LA RIFORMA PROTESTANTE

Dalla riforma della chiesa
alla nascita del capitalismo


LA MISTICA IN LUTERO

Martin Lutero

Uno dei fini dell'opera del riformatore fu (come si è dimostrato fin qui) quello di riaffermare in un ambito teologico la centralità e la trascendenza del Creatore rispetto alle sue creature, in contrasto con alcune tendenze e alcune pratiche religiose molto diffuse nel proprio tempo.

Prova di questa intenzione sono le idee che abbiano analizzato sia nel primo che nel secondo capitolo: quella secondo cui l'uomo può raggiungere la propria salvezza solo attraverso il disperare di essa - ovvero attraverso l'humilitas -, e l'altra per la quale la grazia viene impartita esclusivamente in base ad una (libera) decisione divina.

Questi presupposti infatti, all'interno del sistema teologico di Lutero, stavano a testimoniare la sproporzione esistente tra le due opposte dimensioni: quella umana e quella divina.

Egli teneva inoltre a sottolineare come l'uomo, anche nella fede, rimanesse sempre e fondamentalmente una creatura terrena; e come, per tale ragione, non potesse ritenersi già al di fuori di quella condizione di peccato (ereditata da Adamo), che era propria anche di ogni altro uomo. Questa idea veniva espressa sinteticamente nella formula: simul iustus et peccator.

Già queste prime considerazioni illustrano chiaramente come la visione del riformatore dovesse, per forza di cose, entrare in contrasto (almeno indicativamente) con le pratiche della mistica, cioè dell'elevazione dell'anima umana verso Dio: e soprattutto con l'esperienza più estrema di questo processo, nella quale l'anima arrivava a conoscere direttamente lo stesso Dio increato.
Il motivo più profondo del contrasto con tale tradizione, stava appunto nel fatto che tali pratiche sopravvalutassero le possibilità umane naturali, in quanto prospettavano - già in questa vita - la possibilità di una riunificazione dell'anima umana con Dio, e quindi anche il raggiungimento di uno stato di beatitudine terrena: cosa ovviamente inammissibile per il riformatore.

Nonostante queste differenze tuttavia, sarebbe riduttivo affermare che il rapporto del nostro con la precedente tradizione mistica fosse un rapporto semplicemente negativo o di 'rifiuto'. Al contrario infatti egli ne fu anche, sotto molti aspetti, positivamente influenzato.

Si pone perciò la necessità di approfondire, qui di seguito, la relazione che egli intrattenne con tale tradizione.

1) Trasformazione della teologia mistica nel tardo Medioevo

Nel periodo tardo medievale (che coincise con la nascita e con lo sviluppo della filosofia occamista e della via moderna - in opposizione alla via antiqua) la tendenza che caratterizzò la cultura, all'interno delle scuole e delle università, fu sempre di più quella di restringere l'influenza di quelli che Oberman ama definire 'aristocratici dello spirito', ovvero degli autori mistici, sul curriculum di studio dei teologi.1

Questo fenomeno generale, che si può anche definire come un processo di 'democratizzazione della mistica' - e che caratterizzò più o meno tutta la letteratura religiosa del tardo Medioevo - comportò, come conseguenza, il fatto che ciò che si conservò e si tramandò nelle università di autori come Bernardo di Chiaravalle o di Ugo di San Vittore, fu prevalentemente l'aspetto più genericamente religioso del loro pensiero, anziché quello veramente mistico.

Inoltre, sempre in questo stesso periodo, anche il movimento religioso e culturale della Devotio moderna (che, come noto, conteneva ancora al suo interno, nonostante la propria modernità, alcune componenti ascetiche e claustrali di ascendenza medievale) fu certamente diffidente, se non ostile, nei confronti delle pratiche della mistica vera e propria - quantomeno verso quelle più estreme.2

Come scrive Heiko A. Oberman, riassumendo efficacemente la situazione complessiva della cultura di quegli anni: "la via moderna e la Devotio moderna furono entrambe interessate più fortemente alla theologia affectiva che alla theologia speculativa, all'ascetica più che alla mistica, alla contemplatio acquisita più che alla contemplatio infusa."3

Una tale descrizione ci mostra chiaramente la ragione per cui in quel periodo, anche per uno studente di teologia come era Lutero, fosse estremamente difficile riuscire a formarsi una solida preparazione in materia di teologia mistica (cioè in quella disciplina che studiava in modo approfondito, e classificava, le esperienze mistiche).4

E, inoltre, se è vero che rimaneva pur sempre un certo margine di influenza per quelli che si possono chiamare gli 'aristocratici dello spirito' - ovvero per i veri e propri autori mistici -, è tuttavia un fatto appurato che la loro terminologia venisse, rispetto al passato, generalmente "conformata alla descrizione della vita del normale cristiano" (e resa quindi accessibile ad un pubblico più vasto, seppure in massima parte estraneo alle vere e proprie pratiche dell'ascesi mistica).5

Si può allora dire in modo sommario che, nel contesto culturale in cui il futuro riformatore si trovò a vivere, si stessero verificando due fenomeni paralleli, ed in un certo grado anche complementari: da una parte vi era la tendenza - della quale una tipica espressione fu per esempio la Devotio moderna - a sviluppare la teologia in un senso affettivo; dall'altra invece si era instaurato un processo di 'democratizzazione della mistica', che comportava l'abbassamento di quella tradizione ad un livello molto più accessibile alle persone comuni, ma che al tempo stesso ne snaturava i temi originari.6

Entrambi i fenomeni - l'uno situato a un livello religioso e popolare 6bs, l'altro a quello scolastico e universitario - furono accomunati dal fatto di spostare la problematica originaria di questo tipo di esperienze da un grado più alto verso un altro grado più accessibile e 'quotidiano'.

Anche nell'opera di Lutero si riscontra un forte abbassamento della tensione che era stata originariamente presente nell'alta mistica, cioè nella vera e propria 'via mystica'.

E' possibile quindi supporre che egli avesse subito, riguardo a questo aspetto particolare7 del suo pensiero (seppure certamente in modo indiretto e inconsapevole: cioè attraverso il proprio cursus studiorum), l'influenza del contesto religioso e culturale in cui era avvenuta la sua formazione - come attesta, del resto, anche il fatto che l'interpretazione che egli diede di vari autori appartenuti alle correnti mistiche medievali, fosse incentrata prevalentemente su temi genericamente religiosi o spirituali, anziché che sui temi originari della loro speculazione.7bs

Un altro elemento che contribuì a rendere il rapporto del riformatore con questa corrente molto complesso e articolato, fu il fatto che la sua teologia (in quanto essenzialmente finalizzata ad una riforma generale della dottrina cristiana) si contrapponesse decisamente alla tradizione mistica: una tradizione alquanto 'elitaria'.

Per tale ragione il riformatore, nonostante attestasse per se stesso, al pari di S. Paolo, l'esperienza del 'terzo cielo', non fondò mai la propria autorità teologica su questo tipo di illuminazioni (come fecero invece alcuni riformatori successivi), preferendo decisamente come sostegno per il proprio messaggio la semplice testimonianza delle Scritture, da tutti conosciute e del cui valore nessuno poteva dubitare. 8

Note

1 Cfr. Heiko A. Oberman, La riforma protestante, ed. cit., cap. III, p.59-62.
2 Cfr. R. Bainton, Erasmo della cristianità, ed. cit., p.8: "Gerardo Groote di Deventer raggruppò attorno a sé seguaci dediti alla vita attiva e a quella contemplativa. (...) L'accento [nella Devotio Moderna] poggiava sulla pietà e sulla condotta. La pietà era caratterizzata da una commossa, lirica devozione a Gesù, con costante sforzo di tenersi sui suoi passi, piuttosto che di annegare la coscienza nell'abisso della deità."
3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.60.
4 E in special modo nel contesto universitario tedesco, dal momento che nelle università tedesche era particolarmente radicato un fenomeno di alleanza politica tra la via moderna e la Devotio moderna, contro gli esponenti della via antiqua. (Cfr. H. A. Oberman, I maestri della Riforma: la formazione di un nuovo clima intellettuale in Europa, Bologna, il Mulino 1982, I: Turris eburnea: l'università come punto d'osservazione, p.18 ss.)
5 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.60.
6 Ibidem, cfr. n.65: "Francis Vandenbroucke ritiene che quest'epoca sia caratterizzata da 'le divorce entre theologiè et mystique'. E' vero che la teologia affettiva, per lo più critica nei confronti dei dibattiti in scholis, ebbe allora un impulso generale. (...) L'impulso della teologia affettiva e quella che chiamo democratizzazione della mistica sono due facce di una stessa medaglia."
6bs Sui caratteri della religiosità popolare del periodo tardo medioevale, cfr. G. S. Tomlin, The Medieval Origins of Luther's theology of the Cross; II: Luther and late medieval passion meditation, in: Archiv fur Reformationgeschichte, 1998, n.89, pp.23-24.
7 Riguardo a questo tema, ma non ad altri: le idee del valore delle opere e del libero arbitrio erano infatti molto vive proprio nella tradizione della meditazione devota sulle ferite di Cristo, la quale pure aveva, in qualche modo, contribuito alla formazione di Lutero, attirando la sua attenzione sul problema della riflessione sul sacrificio di Cristo. (Cfr. G. S. Tomlin, The Medieval Origins Of Luther's theology of the Cross, ed. cit., II: Luther and late medieval passion meditation, p.23 ss.)
7bs Sulla lettura e sull'interpretazione data da Lutero dei mistici medievali, cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.60, dove si legge: "in riferimento a Tauler, proprio il fatto che per Lutero una determinata predica di quel teologo sia interamente radicata nella teologia mistica, ci fa capire come egli pensasse che [normalmente] non dovesse essere così": cioè che Taulero non fosse per lui principalmente un autore mistico. E più avanti (a p.62), a proposito dell'Anonimo: "Ad ogni modo la sostanza che Lutero desume dalla Teologia Deutsch non è certo mistica (...). Lutero considera questo scritto tipico di una 'teologia tedesca', ma non di certo di una 'mistica tedesca'."
E, sempre di H. A. Oberman, cfr. Martin Lutero: un uomo tra Dio e il diavolo, Bari, Laterza 1987, p.174, dove si legge: "Lutero si mostra entusiasta di Johannes Tauler e della Deutsch Theologie [Teologia tedesca] (...): ma egli non li ha letti come prototipi del misticismo, ma come esempi di una teologia autentica, vissuta e vitale. Tauler è diventato per lui la guida nella ricerca di un'esistenza animata dalla fede"; e più avanti (p.179): "In Tauler e nella Deutsch Teologie Lutero ha trovato il linguaggio e il modello per descrivere in modo tangibile questa situazione di doppia esistenza [iustus et peccator]. L'anima, soggetta a gemere sotto i pesi e i peccati della creatura, è rapita nell'esperienza della gioiosa unione con Dio. Nel misticismo i gemiti e l'estasi indicano l'inizio e la fine del cammino, dal doloroso distacco dal mondo alla gioiosa unione mistica. Per Lutero 'i gemiti e l'estasi' sono i concetti, tradotti in esperienza, della simultaneità di pace e dolore (...) - 'simul gemitus et raptus'." (Ma per ulteriori approfondimenti, cfr. infra, p.88 ss).
8 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., pp.37-38.


