CAPITOLO VII



COMINCIA L'INQUISIZIONE



"Per quanto riguarda gli eretici, questi si sono resi colpevoli di un peccato che giustifica il fatto che essi vengano non solo estromessi dalla chiesa attraverso la scomunica, ma anche allontanati da questo mondo per mezzo della pena di morte. È certo un peccato assai più grave falsificare la fede, la quale è la vita dell'anima, piuttosto che falsificare l'oro, il quale serve alla vita materiale. Se dunque i falsari o altri malfattori sono subito e legittimamente spediti dai principi secolari dalla vita alla morte, con quanto maggiore diritto gli eretici, immediatamente dopo la dimostrazione della loro eresia, possono essere non solo espulsi dalla comunità ecclesiastica, ma anche lecitamente giustiziati".

Tommaso d'Aquino (1)



"I papi non furono solo assassini in grande stile, ma resero l'omicidio un fondamento giuridico della chiesa cristiana e una condizione per la redenzione".

Lo storico cattolico Lord Acton (2)



"In ogni carcere il crocifisso e gli strumenti di tortura stavano fianco a fianco, e in quasi tutti i paesi l'abolizione della tortura era da ricondurre in definitiva a movimenti che si scontravano contro la resistenza della chiesa, e a uomini che la chiesa malediceva".

William E. H. Lecky (3)

GLI INIZI DELL'INQUISIZIONE PAPALE IN GERMANIA - CORRADO DI MARBURGO


La possibilità di procedere contro gli eretici esisteva già da tempo nei tribunali ecclesiastici vescovili, ma ai gerarchi questo non bastava. Non si trattava della loro autoaffermazione, della preservazione dell'esistenza clericale, ma di una prevenzione, di una difesa più decisa. Ripetutamente i sinodi dell'XI e XII secolo si pronunciarono per la neutralizzazione degli eretici, senza però organizzare un'azione corrispondente. L'8 luglio 1119 papa Callisto II, già incontrato da noi come falsificatore di documenti, durante il sinodo di Tolosa invitò il potere secolare allo sterminio degli "eretici" (VI 401 sg.). E dopo che nel 1179 Alessandro III ebbe dato a questo proposito al Terzo concilio lateranense direttive più precise (VI 539) e obbligato sotto minaccia i poteri statali alla loro persecuzione, nel 1184 il suo successore Lucio III e Federico Barbarossa decisero a Verona misure ancora più severe e minacciarono di scomunica, interdetto, destituzione chi fosse venuto meno a tale dovere.


Chi si rifiutava di attuare tale imposizione ecclesiastica era considerato come "eretico" ed era la chiesa, sempre la chiesa, che obbligava il sovrano temporale alla durezza, all'intolleranza. "Non voleva sentir parlare di grazia e non voleva sentire scuse. Il monarca portava la sua corona con l'obbligo di estirpare l'eresia e di preoccuparsi del fatto che le leggi contro di essa fossero severe e venissero applicate senza pietà. Ogni esitazione veniva punita con la scomunica. Se questo si rivelava inefficace, le proprietà venivano sacrificate al primo audace avventuriero che capitava, al quale la chiesa affidava anche un esercito" (Lea).


I vescovi, una o due volte l'anno, dovevano condurre ispezioni in tutti i luoghi sospetti, cosa che significava non tanto l'introduzione dell'inquisizione vescovile, quanto la prosecuzione del tribunale ecclesiastico. Innocenzo III, che accolse il provvedimento, richiese per gli eretici scomunicati il bando permanente. E il decreto di Gregorio IX del 1231 presuppone già la pena di morte. Quando perciò l'anno seguente Federico II la impose con le sue leggi famigerate e sanguinarie, egli non fece altro che confermare "una consuetudine del diritto già presente" (Hauck).


L'imperatore - cosa che non può né deve giustificarlo, anzi lo rende ancora più colpevole - emanò queste orrende leggi solo per calcolo politico, perché, come dice espressamente il francescano Tommaso Tusco, voleva compiacere il papa, voleva dimostrarsi credente, cattolico, per evitare una scomunica che lo minacciava. E l'assai stimato - benché a torto - domenicano, l'inquisitore papale Bernardo Guidoni, che a poco a poco occupò nel suo ordine le più alte cariche, fece osservare expressis verbis che questi decreti imperiali dovevano la loro esistenza al papa. L'inquisitore scrive letteralmente: "In tempi diversi il soglio apostolico ha emanato disposizioni contro la malvagità eretica; anche le leggi imperiali furono promulgate dall'imperatore Federico a questo scopo per iniziativa del soglio apostolico (procurante eadem sede) (4).


La morte sul rogo per "eresia" fu legalizzata per la prima volta da re Pietro d'Aragona in un editto del 1197, ma questo ammonimento non ebbe subito seguito. Nel 1210 Ottone IV dispone nei confronti degli eretici la confisca del patrimonio nonché la distruzione delle loro case, misura, quest'ultima, decisa già da Enrico VI, in seguito anche da Federico II. Federico commina inoltre agli "eretici" il 22 novembre 1220 la confisca dei beni e il bando, che equivaleva già alla pena di morte, poiché rendeva i condannati dei proscritti per chiunque. Nel 1224 ordina per gli eretici, a scelta del giudice, il taglio della lingua o la morte sul rogo, che nel 1231 fissa definitivamente nella sua costituzione siciliana. E immediatamente, almeno nei suoi possedimenti napoletani, fa giustiziare numerose persone e, due anni dopo, comunica al papa di aver accelerato la persecuzione.


Gregorio IX, che allora accusò l'imperatore di abusi, che gli imputò di aver fatto bruciare più che altro nemici personali, e anzi più buoni cattolici che "eretici", aveva tuttavia ordinato la loro individuazione sistematica nel 1231. Anche coloro che li proteggevano o li nascondevano dovevano essere ritenuti inabili a tutti gli uffici, non potevano ereditare né nominare eredi, né comparire come testimoni in tribunale. Lo stesso Gregorio fu un efficace persecutore, e "i fedeli poterono gioire spesso allo spettacolo del rogo degli eretici" (Lea). Per procurare queste gioie al maggior numero possibile di persone, il Santo Padre inviò ai vescovi nel febbraio 1231 il nuovo ordinamento in materia di eretici e, l'anno seguente, i corrispondenti decreti ai principi. Inoltre affidò ai monaci predicatori, i domenicani, l'organizzazione di una propria inquisizione, così come al chierico di Magonza, Corrado di Marburgo.


Con Corrado, considerato da tempo dalla curia come un uomo affidabile, iniziò l'inquisizione papale in Germania. L'aguzzino clericale caratterizzato da "alta cultura" (Patschovsky) aveva inaugurato la sua opera gloriosa come propagandista papale per la crociata nel 1215/1216, nella Germania settentrionale e centrale. Ma gli "eretici", in un primo momento, li attaccò di sua iniziativa. Il conte Hoensbroech considera il rogo di ottanta valdesi a Strasburgo nel 1212 come il primo atto da inquisitore di Corrado. All'anno 1214 gli "Annales Wormatienses" comunicano che "egli fece bruciare in tutta la Germania, senza trovare resistenza, tutti gli eretici che voleva". Anche i "Gesta Treverorum" ricordano non solo le vittime sul rogo dei domenicani - "una quantità smisurata di persone di basso rango e di entrambi i sessi" - ma esaltano addirittura il suo inflessibile coraggio e la passione "per la sua causa".


