L'OTTOCENTO ITALIANO ED EUROPEO
DAL CONGRESSO DI VIENNA
ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE


LE TRE GUERRE D’INDIPENDENZA ITALIANA (1848-71)

LA PRIMA (1848-49)

Tra le città europee insorte nella primavera del 1848, un posto di rilievo spetta a Milano e Venezia, le due grandi città del Lombardo - Veneto, dominio diretto degli Austriaci in Italia. Durante le gloriose Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo) la popolazione aveva cacciato le forze militari austriache. Lo stesso era avvenuto a Venezia il 17 marzo, e l'esercito imperiale, comandato dal maresciallo Radetzky, era stato costretto a ritirarsi nella zona tra Peschiera, Mantova, Verona e Legnago, il cosiddetto “Quadrilatero”. L'insurrezione antiaustriaca nel Lombardo - Veneto mise in moto un vasto movimento liberale in tutto il territorio italiano che puntò concretamente, per la prima volta, all'unificazione e all'indipendenza.

Al '48 l'Italia era arrivata dopo un biennio caratterizzato dalla rivendicazione nei vari Stati, da parte dei liberali, della riforma costituzionale.

A dare l'avvio al processo riformista era stata l'elezione a pontefice del cardinale Giovanni Mastai Ferretti, che assunse il nome di Pio IX, nel 1846; egli infatti, appena eletto, sotto la pressione dei liberali romani aveva concesso una serie di riforme ad indirizzo liberale.

L'esempio del pontefice e il risveglio delle forze democratiche, che erano intanto cresciute grazie alla propaganda di Giuseppe Mazzini e dei suoi seguaci, indussero il re Carlo Alberto di Savoia (in Piemonte) e il granduca Leopoldo Il (in Toscana) a cedere sul problema costituzionale.

Del tutto alieno dal concedere riforme restò Ferdinando II re delle Due Sicilie. E fu proprio a Palermo, nel suo regno, che scoppiò il primo moto rivoluzionario del '48 europeo. Il 9 gennaio la città insorse sotto la direzione di Giuseppe La Masa e Rosolino Pilo. L'insurrezione aveva carattere liberale, antiborbonico e separatista (nei confronti del rimanente territorio del Regno). Il 2 febbraio si formò infatti un governo provvisorio siciliano che dichiarava l'autonomia della Sicilia. Il fermento rivoluzionario si propagò fino a Napoli costringendo anche Ferdinando Il a concedere la Costituzione.

Era questa la situazione in Italia quando giunsero le notizie delle insurrezioni nelle città dell'Impero austriaco. Nei ducati di Modena e di Parma i rispettivi sovrani furono costretti alla fuga. L'Italia settentrionale era così di fatto già in guerra contro l'Austria, una guerra popolare promossa dall'azione dei democratici. A questo punto, la necessità di condurre a fondo l'azione militare antiaustriaca, la preoccupazione dei liberali aristocratici e moderati nei confronti di questo moto popolare, l'esigenza sentita da tutti (anche dal repubblicano Mazzini) di un esercito regolare capace di fronteggiare quello austriaco e infine l'esigenza di dare un volto unitario alle lotte, fecero convergere l'attenzione di tutti i patrioti italiani verso il re di Sardegna Carlo Alberto.

Appelli e pressioni furono rivolti da tutte le parti al sovrano sabaudo affinché si ponesse alla testa del moto d'indipendenza nazionale e dichiarasse guerra all'Austria. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarava la guerra e faceva muovere il suo esercito su Milano, quando la città era già stata liberata dai suoi cittadini. Eserciti regolari mandati dai sovrani giunsero da altri Stati italiani. Il moto popolare diventò così guerra regolare degli Stati federati italiani decisi a non lasciare il Piemonte solo contro l'Austria.

Inoltre giunsero da ogni parte d'Italia combattenti volontari, studenti e intellettuali che accorsero numerosissimi fuori dalle file degli eserciti regolari. Le vittorie piemontesi a Goito e Pastrengo (9 e 30 aprile) coronarono questa prima fase della guerra caratterizzata da un grande entusiasmo e da una partecipazione unitaria dei sovrani e del popolo italiano.