2) La 'democratizzazione' della mistica in Lutero

Prima di affrontare il tema della trasformazione della teologia mistica nell'opera del riformatore, è opportuno farsi un'idea generale di cosa fosse la mistica di origine tomista nel periodo scolastico. Una possibile schematizzazione delle tappe del processo che culmina nell'esperienza mistica vera e propria, ce la può fornire Ephraem Haendrikx.1

Per descrivere la mistica cattolica, Haendrikx compila un elenco dei gradi del percorso che conduce il credente fino alla visione beatifica. Essi sono secondo lui essenzialmente tre: la preghiera, a cui fa seguito la contemplazione acquisita, a cui fa seguito infine la contemplazione travasata.

La dinamica del processo di risalita è strutturata in modo che, partendo da un'iniziale fase ascetica basata su un processo discorsivo, si passi poi ad un primo assaporamento della Verità, o ad una prima forma d'illuminazione divina. Questa, chiamata accessus, comporta una conoscenza soltanto sentimentale della natura divina, e corrisponde sotto alcuni aspetti alla conoscenza di Cristo nella teologia di Lutero.

Mentre questa prima fase, chiamata anche grazia abituale, è accessibile a tutti i credenti attraverso la meditazione e la preghiera, la fase successiva invece è accessibile solo a pochi eletti. Quest'ultima, infatti, è quella che si considera come la vera e propria via mystica, in quanto comporta l'assorbimento dell'anima - totalmente recettiva e passiva - in Dio.

Questo livello inoltre (definibile, secondo Oberman, come un'esperienza di alta mistica) non dipende assolutamente più dall'uomo, ragione per cui viene definito come un rapimento estatico (raptus). Esso si distingue dal precedente tipo d'esperienza per il carattere puramente spirituale e 'teoretico' dell'illuminazione, che lo pone al di là di qualsiasi esperienza semplicemente umana: ovvero carnale e emotiva.

Questo secondo livello possiede perciò un carattere speculativo, che lo separa nettamente - anche da questo punto di vista - da quello precedente, ovvero dall'accessus.

L'importanza di questa descrizione di Ephraem Haendrikx del percorso ascetico tipico della teologia cattolica sta, ai fini della presente ricerca, nel fatto che - con la sua distinzione tra accessus e raptus - può essere utile per chi voglia comprendere il pensiero mistico-teologico di Lutero.

Uuna tale schematizzazione difatti (pur avendo ovviamente un valore solo orientativo riguardo alla vera mistica cattolica) pone comunque in luce i principali aspetti della tradizione con cui il riformatore dovette confrontarsi, e ci aiuta a chiarire quelli che furono per lui i punti di dissidio con essa.

a) l'accessus e il raptus in Lutero

Se la mistica cattolica era divisa nei due gradi consecutivi dell'accessus e del raptus, la trasformazione che Lutero apportò a tale tradizione fu da una parte quella di ridurre a Cristo (ovvero all'accessus) il livello dell'elevazione mistica, e dall'altra di dare anche a questo livello il connotato del raptus, ovvero di un rapimento estatico dovuto esclusivamente alla volontà e all'iniziativa divina.2

Questo cambiamento d'altronde, era imposto dalla sua stessa visione teologica, se è vero che l'anima umana non poteva per essa raggiungere da sola la salvezza, ma soltanto riceverla come dono gratuito dallo Spirito divino (come si legge più volte nel Servo Arbitrio: "La Chiesa è retta dallo Spirito di Dio; i santi (...) sono condotti dallo Spirito di Dio. Cristo resta con la sua Chiesa fino alla fine del mondo"3.

Se quindi, con questa interpretazione, egli univa da una parte due gradi o aspetti dell'ascesi che precedentemente rimanevano distinti, dall'altra rendeva l'esperienza mistica accessibile a tutti i credenti, in quanto limitata (nel grado di avvicinamento a Dio) al solo livello cristologico dell'accessus: ovvero a quello più umile e carnale.

L'esperienza mistica dunque, non poteva più essere considerata, nella vita religiosa dei cristiani, soltanto come un risvolto o una pratica particolare (fondamentalmente distinta dalle altre), ma finiva al contrario per permeare in modo essenziale tutta la loro vita 4.

Secondo Lutero, infatti, una simile condizione di elevazione dell'anima in Cristo era ciò che separava i veri credenti dai non credenti, la vera Chiesa dal mondo terreno - come si può capire facilmente da quanto egli scrive in Sulla libertà del cristiano, dove si legge: "Non soltanto la fede concede che l'anima divenga simile alla Parola divina e cioè ripiena d'ogni grazia, libera e beata, ma riunisce l'anima a Cristo, così come una sposa al suo sposo. Per codesta unione ne consegue, come dice Paolo, che Cristo e l'anima diventano un corpo solo."5

b) la mistica affectiva

Lutero affermò, all'interno della sua teologia, l'importanza e la centralità dell'esperienza affettiva, ossia dell'accessus (già presente, come si è detto, nella tradizione cattolica) - in contrapposizione con l'esperienza puramente teoretica o speculativa, cioè di 'alta mistica' (che per i cattolici costituiva, come si è detto, il momento successivo all'accessus).

E affermò inoltre come il legame del credente col Cristo consistesse in un 'vincolo d'amore', e che, in quanto tale, esso non potesse passare né attraverso la ragione, né di conseguenza attraverso la speculazione.

Ciò che egli rifiutò della precedente tradizione, non fu perciò l'idea del rapimento estatico (raptus) dell'anima - assolutamente ricettiva e passiva -, in quanto tale rapimento era sempre e comunque necessario per l'esperienza mistica.

Né in realtà egli rifiutò - quantomeno in modo assoluto - la possibilità di un superamento del livello terreno (cristologico) dell'ascesi: ovvero l'idea che l'unione mistica potesse andare oltre lo stesso Cristo incarnato.

Ciò che egli negò con maggiore decisione, fu la possibilità di un'esperienza mistico-ascetica meramente spirituale e razionale: quest'ultima infatti, comportando l'assenza di qualsiasi componente umile od affettiva, veniva da lui riportata nell'ottica di una concezione ottimistica o gloriosa del rapporto dell'uomo con Dio.

In merito a questo problema, si può leggere un passo tratto dal commento del 1517 alla Lettera agli Ebrei di Paolo: Sic psalm. 17 [11]: "Ascendit et volavit super pennas ventorum" id est contemplationes spirituum [gli spiriti sono i Cherubini, non gli uomini]. Quod nomen satis indicat. "Cherubin" enim interpraetantur "plenitudinem scientiae". Ideo et hic dicit "Cherubin gloriae", subindicans, quod alia sit sapientia Christi gloriosi et alia Christi crucifixi. Quia per hanc deprimitur caro, per illam elevatur spiritus. Porro in contemplacione gloriae Christi maxime omnium necessaria est prudentia spiritus, ne unius "faciem" secuti et alterius relinquentes in diversum rapiamur errorem.6

Questo passo illustra, come si vede, la contrapposizione tra il Cristo celeste e quello terreno e crocefisso - assieme a quella, complementare, tra le due forme di conoscenza che se ne possono avere: I) quella gloriosa, dei Cherubini e II) quella più propriamente umana, che è invece una conoscenza umile.

