|
||||
|
INTRODUZIONE(Contro le tesi di Cyril Mango) Qual è la differenza tra l’arte greca classica e l’iconografia bizantina? La differenza sta nel fatto che mentre la prima colpisce per la perfezione delle forme, la seconda invece colpisce per l’intensità del contenuto. Là domina l’estetica, qui la religione; là l’intellettualismo astratto, qui l’interiorità spiritualizzata. I valori esistenziali sono opposti: alla ineluttabilità del destino, alla forza cieca del fato, cui si reagisce esagerando l’importanza dell’esteriorità formale, subentra la fiducia nella provvidenza e nella bontà divine, la riconciliazione delle creature col creatore, per la quale l'interiorità etico-religiosa è sostanza. Una grandissima speranza si cela dietro l’ideologia religiosa, quella che allo schiavismo si possa un giorno por fine nell’aldilà, e a tale scopo non resta che aver fede, che contemplare l’attesa, cercando di attenuare il più possibile, sul piano morale, gli effetti nocivi dei rapporti di classe. Se le due forme artistiche vengono messe a confronto sul piano meramente esteriore, chi ci perde è sicuramente quella bizantina, non avendo essa la preoccupazione di stupire l’intelletto, ma di coinvolgere i sentimenti, non di suscitare ammirazione ma partecipazione emotiva. Lo spettatore non va illuso che esista una perfezione astratta nell’imperfezione concreta, ma va convinto che la vera perfezione non è di questo mondo e che in questo mondo l’unica perfezione da desiderare è soltanto quella della fede. L’arte bizantina non è rivolta ai sensi esterni, quelli che cercano l'originalità dello stile, l’armonia geometrica delle parti, la fedele riproduzione della realtà, l’esaltazione delle fattezze del corpo umano, l'appagamento l’intelligenza creativa o la conferma puntuale di un proprio vissuto. Essa invece è rivolta ai sensi interiori, cioè alla capacità di commuovere, di far riflettere su di sé, sulla propria condizione terrena, su quello che si è e soprattutto su quello che si deve diventare per poter ereditare qualcosa che viene ricevuto come “dono”. Quando il cristiano contempla un’icona deve considerarsi parte di un tutto, poiché quell’oggetto non rappresenta se stesso, ma rimanda ad altro. Chi sostiene che i greci antichi erano dei veri artisti e che i bizantini al massimo erano dei veri artigiani, è del tutto fuori strada. Gli artisti greci erano sicuramente migliori di quelli romani ad essi coevi, ma la vera rivoluzione in campo artistico fu operata dalla cultura bizantina. Scriveva Cyril Mango nel 1980: “ancora non si è pienamente giunti a una comprensione adeguata dell’arte bizantina nel suo sviluppo e nel suo rapporto con i fattori sociali e storici”(La civiltà bizantina, Laterza, Bari 2006, p. 290). Infatti, quando nel 1886-91 fu tradotta in francese l’Histoire de l’art bizantine di N. P. Kondakov, uno dei creatori della storia dell’arte bizantina, di quest’arte in occidente non si sapeva quasi nulla. Mango però, quando dice che “l’arte bizantina – analogamente alla letteratura bizantina – era innegabilmente assai conservatrice”(ib.), deve stare attento a non cadere nella banalità, poiché la parola “conservazione”, usata così, rischia di apparire in un’accezione negativa, soprattutto in un mondo, quale l’odierno, che fa del progresso e del mutamento incessante le sue ragioni di vita. “Conservare” una tradizione, dei valori, di per sé non significa nulla se non si mettono in relazione quella tradizione o quei valori ai bisogni della gente comune. Quando le tradizioni e i valori rispondono in maniera sufficientemente adeguata a determinate esigenze, materiali e spirituali, non si vede perché si debba considerare la loro “conservazione” un fattore negativo. Non è importante che l’evoluzione di un’arte o di una letteratura avvenga a passo lento o veloce. E’ importante che nella sua evoluzione si continui a rispondere in maniera convincente alle esigenze di vita umana, alle istanze dell’esserci. Non si può guardare l’arte bizantina con occhi moderni, cioè pensando a quello che è avvenuto dopo, a partire soprattutto dalla svolta giottesca. Il fatto, p.es., che l’arte bizantina fosse “anonima e impersonale” non va visto in maniera negativa, anche se oggi, dominati da un mercato che esalta le capacità individuali, questo ci può apparire assurdo. Sin dai suoi esordi l’artista bizantino si sentiva parte di un collettivo, che era la tradizione di una comunità cristiana nata nel I secolo dopo Cristo, incarnatasi, dopo la svolta costantiniana, nelle due principali istituzioni: chiesa e impero, che a loro volta si ramificavano in mille altre esperienze comunitarie, ivi incluse quelle eremitiche dei deserti del Sinai: egli sapeva bene che firmarsi col proprio nome appariva come una forma di