Ma le difficoltà non tardarono a venire. Interessi ancora troppo contrastanti si celavano dietro questo consenso unitario alla guerra. I principi italiani, che in fondo erano stati costretti dalle pressioni liberali a partecipare alla guerra, oltre che dalla loro volontà di non lasciare al Piemonte il possibile esito vittorioso della guerra, preoccupati dal carattere popolare che l'iniziativa continuava ad assumere e dal timore di fare in fondo il gioco degli interessi sabaudi, ritirarono le loro truppe regolari.

Il primo fu papa Pio IX che con l'allocuzione del 29 aprile dichiarava che al “padre di tutti i fedeli” non era lecito far guerra a uno Stato cattolico, qual era l'Austria. Leopoldo Il e Ferdinando Il seguirono il suo esempio e ritirarono le loro truppe. Il re delle Due Sicilie addirittura sciolse il Parlamento provocando sanguinose repressioni.

Rimasto solo a fronteggiare la situazione, Carlo Alberto ritenne giunto il momento di rendere più decisa la sua linea politica dando il via alle annessioni al Regno di Sardegna dei territori sottratti all'Austria. La politica annessionistica piemontese creò profondi contrasti interni al fronte impegnato nella guerra. Le forze democratiche non potevano infatti più insistere sulla linea (adottata all'inizio delle operazioni militari) di rimandare a dopo la fine della guerra il problema dell'assetto politico da dare all'Italia. Il Piemonte spinse agli estremi la sua linea (volta all'ingrandimento territoriale del proprio Stato), rifiutando l'intervento dei volontari di Garibaldi e proseguendo le operazioni di guerra con grande incertezza e prudenza, preoccupato oltre misura di non dare spazio all'iniziativa popolare.

Malgrado questa difficile situazione, a Curtatone e Montanara i volontari toscani bloccarono gli Austriaci, che venivano ancora battuti dall'esercito piemontese a Goito e dovevano abbandonare Peschiera.

Fu però la sconfitta di Custoza (26 luglio) a segnare la fine della prima fase della guerra. Non volendo tentare un'immediata riscossa che solo l'intervento dei volontari e una politica più aperta avrebbero potuto assicurare, Carlo Alberto si affrettò a chiedere l'armistizio all'Austria. Questo fu firmato il 9 agosto a Milano dal generale Salasco, per la parte piemontese, e dal maresciallo Radetzky, per la parte austriaca.

La ripresa della guerra nell'anno successivo avvenne in un momento sfavorevole alle forze democratiche di tutta Europa, che cadevano sotto i colpi della reazione.

La Repubblica francese abbandonava in quel momento le sue originarie istanze sociali, dandosi un rigido volto autoritario con l'elezione di Luigi Napoleone. In Germania, a Vienna e a Praga gli eserciti austriaci avevano la meglio sulle ultime resistenze popolari, mentre l'Ungheria veniva piegata soltanto un anno dopo, con l'appoggio delle truppe russe venute in aiuto degli Austriaci. A Napoli Ferdinando aveva già imboccato la via della repressione.

Nell'Italia settentrionale i democratici, fatti più sicuri dal fallimento della linea liberale moderata seguita dal Piemonte, riproposero con forza il problema della guerra, obbligando Carlo Alberto a riprendere le ostilità contro l'Austria.

Ma in questa situazione internazionale l'esito negativo era già segnato in partenza. Infatti alla sconfitta piemontese di Novara (21-23 marzo 1849) fecero seguito l'abdicazione del sovrano a favore del figlio Vittorio Emanuele Il e l'armistizio del 26 marzo. La Pace di Milano fu firmata, dopo difficili trattative, il 6 agosto.

Tranne che in Toscana, dove gli Austriaci riportarono l'ordine e il granduca al potere, le roccaforti del movimento democratico, a Roma e a Venezia, continuarono a resistere. Saranno le truppe del generale Oudinot a piegare la Repubblica Romana definitivamente il 3 luglio 1849, dopo un mese d'assedio: in questo periodo la propaganda mazziniana e la presenza attiva di Mazzini e di Garibaldi avevano rafforzato il consenso del popolo, che diede splendidi esempi di eroismo nella difesa della città. I bombardamenti austriaci, la mancanza di generi alimentari e soprattutto un'epidemia di colera costrinsero poi anche Venezia alla resa, il 26 agosto.