Esso continua poi mettendo in guardia i lettori da un possibile errore di valutazione della propria esperienza mistica (diversum rapiamur errorem), dovuto alla sopravvalutazione di sé e, di conseguenza, alla sottovalutazione della trascendenza di Dio.

L'autore dà ad intendere, infatti, che l'uomo molto difficilmente possa giungere a sperimentare il solo aspetto glorioso di Cristo; e sottolinea come, molto più spesso, sia lui invece ad ignorare deliberatamente gli aspetti umili e affettivi dell'esperienza mistica (unius faciem secuti, alterius relinquentes).

La vera mistica non è perciò (salvo, come si vedrà più avanti, rare eccezioni) gloriosa, ma umile. E ciò è vero nella misura in cui essa rimane pur sempre legata - nonostante l'elevazione verso Dio - agli aspetti carnali e terreni della natura che la sperimenta.

In conclusione, quindi, si può notare come quest'ultimo aspetto - consistente nella sottovalutazione dell'elemento di humilitas - fosse ciò che poneva Lutero in un più profondo contrasto con la pratica della mistica cattolica.

Note

1 Ivi, pp. 40-41.
2 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.68, dove si legge: "La contrapposizione di accessus e raptus non rappresenta l'ultima parola: mentre Lutero da una parte respinge il raptus, dall'altra fornisce rilevanti indizi per cui l'accessus assume alcuni tratti che caratterizzano il raptus. (...)"; e, ancora di H. A. Oberman, cfr. Martin Lutero, ed. cit., p.174, dove si legge: "Se si leggono gli scritti giovanili di Lutero, ci si aspetta ad ogni momento l'esplicita adesione al misticismo. Il che peraltro avviene, ma in forme e toni del tutto diversi, senza avere come fine l'ascesa verso Dio."
3 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.155.
4 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.38: "Non è possibile considerare questa trama mistica un singolo aspetto della teologia di Lutero (...); si tratta piuttosto di una parte o di un elemento della sua concezione del Vangelo che permea la sua interpretazione della fede e della giustificazione, la sua ermeneutica, la sua ecclesiologia e pneumatologia."
5 M. Lutero, Scritti politici, ed. cit., p. 373.
6 H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.67, n.87.


3) Il gemitus e il raptus

La visione della mistica in Lutero era 'democratica' - dal momento che nella sua teologia una tale esperienza era comune a tutti i credenti -, ed umile o affettiva - cioè non speculativa, in quanto legata alla condizione terrena propria dell'uomo.

La creatura decaduta e corrotta non poteva, secondo una tale visione, entrare in contatto diretto con Dio (il Deus nudus), ma solo con la parte che di esso gli si era rivelata (il Deus revelatus).

Già nel 1515-1516, Lutero scriveva nel suo commento a Rom: "se egli [Dio] avesse agito in mezzo a noi, o lui direttamente o mediante degli angeli, saremmo stati presi dal panico. L'opera di Dio sarebbe stata impedita dallo sbigottimento. (...) Nemmeno Mosè riuscì a sopportare un tale spavento: la parola non si era ancora incarnata. (...) Ora invece essa è diventata piena di dolcezza e fatta di carne, e si consegna a noi attraverso la carne."1

Il principio dell'humilitas si dimostra così di nuovo (come già nei precedenti capitoli), di una importanza fondamentale all'interno del pensiero del riformatore, dal momento che informa di sé anche quest'altro aspetto della sua visione teologica.

L'elevazione mistica dell'anima umana presuppone infatti, prima di tutto, la consapevolezza del proprio reale stato terreno, e la rassegnazione ad esso.

In questo modo, al binomio di peccato e giustizia (iustus et peccator) si affianca qui anche quello complementare di gemitus e di raptus: è necessario infatti per il credente essere cosciente della propria condizione di peccato, per essere elevato per quanto possibile ad uno stato di beatitudine terrena.2

Come si è accennato precedentemente, anche nella teologia cattolica il tema dell'humilitas svolgeva un ruolo positivo, giacché guidava il soggetto nella direzione della meditazione e della preghiera, preparando in tal modo anche lo stadio successivo: quello della contemplatio acquisita (ossia il primo livello dell'ascesi mistica). In ogni caso tuttavia una tale attitudine era considerata, in sostanza, solo come uno stadio iniziale e preparatorio in vista dell'ascesi mistica vera e propria, piuttosto che come un elemento stabile di essa.3

Vi era, tuttavia, anche un altro punto che allontanava - e forse ancora più radicalmente - queste due differenti concezioni dell'esperienza mistica: ovvero la considerazione della condizione dell'uomo nell'elevazione in Cristo.

Secondo una visione comune a molti autori cronologicamente vicini o contemporanei a Lutero, infatti, Cristo rappresentava essenzialmente il mezzo (o meglio l'ostium, ossia la porta) che Dio aveva fornito all'uomo affinché egli potesse allontanarsi dalla condizione di peccato e di degrado nella quale era costretto a vivere, e accedere quindi ad una condizione più felice 4: attraverso Cristo, in altre parole, ogni individuo poteva evadere dallo stato di dolore e di miseria dell'esistenza quotidiana.5

All'opposto, secondo la visione luterana, la stessa unio mystica con il Cristo non procurava gioia al fedele, bensì sofferenza. Essa difatti portava con sé un radicale cambiamento dell'orientamento dell'esistenza umana naturale (oltre ovviamente al sentimento positivo della propria rigenerazione interiore, che proveniva dalla fede).

Il segno di questa trasformazione interiore non era però il semplice impulso verso la contemplazione mistica (che per il riformatore equivaleva ad un tendere anzitempo alla beatitudo coelestis), ma piuttosto quello verso l'emulazione del Cristo crocefisso attraverso la 'mortificazione della carne'.

Si legge ad esempio nella Cattività babilonese della Chiesa, dove Martin Lutero parla del vero sacramento della penitenza: "Quanti si sono convinti di esser salvi e di aver dato a Dio soddisfazione per i propri peccati, solo per aver biascicato quattro preghiere imposte dal prete, pur non pensando minimamente di cambiar vita? (...) E perché dovrebbero pensar diversamente se altro non si insegna loro che questo? Non si pensa a mortificare la carne, non serve a niente l'esempio di Cristo, che assolvendo l'adultera disse: 'Va, non peccare più', imponendole la pena di mortificare la carne."6

In altri termini, lo stretto legame tra l'humilitas (o il concetto affine di gemitus) e la condizione del rapimento mistico dell'anima, implicava in primo luogo che nell'uomo vi fosse la consapevolezza della propria lontananza da Dio, e in secondo luogo vedeva in questa consapevolezza il presupposto per la salvezza futura, oltre a quello per il congiungimento mistico in questa vita con il Cristo crocefisso.

Ma se il rapporto con Dio era in una tale visione essenzialmente di lontananza e di negazione, la vita del fedele non poteva più consistere - se non in minima parte - in una attività meramente 'contemplativa' e passiva: l'esistenza del cristiano trovava perciò proprio nel valore attivo del sacrificio la sua peculiare caratteristica e il suo sbocco reale.

Oltre che una mistica 'popolare' ed affettiva, quindi, quella di Lutero si potrebbe classificare anche come una mistica che pone al proprio centro il valore dell'impegno e della sofferenza terrena: una mistica 'attiva'.

La dimensione della religiosità all'interno della teologia luterana, in quanto presupponeva essenzialmente, da parte dell'uomo, la coscienza del proprio intrascendibile stato di peccato (e quindi anche del suo restare sempre e comunque 'ancorato alla terra'), portava il credente a rinunciare del tutto - o quasi - all'aspirazione verso un'elevazione mistica e metafisica della propria anima. Secondo Lutero, quindi, la vita di fede non portava il credente a emarginarsi dal mondo, ma - al contrario - lo induceva a 'radicarsi' in esso.

Il sacrificio ritornava, così, ad essere la componente fondamentale nell'esistenza del cristiano: esso diveniva infatti il segno o l'immagine esteriore della sua accettazione - seppure da cristiano, e non come uomo privo di fede - della propria condizione terrena.

Si legge ad esempio, già nel primo scritto esplicitamente polemico nei confronti dell'autorità romana, ovvero le 95 tesi, che "Gesù Cristo dicendo 'fate penitenza', volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza; questa parola non può intendersi nel senso di penitenza sacramentale (cioè confessione e soddisfazione, che si celebra per il ministero dei sacerdoti); non si intende però solo la penitenza interiore, anzi quella interiore è nulla se non produce varie mortificazioni della carne; perciò la pena dura finché permane l'odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè sino all'ingresso in paradiso."

E più avanti, sempre nello stesso scritto, egli diceva: "La vera contrizione cerca ed ama le pene [...] Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare a un povero o fare un prestito a un bisognoso, che acquistare indulgenze [...] la carità nasce con le opere di carità e fa l'uomo migliore; occorre insegnare ai cristiani che chi vede un bisognoso e lo trascura per le indulgenze, merita non l'indulgenza del papa ma l'indignazione di Dio."7

Con tali espressioni, il riformatore intendeva ribadire la centralità del sacrificio e della conversione, posti in atto attraverso l'esercizio della carità, per l'ottenimento della salvezza, e sottolineare come in essi si dovesse vedere (in contrapposizione con la 'falsa sicurezza' delle indulgenze) il vero segno dell'unione dell'anima a Cristo.