Non c'è dubbio, un prete come piaceva al papa, suo massimo benefattore. Gregorio IX lo legittimò il 12 giugno 1227 appositamente per la sua azione meritevole, ossia "estirpare la malerba dal campo del Signore". Nel 1231 lo nominò giudice indipendente per gli "eretici", "con ampi poteri di inquisizione" (Lexikon für Theologie und Kirche). L'11 ottobre di quell'anno egli augurò "all'amato figlio, il magister Corrado di Marburgo, predicatore della parola di Dio, salute e benedizione apostolica!". Gregorio lodò "per quanto possibile il Creatore che ha reso numerosi in te i doni della Sua grazia e ti ha eletto a Suo figlio prediletto!". "Si raccontano di te fatti gloriosi, e noi ci rallegriamo dei tuoi progressi. [...] Tu combatti così efficacemente, con tutta la tua energia, contro la malvagità [dell'eresia] che numerosi eretici, grazie a te, sono stati estirpati dal campo del Signore. Ma affinché tu possa combattere senza alcun limite queste volpi che per ogni genere di vie nascoste hanno devastato la vigna del Signore, vogliamo che tu non ti occupi di indagare le cause (te a cognitionibus causarum habere volumus excusatum) e ti preghiamo ed esortiamo, per la remissione dei tuoi peccati, che cerchi intorno a te validi collaboratori per l'estirpazione dei funesti eretici [non dell'eresia], qualunque sia la loro provenienza [...]".


Naturalmente, Corrado dovette servirsi anche del "braccio secolare", e Gregorio condonò a tutti i collaboratori dell'opera buona ogni pena ecclesiastica per tre anni. E se uno di loro fosse morto durante la persecuzione degli "eretici", il papa gli spalancò le migliori prospettive: nessun purgatorio, ma direttamente in paradiso.


Il "fratello Corrado", amato dal "luogotenente di Dio" e da Dio stesso, era anche attivo come padre confessore e principale consigliere spirituale della giovane langravia Elisabetta di Turingia, e nello stesso periodo in cui curava la propria fruttifera azione come cacciatore papale di "eretici", particolarmente nella zona del medio Reno, egli sollecitò anche la canonizzazione di Elisabetta.


I roghi continuano a fumare, e "una quantità innumerevole di persone perisce" (Annales Colonienses maximi) a Erfurt, Magonza, Colonia, Marburgo, dove si incenerisce anche una vecchia che non voleva "convertirsi" (cfr. pp. 109 sg.). Anche la "Sächsische Weltchronik" osserva adesso "nella terra tedesca molta eresia [...] per questo sul Reno molti eretici sono bruciati dal maestro predicatore Corrado di Marburgo". Soltanto l'aiutante di Corrado, il frate domenicano Corrado Dorso, ne ha "bruciati probabilmente mille". In fondo, frate Corrado Dorso e il suo complice guercio e mutilato Giovanni, un vero aguzzino (totus nequam), si basavano su una regola assai religiosa: meglio che muoiano cento innocenti, piuttosto che sfugga un colpevole. "Nelle città e nei villaggi facevano arrestare chiunque volessero, e consegnavano ai giudici queste persone senza ulteriori prove con le parole: questi sono eretici, noi ritraiamo la nostra mano da loro". Dopo di che i giudici dovevano bruciarli, volenti o nolenti, secondo gli "Annales Colonienses maximi" lo stesso giorno della denuncia.


Così già a quel tempo, come durante l'intera epoca della santa inquisizione, una quantità innumerevole di persone venne uccisa in virtù di inaudite violazioni del diritto, di false testimonianze, solo in base a sospetti e senza ulteriori indagini; perfino coloro che fino all'ultimo respiro dichiararono la propria fede, che "invocarono Cristo e la sua divina madre ancora tra le fiamme [...]


Gregorio non concedeva appello agli "eretici". Gli avvocati, i notai che li assistevano perdevano "per sempre la loro carica", così egli ordinò. Correvano anzi il rischio di essere bruciati essi stessi; così pure gli "eretici" che si rifiutavano di fare i nomi dei correi. Accusavano le persone "senza volerle accusare; affermando cose di cui non sapevano niente. E nessuno osava intercedere per un accusato o anche solo presentare attenuanti, perché in quel modo veniva considerato un difensore degli eretici, e per questi e per chi li nascondeva il papa aveva stabilito le stesse pene che per gli eretici stessi. E se qualcuno che aveva rinnegato la setta era recidivo veniva bruciato, senza poter abiurare una seconda volta" (Gesta Treverorum) - di lì a poco, questo sarebbe stato un principio universale.


L'episcopato tedesco ha per anni non solo tollerato, ma sostenuto l'opera sanguinaria di queste creature del papa, la cui azione di un orrore indicibile è completamente ignorata dai molti volumi del cattolico Handbuch der Kirchengeschichte; qualche vescovo l'ha difesa anche dopo la loro morte. Essi conquistarono infatti signori spirituali e secolari, e perfino il re, dicendo: "Bruciamo molti ricchi eretici, e voi avrete i loro beni. Nelle città vescovili il vescovo ne riceverà una metà, e il re o un altro giudice l'altra. Di questo tali signori si rallegravano, e favorivano gli inquisitori, li chiamavano nelle loro città e nei loro villaggi".


Solo allorché Corrado allungò le mani verso persone altolocate, aristocratici e signori, allorché accusò di "eresia" perfino i conti di Sayn, Solms, Arnsberg, la contessa Looz, gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri lo ammonirono a "bruciare con più moderazione; ma egli non si placò". Quando tuttavia re Enrico, alla dieta di Magonza del 1233, prese partito per l'alta nobiltà e contro Corrado, questi fu ucciso già sulla via del ritomo, il 30 luglio. E solo la sua eliminazione - vicino a Marburgo, la sua città natale, dove trovò la pace significativamente nella chiesa dedicata a Elisabetta, al fianco della santa - avrà temporaneamente messo fine almeno agli eccessi peggiori (5).


Ancora poche settimane prima della morte di Corrado, papa Gregorio IX lo aveva incitato il 10 giugno 1233 a rimuovere "la carne putrida con il ferro e il fuoco". Allo stesso tempo Gregorio esortava anche l'arcivescovo di Magonza allo sterminio degli "eretici", e così anche re Enrico, al quale raccomandò di imitare questo luminoso esempio di omicidio di massa tratto dall'Antico testamento: "Dov'è lo zelo di un Mosè, che in un sol giorno annientò ventitremila idolatri? Dov'è lo zelo di un Finees, che con un sol colpo trafisse l'israelita e la madianita? Dov'è lo zelo di un Elia, che uccise con la spada i quattrocentocinquanta profeti di Baal [...]". E il 21 ottobre il papa invia a nord un entusiastico necrologio: "Voi prìncipi della chiesa di Germania, com'è che non piangete e vi lamentate per il crudele assassinio, perpetrato dai servi dell'oscurità, di Corrado di Marburgo, servo della luce e guida della sposa di Gesù Cristo?". Nessuno ha più di lui spaventato gli "eretici" e difeso la chiesa, scrive Gregorio IX, il quale non esita a dichiarare che l'assassinio di Corrado, "un uomo di perfetta virtù e un araldo della fede cristiana", non potrà essere punito a dovere [...]" (6).


QUANTO PIÙ SPORCO, TANTO PIÙ SANTO


Tutto questo si deve a Gregorio IX: ha tentato di realizzare un'inquisizione tramite i suoi legati, ha nominato inquisitori a Roma e a Firenze, ha rafforzato la legislazione esistente contro gli eretici nel 1231, esponendoli così alla pena di morte. Ha fondato infine un'inquisizione papale, accanto a quelle dei vescovi, affidandone l'attuazione ai domenicani, i quali agiscono in modo terribile soprattutto in Italia settentrionale e in Linguadoca.