E così in tutta Italia si ritornò alla situazione politica precedente. Le libertà costituzionali vennero soppresse, tranne che in Piemonte, dove lo Statuto Albertino restò in vigore. Il dominio straniero tornò a gravare su buona parte della popolazione italiana.

Il Quarantotto tuttavia portò ad una definitiva affermazione della causa unitaria e indipendentista, formò una coscienza nazionale e creò tutte le premesse per la continuazione in Italia della lotta risorgimentale.

LA SECONDA (1859-1861)

Subito dopo la firma degli accordi di Plombières, Cavour si adoperò per costringere l'Austria, con qualche pretesto, a dichiarare guerra al Piemonte. Il governo attuò una serie di misure volte al rafforzamento dell'esercito, concedendo, d'altra parte, con sempre maggiore generosità, aiuto ed asilo ai patrioti che fuggivano in Piemonte dagli altri Stati italiani, e specie a quelli provenienti dai territori controllati dall'Austria. Queste iniziative, ampiamente e sapientemente pubblicizzate, spinsero l'Austria a richiedere, con un ultimatum, l'immediato disarmo del Piemonte. Al rifiuto del governo piemontese, l'Austria rispose, come voleva Cavour, con la dichiarazione di guerra.

Il 26 aprile 1859 scoppiava così la guerra. Gli eserciti regolari piemontese e francese, dei quali prese il comando lo stesso Napoleone III, furono subito affiancati dai volontari di Garibaldi, i “Cacciatori delle Alpi”. A Magenta, a Solferino e San Martino l'Austria fu battuta dagli eserciti franco - piemontesi.

Mentre l'Italia settentrionale era impegnata nelle vittoriose operazioni di guerra, nell'Italia centrale si riaccendeva la miccia delle rivoluzioni democratiche. In Toscana, a Parma, a Modena, nelle Legazioni pontificie si formarono governi provvisori che offrivano a Vittorio Emanuele la reggenza degli Stati liberati. Ma i legami con la Francia (gli accordi di Plombières) impedivano al re sabaudo di procedere nella politica delle annessioni.

Malgrado la prudenza piemontese, la situazione italiana preoccupò a tal punto Napoleone III da spingerlo ad una precoce e, sul piano militare, immotivata chiusura della guerra contro l'Austria, con la quale si affrettò a firmare l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859). L'armistizio e i preliminari di pace, discussi all'insaputa dei Piemontesi, prevedevano che l'Austria cedesse la Lombardia (con l'esclusione di Mantova e Peschiera) a Napoleone, che a sua volta la consegnava al Piemonte; il Veneto restava all'Austria e la Francia garantiva il ritorno dell'ordine e delle antiche dinastie regnanti in Italia centrale; la Francia, infine, rinunciava a pretendere Nizza e la Savoia, non essendo stati rispettati gli accordi di Plombières.

Con questo gesto l'imperatore dei Francesi rispondeva alle proteste che l'opinione pubblica cattolica aveva levato in Francia contro di lui, temendo per l'incolumità dello Stato Pontificio; d'altro lato egli tentava di bloccare il processo unitario italiano che, come sappiamo e come era stato sancito a Plombières, era ben lontano dagli interessi francesi.

Ma la rivoluzione nazionale italiana non si fermò per questo. I governi provvisori dell'Italia centrale resistettero, forti dell'iniziativa popolare che li sorreggeva. Ancora una volta la presenza e lo stimolo di Mazzini, l'abilità militare di Garibaldi, si rivelarono essenziali. Moderati e democratici costituirono un fronte comune di difesa dei territori liberati, questa volta risoluti a portare fino in fondo l'unità d'Italia. Le decisioni di Villafranca furono inattuabili nella situazione italiana. Anche in questo caso l'abilità politica di Cavour gestì e portò a compimento un processo di iniziativa popolare e democratica. Egli infatti riuscì ad ottenere da Napoleone il consenso alle annessioni al Piemonte da parte dei Ducati di Modena e di Parma, del Granducato di Toscana e delle Legazioni pontificie (i plebisciti si svolsero l'11 e il 12 marzo 1860) in cambio di Nizza e della Savoia, da cedersi ai Francesi (con plebiscito del 15 aprile 1860).

