STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


LO SCISMA DEI TRE CAPITOLI

Moneta di Zenone coniata durante il suo secondo regno

Che cos’è stato e come si è svolto lo scisma dei “Tre Capitoli”?

Prima di parlare di questo scisma bisogna fare un breve excursus storico dei rapporti conflittuali che opponevano gli interessi della chiesa latina a quelli della chiesa greca e a quelli del basileus.

Non si trattò infatti di uno scisma piovuto dal cielo, ma della inevitabile conseguenza di una serie di fatti in cui il dissenso tra area orientale e area occidentale veniva sempre più approfondendosi.

Va detto infatti che la chiesa romana, non avendo mai accettato il trasferimento della capitale dell’impero a Bisanzio, e avendo sempre meno intenzione di farsi comandare dall’imperatore e di confrontarsi con la chiesa ortodossa, molto legata alle tradizioni della chiesa primitiva, ad un certo punto aveva preferito confrontarsi più coi barbari illetterati, facilmente manipolabili sul piano culturale, che non coi dotti bizantini.

Ecco perché tutte le volte che nella parte orientale dell’impero scoppiavano dissidi per motivi teologici, la chiesa di Roma ne approfittava per rivendicare maggiore autonomia politica nei confronti di Bisanzio.

Infatti la pretesa mediazione teologica nelle dispute cristologiche, da parte della chiesa romana, in genere aveva scarso successo, sia perché dietro ogni mediazione spesso si celavano ambizioni di egemonia nell’ambito della cristianità, sia perché la stessa terminologia latina era troppo “giuridica” per soddisfare le esigenze speculative degli orientali. Persino Costantinopoli non fu in grado di creare alcuna scuola teologica originale sino alla fine del V secolo, dipendendo fortemente, nelle questioni teoretiche, da quelle di Alessandria e di Antiochia.

I

I primi seri contrasti avvennero sin dai tempi di papa Leone I Magno (440-61), che aveva chiesto all’imperatore Teodosio II di convocare un concilio ecumenico in Italia per sanare il cosiddetto “ladrocinio di Efeso” (449), un concilio dove si arrivò persino a linciare Flaviano, patriarca di Costantinopoli, e i cui atti a favore dell’eresia di Eutiche erano stati approvati dallo stesso Teodosio. Si trattava di un’evidente provocazione, poiché un imperatore non si sarebbe mai fatto giudicare da un concilio presieduto da un pontefice: l’unico concilio ecumenico presieduto fino a quel momento dal papa fu quello di Cartagine (418), che non fu “ecumenico” ma “locale” (come fu “locale” quello del 386 tenutosi a Roma, in cui si affermò il primato di Pietro e quindi del vescovo romano su tutti gli altri vescovi). I concili ecumenici venivano convocati e presieduti, di regola, dagli stessi imperatori.

Il concilio ecumenico vero e proprio si tenne invece a Calcedonia nel 451, e solo dopo la morte di Teodosio II. I 500 vescovi convenuti diedero ragione alla protesta di papa Leone, ma dichiararono anche che la sede di Costantinopoli, ora che la vera capitale dell’impero era qui, non poteva essere considerata “inferiore” a quella di Roma, meno che mai nei territori orientali occupati dai barbari. Col che non si faceva altro che puntualizzare quanto già detto, in fieri, nel concilio ecumenico del 381, tenutosi nella Nuova Roma.

Leone rifiutò questo canone e fece istituire a Costantinopoli una delegazione permanente della sede romana, una sorta di ambasciata: nessun’altra diocesi aveva mai fatto una cosa del genere.

Al tempo di papa Simplicio (468-83) avvenne, come noto, la fine ufficiale dell’impero romano d’occidente, ovvero la consegna di quest’area ai barbari Rugi, Eruli, Sciri… guidati da Odoacre.

L’imperatore d’oriente Zenone disapprovò la decisione del senato di Roma, approvata dal papato, di riconoscere a Odoacre il titolo di “re d’Italia”, e impose che il titolo fosse quello più modesto di “patrizio”.