Inoltre, attraverso questa visione originale e innovativa della natura dell'esperienza ascetica, Lutero conciliava la propria formazione personale (incentrata in massima parte, come noto, sullo studio delle sacre Scritture) con la conoscenza (legata invece essenzialmente al suo curriculum di studi scolastico) della precedente tradizione mistica.

Se tale tradizione infatti prospettava la possibilità di un'assorbimento del credente in Dio, il Vangelo al contrario poneva come tema principale l'impegno e il sacrificio dell'uomo in vista della salvezza, rimanendo quindi tendenzialmente (ove si eccettuino ovviamente alcuni - peraltro piuttosto rari - episodi, come ad esempio quello di Paolo) estraneo all'idea della riunificazione mistica dell'uomo a Dio.8

L'idea della necessità della sofferenza per l'ottenimento della grazia, infatti, tendeva secondo Lutero ad essere sostituita tra i suoi contemporanei dalla convinzione che bastassero, per ottenere la salvezza, le pratiche espiatorie prescritte dal clero, e assieme ad esse magari (e a loro integrazione) quelle mistico ascetiche.

Egli, non condividendo questa impostazione, reagì perciò da una parte rendendo la mistica, all'interno della sua visione, qualcosa di ancora più essenziale per la spiritualità e per la fede cristiana, e tuttavia dall'altra interpretandola in un senso tendenzialmente pratico attivistico (anziché in quello, più tradizionale, estatico contemplativo).

Note

1 M. Lutero, Lezioni sulla lettera ai Romani, Genova, Marietti 1992, scolio n.229, p.158.
2 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.86-87, dove si legge: "Excessus e raptus da una parte, gemitus dall'altra sono stati reclutati per illuminare la vita christiana. (...) La dimensione del gemitus scaccia i pericoli provenienti dalla theologia gloriae del raptus mistico. E le dimensioni excessus e raptus neutralizzano gli elementi sinergistici presenti nel tradizionale collegamento scolastico di synderesis e gemitus." (Su questo collegamento, cfr. infra, pp.29-30).
3 Nella visione pienamente medievale e monastica, infatti, l'umiltà veniva intesa come una preparazione alla fede, un'opera libera e volontaria in vista della grazia divina. Essa perciò, in tale visione, era ricollegabile al discorso sulla preghiera e sulla meditazione, che preparavano - come si diceva - l'incontro affettivo, ossia l'accessus, con il Cristo (cfr. infra, pp.67-68).
4 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.66, n.81: Ipse Domine Iesus ait: 'Ego sum ostium, per me si quis introirit salvabitur' (citazione da Schatzgeyer). Più avanti, sempre Schatzgeyer, dice: Et alibi inquit discipulis: 'oportuit pati Christum et ita intrare in gloriam suam', ed infine: Converte ergo, o anima, quae ascensiones paras, converte sensus cordis tui in pulcherrimum, sonorosissimum, suavissimum, redolentissimum et amorosissimum obiectum, Iesum, vidilicet, Christum, verbum increatum, incarnatum et inspiratum. Contemplare eius pulchritudinem, quia splendor est patris et figura figura substatntiae eius.
5 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.66 ss, dove si legge: "In un trattato di Schatzgeyer, che è cronologicamente vicino a Lutero (1501) e respira quel clima di spiritualità monastica che suscitò più tardi la collera del riformatore, Cristo non è affatto sminuito in nessun modo. Schatzgeyer sottolinea che 'esiste un solo cammino verso il cielo: attraverso la croce di Cristo'. Ciò desta l'amore e conduce al meraviglioso abbraccio di Cristo. Il vero cristiano si volge dall'amarezza di questa valle di lacrime alla luminosa bellezza di Cristo." (Si capisce quindi che l'unione col Cristo venisse intesa dall'autore più come un'esperienza 'gioiosa', che penitenziale).
6 Martin Lutero, Scritti politici, Torino, U.T.E.T. 1949, p.311.
7 Giuseppe Alberigo, La riforma protestante (origini e cause), Brescia, Queriniana 1977.
8 Cfr. Giuseppe Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca protestante, Milano, Fratelli Bocca 1946, p.5 ss: "Se il cristianesimo avesse un presupposto filosoficamente enunciabile, questo sarebbe dato dall'affermazione di una iniziale contrapposizione dell'anima a Dio: o, per adoperare un termine di portata filosofica, di una trascendenza assoluta. (...) Perciò, se esperienza mistica vuol dire unificazione di Dio e dell'anima (...) che elimini qualsiasi effettiva distinzione metafisica tra Dio e l'anima, il Cristianesimo non si può qualificare come fenomeno mistico." Riguardo all'opposizione che sussiste tra esistenza attiva ed esistenza contemplativa, il Faggin scrive: "L'antinomia tra vita attiva e vita contemplativa è nel Vangelo soltanto apparente e sta ad indicare, nei suoi due elementi realmente esistenti, i due aspetti concomitanti della vita spirituale: l'abbandono fiducioso in una verità rivelata e l'imprescindibile necessità dell'azione." Nelle Scritture quindi non c'è, secondo il giudizio dell'autore, uno spazio eccessivo per la vita puramente contemplativa.


4) L'alta mistica nella teologia di Lutero

Nonostante la forte diffidenza del riformatore nei confronti di ogni forma di contemplazione o di 'esperienza estatica', non si può comunque affermare che egli negasse del tutto la possibilità di sperimentare anche forme più alte di ascesi oltre a quella meramente cristologica.

E tuttavia questo secondo tipo di esperienze era ammesso, all'interno del suo sistema, soltanto come 'caso limite'.

Una conferma della validità generale dell'impostazione cristologica della sua teologia mistica, ce la fornisce per esempio il paragrafo conclusivo del Tessaradecas consolatoria pro laborantibus et oneratis (ovvero le Quattordici consolazioni per gli afflitti e gli onerati), un'opera consolatoria del 1520 dedicata all'elettore Federico di Sassonia, in cui venivano elencati i sette mali ed i sette beni insiti nella condizione umana.

Nell'ultimo capitolo, che trattava del bene supremo, Lutero iniziava subito con il dire: "Nulla posso dire riguardo ai beni eterni e celesti, dei quali si gloriano i Beati attraverso la visione chiara di Dio, ma quantomeno posso parlare di quelli che ci sono concessi attraverso la fede [ovvero: quelli che si possono conoscere attraverso di essa] e delle cose che ci sono comprensibili attraverso la ragione. Così questo settimo spettro è Gesù Cristo che risorge in gloria dai morti (...)"1.

Il passo, che continuava poi con l'elenco dei beni sommi che la ragione e la fede preannunciano essere propri dei beati (ovviamente solo per merito del sacrificio di Gesù Cristo, come egli scriveva subito dopo: qua re resurrectio eius mea est, et omnia, quae per resurrectionem operatus est), ci dimostra chiaramente come secondo Lutero il credente non potesse accedere ad una visione chiara, ossia 'priva di veli', della natura divina già in questa vita, né dei beni e delle gioie connessi a tale visione.

Questo brano ci riporta perciò all'idea, che come si sa ha un valore preponderante nella teologia mistica luterana, secondo la quale "essere rapiti non significa però comparire davanti a Dio nella fede"2.

La ragione per cui non si può parlare - nonostante questo orientamento generale - di un vero e proprio rifiuto da parte di Lutero delle esperienze di 'alta mistica', risiedeva innanzi tutto nella sua convinzione di non poter limitare le scelte divine: ovvero, in questo ambito specifico, nell'idea che non fosse lecito escludere (quantomeno in modo assoluto) che Dio decidesse di elevare alcuni uomini fino alla contemplazione della propria natura increata.

Ma questa considerazione comportava, inoltre, che la forte diffidenza del riformatore nei confronti delle pratiche che rientravano nella categoria dell'alta mistica, fosse da attribuire in realtà molto di più al modo in cui esse venivano intese e messe in atto dai suoi contemporanei, che non a quelle pratiche come tali.

In sostanza infatti, l'elemento che spingeva Lutero a dubitare - almeno nella maggior parte dei casi - della validità di questo tipo di esperienze, stava nella loro pretesa di giungere troppo rapidamente alla conoscenza della natura trascendente di Dio, intendendo quindi l'unione col Cristo incarnato solo come un momento di passaggio (quando non, addirittura, come qualcosa che si potesse anche saltare) per accedere al livello più alto della contemplazione.

In altre parole, l'elemento di separazione tra queste due visioni risiedeva nella tendenza di molti mistici cattolici (come ad esempio Schwenckfeld) a vedere il momento cristologico come un 'per mezzo di Cristo', anziché come un 'in Cristo': cioè a considerarlo non come una meta, ma soltanto come un punto di passaggio.3

A questo proposito, ad esempio, egli scriveva già nel 1516 - cioè prima ancora di iniziare la vera e propria battaglia per la riforma della dottrina cattolica - nel commento a Rom (5,2): "Chi è saggio, non apprezza tanto la luce [la fede] da non avere bisogno del sole [Cristo], ma desidera avere insieme e il sole e la luce. Questi dunque, che accedono a Dio mediante la fede e non anche mediante Cristo, in realtà se ne allontanano".