L'Italia centrale e l'Italia settentrionale erano così unificate. Il Veneto, ancora sotto il dominio austriaco, lo Stato Pontificio con la città di Roma, sede del papato, e l'Italia meridionale borbonica costituivano i problemi che il movimento risorgimentale doveva ancora risolvere.

La linea politica di Cavour si mostrò inadeguata a risolvere, negli anni successivi alla seconda guerra per l'indipendenza, la questione del Mezzogiorno d'Italia. Qui soltanto l'appoggio a quella iniziativa popolare che già teneva la Sicilia in uno stato pressoché continuo di guerriglia avrebbe potuto, come sostenevano i democratici mazziniani, dare i colpi finali al potere dei Borboni.

Ma sappiamo come i metodi della politica liberale moderata del Piemonte fossero estremamente cauti rispetto ai momenti di insurrezione popolare, essendo per il Piemonte interesse prioritario una estensione del proprio dominio sui territori italiani, dominio che la rivoluzione democratica non garantiva.

Per questi motivi l'iniziativa nel Regno delle Due Sicilie passò ai democratici. Cominciarono così i preparativi per una spedizione in Sicilia concepita dai democratici isolani, tra cui Francesco Crispi e Rosolino Pilo, e dallo stesso Mazzini. Si riuscì a persuadere Garibaldi ad organizzarla pur con i gravissimi rischi che essa presentava. La spedizione si preparò in Piemonte, malgrado l'atteggiamento di decisa ostilità da parte di Cavour, ma con una certa apertura da parte del re Vittorio Emanuele II.

Il governo piemontese in sostanza né ostacolava né favoriva i preparativi: non poteva decisamente opporvisi con misure di polizia, per motivi di politica interna, essendo l'equilibrio con le forze democratiche troppo instabile per tentare le maniere forti; d’altro canto una partecipazione all'iniziativa era del tutto impossibile, considerati i legami che il Piemonte aveva sul piano internazionale, in special modo con l'imperatore dei Francesi. Tutto sommato l'atteggiamento del lasciar fare del Piemonte era dettato dall'ipotesi di potere intervenire dopo, a cose fatte, come del resto avvenne, per riportare entro i confini dell'egemonia piemontese l'iniziativa democratica.

In queste condizioni Garibaldi partì da Quarto (nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860) con un migliaio di volontari provenienti da diverse regioni, ma in maggioranza dalla Lombardia e dalla Liguria, su due piroscafi sequestrati a Genova. Dopo una sosta a Talamone per rifornirsi di armi, sbarcò a Marsala (l'11 maggio), accolto come liberatore dalla popolazione, e a Salemi assunse la dittatura dell'isola in nome di Vittorio Emanuele.

I garibaldini sostennero la prima battaglia vittoriosa contro i borbonici a Calatafimi; a Palermo fu anche il moto popolare a mettere in fuga gli eserciti regi (30 maggio). Il governo provvisorio di Garibaldi varò subito provvedimenti popolari, alleggerendo gli oneri fiscali del passato governo borbonico, ma non poté far fronte alle richieste contadine della terra che, se soddisfatte, avrebbero cambiato radicalmente la struttura socio - economica dell'isola dove la borghesia agraria, classe egemone, andava ancora conquistata all'ipotesi dell'Italia unita.

Larghi strati di borghesia meridionale infatti stavano abbandonando la propria tradizione separatista e indipendentista e si andavano convincendo dell'utilità di un governo centrale dei Savoia, che garantisse la stabilità del proprio ruolo egemonico sull'isola che il malgoverno borbonico non garantiva più. L'alleanza tra la borghesia industriale del nord e la borghesia agraria meridionale fu infatti l'asse portante della costruzione del nuovo Stato unitario.

La dura repressione dei moti contadini in Sicilia (drammatico fu l'episodio di Bronte, passato più clamorosamente di altri alla storia), operata dallo stesso esercito liberatore garibaldino, rientra perciò amaramente nella logica delle forze politiche risorgimentali, anche di quelle democratiche.