In sostanza la chiesa romana preferiva confrontarsi con un re ariano, piuttosto che collaborare con un imperatore cristiano. Alleandosi coi barbari, essa veniva a porsi come principale contraltare di Bisanzio.

Senonché Roma, senza imperatore, veniva considerata da Bisanzio alla stregua di una debole provincia di periferia, destinata per lo più a essere emarginata dal dibattito teologico in atto.

Sotto il pontificato di Felice III (483-92) la chiesa romana decise che la ratifica dell’elezione al soglio pontificio non doveva più essere fatta da un funzionario imperiale, dopo la decisione presa dal popolo romano, ma unicamente dal re Odoacre.

Felice III rifiutò inoltre la rimozione del vescovo di Alessandria, Palaia, da parte del patriarca di Costantinopoli, Acacio, e chiedeva a quest’ultimo di venirsi a giustificare a Roma.

E non aveva neppure accettato l’Henotikon (482) con cui l’imperatore Zenone, con fare diplomatico, condannava sì le tesi di Eutiche e Nestorio, ma senza fare riferimento a quelle di Calcedonia, che introducendo per la prima volta la differenza tra “natura” e “ipostasi” avevano creato una rivoluzione terminologica nella cristologia.

Poiché né Acacio né Zenone risposero a Felice, questi scomunicò Acacio e persino i legati pontifici che dovevano convincerlo a venire a Roma e che non vi erano riusciti.

Il cosiddetto “scisma acaciano” durò dal 484 al 519. Zenone fu molto disturbato da questo fatto, nonché dalle velate minacce di scomunica anche nei suoi confronti. Questo fu anche uno dei motivi per cui si sentì indotto a favorire l’ingresso in Italia di Teodorico re degli ostrogoti, in qualità di federato dell’impero, allo scopo di cacciare dall’Italia Odoacre, colpevole di aver influito sull’elezione di Felice III e di non aver fatto nulla per ostacolare le richieste di quest’ultimo.

Odoacre si rinchiuse a Ravenna ove resistette all’assedio per tre anni, finché venne ucciso dallo stesso Teodorico, che divenne re d’Italia nel 493.

Con papa Gelasio I (492-96) la chiesa di Roma fece chiaramente capire all’imperatore che la sacra diarchia o sinfonia dei poteri, spirituale e temporale, non aveva più ragione di sussistere, in quanto per la chiesa romana quello spirituale era decisamente superiore a quello temporale.

Alla morte di papa Anastasio II (496-98) i due partiti di Roma, pro-greco e pro-latino, elessero addirittura due vescovi titolati a salire sul soglio pontificio. Si chiese a Teodorico d’intervenire e lui naturalmente preferì Simmaco, malvisto da Bisanzio, che infatti diventò papa (498-514).

Appena eletto, Simmaco, dicendo di voler evitare nuovi tumulti popolari e maneggi politici in occasione della elezione del suo successore, volle far passare il principio (utilizzato dai sovrani) di designazione del successore da parte dello stesso pontefice. A cause delle inevitabili resistenze popolari, si dovette accontentare di far passare il criterio della preferenza a maggioranza, con esclusione però dei laici al voto.

Benché ariano, Teodorico veniva considerato alla stregua di un imperatore, e Simmaco contava chiaramente su questo quando cominciò a far capire all’imperatore Anastasio I, che l’aveva accusato d’essere un manicheo e di aver ottenuto la carica in maniera illegittima, di considerarlo un proprio subordinato nella fede.

Modificò anche il computo con cui al concilio ecumenico di Nicea (325) si era stabilita la data per celebrare la pasqua.

Come si può notare la chiesa romana approfittava continuamente degli errori commessi dal potere imperiale (tipici quando si parteggiava per un partito teologico per interessi di potere) al fine di allargare le sfere di propria competenza, trasformandosi progressivamente in uno Stato vero e proprio. Non a caso il concilio di Calcedonia (451) aveva tassativamente vietato che il clero assumesse incarichi di tipo temporale (civile o militare), pena la deposizione.

Dopo il concilio Costantinopolitano I sembrava essersi realizzata una certa intesa tra chiesa latina da un lato e chiesa greca e basileus dall’altro, ma quando l’imperatore Giustino (518-27) emanò un editto contro gli ariani, la situazione si complicò nuovamente.