A Tolosa, nel 1232 furono bruciati ad opera del domenicano Raimondo di Falguario diciannove albigesi, tra cui diverse donne. A Firenze l'inquisitore domenicano Giovanni mandò sul rogo nel luglio 1233 sessanta rispettabili uomini e donne. L'inquisitore Roberto - nominato da Gregorio - che ridusse in cenere molte persone anche a Cambrai, Douai, Lille, fece bruciare soltanto il 29 maggio 1239 a Mont-Aime nella Champagne centottantatre "eretici" - "un grande olocausto [!] gradito al signore" (maximum holocaustum et placabile Domino), come annuncia la cronaca.


I domenicani finirono per esercitare la loro crudele opera omicida in tutta l'Europa, ma particolarmente al sud, in Spagna, Italia, nella Francia meridionale. Vi fu anche un'inquisizione domenicana in Africa e in Asia, a Tunisi e in Marocco, in Armenia, Russia, Georgia, ma relativamente innocua, perché non sostenuta da spietate leggi statali (come quelle di Federico II o di Luigi il Santo). Ma almeno in Europa questi frati predicatori divennero per secoli i peggiori segugi sanguinari. E il loro fondatore, il sacerdote spagnolo Domingo de Guzman, Domenico, "aveva presto fatto suo lo spirito di Cristo" (Wetzer/Welte, Kirchen-Lexikon, 1849), e Domenico faceva parte dei "grandi artefici dell'imitazione di Cristo istituzionalizzata nella vita dell'ordine" (Lexikon fiir Theologie und Kirche, 1995). Papa Gregorio lo canonizzò nel 1234, un uomo il cui emblema più frequente divenne un cane che stringe tra i denti una fiaccola accesa; così come i domenicani vennero chiamati, a causa del loro sanguinario compito di redenzione, "Domini cani", i cani del Signore.


Le punizioni, nel corso della storia della salvezza, si erano fatte sempre più dure e più salvifiche. I concili di Reims del 1157 e di Oxford del 1160 avevano ordinato per gli eretici la marcatura a fuoco nel volto. E in un primo momento lo stesso Innocenzo III minacciò nel 1199 gli Albigesi "solo" di esilio e confisca del beni. Poi però la pena di morte si fece più frequente. E comparvero anche diversi tipi di esecuzione - a Colonia, Norimberga, Ratisbona per qualche tempo l'affogamento degli "eretici", a Wiirzburg la decapitazione - poi il rogo divenne la regola.


La chiesa fece di questo, che avveniva perlopiù in un giorno di festa, una dimostrazione della propria effettiva onnipotenza, un pomposo sacrificio rituale, più attraente di qualunque altra festa ecclesiastica. La cosa fu chiamata, con espressione portoghese, autodafé, in latino actus fidei, era dunque un atto di fede, indubbiamente il più ardente della storia della religione. Vi partecipavano speciali cavalieri, si conducevano in processione il popolo e i condannati, si pagavano alti prezzi per i posti alle finestre e per ogni cattolico cristiano che portasse legna sul rogo era certa una piena indulgenza - il mondo cattolico è stato privato di questa grandiosa possibilità dal XIX secolo, poiché l'ultimo autodafé dovrebbe essere stato celebrato nel 1815 in Messico (il primo nel 1481 a Siviglia).


Vi prendevano parte principi spirituali e secolari, e dopo che il grande inquisitore, su una piazza o in una casa di Dio, terminata la messa solenne e la predica, aveva consegnato i condannati a morte al potere secolare, non senza l'intimo desiderio di risparmiare a queste persone "la vita e le membra", esse venivano condotte al luogo dell'esecuzione; a causa della loro folle depravazione, esse portavano perlopiù un berretto da buffone e un vestito fatto a sacco, di un giallo vivo e decorato con i più pazzeschi volti diabolici, affinché anche il più stupido dei cattolici potesse vedere immediatamente quali figli del demonio fossero quei malvagi; e in uno slancio di autentico amore per il prossimo venivano maltrattati con dei bastoni, pizzicati con tenaglie roventi e talvolta veniva loro staccata la mano destra. Per premuroso rispetto nei confronti del popolo cristiano, agli "eretici" veniva messa in bocca - per impedire che gridassero - una specie di morso, cosicché non si sentiva altro che il familiare crepitio delle fiamme e la litania dei preti. E mentre le loro vittime, a seconda della direzione del vento, soffocavano o bruciavano lentamente, la comunità riunita, nobiltà, popolo e clero, cantava "Gran Dio, noi ti lodiamo" (7).


I tribunali dell'inquisizione erano i più importanti tribunali della chiesa, ed erano sottratti a ogni influenza profana. Erano considerati inviolabili e abitualmente si fregiavano degli attributi "santa" e "santissima". Perché più sporca è una cosa, più deve essere liberata dallo sporco verbalmente, deve essere abbellita, nobilitata, sollevata al rango del venerabile, del sublime.


Comunicazioni ufficiali della chiesa, o papi come Innocenzo IV e Clemente IV, esaltarono l'inquisizione nelle loro bolle del 23 marzo 1254 e del 26 febbraio 1266.


Anche gli stessi inquisitori furono collocati in una nobile fila di antenati, collegati a un'intera galleria di gloriosi gangster dell'Antico testamento, per esempio con Saul, con David, Giosuè e altro. Ma anche Gesù, Giovanni Battista e Pietro facevano parte dell'albero genealogico dell'inquisitore. Perfino lo stesso Dio, che aveva cacciato Adamo ed Eva dal paradiso, passava per il primo "inquisitore". In ogni caso, questi assassini erano incaricati del papa. E sempre e dovunque, il loro potere risaliva unicamente a lui.


LE PRIGIONI DELL'INQUISIZIONE, LUOGHI DI ORRORI INIMMAGINABILI


Il tribunale dell'inquisizione era aperto da un'invocazione dello Spirito Santo, e anche prima della pronuncia della condanna si pregava. Il giudizio, ovviamente, era sottratto - anche in caso di forti dubbi - a ogni verifica da parte dei tribunali statali. Questi fungevano solo da strumenti esecutivi di quello ecclesiastico, le cui sentenze dovevano essere applicate "ciecamente" (coeca obedientia), "ad occhi chiusi" (oculis clausis).


Numerose bolle papali intimavano ai prìncipi di svolgere il loro funesto dovere e il loro incarico. Non solo i dogi di Venezia erano tenuti, in base a un giuramento d'ufficio, a bruciare tutti gli eretici. E il guelfo Ottone IV volle prestare il suo "efficace aiuto" nell'estirpazione della "malvagità eretica" così come il suo avversario, lo Hohenstaufen Federico II, il quale tuttavia andò oltre, tanto oltre quanto possibile, e pretese da tutti i suoi prìncipi, consoli, rettori "che si impegnassero con tutte le proprie forze a eliminare nelle loro terre tutti gli eretici segnalati dalla chiesa". Dovettero giurarlo pubblicamente, in caso contrario erano colpiti da destituzione e perdita delle loro terre, cosa che aveva un notevole effetto.


I papi insistevano energicamente perché si adempiesse prontamente a tutti gli ordini e le richieste degli inquisitori, perché questi ricevessero anche dallo stato guardie del corpo, ma soprattutto perché i decreti dell'inquisizione entrassero nelle raccolte di leggi secolari. Così Innocenzo IV scrive nella sua bolla "Cum adversus haereticam" del 28 maggio 1252: "Poiché l'imperatore romano Federico ha emanato contro la malvagità eretica alcune leggi attraverso le quali la diffusione di questa peste può essere impedita, e poiché noi vogliamo che queste leggi siano osservate per il rafforzamento della fede e per la salvezza dei fedeli, ordiniamo dunque ai figli prediletti che costituiscono l'autorità di accogliere nei loro statuti queste leggi di cui accludiamo il testo, e di procedere con grande solerzia contro gli eretici, perciò ordiniamo a voi [inquisitori] che, se queste autorità eseguiranno i nostri ordini con negligenza, voi li obblighiate a farlo attraverso la scomunica e l'interdetto [...] Coloro che rinnegano la fede cattolica li condanniamo in tutto e per tutto, li perseguiamo con i nostri castighi, li priviamo del loro patrimonio; dichiariamo nulla la loro successione, li priviamo di tutti i diritti" (8).