E ancora più avanti: "Infatti di tutte le opere della fede la ragione è questa, diventare degni che il Cristo, con la sua giustizia, ci dia rifugio e protezione. 'Giustificati dunque dalla fede' e con i peccati rimessi 'abbiamo l'accesso a Dio e la pace', ma 'mediante Gesù Cristo Signore nostro'. [...] La parola incarnata è infatti necessaria innanzitutto per la purezza del nostro cuore: la quale, una volta realizzata, permette di essere rapiti misticamente per mezzo della stessa Parola increata."4

Ciò che, in realtà, allontanava la visione della mistica propria del riformatore da quella cattolica (in special modo dagli autori a lui contemporanei, o da quelli immediatamente precedenti)5 non era tanto l'idea di una possibile unione dell'uomo col Verbo increato, bensì soprattutto la tendenza - molto diffusa anche tra i più importanti autori mistici, come ad esempio Jean Gerson 6 - a sottovalutare il ruolo della rivelazione e del Figlio incarnato nell'ascesi di fede.

L'elemento che poneva una maggiore distanza tra queste due visioni era, quindi, l'inclinazione dei suoi avversari verso la svalutazione degli aspetti penitenziali, in favore di quelli estatico-contemplativi dell'esperienza mistica.

Non a caso infatti, nella conclusione del passo sopra citato, Lutero scriveva: "Quello che viene chiamato rapimento [raptus] non è [da intendersi però come un] accesso a Dio": sottolineando così la profonda distanza che correva tra l'alta mistica e l'esperienza più comune, che sempre la precedeva, dell'essere rapiti in Cristo (ovvero del raptus).7

Note

1 Martin Luther, Opera omnia, ediz. Wittembergae Lufft., 1545, tomo II, p.23: Nihil de aeternis & coelestibus bonis loquor, quibus beati fruuntur in visione clara Dei, aut saltem de eis in fide loquor, & qua ratione nobis possunt esse comprehensibilia. Ita hoc spectrum est Ihesus Christus Rex glorie resurgens ex mortuis, [sicut idem fuit septium spectrum malorum passus, moriens & sepultus. Hic licet videre summum cordis nostrum gaudium, & stabilia bona. Nihil hic prorfus malorum, quia Christus resurgens ex mortuis, iam non moritur, mors illi ultra non dominabitur. Hic est caminus charitatis & ignis Dei in Zion, ut Isa. Dicit: Christus enim natus est nobis, non solum autem, sed & datus est nobis.] Qua re resurrectio eius mea est, & omnia, quae per resurrectionem operatus est. [Et (ut Apostulus Roma. S. Exuberantissime gloriatur) quomodo non omnia donavit nobis cum illo?]
2 M. Lutero, Commento alla lettera ai Romani, ed. cit., p.230, scolio 300.
3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.53-55 "Vogelsang motiva il diverso inquadramento di Gerson e Tauler con il fatto che Gerson - come Bernardo e Bonaventura - resta aderente all'ascesa mistica per mezzo di Cristo incarnato (per Christum) invece che in Cristo (in Christum), ecc." ; invece su Schwenckfeld, cfr. p. 55.
4 Da Martin Lutero, Commento a Romani, ed. cit., pag. 229, scolii 299 e 300 (5,2 Paolo).
5 Vi è infatti una notevole differenza tra la concezione degli autori del XIV e XV sec. e quella ad esempio di un autore come Bernardo di Chiaravalle (XII sec.): come si intende mostrare più avanti.
6 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.56, dove si legge: "La vera mistica non è considerata dubbia o impossibile, ma 'spesso molto pericolosa e un mero trucco del demonio... Chi vuol essere sicuro, farebbe meglio ad evitare simili speculazioni'. Anche nell'ultima fase della sua evoluzione dunque, Lutero non mette all'indice [per la sua propensione verso l'alta mistica] Gerson; esorta piuttosto i suoi ascoltatori a leggerlo (e con lui altri autori simili), ma - sic et non! - con una restrizione simile a quella che Gerson aveva formulato nei confronti di Bernardo: lo si deve leggere cum iudicio."
7 La versione latina recita: Denique raptus ille non accessus vocatur (citato in H. A. Oberman, op. cit., p.37).


5) La tradizione della teologia mistica in Lutero

Il rapporto di Lutero con l'alta mistica (cioè con la mistica speculativa cattolica) può essere considerato parte di un argomento più vasto, in quanto si inserisce come un aspetto particolare nella sua personale rielaborazione dei temi delle correnti mistiche precedenti. La relazione che il riformatore intrattenne con queste ultime infatti, non fu soltanto negativa.

Si può dire poi, che alcuni movimenti particolari esercitarono un'influenza più consistente sul suo pensiero. Essi - secondo recenti indagini storiografiche - furono: quello della teologia negativa, originata dallo Pseudo-Dionigi; quello che possiamo definire come 'movimento della mistica romanica'; ed infine quello della tradizione tardo-renana (di cui Taulero fu il capostipite).1

La conoscenza delle idee di queste tre correnti lo portò ad illuminare alcuni nodi essenziali della sua spiritualità, contribuendo quindi a dare forma al suo sistema teologico.

Inoltre, data l'importanza per la sua formazione della figura di Taulero (nonché di un altro autore della corrente eckhartiana, conosciuto come 'Anonimo Francofortese'), è parso opportuno dividere questo paragrafo in due diverse sezioni: una dedicata alla relazione di Lutero con la mistica dionisiana e romanica, ed un'altra dedicata invece alla relazione con la mistica renana.

a) la mistica di Dionigi e quella di Bernardo di Chiaravalle:

a' - la teologia apofatica di Dionigi l'Aeropagita:

Anche se S. Agostino, tra i pensatori cristiani, fu quello che lo segnò più profondamente, Lutero entrò in contatto diretto con altri autori.2

Tra questi (che vengono citati nelle sue opere con valenze a volte positive e a volte negative, ovvero secondo la metodologia critica medievale del sic et non) troviamo Dionigi l'Aeropagita ed alcuni mistici dionisiani.

Il rapporto che Lutero intrattenne con questa corrente mistica e teologica si potrebbe dividere, lungo l'arco di tutta la sua vita, in due momenti differenti: il primo, che terminò tra il 1519 ed il 1520 e fu contraddistinto dall'adesione positiva a tale corrente, o almeno ad alcuni temi di essa (soprattutto a quelli 'apofatici'); e il secondo, che iniziò appunto col 1520, durante il quale il riformatore si allontanò da essa (anche se l'influenza positiva esercitata da quelle idee rimase salda anche nel periodo maturo del suo pensiero.)3

Il percorso di questa influenza, si può riassumere col dire che nel primo periodo di essa (cioè in quello che arriva fino al 1520 circa) Lutero si interessò prevalentemente agli aspetti 'apofatici' di tale filosofia, mentre in quello successivo si scontrò con le componenti mistiche di essa.

A testimonianza dell'interesse giovanile del riformatore per la teologia dionisiana, si può citare uno scolio del 1514 al Sal. 64, nel quale si legge: "Come la via positiva verso Dio è imperfetta - sia nell'apprensione, che nell'espressione -, quella negativa è invece perfetta. Per tale ragione Dionigi ricorre spesso alla parola 'hypér', perché è necessario semplicemente andare oltre ogni pensiero ed entrare nell'oscurità assoluta."4

Egli dunque, in questi anni, riprendeva da Dionigi l'idea della assoluta inconoscibilità di Dio per l'uomo naturale (cioè attraverso il proprio intelletto).

In merito invece al successivo rifiuto di questo autore, e più in particolare degli aspetti mistici e ascetici della sua filosofia, può essere utile leggere un brano scritto alcuni anni più tardi (tra il 1518 e 1521, nelle Operationes in Psalmos) di commento al Sal. 5, nel quale si legge: "Questo percorso è definito dai teologi come un inoltrarsi nelle tenebre, un ascendere oltre l'ente e il non ente. In verità, non so se essi comprendano se stessi, se attribuiscano questo [percorso] ad atti volontari e liberi piuttosto che alla croce, e pensino di sostituire il dolore della morte e dell'inferno. Ma la Croce è la nostra unica teologia."5

Come emerge chiaramente da questo brano, il riformatore diffidava molto della possibilità di un'ascesi (quale appunto quella prospettata da Dionigi) che giungesse fino alla conoscenza della natura oscura di Dio.

Una tale diffidenza inoltre era dovuta anche al fatto che - data la sua natura mistico-intellettuale - tale esperienza poteva facilmente sostituire, tra le pratiche religiose, quella carnale e umana della passione di Cristo e della Croce.

Questo ci fa capire come il discorso sulle tenebrae o sulla caligo, proprio dello Pseudo-Dionigi, venisse in realtà ripreso al fine di rafforzare la distanza tra le due dimensioni - anziché (come avveniva, appunto, nella teologia dello Pseudo- Dionigi) come base di un percorso individuale finalizzato alla riunificazione umana con la trascendenza.

Ma attraverso tale idea egli chiariva anche un altro aspetto fondamentale della propria visione: quello secondo cui non solo per i non credenti Dio rimanesse totalmente oscuro, ma anche per i fedeli.