Dopo un vittorioso scontro con i borbonici a Milazzo, Garibaldi passò lo Stretto (20 agosto) e si diresse, con un'avanzata fulminea, a Napoli, dove entrò trionfalmente il 7 settembre. Il re delle Due Sicilie si rifugiò a Gaeta e fece attestare il suo esercito sulla linea del Volturno, dove più tardi (1-2 ottobre) fu definitivamente sconfitto dall'esercito garibaldino.

A Napoli, dove era accorso anche Mazzini, Garibaldi tentò di dare uno sbocco democratico alla rivoluzione, e a questo punto si fece acuto il conflitto con Cavour. I termini di questo conflitto restano quelli di fondo della diversa concezione che i due uomini avevano sul volto da dare all'Italia unita. Non che Garibaldi desse preoccupazioni per la sua fedeltà ai Savoia, ma restavano parecchi punti di disaccordo.

I mazziniani proponevano la costituzione di un nuovo Stato democratico che nascesse dalla convocazione di un’Assemblea Costituente nazionale, eletta a suffragio universale. Alla loro proposta si contrapponeva la linea moderata piemontese, che voleva invece realizzare subito l'annessione al Piemonte dei territori liberati. Le leggi e gli ordinamenti del Regno di Sardegna avrebbero dovuto essere estesi a tutte le nuove province.

I liberali piemontesi intendevano costituire un governo rappresentativo degli interessi dei ceti privilegiati dell'Italia settentrionale, che trovavano punti d'incontro con gli interessi della classe dirigente agraria del Meridione: tale governo sarebbe stato caratterizzato da un notevole accentramento di tutti i poteri, lasciando quindi pochissimo spazio per le autonomie locali.

Garibaldi d'altra parte pensava che fosse necessario indirizzare la spinta rivoluzionaria, rinvigorita dal successo della spedizione nel Regno delle Due Sicilie, verso lo Stato Pontificio, che con un'energica azione poteva, a suo parere, essere subito consegnato all'Italia unita.

Facendo presente questa minaccia, Cavour riuscì a convincere Napoleone III che solo un immediato ed energico intervento dell'esercito piemontese avrebbe permesso al Pontefice di conservare almeno il controllo del Lazio. Invaso così lo Stato Pontificio, i Piemontesi sconfissero le truppe del papa a Castelfidardo, procedendo quindi ad una rapida occupazione delle Marche e dell'Umbria: queste province furono quindi immediatamente annesse al Regno di Sardegna, con il solito sistema dei plebisciti.

A Napoli, frattanto, il governo dittatoriale garibaldino si trovò ben presto a dover affrontare non solo le ostilità delle classi dirigenti legate ai Borboni, ma anche quelle delle masse contadine. Questa crisi facilitò l'intervento del governo piemontese nel Napoletano: a Teano, il 26 ottobre, in un incontro fatidico del re con Garibaldi, quest'ultimo consegnò il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele Il, senza chiedere alcuna contropartita. Seguì lo scioglimento del corpo dei volontari garibaldini, che sarebbero potuti passare, a titolo individuale, sotto il comando regio, al seguito dell'esercito regolare.

Così la linea democratico - garibaldina era stata sconfitta. Garibaldi si ritirava nella sua isoletta di Caprera, Mazzini tornava in Inghilterra, non avendo ottenuto dal re l'amnistia delle sue condanne a morte.

Di lì a pochi mesi, il 18 febbraio 1861, rappresentanti eletti con ristretti criteri censitari o professionali da tutte le province d'Italia, convennero a Torino dove si tenne la prima seduta del nuovo Parlamento italiano. Il 17 marzo 1861 il Parlamento ratificava l'unificazione e proclamava Vittorio Emanuele Il re d'Italia.

La morte di Cavour, il più grande artefice dell'unità d'Italia, sopravveniva pochi mesi dopo, il 6 giugno. Egli lasciava un nuovo Stato, ma il lavoro di costruzione di questa nuova realtà storica era ancora tutto da affrontare insieme alle irrisolte questioni del Veneto e di Roma.

LA TERZA (1862-1871)

Ai difficili problemi che si presentavano al nuovo Parlamento italiano l'indomani della proclamazione del regno, si aggiungevano due questioni ancora irrisolte riguardanti l'unificazione nazionale: il Veneto, ancora sotto il dominio austriaco, e Roma, con tutto il Lazio, sotto il potere temporale della Chiesa.