La pena consueta per gli "eretici" era l'incarcerazione, spesso a vita. In base a un registro dell'inquisizione di Tolosa degli anni dal 1246 al 1248, tramandato solo in parte, su centoquarantanove persone incarcerate, sei furono condannate a dieci anni, sedici a un tempo indeterminato, a discrezione della chiesa, e centoventisette all'ergastolo.


Le prigioni dell'inquisizione erano luoghi di un orrore inimmaginabile, strette e buie, secondo le disposizioni papali; solitamente prive di qualunque illuminazione e ventilazione, ma piene di immondizia e fetore. E in questi posti affollati ad opera del clero, che presto divennero troppo piccoli - ragion per cui Gregorio IX ordinò la costruzione di altri, concedendo indulgenze in abbondanza ai cristiani che contribuivano - le persone scontavano una pena di gran lunga peggiore della rapida morte sul rogo, uomini e donne languivano spesso per molti anni senza essere stati condannati o assolti. Così un uomo chiamato Wilhelm Salavert fu interrogato per la prima volta il 24 febbraio 1300 e condannato il 30 settembre 1319, dopo diciannove anni di ininterrotta miseria. A Tolosa, una donna fu "perdonata e destinata a portare la croce", dopo aver trascorso trentatre anni nella prigione locale.


È ovvio che solo una minoranza dei carcerati restava in vita per un tempo così lungo. Il mite, modesto, amabile francescano Gerardo di Borgo San Donnino, nel XIII secolo, a causa di speculazioni non ortodosse sulla trinità finì in carcere per pura "grazia", restandoci diciotto anni, a pane e acqua, in catene, fino alla morte; così i due monaci Leonardo e Pietro de' Nubili. All'inizio del XIV secolo lo spirituale francescano Ponzio Bautugati, per il suo rifiuto di consegnare al rogo alcuni dei trattati proibiti di Pietro Giovanni Olivi, un eminente spirituale (morto nel 1298), fu incatenato alle mura di una segreta umida e piena di sterco, dove, nutrito con poco pane e acqua, marcì nella sporcizia fino alla morte; quando lo si seppellì rapidamente, la sua carne era già attaccata dai vermi.


Le vittime erano stipate spesso a mucchi in uno spazio angusto, in buchi putridi e maleodoranti. Per esempio, si tramanda, quaranta persone in una stanza lunga 40 piedi e larga 15. Nel mezzo c'era un avvallamento per orinare, più un trogolo per le feci che veniva vuotato due volte alla settimana. "Dal carcere femminile, che si trovava sopra di lui, l'urina gocciolava nella nostra prigione attraverso il soffitto". Questi inferni erano spesso sotterranei, senza aria fresca, senza luce. Le vittime della chiesa e dello stato, non di rado incatenate al muro, vegetavano nutrite a stento, spesso per anni e per tutta la vita; si consumavano, finché morivano nella pazzia, suicidandosi, per morte cosiddetta naturale oppure, un giomo, sul tavolo della tortura o nelle fiamme del rogo.


PRACTICA INQUISITIONIS


Molti esperti hanno scritto manuali o compendi della loro scienza della salvezza. Così possediamo, per citare solo alcuni dei più apprezzati, la "Pratica inquisitionis haereticae pravitatis" del domenicano Bernardo Guidoni (o Gui), che nel periodo della sua carica di inquisitore, secondo quanto si tramanda, fece bruciare scicentotrentasette persone e in segno di gratitudine fu elevato da papa Giovanni XXII a vescovo di Lodève - detto senza cinismo, come potrebbero pensare gli animi innocenti. La chiesa elesse a papa numerosi inquisitori, e ancora nel 1867, per mano di Pio IX, canonizzò Pedro Arbues, uno dei più crudeli maestri del rogo della Spagna, messosi in mostra per diversi autodafé (festeggiato il 17 settembre).


Il domenicano Guidoni esprime chiaramente, nel suo testo, l'intenzione dell'inquisizione: "Scopo dell'inquisizione è la distruzione dell'eresia; ma l'eresia non può essere distrutta se non attraverso lo sterminio degli eretici; [...] Ma gli eretici vengono sterminati in due modi; primo, tornando dall'eresia alla religione cattolica, secondo, una volta consegnati al tribunale secolare, bruciandoli fisicamente".


Il domenicano Nicolas Eymerich, inquisitore generale per l'Aragona e cappellano papale ad Avignone, scrisse là nel 1376 una "guida per gli inquisitori", il "Directorium inquisitorum", più volte stampato, che si dice "insuperato" per la sua efficacia (conte Hoensbroech) e che presto fu considerato dalla curia romana "strumento insostituibile di lavoro per il processo dell'inquisizione" (Romanello). In un'appendice posteriore, esso contiene un indice di espressioni eretiche comprendente quattrocentoventicinque voci, "per la comodità dei venerabili signori inquisitori".


Il "Tractatus de officio sanctissimae Inquisitionis" di Tommaso Careña - funzionario fiscale dell'inquisizione romana e confidente di san Carlo Borromeo - presenta già nel "preludio" (anteludia) il principio che domina la sua intera opera: "Le eresie devono essere estirpate, e gli eretici devono essere vinti con il ferro e il fuoco, perché è più facile vincerli che convincerli. In nessun luogo gli eretici sono puniti con maggiore giustizia e santità che dinanzi al giudice dell'inquisizione [...] ".


Un manuale dell'inquisizione dell'ordine francescano del XVI secolo porta il titolo "Guida giudiziaria per l'ordine dei frati minori di San Francesco, per applicare secondo santità la giustizia: Practica criminalis ad sancte administrandam justitiam in Ordine Fratrum Minorum S. Francisci" (9).


Per questi assassini, dopo la santità, la giustizia veniva prima di tutto.


Quello che i "manuali dell'inquisizione" degli stimati venerabili colleghi, però, di fatto tornano sempre a proporre è una quantità di sporchi trucchi per estorcere una confessione alle loro vittime, perlopiù già fiaccate dalla prigionia. Così l'inquisitore, sfogliando atti e documenti, deve comportarsi come se sapesse già tutto, cosicché il prigioniero creda già dimostrata la sua colpevolezza. Oppure un "eretico" convertito, introdotto di nascosto come un membro della setta, deve conquistare la fiducia del suo vecchio compagno e portarlo a parlare, al che alcuni uomini che origliano presso la porta - tra cui un notaio - scriveranno tutto ciò che lo accusa. Oppure si mente semplicemente a casaccio, si racconta di dover partire, si finge partecipazione per la sorte del prigioniero, si dice che lo si sarebbe "volentieri lasciato andare, perché potresti facilmente recare danno alla tua salute. Adesso però devo partire e non so quando tornerò. Poiché però non vuoi confessare, devo purtroppo lasciarti legato in carcere fino al mio ritorno. Allora il prigioniero comincerà probabilmente a pregare di non essere lasciato in carcere, e forse comincerà a confessare" (l'inquisitore Nicolas Eymerich).


