Inquisizione trovava il mezzo d’incolparlo e di farlo partecipe delle pene che infliggeva all’accusato.

[25] Era raro che l’Inquisizione giudicasse gli accusati a porte chiuse, per dar l’apparenza di pubblicità ai dibattimenti, la sala del tribunale era aperta a tutti coloro che avevano ricevuto un invito; ma questi inviti non erano accordati che ai famigliari dell’Inquisizione, raramente ed in piccolissimo numero a dei cattolici provato, cioè anime semplici che credevano alla purezza dello zelo degli inquisitori, ed alla necessità di distruggere gli eretici per la maggior gloria di Dio.

[26] Mentre il Sant’Ufficio sacrificava l’onesto Franco alla lubricità d’un prete e a ciò che il clero chiamava l’onore della religione, come se la religione potesse avere niente in comune con preti lussuriosi e sozzi per ogni sorta di iniquità; mentre, io dico, si rinchiudeva Franco nelle carceri per essersi lagnato della sua moglie, che lo disonorava con un ministro della religione cristiana, l’Inquisizione s’impietosiva sulla sorte d’un miserabile che aveva accusato falsamente il proprio genitore d’aver circonciso un fanciullo. Questo disgraziato, che si chiama Antonio Sanchez, confessò d’aver denunziato il padre nello scopo di farlo bruciare! L’Inquisizione si contentò di punire questo miscredente facendogli dare cento colpi di frusta!

[27] Questo prete chiamatasi Francesco Domenico di Boxas; era Domenicano, ma non aveva mai voluto appartenere all’Inquisizione. Egli comparve la prima volta, il 13 maggio 1558, davanti al tribunale dell’Inquisizione di Vallalolid, e dichiarò di professare le dottrine di Lutero, poscia ritirò la sua dichiarazione. Subì molti interrogatori, e sempre negava negli uni quello che aveva dichiarato negli altri. Pregò che gli fosse risparmiata la tortura, ch’ei temeva più della morte, questa grazia gli fu concessa a patto che non tacerebbe più nulla. Domenico de Boxas dichiarò e confermò tutto quello che si volle, e domandò di essere riconciliato…. Ma grado le leggi dell’Inquisizione, che accordavano la vita a quelli che si confessavano, gli fu significato di prepararsi a morire il giorno seguente. Il giorno dell’esecuzione Domenico rifiutò di confessarsi, e quando discese il patibolo sul quale era stato condotto per udire la lettura della sentenza che lo condannava al rogo, si volse al re e gridò: “vado alla morte per la difesa della vera fede del vangelo!” Filippo II ordinò che gli si mettesse lo sbavaglio. Nel momento in cui si stava per porre il fuoco al rogo gli venne meno, domandò di confessarsi, ricevé l’assoluzione, e fu strangolato. (Llorente Storia dell’Inquisizione, vol. I, parte quinta.)

[28] quando nel 1820 abbiamo aperte le porte dell’Inquisizione per l’ultima volta, il numero dei prigionieri che racchiudeva era ancora considerevolissimo; a Madrid si contavano più di dugento persone, ma nel 1820 l’Inquisizione non era più un tribunale religioso, ma una prigione di Stato. Dal 1801 in poi non si bruciava più alcuno in Spagna. Però la procedura era sempre la stessa; sempre il più gran mistero inviluppava le sue operazioni; sempre la stessa iniquità dettava i giudizi degl’inquisitori, giudizi comandati da Ferdinando VII, e pronunciati quasi sempre non contro eretici, moreschi od ebrei, ma contro coloro che si adoperavano alla liberazione del proprio paese. L’Inquisizione, divenuta impotente, consunta a furia di crudeltà e di iniquità, logorata specialmente dai progressi dei lumi e dalla lotta incessante sostenuta contro il popolo spagnuolo, l’Inquisizione, non potendo più essere giudice era divenuta carnefice al servizio del re, non potendo fanatizzare la Spagna, voleva almeno mantenerla schiava, perché schiava o fanatica, la Spagna, apparteneva egualmente ai preti ed ai re; ora questo era quel che Roma voleva: dominare che gl’importava dei mezzi?…

[29] Quando mai Roma ha combattuto apertamente?…il giorno in cui Roma osasse dire ciò ch’ella vuole; il giorno in cui il clero romano gettasse via la maschera, e si lasciasse vedere tal qual e, cioè il profanatore della sublime religione di Cristo, quel giorno il popolo si leverebbe in massa per cacciarlo dalla chiesa degli apostoli, come altra volta Gesù scacciò i venditori dal tempio; quel giorno bisognerebbe dire ai preti romani: “Guai a voi, Scribi e Farisei, ipocriti! Perciocché voi divorate le case delle vedove e ciò sotto specie di far lunghe orazioni: perciò voi riceverete maggior condannazione.” (Matteo, cap. XXIII, v. 14.)