Sia l'una che l'altra questione si risolveranno nel quadro dei profondi mutamenti avvenuti nel panorama politico europeo.

Si tratta, per quanto riguarda l'acquisizione del Veneto all'Italia, della formazione della nazione tedesca e della sua affermazione in Europa ai danni dell'Austria. Per quanto riguarda il Lazio e Roma, che diventerà capitale d'Italia, bisogna guardare invece alla fine dell'edificio imperiale di Napoleone III e al ritorno della Francia a un regime repubblicano, con la conseguente perdita d'influenza sull’Italia.

Il processo di unificazione nazionale delle popolazioni tedesche venne portato a compimento durante il decennio 1860-70, grazie alla politica unitaria e nazionalista inaugurata dal nuovo re di Prussia Guglielmo I e soprattutto da Ottone di Bismarck, suo cancelliere dal 1862.

Lo statista prussiano, a differenza di Cavour, era un uomo di destra, avverso al liberalismo, ma convinto fautore dell'unificazione nazionale da raggiungere attraverso una guerra contro l'Austria, in vista della quale la Prussia doveva attrezzarsi esercitando una egemonia militare sugli altri Stati tedeschi.

Questo progetto, che significò una forte spinta alla militarizzazione dello Stato e un regime politico interno accentratore e forte, fu appoggiato dalla ricca borghesia tedesca che chiedeva garanzie di incremento industriale e stabilità sociale. In questo periodo infatti la Germania era la prima nazione europea nella produzione del carbone (nei bacini della Ruhr), nell'industria metallurgica e nelle costruzioni ferroviarie, cioè in tutti i settori chiave dello sviluppo industriale.

Il pretesto per la guerra fu dato dalla questione dei ducati danesi (Schleswig, Holstein e Lauenburg) di popolazione prevalentemente tedesca, che erano stati attribuiti dal Congresso di Vienna alla Danimarca e che dopo varie vicissitudini si trovavano ora sotto l'amministrazione austriaca e prussiana. I contrasti che ne seguirono acuirono la tensione tra Prussia e Austria, fino a quando si passò alla guerra aperta (1866).

La Prussia si era prima assicurata l'alleanza italiana, stipulata allo scopo d'impegnare l'Austria su due fronti; l'Italia, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto l'annessione del Veneto.

Per l'Italia la partecipazione alla guerra austro - prussiana fu la terza guerra d'indipendenza. Ma, ancora impreparato e non adeguatamente armati, l’esercito sabaudo andò incontro a due clamorose sconfitte, a Custoza il 24 giugno 1866 e, subito dopo, nello scontro navale di Lissa, il 20 luglio.

Sul fronte germanico invece, grazie alla estrema decisione da parte del generale prussiano von Moltke, la decisiva battaglia di Sadowa (3 luglio) costrinse gli Austriaci alla resa.

In base alle trattative di pace che si svolsero subito dopo, la nuova situazione che si creò nel centro dell'Europa fu la seguente: l'Italia otteneva, tramite la mediazione di Napoleone III, il Veneto; la Prussia annetteva l'Hannover, l'Assia-Cassel, il Nassau e la città libera di Francoforte; nasceva la Confederazione della Germania del Nord sotto la presidenza del re di Prussia, comprendente 22 Stati tedeschi a nord del fiume Meno, che venivano amministrati, per problemi di interessi comuni, dal governo federale presieduto da Bismarck.

Restavano fuori quattro Stati a sud del Meno che si costituivano in Confederazione della Germania meridionale, indipendente, con la quale peraltro Bismarck strinse subito dopo, segretamente, accordi militari a suo favore.

L'Impero austriaco si era dunque ridotto ai soli territori d'Austria e Ungheria. Dopo gli avvenimenti del 1866 anche la struttura politica austriaca cambiò: l'Impero si divise in due Stati con parlamenti e costituzioni separati, appunto l'Austria e l'Ungheria, uniti solo dalla persona del sovrano, imperatore d'Austria e re d'Ungheria.

I Borboni nel Regno delle Due Sicilie (pdf-zip)


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Aggiornamento: 02/04/2014