Fra Tommaso di Aversa adoperava un metodo più grossolano, ma estremamente efficace. Nel 1305, a Napoli, non riuscendo a estorcere una confessione agli spirituali francescani neanche attraverso le più crudeli torture, affamò per giorni uno dei frati più giovani, lo ubriacò poi con del vino forte e poté alla fine sentire che egli e i suoi quaranta compagni erano tutti "eretici". Anche papa Clemente V, così, solo un anno più tardi poté ricordarsi della denutrizione come strumento di stimolazione della confessione - accanto alla tortura e al carcere duro.


Occasionalmente si raccomanda anche di promettere agli imputati la grazia, perché allora il graziato denuncia altri, anche sconosciuti, attirando così "gli astuti serpenti fuori della loro tana". In questo modo si perdevano sì i beni degli amnistiati, si guadagnava però il patrimonio dei nuovi denunciati, ottenendo così più che meno.



LA TORTURA, LO STRUMENTO PIU IMPRESSIONANTE DELLA CARITA CRISTIANA


Dei tre metodi di dimostrazione della colpevolezza da parte dell'inquisizione - purificazione, abiura, tortura - "la tortura è il più indicato. Poiché l'eresia è difficile da dimostrare, il giudice dell'inquisizione deve essere incline all'uso della tortura: ad torturam judex debet esse promptior" (Antonio Diana, consultore dell'inquisizione siciliana).


La tortura era già stata permessa contro i donatisti dal santo vescovo e dottore della chiesa Agostino, prototipo di tutti i cacciatori di eretici del medioevo, che l'aveva difesa definendola quasi una bagattella in confronto all'inferno, quasi come una "cura", emendatio (1406).


La polemica agostiniana contro gli "eretici" fu elaborata in modo sistematico nell'XI secolo, tra gli altri, dal vescovo Anselmo da Lucca, cacciato nel 1080 dai suoi stessi chierici, che aveva compreso Agostino nel modo giusto: procedere contro i malvagi non era una persecuzione, ma una manifestazione di amore. Anche il vescovo Bonizo di Sutri, che chiama a "combattere con tutte le forze ed armi" scismatici e altri, peggiori deviazionisti e nel 1089 sarà accecato e mutilato dai suoi cristiani, non esita a mettere in bocca ad Agostino le parole secondo cui "sono beati coloro che esercitano la persecuzione per amore della giustizia".


A nord delle Alpi, lo strumento più impressionante della carità cristiana venne in uso già in epoca carolingia, ma cominciò a fiorire solo nel XIII secolo, allorché Innocenzo IV nella bolla "Ad extirpanda" del 1252 prescrisse e inserì nel diritto canonico la tortura contro gli "eretici" dell'Italia settentrionale. Nel 1256 questo fu esteso all'Italia intera, e negli anni seguenti confermato dai papi Alessandro IV e Clemente IV. Nel 1261 Urbano IV concesse che gli inquisitori, ai quali nel corso di questo energico genere di esame delle opinioni era morto un delinquente, si assolvessero reciprocamente. Perché torturare a morte un "interrogato" non era permesso. In questo caso l'inquisitore incorreva nella scomunica. Ma ne veniva subito liberato se un prete dell'inquisizione lo assolveva con la formula ego te absolvo.


All'inizio del XIV secolo, in cui anche Clemente V ordinò la tortura durante lo sterminio dei Templari (p. 343), nel regno di Napoli quarantadue spirituali francescani furono torturati ferocemente, cosicché alcuni di loro morirono, mentre i sopravvissuti furono frustati nudi per le strade della città e banditi. Gli spirituali, che tendevano a uno stile di vita secondo la primitiva regola francescana - maggiore contemplazione, più rigida povertà - furono perseguitati fino alla Calabria, in Sicilia, fino in Armenia e a Giaffa; e tra il 1318 e il 1358, come dimostra una lista del tribunale dell'inquisizione di Carcassonne, furono bruciati anche centotredici "fratelli della vita povera". Ovviamente, anche la pratica degli spirituali non era sempre così spirituale. Così, ad Asciano, nel monastero dei Minoriti che essi occupavano, o nel convento di Carmignono presso Firenze, essi attesero i loro persecutori con le balestre dietro le feritoie.


Accanto al tavolo da tortura era appeso il crocifisso, e durante il supplizio si aspergevano più volte di acqua santa gli strumenti della salvezza. In questo modo essi erano rapidamente efficaci per l'ottenimento di tutte le desiderate confessioni, e risparmiavano inoltre agli inquisitori le spese di vitto e alloggio.


Nel carcere dell'inquisizione di Carcassonne si accordavano per il mantenimento dei prigionieri otto déniers al giorno e per persona (circa otto centesimi secondo la valuta tedesca del XX secolo), sui quali però i carcerieri volevano fare il loro guadagno. Perciò la tortura fu rapidamente prediletta dai signori della chiesa, mentre la giustizia statale la introdusse solo lentamente.


I tipi di tortura, come sottolineato espressamente da diversi manuali, non erano fissati dal diritto canonico; erano ad arbitrio del giudice. Era vietato solamente - tranne che in caso di nuovi capi d'accusa - torturare una seconda volta. Ma questa difficoltà era aggirata riprendendo la tortura dopo un'interruzione di uno, due giorni, col che essa era definita non una tortura "ripetuta", ma "continuata" (continuata tormenta, non iterata). Se un torturato perdeva i sensi, gli si rovesciava addosso dell'acqua o lo si faceva rinvenire accendendo dello zolfo sotto il suo naso, così da poter continuare a torturarlo.


Era incerto anche il limite di età delle persone da torturare. Verso l'alto esso era naturalmente aperto. Per i giovani, i concili di Tolosa, Béziers ed Albi fissarono quattordici anni per il sesso maschile, dodici per quello femminile. Ma ci furono anche autorità ecclesiastiche che ridussero il termine fino a sette anni. Il "Sacro arsenale" dell'inquisitore domenicano Tommaso Meneghini autorizzava anche la flagellazione di bambini minorenni.


Per quanto riguarda i testimoni, l'inquisitore papale Royas, attivo a Veltlin, aveva come principio: "I testimoni che dicono male di un eretico, per esempio che egli è un ladro o un assassino, sono solitamente da preferire ai testimoni che ne dicono bene". In generale si volevano ascoltare solo testimoni a carico. Donne, bambini, servi non potevano parlare a favore di un accusato, ma potevano parlare contro di lui; allora la loro testimonianza era benvenuta e pesava particolarmente. I testimoni a carico potevano essere inoltre non solo membri della famiglia e coinquilini, coniugi, figli minorenni, domestici, ma anche ebrei, infami, delinquenti, spergiuri, perfino scomunicati, gente che secondo la visione della chiesa era priva per il resto di ogni diritto e inadeguata a testimoniare. Si escludevano solo i "nemici mortali", ma anche questi solo con riserva. Talvolta i testimoni potevano essere obbligati a parlare contro gli accusati, gli inquisitori potevano anche far torturare questi testimoni "per ottenere la verità".


Il francescano Bernardo Délicieux, che nel 1300 afferma - documentato - che le osservazioni dell'inquisizione non meritavano alcuna fiducia su ciò che fosse la fede comune, enunciò anche la frase secondo cui perfino San Pietro e San Paolo, se interrogati secondo il metodo dell'inquisizione, sarebbero stati condannati per "eresia".