Teodorico reagì dicendo che la repressione degli ariani in oriente sarebbe stata pagata da quella dei cattolici in Italia. La vittima più significativa fu infatti il filosofo Boezio.

La situazione era diventata talmente grave che papa Giovanni I (523-26) si recò di persona a Costantinopoli (era la prima volta che un pontefice lo faceva) per chiedere a Giustino di ritirare l’editto. Avrebbe anche dovuto chiedergli, secondo le richieste di Teodorico, di permettere agli ariani neoconvertiti per paura al cattolicesimo, di ritornare sui loro passi, ma non lo fece. E di questo fu punito al suo ritorno a Ravenna, morendo in prigione.

Il suo successore, Felice IV (526-30), era in sostanza un candidato di Teodorico. Alla morte di quest’ultimo, approfittando del fatto che l’erede al trono era ancora un bambino, il papa ottenne dalla reggente Amalasunta un editto che permettesse alla chiesa di Roma di dirimere le questioni legali nel caso in cui una delle parti in causa fosse un membro del clero. Nasceva così il privilegio del clero di sottrarsi al giudizio del tribunale secolare.

Lo stesso papa, prima di morire, designò il proprio successore: l’arcidiacono Bonifacio, che con lo stesso nome divenne papa nel 530. Tuttavia, poiché era stato eletto formalmente da un ristretto gruppo di prelati, il partito filo-bizantino gli oppose l’elezione di Dioscuro, che però venne assassinato subito dopo.

E anche Bonifacio, temendo che alla sua morte il partito filo-greco potesse rivendicare un proprio candidato, stabilì subito un proprio successore nella persona del diacono Vigilio.

A questo punto il Senato di Roma e la corte di Ravenna chiamarono in giudizio il papa in un concilio per chiedergli conto di questo abuso di potere. Si voleva anche emanare una legge con cui vietare ai membri del Senato qualsiasi offerta di denaro per ottenere l’elezione di questo o quel candidato al soglio pontificio.

Inaspettatamente, temendo la deposizione, Bonifacio bruciò il decreto nel vivo dell’assemblea, che così accettò la sua autocritica. Fu però il primo papa a non essere dichiarato “santo” dopo la sua morte.

Il suo successore, liberamente eletto, prese il nome di Giovanni II (533-35) e per un momento sembrò che la situazione stesse migliorando: lo stesso re goto Atalarico, nei riguardi dei decreti anti-ariani, non mostrò più la stessa intransigenza del padre, forse perché la madre, che l’aveva educato,, era disposta a diventare cattolica.

Amalasunta però aveva sposato il cugino Teodato, che in campo religioso la pensava diversamente e che non vide di buon occhio il fatto che alla morte di Giovanni II, il suo successore, Agapito I (535-36), fosse filo-greco. Non a caso Agapito volle subito riabilitare la figura di Dioscuro e impedire l’idea della designazione di un successore fatta da un pontefice in vita.

Fu proprio sotto il suo pontificato che l’imperatore Giustiniano lanciò il suo colossale progetto di “Renovatio Imperii”.

Per poter entrare in Italia il basileus approfittò del fatto che Teodato aveva fatto assassinare Amalasunta. Dopo aver strappato l’Africa ai vandali, Belisario, suo generale, sbarcò in Sicilia nel 535, con l’intenzione di cacciare i goti dalla penisola.

Teodato pretese da Agapito che si recasse a Costantinopoli per scongiurare Giustiniano dal proseguire l’impresa, ma ne ottenne solo un rifiuto. Agapito andò a Costantinopoli ma solo per chiedere che il patriarca Antimo, protetto dall’imperatrice Teodora, filo-monofisita, venisse sostituito da Menas, più ortodosso.

Giustiniano acconsentì proprio perché aveva bisogno dell’appoggio del papa nella sua campagna antigotica, ma improvvisamente il papa morì nella capitale.

Approfittando dell’occasione, Teodato lo fece sostituire con un proprio candidato, Silverio (536-37), ma non aveva forze sufficienti per fronteggiare né il partito filo-greco, né le armate di Belisario, già arrivate a Napoli.