Ad essi non restava infatti che di vivere semplicemente 'al riparo di Dio', vale a dire sotto la sua ala protettrice 5, come mostra ad esempio un passo del commento a Rom. in cui si legge: "Oggi esistono molti che (...) una volta ricevuta la fede attraverso il battesimo, ancora vogliono piacere a Dio con la propria persona, senza bisogno di Cristo: invece sono necessari l'uno e l'altro, cioè avere fede e possedere insieme e per sempre il Cristo come mediatore di tale fede. Dice il Sal. 90: 'Chi abita al riparo dell'Altissimo, rimarrà nella protezione del Dio del cielo': in questo caso la fede costituisce l'abitacolo, e Cristo dà la protezione e l'aiuto." Cristo e la fede si ponevano, quindi, come un riparo o una protezione dalla natura insostenibile per l'uomo del divino, e i credenti stessi vivevano perciò all'ombra della divinità (in umbraculo), anziché nella sua luce.

E più avanti, ancora nello stesso paragrafo, Lutero scriveva: "Qui [Paolo, Ad Rom. 5,2] vengono toccati [nel senso di 'punzecchiati' o colpiti] coloro che secondo la teologia mistica si sforzano di penetrare nelle tenebre interiori, escludendo le immagini della passione di Cristo". L'idea del rapporto negativo con la divinità si traduceva perciò in quella di un rapporto positivo con la sua rivelazione.6

Ciò che dunque Lutero rifiutò della teologia di Dionigi, fu essenzialmente l'idea di una possibile riunificazione dell'uomo a Dio, oltre a quella (che ad essa era connessa) dell'affermazione della libera volontà umana.

Egli d'altra parte manteneva comunque, nel proprio pensiero, l'aspetto negativo (apofatico) della teologia dello Pseudo-Dionigi, eliminandone ovviamente le implicazioni mistiche ed ascetiche.

Tuttavia, nonostante il debito contratto con questo autore, il giudizio che Lutero diede su di lui (quantomeno nella fase già matura della sua opera) fu nettamente negativo, come si legge infatti nella Cattività Babilonese (1520), laddove dice: "Dionigi è il più pernicioso; egli platonizza, più che cristianizzare: non vorrei che il credente perdesse tempo con le sue elucubrazioni."7

b' - la teologia mistica di Bernardo di Chiaravalle:

Il termine 'mistica romanica' viene qui adoperato in riferimento a tutta una serie di autori che si possono far rientrare pienamente nella categoria della mistica medievale occidentale.

Citando Heiko A. Oberman (che a sua volta si rifà ad uno studio di Vogelsang) si potrebbe dire che Lutero "della mistica romanica elogiò l'accentuazione del Cristo incarnato e la considerazione della mistica come esperienza, e non come dottrina [ossia della mistica non speculativa]; rimproverò invece ad essa la mancata considerazione delle tentazioni spirituali, nonché la mistica erotica e l'obbiettivo di un'unione mistico-estatica con il verbo non creato".8
Il pensiero della tradizione romanica quindi, nonostante fosse prevalentemente di natura umile od affettiva, non coincideva ugualmente su molti punti con quello del giovane Lutero, che era invece più di matrice tedesca o renana (come si mostrerà più avanti).

L'influsso, in ogni caso, che Lutero ricevette da questa corrente fu decisamente più consistente di quello ricevuto dallo Pseudo-Dionigi.

Gli autori che presumibilmente egli conobbe in modo diretto, all'interno di essa, furono: Ugo e Riccardo da San Vittore, S. Bonaventura, Jean Gerson, Bernardo di Chiaravalle.9 Tra essi, inoltre, quelli che lasciarono un segno più profondo su di lui furono gli ultimi due, e di essi in special modo il secondo.

L'influsso di Bernardo di Chiaravalle e di Gerson (il quale si considerava il discepolo e il continuatore del pensiero di Bernardo 10), non venne mai dimenticato o misconosciuto dal riformatore, che non a caso li ricordò anche in tarda età.

Ciò che Lutero riprese del pensiero di Bernardo, fu essenzialmente l'aspetto di avversione e di rifiuto verso la dialettica - in quanto implicante l'idea di un rapporto col divino strutturato 'razionalmente' -, assieme alla considerazione della centralità della Croce: vale a dire del valore dell'humilitas e della conoscenza di sé (s'intende chiaramente, non per come noi crediamo naturalmente di conoscerci, ma per come lo facciamo attraverso la fede, cioè come Dio stesso ci conosce: peccatori).

Assieme a questi due, egli riprese anche il tema della Grazia che Dio impartisce agli umiliati e agli afflitti, e quello della meditazione sulle ferite di Cristo, intesa come la dimensione propria dell'esistenza del cristiano.

Della teologia mistica di Bernardo di Chiaravalle, Lutero raccolse dunque nel corso dei suoi studi (soprattutto di quelli da lui svolti in giovane età, quando lesse ad esempio il suo commento al Cantico dei cantici) essenzialmente gli aspetti penitenziali ed una certa avversione o diffidenza di fondo verso l'alta mistica.

La somiglianza poi tra questi due pensatori, riguardo ad alcuni punti di vista personali, fu tale che Lutero (in un'opera del 1519, dedicata appunto alla meditazione sulla passione di Cristo) citò Bernardo come "l'esempio di un uomo che fece esattamente ciò che lui stesso aveva raccomandato di fare: ovvero che intese l'esperienza della passione di Cristo da parte del fedele, come il ricordo delle colpe da lui accumulate verso Cristo e, in tal modo, anche del giudizio che pendeva sulla propria persona".11

Il punto centrale della visione del mistico francese stava - non a caso - nell'idea che ogni cristiano dovesse prendere atto, prima di tutto, che Cristo non era morto per l'umanità in genere ma proprio per le sue colpe particolari, e inoltre che la Chiesa e i suoi singoli membri dovevano conformarsi non alla Maestà di Cristo, ma piuttosto alla sua umiltà e alla sua mitezza.

Il discorso di Bernardo tornava così all'idea dell'impossibilità per l'uomo di conoscere il vero volto di Dio già in questa vita, e alla necessità quindi di fermarsi semplicemente alla sua 'immagine' o al suo 'dorso' (come scrive nel suo articolo G. S. Tomlin: "the 'back' of God" [Es. 33.22-33]): ovvero alla sua sofferenza e alla sua umiltà. La somiglianza tra questi due autori, insomma, era tale da far quasi pensare, almeno su certi argomenti, ad una ripresa del primo da parte del secondo.12

Solo su un tema, che fu centrale peraltro nella polemica che il riformatore sostenne contro i teologi cattolici, questi si discostò nettamente dal suo maestro: vale a dire su quello della possibilità di una cooperazione tra uomo e Dio nell'ascesi di fede.

Il motivo infine della familiarità del nostro autore con il pensiero e con la spiritualità di Bernardo di Chiaravalle, fu inoltre essenzialmente la popolarità di cui quest'ultimo godé all'interno di vari contesti, sia religiosi che culturali, del tardo Medievo (Lutero difatti potrebbe averlo studiato tanto in monastero, quanto nel corso della lettura universitaria della Canonis Misse expositio di G. Biel).13

Ma se è un fatto accertato che del pensiero di S. Bernardo Lutero accolse nella propria teologia l'aspetto - in entrambe fondamentale - di humilitas, non si può dire per questa ragione che, da parte degli altri autori della tradizione romanica, egli avesse subito un'influenza altrettanto significativa.

Soltanto nei confronti di Jean Gerson infatti, egli nutrì una considerazione simile a quella che ebbe per Bernardo di Chiaravalle: e ciò anche per la vicinanza di questo secondo mistico ad alcuni temi spirituali da lui largamente condivisi.

Come ci ricorda Oberman (nel passo già citato in apertura di paragrafo), nella mistica pienamente cattolica - anche laddove non vi era un'eccessiva insistenza sull'unione dell'uomo col Verbo increato, come appunto in Bernardo di Chiaravalle - non era comunque presente una sufficiente considerazione per le tentazioni spirituali.14 Tale considerazione all'opposto, si affacciava sia in Gerson (di cui il riformatore aveva affermato che era "l'unico ad aver scritto sulle tentazioni spirituali"), sia - come si vedrà qui avanti - negli autori renani più tardi. Era proprio quest'ultimo argomento, infatti, a costituire uno dei principali motivi di separazione tra Lutero e la mistica romanica.

b) la mistica tedesca:

Nel folto gruppo di correnti mistiche delle quali venne a conoscenza, quella che senza dubbio il riformatore sentì più vicina a sé fu la corrente dei Renani.

Oltre che a motivi di natura squisitamente 'nazionalistica', una tale preferenza era dovuta alla forte affinità di fondo che egli avvertiva nei confronti delle idee della loro scuola teologica. Non a caso infatti, Giuseppe Faggin, nel libro che dedicò a questi autori (Meister Eckhart e la mistica tedesca protestante), ne parlò collocandoli in un ambito già pre-luterano.

Non è certo se il riformatore avesse letto direttamente gli scritti di Eckhart (né tantomeno degli autori che lo precederono), ma è sicuro che egli conobbe due autori posteriori: Taulero (si conservano infatti le glosse che Lutero scrisse alla sua opera) ed il Francofortese (un anonimo cavaliere Teutonico della fine del XIV sec., di cui rimane un libro che ebbe un ruolo determinante nella sua formazione, considerato da lui come espressione esemplare della spiritualità tedesca come tale).