"PER LA CAUSA CATTOLICA È ASSAI CONVENIENTE CHE L'INQUISIZIONE POSSIEDA MEZZI ECONOMICI IN ABBONDANZA"


Mentre il popolo, la massa dei cristiani, sprofondava ovunque in smisurata povertà, tanto i domenicani quanto i francescani si arricchivano grazie ai loro affari sanguinari, corrompendo i colpevoli, ricattando gli innocenti. E poiché ricevevano denaro a sufficienza, promettevano anche ai cacciatori di "eretici" di successo "ricompensa eterna da Dio" nonché "un'adeguata remunerazione terrena" (l'inquisitore Bemardo Guidoni). Henry Charles Lea ha mostrato come da corruzioni, estorsioni, malleverie si sviluppasse un settore di affari che prosperò per secoli, dove molte persone furono perseguitate solo a scopo di sfruttamento. A metà del XIV secolo, a Firenze, un solo testimone denunciò sessanta casi di estorsione da parte dell'inquisitore Piero di Aquila, dove le somme strappate ancora comprovabili oscillavano tra venticinque e millesettecento fiorini d'oro, e in complesso l'inquisitore avrebbe estorto in soli due anni la somma per quel tempo enorme di settemila fiorini - "benché allora non vi fossero eretici a Firenze".

Ma tali pratiche erano comuni, e furono confermate dal concilio di Vienna del 1311. Un decennio prima, nel 1302, scrisse papa Bonifacio VIII, gli inquisitori francescani di Padova e Vicenza, stando a quanto egli aveva sentito, avevano "estorto nella loro vergognosa avidità enormi somme a molti uomini e donne, e recato loro danni di ogni genere". Ma di che cosa si rammarica il famoso papa? Del fatto che i malfattori "non abbiano impiegato il guadagno illecito per il bene del Santo Uffizio o della chiesa cattolica o del loro stesso ordine"!


Certamente, l'apparato dell'inquisizione divorava soldi. Per esempio Guido di Thusis, inquisitore della Romagna, nel 1309 aveva trentanove assistenti. Ma molto di più scorreva via per altri scopi, o finiva in più nelle tasche dei chierici. In un primo momento, in realtà, la riscossione di pene pecuniarie era vietata agli inquisitori. Ma esse comparvero presto; e servirono a scopi diversi, ma soprattutto all'inquisizione stessa. Non vi erano infatti, come sostiene l'inquisitore Nicolas Eymerich, istituzioni più benefiche di questa, attraverso la cui "solitaria opera di bene viene estirpata l'eresia. Per la causa cattolica è dunque assai conveniente che l'inquisizione possieda mezzi economici in abbondanza".


Naturalmente, il denaro era assai conveniente anche per i funzionari dell'Inquisizione. E così potevano disporre delle pene pecuniarie a propria assoluta discrezione, e anche le altre pene potevano essere convertite in ammende. In questo i papi davano il buon esempio. Quando le casse erano in miseria, muovevano guerre dispendiose e pretendevano la conversione delle pene dell'inquisizione in ammende, senza riguardo per le prerogative degli inquisitori.


Ovviamente, di lì a poco gli inquisitori si comportarono in analogo modo. E così poterono disporre alla fine a propria discrezione di pene pecuniarie che spesso tornavano a beneficio di "scopi di devozione", ma spesso solo di quelli che prevedevano tali pagamenti. Perché non di rado gli inquisitori ingannavano i papi, i quali a loro volta sospettavano degli inquisitori e li facevano sorvegliare. Anche le autorità secolari e i vescovi partecipavano del bottino, ma le leggi differivano secondo il tempo e il luogo. Comune era solo l'avidità di denaro, delle proprietà delle vittime, un continuo spiare e mercanteggiare, un gangsterismo permanente, più o meno regolato da leggi.


Per il resto, solo i pentiti erano puniti con ammende. Ma non sempre solo con ammende. Nel 1229 Gregorio IX, nella bolla "Excommunicamus", stabilì che tutti coloro i quali dopo l'arresto si convertivano alla "vera fede" per paura della morte "fossero incarcerati a vita e scontassero in questo modo la loro giusta punizione". E quasi contemporaneamente il concilio di Tolosa prese le medesime disposizioni. Agli ostinati e recidivi invece si prendeva tutto e li si consegnava "senza pietà" (absque misericordia) al tribunale secolare, solitamente con l'espressione che ritorna stereotipata secondo cui si infliggeva loro "la pena dovuta" (animadversio debita), il che significava sempre la pena di morte.


Non v'è probabilmente niente dei cristianesimo che sia stato sopportato con tanto terrore e ripugnanza quanto l'inquisizione, e poche cose sono state praticate con tale intensità e spietatezza. "Perfino i torturatori dei campi di concentramento" scrive Hans Wollschläger a ragione "non sapevano torturare così". Questo dipende, oltre che dal fanatismo, dalla follia criminale per la causa, senza dubbio soprattutto dal guadagno che essa fruttava attraverso le ammende, le confische; una pena che la chiesa stessa, prendendola dal diritto romano, introdusse nella legislazione europea per la penalizzazione delle trasgressioni.


Sia Alessandro III (1163), sia Lucio III (1184) pretesero la confisca. Re Luigi il Santo la ordinò nel 1250 perfino per coloro che intenzionalmente non obbedivano al mandato di comparizione, o per coloro nelle cui case venivano trovati degli eretici. Innocenzo III la prescrisse per tutti gli "eretici". E se ne occupava già uno dei suoi primi ufficiali. Così nel decretale "Vergentis" si legge: "nei paesi sottoposti al nostro potere, i beni degli eretici devono essere sequestrati; negli altri paesi questo deve accadere per mano dell'autorità secolare; noi la costringeremo a farlo attraverso pene ecclesiastiche, nel caso che essa dovesse mostrarsi negligente" (10). Non c'era, tuttavia, una regolamentazione universalmente valida della spartizione del bottino. Papa Lucio III, per esempio, voleva riservare esclusivamente alla chiesa il ricavato della confisca, il che era logico nei territori papali. Al tempo di Corrado di Marburgo (pp. 186 sg.), nelle città vescovili tedesche una metà doveva spettare al vescovo, l'altra al re o a un altro giudice. Ma i vescovi rivendicarono talvolta anche il diritto alla confisca dell'intera proprietà di un "eretico" sottoposto alla loro giurisdizione. Così nel 1251, al concilio di Lille, minacciarono di scomunica chiunque "contestasse loro questo diritto". Si giunse perciò spesso a scontri di interessi, a dispute che durarono a lungo. I fratelli in Cristo fecero continuamene processi per castelli, vigneti, frutteti, proprietà terriere di altro genere, beni mobili. Per trent'anni gli operosi vescovi di Albi lottarono contro la corona per il bottino ricavato dal massacro degli Albigesi; per trent'anni si azzuffarono con essa i vescovi di Rodez; più o meno per lo stesso tempo la contessa di Vendóme, Eleonora di Montfort, lottò contro il re di Francia per i beni degli "eretici". La confisca aveva avuto luogo già nel 1300, il processo si concluse nel 1335. Non di rado si intentavano procedimenti legali perfino contro i morti. Per trentadue anni il vescovo e l'inquisitore di Ferrara lottarono per lo scheletro di Artnanno Pongilupo di Ferrara, finché l'inquisitore vinse nel 1301. E come dovettero spaventarsi i figli e i nipoti, gli eredi del potente e ricco Gherardo di Firenze, morto nel 1250, segretamente un "eretico", allorché ancora nel 1313 l'inquisitore della città cominciò un processo contro di loro, li diseredò tutti e li sottopose all'incapacità giuridica dei discendenti degli "eretici" (11).