Subito dopo il suo assassinio, Vitige, il successore, pensò di ritirarsi col grosso dell’esercito a Ravenna, sicché Belisario entrava a Roma praticamente senza combattere.

Il clero, influenzato dal generale e dall’imperatrice Teodora, sostituì il pontefice con Vigilio (537-55). Intanto Vitige, con un esercito di 150.000 uomini, aveva messo sotto assedio Roma nel 537, e il suo successore Totila darà del filo da torcere ai bizantini per ancora molti anni.

La storia ha poi fatto passare Vigilio per un papa molto ambizioso, che avrebbe fatto di tutto per avere quella carica, al punto che l’esilio di Silverio dovette concludersi precocemente con la morte di quest’ultimo.

Tuttavia, una volta giunto al potere, Vigilio non mantenne i patti con Teodora e si rifiutò di richiamare il patriarca Antimo per rimetterlo nella sua sede.

Fu proprio sotto Vigilio che scoppiò lo scisma dei Tre Capitoli.

II

L’imperatore Giustiniano, per salvaguardare l'unità dell'impero nel suo disegno di restaurazione cristiana del potere romano, cercava di ingraziarsi gli eretici monofisiti (numerosi soprattutto nelle province di Egitto e Siria), ch’erano diventati l’eresia più pericolosa in oriente, dopo la sconfitta del nestorianesimo.

Avendo peraltro intenzione di recuperare l’intera penisola italiana nell’orbita dell’impero, aveva cominciato a guardare alla sede del papato con grande interesse.

I monofisiti rifiutavano di riconoscere i dogmi del concilio di Calcedonia (451)(1), da cui in sostanza erano usciti sconfitti, anche se né l’imperatore né sua moglie li annoverarono mai tra gli eretici. Anzi i monofisiti erano così forti in oriente che riuscirono persino a creare due nuove confessioni: la giacobita (in Siria e Palestina) e la melkita (in Egitto).

Anche i cristiani d’Armenia erano anti-calcedoniani, mentre quelli di Persia erano rimasti nestoriani. Col tempo tutte queste eresie indeboliranno notevolmente la compagine imperiale, favorendo la diffusione dell’islam.

Giustiniano, poiché non poteva rigettare un concilio ecumenico già celebrato un secolo prima e riconosciuto da gran parte delle chiese, decise di condannare tre teologi antiocheni che a Calcedonia avevano goduto di una certa autorevolezza, che erano morti in pace con la chiesa ortodossa e che erano molto stimati in Siria, Persia, India ecc.

Sperando di ottenere il favore dei monofisiti, l'imperatore, con un editto del 545, giudicò eretici tutti gli scritti del teologo Teodoro di Mopsuestia (350-428, avversario di Origene e in parte di Cirillo d’Alessandria), quegli scritti di Teodoreto di Ciro (393-458) che si ponevano contro il patriarca di Alessandria Cirillo, contro alcuni dogmi del concilio di Efeso e contro ogni forma di teopaschismo, nonché una lettera di Iba di Edessa (m. 457) a difesa dello stesso Teodoro e contro Cirillo d’Alessandria. La confutazione dei "Tre Capitoli" era stata preparata da Teodoro Askida, vescovo di Cesarea.

Questi scritti, raccolti appunto in “Tre Capitoli", venivano considerati di tendenza nestoriana, poiché negavano valore al termine Theotokos ed erano ambigui nella difesa della duplice natura del Cristo (Teodoro soprattutto tendeva a giustapporre le due nature più che a vederle unite). Teodoreto e Iba avevano già, col tempo, anatemizzato Nestorio, per cui Giustiniano evitò di condannarli in toto. Da notare che erano tutti e tre esponenti della scuola teologica di Antiochia, ed erano morti da tempo.

A differenza dei vescovi d’oriente, papa Vigilio (537-55) e il partito Akoimetoi (ortodossi radicali) si opposero decisamente a questo provvedimento. Sicché Giustiniano mandò a prelevare il papa direttamente a Roma, chiedendogli di giustificarsi personalmente.