Entrambi erano in ogni caso discepoli e continuatori della mistica eckhartiana, anche se mescolavano la lezione del loro maestro con quelle tendenze all'abbassamento della mistica (di cui si è parlato all'inizio del presente capitolo), che si erano ampiamente diffuse nella cultura del tardo Medioevo. Scrive difatti Giuseppe Faggin, nel saggio sopra citato, che "dopo Eckhart il misticismo speculativo discese dalle vette dell'astrazione e si adeguò sempre più alle esigenze della vita morale e religiosa, o si dissolse nell'intensità del sentimento".15

Nonostante questo ridimensionamento delle audacie speculative di Eckhart nella teologia mistica, i temi fondamentali del suo pensiero rimasero inalterati anche presso i discepoli "come interna ossatura di una teoria della salvezza".16

E' possibile dunque scomporre tale influenza in tre punti differenti, e strettamente connessi fra loro: l'idea di passio, ovvero del dover 'patire' la nascita di Dio nella propria interiorità, annullandosi totalmente; l'idea della resignatio ad infernum e quella della vicinanza della disperazione e del dolore (prope desperatio), che implicavano un'assoluta adesione dell'uomo alla volontà divina, oltre che l'immanenza del peccato e della disperazione nella sua dimensione.

La mistica renana introduceva allora un elemento nuovo (o che quantomeno non era mai stato asserito prima così esplicitamente) all'interno della spiritualità cristiana. Tale era, precisamente, l'idea dell'annullamento totale di sé.

A testimonianza dell'importanza di una tale componente all'interno della corrente mistica dei Renani, si può leggere ad esempio l'inizio della Teologia tedesca, ove (non a caso) si trova una citazione da San Paolo: "Quando giunge il perfetto, si getta via l'imperfetto e il frammentario", e che prosegue poco più avanti spiegando la caduta d'Adamo come segue: "Si dice che Adamo sia caduto e andato in perdizione per aver mangiato la mela. Ma io dico che ciò avvenne per il suo attribuirsi, per il suo 'io' e 'me' e simili. Se avesse mangiato anche sette mele ma non vi fosse stata appropriazione, non sarebbe caduto."

E' dunque l'egoità in questa visione - ovvero la resistenza del sé - a costituire il vero impedimento alla salvezza. Si legge infatti di seguito: "In questa restituzione e rimedio [di Dio] non posso o non devo fare assolutamente nulla, se non un puro patire, in modo che Dio soltanto agisca ed operi, ed io subisca lui, la sua opera e il suo volere."17

Le implicazioni di questo rinnegamento da parte dell'individuo della propria volontà personale, consistevano essenzialmente nelle idee espresse negli altri due punti: da una parte cioè nella rassegnazione dell'individuo a qualsiasi decisione divina (resignatio ad infernum), e dall'altra nella lotta continua (prope desperatio) di quest'ultimo contro il 'sé', ovvero contro l'egoità, la cui manifestazione risieeva appunto nelle tentazioni.

Queste ultime, dunque, assumevano un significato non più soltanto carnale - ossia di semplice ostacolo al raggiungimento della santità -, diventando il segno della perdurante peccaminosità dell'uomo, e quindi della costante necessità di 'superarsi' o di trascendersi, per 'fare posto' a Dio.

A proposito dell'importanza delle tentazioni nella vita spirituale del cristiano, Lutero diceva infatti, in un suo discorso a tavola del 1531: "se Dio odiasse i peccatori, non avrebbe certo mandato suo figlio per loro. Odia soltanto quelli che non vogliono essere giustificati, coloro che non vogliono essere peccatori. Tentazioni come queste [e le tentazioni in generale] ci giovano moltissimo e non sono, come sembrano, perdizione, ma insegnamento, ed ogni cristiano rifletterà che senza le tentazioni, non può conoscere Cristo. (...) Coloro che come noi provano tali tentazioni, devono abituarsi a sopportarle, perché questo è il vero cristianesimo. Se Satana non mi avesse tanto perseguitato, io non avrei saputo essere tanto nemico a lui, né (...) fargli tanto danno. (...)"18

Riguardo poi all'idea di passio (e a quella connessa del rinnegamento di sé), un tale aspetto della teologia dei Renani potrebbe essere visto anche come una prima formulazione del concetto luterano di humilitas.

Quest'idea di passio (ovvero della totale passività dell'uomo coram Deo), che era largamente presente nella teologia renana, implicava che - per rinascere - l'uomo dovesse prima di tutto morire a se stesso: e non nel senso di un perfezionamento o di un pentimento, ma in quello più radicale di annullarsi totalmente.

A testimonianza del legame tra Lutero ed i Renani, e in particolare Taulero, su quest'ultimo tema dell'essere salvati - ma, secondo Lutero, solo per opera di Dio - dal rinnegamento di se stessi, si può leggere lo scolio 229 del Commento a Rom., laddove egli dice: "come Dio solo è in se stesso veritiero, giusto e potente, così vuole essere anche fuori di sé, e dunque in noi, per venire glorificato. (...) Allo stesso modo Dio vuole che come l'uomo, al di fuori (cioè alla presenza di Dio), è bugiardo, ingiusto, debole, tale diventi anche dentro di sé, e quindi si confessi e si riconosca qual è davvero. Così Dio, con il suo uscire (diciamo così), ci fa entrare in noi stessi e mediante la conoscenza di sé ci comunica quella di noi stessi. Poiché se Dio per primo non uscisse per diventare veritiero in noi, noi non potremmo entrare in noi stessi e riconoscerci bugiardi e ingiusti."19

Era quindi secondo lui una decisione esclusivamente divina quella per cui l'uomo riceveva, attraverso il rinnegamento di se stesso, la conoscenza della propria natura e quella della giustizia di Dio.

Tuttavia, tra i due punti di vista, sussisteva anche una profonda differenza. Nonostante infatti la presenza del tema dell'annullamento di sé nella visione di Taulero, quest'ultimo continuava (seguendo il classico discorso cattolico sulla Grazia) a confidare nella capacità umana di preparare l'azione divina in se stessi: cosa che ovviamente entrava nettamente in contrasto con la visione del riformatore, secondo il quale tale processo era dovuto esclusivamente alla Grazia divina.

Scrive a riguardo il Faggin, che "Taulero è ben lontano dall'affermare l'assoluta passività umana di fronte a Dio; la nudità che egli esalta [quella dell'anima umile] dev'essere conquistata dall'uomo con un eroico distacco da tutto ciò che è personale e finito; il Gëmute [l'impulso naturale verso il Bene o verso Dio] deve trasformarsi da vago impulso in coscienza perfetta del fine."20

Come accadeva dunque anche nei confronti degli autori precedentemente considerati, la negazione radicale del libero arbitrio umano costituiva (pure nei confronti di Taulero) un elemento di separazione radicale!

Passando al tema eckhartiano della resignatio ad infernum, ovvero della 'rassegnazione all'inferno' (nel caso che Dio così avesse deciso per l'anima), come manifestazione di una fede dell'individuo sincera e spassionata in Dio, anche quest'ultimo era un argomento che si ritrovava in Lutero.

Sempre nel Commento a Rom. (9,3) infatti, si legge: "Sono le persone che si offrono di compiere la volontà di Dio tutta intera, fosse anche di andare all'inferno e alla morte eterna, purchè Dio lo voglia e il suo disegno si compia fino in fondo: loro davvero non cercano il proprio interesse. Bisogna dire però che, se si conformano con tanta purezza al volere di Dio, è impossibile che nell'inferno ci restino".21

A questo tipo di fedeli egli contrappone, poco dopo, coloro che invece "amano Dio per amore di concupiscenza, ovvero per la loro pace e per sfuggire all'inferno": coloro cioè che lo amano per i propri fini (partendo dall'idea che la carità debba essere ordinata, e che si debba partire da se stessi).

Bisogna notare tuttavia che quest'ultimo tema finiva per assumere anche un risvolto differente all'interno del pensiero di Lutero. Secondo il suo discorso infatti, la salvezza era ottenuta essenzialmente attraverso la certezza della propria dannazione, e non attraverso la rassegnazione alla possibilità di essa.

In ogni caso, l'apporto dato dal riformatore a questo concetto non fu di particolare rilevanza: entrambe le visioni, infatti, ponevano essenzialmente l'accento sull'accettazione della propria miseria - anziché sulla possibilità di trascenderla.

Un ultimo elemento infine, che accomunava questi diversi indirizzi teologici, era la considerazione, come abbiamo già visto, dell'importanza delle tentazioni (prope desperatio) nella vita di fede.

Mentre l'orientamento classico tendeva a mettere in secondo piano, nella vita di fede, la lotta dell'anima contro le tentazioni (e, di conseguenza, anche a soffermarsi maggiormente sull'aspetto successivo: l'ottenimento del perdono e la purificazione dal peccato), i mistici renani al contrario - soprattutto quelli più tardi - valorizzavano maggiormente il momento della ricerca attiva della purezza.

Come scrive Giuseppe Faggin, parlando di Taulero: "l'al di là è [da lui] invocato ad integrare un'umanità non ancora satura di divino e a riconfermare l'infermità della nostra natura. Questo richiamo, in un misticismo come quello eckhartiano, tutto rivolto a esaltare l'autosufficienza della vita divinizzata, avrebbe l'aspetto di un semplice ossequio esteriore ad un dogma; non in Taulero o nella Teologia tedesca, ove il fondamentale teocentrismo dell'Eckhart perde un po' alla volta del suo luminoso ottimismo e accoglie in sé con sempre maggiore comprensione le istanze del male, del dolore, dell'errore, giungendo a proclamare la necessità e la divinità delle interiori angoscie del giusto."22

Il motivo della presenza costante del peccato, e quindi anche della vicinanza della disperazione, del dover essere cioè sempre in stato d'allerta nei confronti delle tentazioni (ovvero pronti a contrastarle), si fa così sempre più pressante come motivo teologico negli sviluppi del pensiero renano, soprattutto dopo Eckhart.