L'inflessibile crudeltà della chiesa e dei suoi complici (tra cui un autentico santo come re Luigi IX) puniva con il sangue e con il furto. Puniva però non solo gli eretici, ma spesso anche chi li aiutava, li proteggeva, puniva chiunque li favorisse in qualunque modo. Si incoraggiava sistematicamente a spiare, pedinare, denunciare, si assecondava, lodava e ricompensava ogni genere di sentimenti orribili: la paura costante, la perfidia, l'astio; si minava ogni fiducia tra gli uomini e tutto questo, culmine della perversione, lo si presentava come ideale sociale - un inferno che precipita nella miseria generazione dopo generazione, uno dei punti più bassi della nostra storia. E spesso accadeva che qualcuno denunciasse altri per non essere denunciato egli stesso. Un terrore che genera terrore, ogni volta da capo, anche e soprattutto fra le persone più vicine. Perché dove se non qui si era realizzata la massima biblica "i nemici dell'uomo saranno i suoi vicini di casa"! Papa Gregorio IX loderà addirittura il fatto che gli uomini tradiscano le loro donne, le donne i loro uomini, i genitori i loro figli, i figli i loro genitori, e ordina che nessuno esiti a sacrificare la propria famiglia, " [...] uxor propriis liberis, aut marito, vel consortibus ejusdem criminis, in hac parte sibi aliquatenus non parcebant". Un sistema diabolico, che fondava la sua certezza sul fatto di rendere insicuro, minacciare, rovinare tutto il mondo, di trascinare nella sua barbara giustizia vendicativa perfino e specialmente le famiglie, anche la più intima vita privata, anche i discendenti.


Così, nei confronti di genitori eretici erano eliminati tutti i doveri filiali, questi dovevano essere considerati "come estranei e stranieri" e consegnati all'inquisizione; solo in questo caso il diritto ereditario continuava ed esistere. Diversamente, anche i figli rimasti cattolici perdevano i loro averi, venivano privati di tutto il loro patrimonio. La chiesa non lasciava loro neanche la legittima, lasciava loro solo la nuda vita, e anche questo, così Innocenzo III nel suo decretale "Vergentis", "solo per misericordia". Tutto il resto lo perdevano senza alcuna misericordia. Non doveva essere perrneso loro di ereditare neanche un denaro, così il canonista Paolo Ghirlanduo, consigliere aggiunto del vicario generale papale a Roma, commenta il decretale di Innocenzo. Dovevano anzi continuare a vegetare in povertà e miseria (debent sempre in miseria et egestate sordescere); "non deve restare loro nient'altro che la nuda vita, che viene lasciata loro per misericordia; devono trovarsi a questo mondo in una condizione tale che la vita diventi per loro una pena e la morte un conforto" (12).


Non ci vuole molta fantasia per immaginarsi la disperazione, la spaventosa indigenza in cui innumerevoli persone di ogni sesso ed età furono gettate da questo metodo della chiesa, spesso letteralmente nel volgere di una notte, e letteralmente messe alla porta prive di mezzi; tanto più che non di rado già il sospetto di "eresia", già l'arresto aveva per conseguenza la confisca dell'intero patrimonio.


Ma non solo la vita privata veniva compromessa in modo così inquietante; anche tutta la vita professionale era resa terribilmente incerta, ogni possibilità di previsione resa impossibile, poiché ogni socio d'affari poteva essere un "eretico" o almeno poteva essere accusato di "eresia", poteva perdere tutti i suoi averi e a quel punto ogni acquirente, ogni creditore si trovava di fronte al nulla. Non solo infatti il commercio con gli scomunicati era vietato e punibile, ma la chiesa negava anche la validità di affari e azioni giuridiche degli scomunicati. Gli scomunicati - Gregorio IX scomunicava fino alla settima generazione - fino alla fine del XIII secolo erano considerati dal diritto canonico come fuorilegge, e anche per il tribunale secolare, ragion per cui la chiesa chiedeva la persecuzione degli scomunicati ostinati anche attraverso il bando dell'impero, la morte civile.


La questione, "la causa di Cristo", era tanto più critica in quanto il clero, nella sua follia, avidità e insaziabilità procedeva sempre anche contro i morti, non appena veniva fuori la loro eresia, cosicché nessuno era sicuro del proprio patrimonio, della sua proprietà. E la prescrizione per i "diritti" rivendicati dalla chiesa aveva luogo solo dopo quarant'anni, per la chiesa di Roma solo dopo cento. In più, la prescrizione non era calcolata a partire dal momento del "delitto", ma da quello della sua scoperta. "Questi fenomeni concomitanti della persecuzione hanno contribuito al fatto che la civiltà della Francia del sud, così promettente, sia rimasta indietro, mentre il predominio nel commercio e nel lavoro sia passato all'Inghilterra e ai Paesi Bassi, dove l'inquisizione era relativamente sconosciuta, il che a sua volta produsse in quei paesi libertà, ricchezza, potenza e progresso" (in Inghilterra la pena di morte per gli "eretici" fu decretata per la prima volta nel 1400) (13).


Non c'è affare al mondo in cui ricchezze, somme e proprietà così smisurate poterono essere "ridistribuite", accaparrate con tale perfidia e velocità. Non c'è da meravigliarsi se i profittatori dell'inquisizione, il papato, i principi secolari e spirituali, e non da ultimo gli stessi inquisitori, facevano di tutto per assicurare la sopravvivenza del loro istituto; se i boia clericali procedevano con una scrupolosità senza pari nel seguire le loro brame, se scovavano l'ultima briciola di proprietà, l'ultimo centesimo, con inesauribile pazienza.


Dopo la morte di una donna, Raimonda Barbaira, i parenti avevano diviso tra loro la sua misera eredità: biancheria da letto, vestiti, un canterano, un paio di animali e quattro soldi. Poiché però la defunta non aveva ancora scontato la pena inflittale dall'inquisizione, pellegrinaggio e via crucis, il 7 marzo 1256 l'inquisitore pretese dagli eredi quaranta soldi e la garanzia che essi avrebbero pagato la somma per Pasqua. Tra gli averi di un certo Guglielmo di Fenasse, prigioniero benestante, e i suoi ottocentocinquantanove crediti, l'inquisizione frugò per un buon decennio.


In queste confische si procedeva assai scrupolosamente, appunto in quanto molti inquisitori arricchirono non soltanto la loro chiesa, il tesoro papale, i vescovi, l'ordine, il fisco, ma anche - la tentazione era grande, l'occasione troppo favorevole - se stessi e i loro dipendenti. Era "quasi impossibile che un impiegato rimanesse onesto, laddove la persecuzione era divenuta una speculazione finanziaria quasi quanto una questione di fede" (Lea). Alvaro Pelagio (Alvaro Pelayo), francescano e in seguito vescovo di Silvez in Algarve (Portogallo meridionale), temporaneamente anche penitenziere presso la curia di Avignone, afferma addirittura che generalmente gli inquisitori non tenevano in alcun conto la tripartizione delle ammende e confische prescritta dal papa, che intascavano tutto essi stessi, scialacquando per sé o regalando ai loro parenti, cosa confermata da documenti contemporanei. Il bottino che sempre esercitava la sua attrazione fu sempre il motivo principale della mostruosità, mantenuta nei secoli, di questa istituzione, della sua terribile permanenza (14).


E della sua odiosità.


Molte città si opposero, si ribellarono. Da quando Milano, asilo dei Catari, fu costretta nel 1233 a far bruciare molti di loro, vi fu resistenza a Firenze, Treviso, Bologna, Genova, in particolare a Venezia. Nella Francia del sud si difesero Narbonne, Tolosa, Albi. A nord, dove imperversavano Robert le Bougre (!) e Corrado di Marburgo, insorgono perfino i principi. A Strasburgo, nel 1232, lo junker Heinz von Müllenheim pugnala a morte l'inquisitore domenicano Droso, un assistente di Corrado, prima che questi cada a sua volta un anno dopo, nella cappella di corte di Marburgo. Nel 1242, ad Avignone, vengono uccisi dieci funzionari dell'inquisizione in una sola notte.