Nell’ambiente di corte, pressato da vari vescovi tra cui lo stesso patriarca Menas di Costantinopoli, Vigilio si convinse a firmare lo Judicatum (548) con cui aderiva alla condanna, che però venne rifiutata immediatamente dai vescovi italiani, dalmati, illirici (quelli africani gli comminarono persino una scomunica).

Di fronte a un atteggiamento del genere, Vigilio chiese a Giustiniano di risolvere la controversia in un concilio ecumenico, ma questi preferì emanare un nuovo editto a conferma del precedente, che trovò nuova approvazione da parte dei vescovi orientali. Al che il pontefice rispose con un gesto plateale: scomunicò tutti, vescovi e imperatore. Quest’ultimo decise allora di arrestarlo e deporlo. Prima che potesse farlo, il papa e il vescovo di Milano, Dazio, che lo aveva accompagnato, fuggirono da Costantinopoli e si rifugiarono a Calcedonia, da dove scrissero un’enciclica contro Giustiniano, chiedendo che il concilio si tenesse in Italia.

L’imperatore accettò a sorpresa l’idea del concilio, ma a condizione che si tenesse nella stessa Costantinopoli. Vigilio però, temendo manovre imperiali, rifiutò di parteciparvi.

Il concilio si riunì ugualmente nel 553, sotto la presidenza del nuovo patriarca ecumenico, Eutichio, succeduto a Menas. Si ottenne la condanna unanime e definitiva dei "Tre Capitoli".

Per tutta risposta il papa, avendo intenzione di rompere a tutti i costi con l’imperatore, inviò a Giustiniano un Constitutum col quale rifiutava le decisioni del concilio ecumenico. Giustiniano non si fece impressionare, anzi ordinò di arrestare i diaconi del papa, isolandolo moralmente e fisicamente e minacciandolo di deposizione.

Vigilio ritrattò tutto in un nuovo Constitutum, alienandosi le simpatie dell’episcopato ostile a Bisanzio. Molti vescovi dell'Italia settentrionale (esclusi i liguri e gli emiliano-romagnoli), della Gallia e del Norico, non accettarono quella che per loro era solo un’imposizione, per cui non si considerarono più in comunione con gli altri vescovi.

Tra questi vescovi ribelli all'autorità imperiale e conciliare vi erano quelli delle province ecclesiastiche di Milano e Aquileia. Queste ultime convocarono un concilio particolare ad Aquileia e, di fatto, non riconobbero più l'autorità della chiesa di Roma e, quindi, del papa. Aquileia si eresse a patriarcato autonomo per sottolineare la propria indipendenza gerarchica.

La chiesa scismatica tricapitolina rimase rigorosamente calcedoniana (mantenne il credo niceno-costantinopolitano, senza professare alcuna eresia cristologica); contestò vigorosamente, fino alla rottura, l'atteggiamento che riteneva ondivago del papato, il quale, secondo gli scismatici, non contrastò adeguatamente l'ingerenza del potere politico, espresso dall'imperatore, nelle questioni dottrinarie.

Dopo sette anni di permanenza a Costantinopoli, al papa fu concesso di tornare in Italia, non prima però d’avergli fatto capire che d’ora in avanti l’elezione del suo successore avrebbe dovuto essere confermata dallo stesso imperatore e non dal re ostrogoto e neppure era pensabile che il pontefice potesse esimersi dal richiederla o addirittura predisporre una propria successione automatica mentre egli stesso era in vita.

In cambio di queste disposizioni Giustiniano concedeva al papato un ruolo, in Italia, pari quello dei funzionari imperiali. Vigilio però, durante il viaggio di ritorno, morirà a Siracusa.

Il suo successore, Pelagio I (556-61), ch’era sempre stato contrario alla condanna dei "Tre Capitoli", cambiò improvvisamente atteggiamento quando Giustiniano gli fece capire che avrebbe appoggiato la sua candidatura al soglio pontificio.