E infatti da una concezione meramente unologica come quella di quest'ultimo, che implicava l'assorbimento dell'individuo nell'abisso della Deità (ovvero in quell'Uno assoluto, che precede le stesse Persone divine), seppure per il tramite di Cristo 23, si passò al contrario nella fase più avanzata del pensiero renano ad una maggiore attenzione verso il tema della lotta contro il peccato, ovvero contro le tentazioni sempre in agguato.

Il nostro autore, inoltre, appariva molto più propenso a prendere atto della presenza di questo tema di prope desperatio, che non di quelle componenti di 'alta mistica' che pure permanevano nei pensatori tedeschi (nonostante, come si è visto, tali componenti avessero subito un notevole ridimensionamento negli autori più tardi). Ciò essenzialmente (come si è già mostrato in precedenza) a causa del tipo di lettura che ancora studente aveva fatto di questi autori: il contesto culturale scolastico in cui era avvenuta la sua formazione aveva infatti profondamente influenzato il suo approccio ad essi.

Possiamo concludere questo discorso, con un giudizio dato da Lutero in merito ai propri predecessori ed ispiratori renani (ed in particolare all'Anonimo Francofortese). Al termine della prefazione del 1518 dell'edizione della Teologia tedesca, si legge infatti: " Troveremo così che i teologi tedeschi sono senza dubbio i teologi migliori. AMEN. "

Note

1 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.42: "Erich Vogelsan ha distinto in base a un elenco di autori mistici (presumibilmente) noti a Lutero - Dionigi l'aeropagita, Ugo e Riccardo di San Vittore, Bernardo, Bonaventura, Gerson, Brigida di Svezia, Tauler, il 'Francofortese' - tra 'mistica aeropagitica', 'mistica romanica' e 'mistica tedesca'."
2 Su questo argomento del rapporto del riformatore con il pensiero di Agostino, si legga tutta l'introduzione di Giancarlo Pani a: M. Lutero, Lezioni sull'epistola ai Romani, ed. cit.
3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.47.
4 H. A. Oberman, op. cit., p.44. La versione latina recita: Namque sicut affirmativa de Deo est via imperfecta, tam intelligendo quam loquendo: ita negativa est perfectissima. Unde in Dionisio frequens verbum est 'Hyper', quia super omnem cogitatum oportet simpliciter in caliginem intrare.
5 Ivi, p.45: Versione latina: Hunc ductum theologi mystici vocant in tenebras ire, ascendere super ens et non ens. Verum nescio an seipsos intellegant, si id actibus elicitis tribuunt et non potius crucis, mortis infernique passiones significari credunt. Crux sola est nostra theologia. - Sul vivere in umbraculo, ovvero al riparo di Dio: cfr. H. A. Oberamn, op. cit., pag.44-47.
6 M. Lutero, Comm. ad Rom., ed. cit., p.228-229, scolio n.299.
7 M. Lutero, Scritti politici, ed. cit., p.330; cfr., inoltre, Franz Posset: 'Deificatio' in the German Spirituality of the Late Middle Ages and in Luther: An Ecumenical Historical Perspective, in: Archiv fur Reformationgeschichte, 1993, n.84, p.110. - Sugli influssi positivi dello Pseudo-Dionigi sul pensiero di Lutero, vedi invece H. A. Oberman, op. cit., pag. 43 ss.
8 Ivi, p.42.
9 Cfr. infra, p.80, n.1.
10 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.48.
11 Cfr. G. S. Tomlin, op. cit., p.32: "Towars the end of the work, he cites Bernard as an example of one who did exactly as he is reccomanding, namely allowing the passion to remind him of the effect of his sins upon Christ, and thus the judgment hanging over him."
12 Riguardo al discorso complessivo sull'influenza del pensiero di Bernardo su Lutero, cfr. G. S. Tomlin, op. cit., pag. 31-37, III: Luther and Bernard of Clairvaux.
13 Ivi, p.35: "The human soul is able to collaborate with God in this work (...)"
14 Cfr. H. A. Oberman, op.cit., p.52.
15 Cfr. G. Faggin, op. cit., p.293. - Per avere un'idea della natura speculativa del pensiero mistico di Meister Eckhart, si può leggere il volume di A. De Libera, Introduzione alla mistica renana, Milano, Jaka Book 1994, p.184, dove si parla della Pr 77: ""Io" [...] vuol dire che non esiste distinzione tra Dio e tutte le cose, perché Dio è in tutte le cose; egli è rispetto ad esse più interno di quanto esse non lo siano a se stesse. Semplicemente "Io" significa prima di tutto per lui quello spazio che è più interno a Dio di quanto egli non lo sia a se stesso, quando l'Uno apparso nel supposito del Padre è messo in Immagine nel Verbo eterno. In altre parole in quanto nome dell'essere-Lui stesso, "Io" designa "la nuda purezza dell'Essere di Dio che è in se stesso". / "Io" è dunque per l'uomo la designazione di ciò verso cui deve andare, non solo 'spogliandosi' lui stesso di tutto, ma anche spogliando Dio di tutti i veli che lo ricoprono: divenire "Io" nella conversione è il solo scopo della conversione: "Tu devi totalmente staccarti dal tuo essere-tu e fonderti nel suo essere-Lui (...) così da poter tu comprendere eternamente con Lui il suo essere originario increato e il suo nulla senza nome".
Il fine della mistica eckhartiana era, dunque, una conversione totale dell''io' soggettivo nell''Io' Assoluto, ovvero nella stessa Deità (cioè in quello spazio che "è più interno a Dio di quanto egli [Dio] non lo sia a se stesso (...)", ovvero più interiore della sua stessa natura trinitaria.)
16 G. Faggin, op. cit., p.293. - Le idee fondamentali della teologia di Eckhart erano: a) l'idea della 'scintilla' dell'anima o vunkelin (versione eckhartiana della 'sinderesi' di Alberto Magno), ossia il luogo dell'anima "ove Dio vive solo" e attraverso cui l'uomo, vivendo in se stesso può "ritornare ad essere l'immagine [di Dio] e così perdersi nella Deità" (A. De Libera, op. cit., p.192); b) l'idea della lotta del cristiano (homo viator) per il raggiungimento della perfezione e per la conversione attraverso il Cristo. ("Fissandosi in se stesso, l'uomo esteriore [corpo e anima] fa dunque uscire l'uomo interiore [lo spirito] dal Fondo dell'Unità, lo obbliga a estrinsecarsi nel pensiero esteriore, costringe l''Io' [Dio] a dichiararsi nella finzione dell''io' [l'individualità empirica]. (...) L'anima e il corpo devono rendersi perfetti nell'essere personale di Cristo, esso stesso uno di sostanza con l'essere sostanziale della Deità, perché è tramite Cristo che lo spirito può fissarsi in Dio": A. De Libera, op. cit., p.198).
Questi temi: la conversione e la 'sinderesi' (che in Taulero si chiama Gëmute), rimangono invariati nello sviluppo del pensiero dei discepoli eckhartiani. Un cambiamento, invece, avviene sul piano della concezione dell'esperienza mistica.
Per Eckhart quest'ultima è "ontologica e non psicologica o, a fortiori, affettiva. Essa non è ad alcun livello radicata in una teoria del soggetto." In altri termini, l'esperienza mistica non è vista come interna al soggetto (e quindi di natura affettiva), ma è oltre il soggetto stesso - poiché con essa questo si annulla completamente: "L'Immagine [ovvero l'anima come Immagine della Deità] si scopre come Immagine, l'anima non vive più della sua propria vita, essa è tutt'intera nascosta nel suo essere Immagine": ciò significa che non è Dio ad essere nell'anima, poichè "nell'unione è Dio stesso che trova in se stesso il luogo della sua operazione sull'anima" (De Libera, op. cit., pp.186-191). Quest'ultimo aspetto, oggettivo, che comporta la "conversione all'interiorità transpersonale dell'Essere" (De Libera, p.184), verrà attenuato - come si vedrà più avanti - nella visione dei suoi discepoli, i quali rafforzeranno le componenti affettive e carnali del discorso eckhartiano, ponendo in secondo piano (ma non eliminando) quelle più alte.
17 Anonimo Francofortese, Libretto della vita perfetta, Roma, Newton-Compton 1994, pp.25-26.
18 Martin Lutero, Discorsi a tavola, ed. cit., pp.34-35.
19 M. Lutero, Commento all'epistola ai Romani, ed. cit., p.158.
20 G. Faggin, op. cit., p.306.
21 M. Lutero, Commento a Rom., ed. cit., p.137.
22 G. Faggin, op. cit., p.305.
23 Cfr. Alain De Libera, Introduzione alla mistica renana, ed. cit.: si veda il capitolo su Meister Eckhart, in particolare a p.194: "Questa scintilla rifiuta tutte le creature e non vuole se non Dio nella sua nudità, qual è in se stesso. Non le bastano (...) le tre Persone nella misura in cui restano nella loro singolarità."

Adriano Torricelli


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Aggiornamento: 09/01/2013