Verso la metà del XIII secolo l'inquisitore Ponzio di Blanes o di Espira viene avvelenato, l'inquisitore Pietro di Cadreyta viene lapidato qualche tempo dopo dall'esasperata popolazione di Urgel.


In Italia Pietro da Verona (Pietro Martire), in seguito santo protettore dell'inquisizione spagnola, il quale provocherà una sollevazione, dopo aver operato per soli nove mesi in Lombardia e in Toscana è preceduto da una tale fama - nella "Legenda aurea" il domenicano di famiglia catara figura come uno dei principali rappresentanti della contemporanea "vita apostolica et evangelica" - che nel 1252 Carino da Balsamo gli spaccherà la testa con un colpo sulla pubblica via (più tardi entrambi saranno fatti santi, anche l'omicida pentito, e si verificheranno miracoli su miracoli).


All'inizio del XIV secolo vi è una rivolta contro gli inquisitori in Linguadoca. A Trieste, nel 1324, l'inquisitore Fabiano viene tirato giù dal pulpito e picchiato. L'inquisitore della diocesi di Breslavia, il domenicano Giovanni di Schwenkenfeld, fuggito a Praga, vi viene assassinato il 28 settembre 1341, l'inquisitore del Piemonte Pietro di Cuffia è ucciso sotto Gregorio IX (tra il 1370 e il 1378) nel convento domenicano di Susa, l'inquisitore Antonio Pavo è ucciso anch'egli in Piemonte.


Non di rado gli inquisitori francescani e domenicani si combattono a vicenda. Già nel 1266 scoppiò tra loro a Marsiglia un tale dissidio che Clemente IV fece introdurre una specie di zona franca tra i territori delle due parti, una distanza minima di trecento piedi. A Verona vi furono disordini così gravi che nel 1291 dovette intervenire papa Nicola IV. E ancora nel 1479 Sisto IV impedì agli inquisitori dei due ordini di sedere in tribunale sopra i fratelli dell'altro ordine.


Ma occasionalmente i signori cooperarono come inquisitori papali, come nel 1236 nel territorio di confine tra la Francia e le Fiandre, e in modo terribile. "Numerosissimi eretici di entrambi i sessi", si legge a questo proposito in un'antica fonte, "furono bruciati, circa cinquanta nel giro di due mesi; alcuni furono sepolti vivi". Anche quando il vescovo Enrico I di Breslavia, nel 1315 a Schweidnitz, fece gettare tra le fiamme cinquanta "eretici" in una sola volta, i due ordini cooperarono.


Il vero e proprio fondatore dell'inquisizione, Gregorio IX, non era solo significativamente vicino ai domenicani, era amico non solo del loro fondatore, ma in modo ancora più intimo di Francesco d'Assisi. Canonizzò anche lui, affidando nel 1236 anche ai suoi adepti il sanguinario lavoro che quelli svolgevano soprattutto in Provenza e nell'Italia meridionale. E come per molti altri papi, si loda di Gregorio "l'incrollabile fede in Dio", la "sincerità e profondità della sua devozione dai toni mistici"; ma lo si definisce anche, quasi nello stesso momento, "privo di scrupoli nel suo modo di procedere, fino ad essere di una spaventosa crudeltà" (Seppelt). Ma di regola questo, nei Santi Padri, si accorda nel migliore dei modi (15).


NOTE


1 Thom. Summa theol. IIa IIae q XI, a. 3

2 Lettera alla storica cattolica Ladt Blennerhasset, in Acton's Correspondance I. 55; cit. da Bates 242.

3 W. E. H. Lecky, History oft he Rise and Influence of the Spirit of rationalism in Europe, I. 330; II. 32, 38; cit. da Bates 241.

4 LMA VII 1747; LTHK IX3 456; HKG III/2, 271 sg.; Hoensbroech I 34sg., 37; Hauck IV 911 sgg.; Förg 17, 32; Lea (1985) 92; cfr. anche 370; Lecler I 149; Drusen 438sg.

5 Gesta Trever. c. 104sg.; MG SS 24, 400; 24, 402; cfr. anche Annal. Marbac. 1215,1233; Sächs. Weltchr. c. 376; LMA V 1360sg. (Patschovsky); LTHK VII 147, VI3 281; HEG II 377; Wetzer/Welte II 805sgg.; HKG III/2, 270sg.; Hoensbroech I 19, 117sgg., 122sg. con indicazione delle fonti ; Lea I 538sg.; Lea (1985) 86sgg.; Rouco-Varela 27; Grigulevic 187sg.; Dinzelbacher 51; Drusen 436. Sulla (tarda) inquisizione in Germania cfr. p. es. Kurze 30sgg., in particolare 44sgg.

6 Hoensbroech I 122sg.

7 LTHK II 855, 13 1291, III3 319sg.; LMA III 1196; Wetzer/Welte III 237; Kelly 207; Keller, Reclams Lexikon 152sgg.; Fichtinger 111; Lea I 247, 599; Lea (1985) 121, 128sg., 131sgg., 162sg.; Hoensbroech 120, 88, 92, 178; His II 22; Leist 152sg.; Seppelt III 445sg.; Mynarek, Die nette Inquisition 32sgg.; cfr. anche Deschner, Abermals 480sgg.

8 LTHK VIII3 109sg.; Hoensbroech I 20sgg., 26sg., 177; Lea I 248; cfr. anche 600 e altrove.

9 LMA I 1976sgg., IV 190sg.; Hoensbroech I 32sgg., 40sgg., 58sgg., 182; Lea I 542sgg., 546sgg., III 26sg., 52; Lea (1985) 148, 232sg., 302sgg., 313, 410. Cfr. inoltre su Bernardo Guidoni e Nicolas Eymerich: Lea, Die Inquisition, indice.

10 LMA 1679, II 424sg., IV 614sgg.; Kühner, Lexikon 121; Hoensbroech I 12, 31, 38, 41 sgg., 45, 51 sgg., 61sg., 170 nota 1; cfr. su questo Döllinger, DokumenteII 319sgg., 324sgg.,331sgg.; Lea I 470sgg., 528sgg., 535sg., 541, 560sgg., II 93, 273, III 44, 63sgg., 79sgg., 86sg.; Lea (1985) 189, 212sg., 249sg., 294sgg., 323sgg., 330; Davidsohn IV, pt. 3, 32sg.; Grupp II 15, V 198; Mensching 52; Ronner 215; Leist 152sg.; Erdmann 223sgg.; Mynarek, Die neue Inquisition 40sgg.; Herrmann, Ketzer 112sgg., Wollschläger, Die Gegenwart 132. Sulle qualità del pensiero di Agostino cfr. Lütkehaus 91, 97sg., 100sgg., 700sgg.; inoltre Deschner, Kriminalgeschichte I 464sgg.

11 Hoensbroech I 119; Lea I 571, 575; Lea (1985) 214, 332sgg., 345sgg.

12 Hoensbroech I 41, 55sg.; Lea I 417; Lea (1985) 325, 327, 331sg.; Wahrmund 20sg.; Koch, Frauenfrage und Ketzertum 154 nota 74.

13 Lea I 395; Lea (1985) 327, 344sgg.; Eichmann 65sgg.; Troeltsch 221sg.

14 LMA I 497; Lea I 531 sg.; Lea (1985) 323sgg., 328, 332sgg.

15 LMA III 1196, V 1796, VI 1978; LTHK VI3 281, 741, VIII3 129; Hoensbroech I 20, 87, 103; Lea II 86sgg., 187, 190, 242sgg., 292sg., 339sg, 493; Pfleger 101; Seppelt III 412; Börst, Die Katharer 130sgg.; Kantoroviez 500.