Ciò non gli attirò certo le simpatie dei vescovi africani e illirici (diocesi veneto-istriane), cui si unirono questa volta anche le rimostranze di quelli franchi, che addirittura lo ritenevano responsabile della morte di Vigilio. Particolarmente grave fu la rottura coi vescovi di Milano e di Aquileia, le due sedi metropolitane dell’Italia settentrionale (annonaria) nei secoli IV-VI. La prima aveva come suffraganei i vescovadi di Liguria e di Emilia; la seconda quelli di Venezia e di Istria.

Successivamente i vescovadi emiliani si staccarono dalla giurisdizione ambrosiana per entrare in quella ravennate. Il vescovo di Ravenna, nella contesa tricapitolina, prese le difese del papato contro i metropoliti di Milano e di Aquileia, che avevano persino assunto il titolo di patriarchi. Papa Pelagio I ricorse persino alle truppe bizantine per reprimere lo scisma delle sue sedi metropolitiche.

Nell’arcidiocesi di Milano lo scisma si ricompose solo col successore di Pelagio, Giovanni III (561-74), sotto il cui pontificato i longobardi occuparono l’Italia. L'arcivescovo Onorato, nel 570, si trasferì con il clero maggiore a Genova (ancora città bizantina), rientrando in piena comunione con l'ortodossia romana e greco-orientale. Il clero minore, rimasto sul territorio diocesano, dal 568 sotto la dominazione longobarda, fu prevalentemente tricapitolino ancora per diversi anni. Tant’è che quando l’imperatore Maurizio (582-602) cercò di servirsi dei franchi per risolvere il problema longobardo, nel 585, dopo alcuni iniziali successi, fu costretto a chiedere una tregua, temendo che gli scismatici di Venezia-Istria si accordassero coi longobardi, cosa che poi effettivamente fecero.

Il Patriarcato di Aquileia fu diviso in due parti, aventi rispettivamente giurisdizione sui territori di dominazione bizantina e su quelli di dominazione longobarda. Il metropolita di Aquileia (allora patriarca di Grado, con sede a Grado, nei domini bizantini) rientrò in comunione con la chiesa di Roma e quindi con il resto della chiesa, nel 607.

La diocesi di Aquileia pensò di trovare nei longobardi ariani (2) i suoi naturali alleati, per cui non è da escludere che abbia favorito il loro ingresso nella penisola. I longobardi in effetti garantirono all'indipendenza politico-ideale di Aquileia la loro protezione.

La diocesi di Como (che nel frattempo aveva reciso il rapporto di dipendenza dalla arcidiocesi di Milano ed era diventata suffraganea di Aquileia) ed altre diocesi dipendenti dall'altro metropolita di Aquileia (quello con sede ad Aquileia, longobarda) rimasero scismatiche fino all’anno 698, quando i rispettivi vescovi, convocati a Pavia dal re longobardo Cuniperto, decisero di inviare una loro rappresentanza a Roma per ricomporre la divisione. La diocesi di Como venera ancora oggi con il titolo di santo un vescovo, Agrippino (607-17), che si mantenne in modo intransigente su posizioni scismatiche in opposizione anche alla sede romana.


Note

(1) Il 4° Concilio Ecumenico della storia della chiesa, quello di Calcedonia (piccola cittadina vicina a Costantinopoli) del 551, aveva sancito la dottrina cristologica (detta appunto calcedoniana) di una sola persona con due nature, umana e divina, indissolubili e distinte al contempo fra loro. Ciò aveva indignato i numerosi gruppi d'oriente favorevoli a ritenere che le due nature di Cristo si erano fuse nella sola natura divina (dottrina monofisita), ragion per cui l'incarnazione di Cristo nella natura umana non sarebbe stata completa. (torna su)

(2) I longobardi, come già precedentemente i goti, erano cristiani ma di fede ariana. Gli ariani credevano nella divinità di Cristo, ma ritenevano che anche il Verbo avesse avuto origine dal Nulla. Ario, sacerdote d'Alessandria d'Egitto che attorno al 320 teorizzò l'arianesimo, riteneva cioè che l'Essere venisse dal Non Essere e fu per questo considerato il primo degli eretici. Politicamente l’arianesimo considerava la chiesa subordinata al potere temporale del sovrano. (torna su)

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Aggiornamento: 01/05/2015