[30] Quando un accusato era dichiarato innocente da dodici testimoni di puro sangue cattolico l’Inquisizione era forzata di renderlo immediatamente alla libertà. Questo rilascio così ottenuto chiamatasi l’assoluzione definitiva, ma accadeva raramente che dodici persone di puro sangue cattolico osassero presentarsi per difendere un accusato; perché ognuno che osava difendere un accusato era perseguitato dal Sant’Uffizio, e considerato come colpevole dello stesso delitto dell’accusato da lui difeso. Oltraciò l’assoluzione definitiva non serviva a nulla, perché l’Inquisizione sapeva trovare nuove ragioni onde perseguitarlo, e terminava sempre col perderlo o almeno col rovinarlo.

[31] Rodrigo de Valero è un personaggio storico, al quale l’autore ha conservato il suo vero carattere. Bensì non viveva in Siviglia; Rodrigo de Valero era un signore aragonese contemporaneo di Carlo V e di Giovanni d’Avila.

Nella sua gioventù fu scostumato, ma tutto ad un tratto cangiò e si dedicò ardentemente allo studio della Santa Scrittura. Da vizioso che era, divenne uno dei più zelanti apostoli di Lutero, e spinse l’audacia a tal punto, che quando si scontrava con dei monaci, o dei preti, li beffeggiava e li rimproverava di allontanarsi dalle pure dottrine del vangelo. Fortunatamente l’Inquisizione lo ritenne per pazzo, e non lo perseguitò. Per lungo lasso di tempo, profittando di questa idea dell’Inquisizione, predicava nelle strade e nelle piazze ove si radunava il popolo, a cui piaceva molto ascoltarlo; ma l’Inquisizione finì per stancarsi delle sue prediche, e, fattolo arrestare, lo condannò come eretico apostata e falso apostolo, a prigionia perpetua ed alla confisca dei suoi beni….

Valero andava miseramente e indecentemente vestito, ma si formò numerosi allievi, il più riguardevole dei quali fu il dottor Egidio, uomo di una condotta esemplare e di egregi costumi, eloquente predicatore e sapiente teologo. Egidio fu bentosto arrestato dall’Inquisizione e condannato a subire una penitenza come sospetto di luteranismo. Poco dopo l’imperatore Carlo V lo nominò vescovo di Tortosa; nomina che gli fruttò le persecuzioni dei monaci e l’odio del Sant’Uffizio. Quest’ultimo lo fece nuovamente carcerare. L’imperatore, che molto l’amava, scrisse reiteratamente in suo favore all’inquisitore Valdes, che lo mise finalmente in libertà. Egidio morì poco dopo la sua liberazione.

[32] Il ballo del lampione. Così si chiamano in Spagna i balli della plebe. Sono balli in cui il lampione affumicato forma l’unica illuminazione, ed in cui due o tre chitarre, stridule e malconce, accompagnando la voce dei cantori o cantatrici di canzoni, formano l’orchestra.

[33] Pandero. S’immagini un telaio sul quale sia distesa ed attaccata della pergamena, ed attorno a cui pendono molti sonagli di rame e molti nastri colorati, e si avrà una giusta idea del pandero; strumento che potrebbe dirsi un tamburo a doppia faccia di forma quadra. Il pandero è l’istrumento per eccellenza, e nella maggior parte dei balli al lampione supplisce alla chitarra. Questo strumento è adoperato dalle donne, ed è un bel regalo che si fa alle donne del popolo spagnuolo, offrendo loro un pandero guarnito di nastri e di sonaglieli, soprattutto quando si abbia avuto cura di far dipingere sulla pergamena da una prte un cuore infiammato trafitto da freccie, e dall’altro il ritratto di qualche celebre contrabbandiere.