vanità, peraltro del tutto inutile. Era la “conservazione” di una tradizione consolidata che permetteva a questa di sussistere, e quando si arrischiava un’interpretazione personale, questa doveva sottostare al filtro di istanze superiori, garanti di una continuità. L’“anonimato” dell’artista bizantino non dipendeva dal fatto che la popolazione (i committenti e i fruitori delle sue opere d’arte) lo considerasse un “artigiano”, ma dipendeva piuttosto dal fatto che quanto egli rappresentava era frutto anzitutto non del proprio talento personale o di una qualche originale inventiva, ma semmai di una coscienza e di un’esperienza collettiva, che gli appartenevano profondamente. Gli stessi vangeli, in fondo, erano stati redatti da autori anonimi (le rispettive comunità cristiane di appartenenza) e solo successivamente, per distinguerli, quando quelle comunità ormai non esistevano più, si pensò di attribuirne la paternità a qualche autore specifico, sufficientemente noto. Questo modo di fare e di lavorare è quasi del tutto sconosciuto in occidente, sicuramente poco praticato là dove esiste un business. Da noi anzi, a partire dall’invenzione della stampa, domina incontrastato il concetto di “proprietà intellettuale dell’opera” e la violazione del copyright può essere perseguita anche penalmente. E’ singolare in tal senso che un esperto bizantinista come Mango si meravigli dell’assenza, a quel tempo, di una “critica artistica bizantina”, ovvero di una “letteratura che potesse discutere o valutare le opere d’arte in termini non puramente retorici”(cit., p. 291). Com’è possibile applicare a un’arte medievale dei criteri d’analisi tipici del mondo contemporaneo? Quando l’arte bizantina è stata sottoposta a critica, a partire da Giotto (ma l’antecedente fu la stessa iconoclastia), si finì col creare un’arte completamente diversa, rispondente a una nuova forma di esperienza della fede, molto più laica e borghese, quale si venne affermando, anzitutto in Italia, con la nascita dei Comuni. Ancora oggi gli storici occidentali dell’arte non mettono in discussione la necessità della svolta giottesca esattamente nelle forme in cui è avvenuta e quindi continuano a essere persuasi che i giudizi negativi che a partire da Giotto si cominciarono a dare dell’inconografia bizantina fossero sostanzialmente giusti. Ciò significa che la critica odierna interpreta la svolta artistica dell’Europa occidentale nella stessa maniera in cui essa interpretava se stessa e in cui quindi voleva essere interpretata. Non è forse "retorico" anche questo modo di fare "critica"? Quando in oriente si superò la bufera iconoclastica, l’iconografia rimase immutata per ancora molti secoli (sul Monte Athos p.es. lo è ancora oggi). Viceversa nell’area occidentale dell’impero si provvide ad un certo punto a eliminarla del tutto e non tanto per motivi teologici, quanto, al contrario, per motivi "anti-teologici". Questo, di per sé, può essere definito un fattore di “progresso”? Ed è forse stato un fattore di progresso l’aver riscoperto, in occidente, intorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso l’importanza dell’iconografia bizantina e russa senza aver capito la superiorità della confessione ortodossa rispetto a quella cattolico-romana? O senza aver capito i limiti strutturali di qualunque esperienza e arte religiosa rispetto all’esigenza di vivere una vita laica a misura d’uomo? Criticare l’arte bizantina, per un ortodosso, voleva sostanzialmente dire “uscire dall’ortodossia”, come appunto avvenne nel periodo della distruzione sistematica delle immagini. Fu forse quello un periodo in cui i sostenitori dell’iconoclastia potevano vantare un’alternativa convincente ai limiti di classe del bizantinismo? I fatti dimostrarono di no. L’arte cristiana non era l'opera spontanea di qualche artista isolato, né il momento contrattuale che legava l’artista al proprio committente, ma era piuttosto un evento eminentemente pubblico, il cui destinatario era quello stesso popolo cui l’artista apparteneva, e che difficilmente avrebbe accettato un’alternativa artistica che non fosse nel contempo una risposta convincente ai propri problemi di sopravvivenza quotidiana. Si dovranno attendere molti secoli prima di capire che la fede religiosa non era in grado di risolvere alcun problema della vita reale. L’artista bizantino rappresentava in quel momento ciò in cui il popolo e lui stesso credevano. Se la sua arte non avesse costituito un formidabile collante tra i vari ceti sociali, i nemici dell’impero bizantino non avrebbero pervicacemente tentato di distruggerla. Non è un caso che oggi in occidente si conservino più reperti artistici del mondo classico greco-romano che non di quello bizantino, che pur è più recente ed è durato un migliaio di anni. |