[34] Majos. La parola majo non ha sinonimo nella nostra lingua, secondo l’espressione che le danno gli Spagnuoli. Il majo spagnuolo è un tipo che non si trova che in Spagna, nell’Andalusia specialmente, ove esiste ancora nel primitivo lustro. La parola majo significa non solo uomo amante del lusso all’eccesso e non curante delle vane sue spese, ma significa ancora una specie di professione. Per meritare il nome di majo non basta adottare il vestimento di Figaro, vestimento caratteristico dei majos spagnuoli. Un giovane che aspira al titolo di majo deve riunire una serie di qualità e difetti di queste qualità. Così deve essere bravo, millantatore, buon cavaliere, buon tiratore di scherma, ed espertissimo nel maneggiare il coltello ed il pugnale. Deve danzare con molta grazia, essere forte suonator di chitarra, saper cantare tutte le arie popolari alla moda, e specialmente improvvisare un centinaio di strofe od una romanza amorosa. Finalmente, senza essere toreador di professione, un majo è obbligato a saper provocare, piantar banderuole sul collo d’un toro, ed ucciderlo secondo tutte le regole dell’arte, cioè con grazia, con coraggio, ed immergendo la spada fra le due scapole dell’animale; però, sapendo tutte queste cose, un giovane spagnuolo non meriterebbe ancora il nome di majo se no fosse sempre pazzo d’amore per una sola donna, e galante verso tutto il bel sesso in generale, perocché l’incostanza, come l’indifferenza gli sono interdette. Il majo è generoso fino alla prodigalità; quando trattasi di piacere alla sua diletta, sacrifica tutto ai suoi minimi capricci; ma per sé è sobrio e indurato ad ogni fatica e abituato a tutti i dolori; il majo spagnuolo detesta l’orgia ed ogni sorta di lascivia, non conosce eccesso che in fatto d’amore, di coraggio o di lusso.

L’avarizia è un peccato sconosciuto ai majos, un majo avaro sarebbe disonorato. Dicasi lo stesso dell’ubbriachezza; un majo ubriaco sarebbe mostrato a dito e disprezzato. Nei suoi rapporti con gli uomini il majo ha una specie di dignità sdegnosa, che gli sta a meraviglia; egli deve mostrare una estrema suscettibilità verso gli uomini, ed esser pronto a trar il pugnale alla minima provocazione ad onta dei più grandi pericoli. Poiché per lui ogni duello, ogni omicidio è un merito presso il bel sesso in generale, e la sua diletta in particolare, purché non abbia ucciso nessuno perfidamente. Dal fin qui detto si comprende che i majos sono quasi sempre imbrogliati colla giustizia: ve ne sono alcuni che sono stati parecchi anni nelle galere, e questo pure è un titolo per un majo di puro sangue, purché quegli anni di galera non siano stati la punizione di un furto o di un assassinio.

La majo è nel sesso femminino ciò che il majo è fra gli uomini; maneggia con destrezza un pugnale; e più d’un amante infedele, più d’un rivale hanno sentito la punta della sua lama.per divenire majo è è indispensabile essere un bel giovane, e non aver passato l’età di venticinque anni, dopo questa età, incomincia ad esser vecchio, e non più buono che ad improvvisare canzoni, e fare il mezzano.

[35] Il Gazpacho è una vivanda comunissima in Andalusia non solamente presso il popolo, ma anco presso le persone agiate. Consiste in alcuni pezzi di pane che si bagnano nell’acqua, e si condiscono quindi con pepe rosso, olio, aceto, e sale. Poi vi si aggiunge altr’acqua. Tale è il Gazpacho del popolo. Le persone agiate vi aggiungono delle salsiccie tagliate a pezzetti, e spesso dei pezzetti di bue salato. Si crede che il gazpacho sia una vivanda molto rinfrescante. I soldati che sono di guarnigione nelle differenti città del mezzogiorno della Spagna, ne ricevono una razione ogni dì dal 1° aprile fino al 30 settembre. Dicesi che il gazpacho sia il miglior preservativo contro le febbri calde, di sovente epidemiche nei quattro regni dell’Andalusia, cioè nelle provincie di Siviglia, Malaga; Cordova e Granata.

[36] Il guizado è in Spagna uno stufato di Bue o di montone tagliato a pezzi, in cui si mettono cipolle, e soprattutto molto pepe ed altre spezie. È un piatto classico che si serve ad ogni cena veramente spaguola.