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STORIOGRAFIA AMERICANA
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La situazione negli studi storici americani durante la transizione all'imperialismo e alla
"Progressive Era" (fine 800 e prima decade del XX sec.)
vedeva gli storici di professione cominciare a prendere il posto dei
dilettanti e le tecniche di ricerca diventare sempre più perfezionate.
Nel 1884 si fondò l'American Historical Association e nel 1885 uscì il primo numero dell'American Historicol Review. L'approccio critico nei confronti del passato divenne un'esigenza comune: ne furono coinvolte discipline e scienze come il positivismo, diverse branche delle scienze naturali e, per certi versi, il marxismo. Il trend economico-progressista di studiosi cone F. J. Turner, C. Beard, C. Becker e V. Parrington dominava la scena. |
Che rapporti c'erano fra questi processi e l'evoluzione della storiografia della politica estera? Esisteva allora la cosiddetta "storia diplomatica", un settore degli studi storici completamente a se stante.
Mentre nel XIX sec. le opinioni sulla diplomazia americana dipendevano da argomenti di carattere generale, relativi alla storici degli Usa (si pensi alle opere di G. Bancroft, R. Hildreth e J. B. McMaster), con l'inizio del XX sec. invece, uscirono diversi studi specializzati sulla storia della politica estera, da parte di J. W. Foster, A. B. Hart, J. B. Moore, C. R. Fish e altri.
L'ingresso degli Stati Uniti sulla scena internazionale aveva stimolato l'interesse collettivo per le relazioni mondiali. Le maggiori università introdussero corsi monografici di politica estera, tenuti do famosi storici come il suddetto Hart e E. Channing ad Harvard, Turner e Fish nel Wisconsin.
Più tardi, negli anni '20, la prima opera a più tomi sui Segretariati di stato e la loro diplomazia apparve nelle edizioni del giovane S. F. Bemis.
Il carattere apologetico a favore dell'espansionismo americano cominciò a caratterizzare i lavori degli storici diplomatici professionisti dall'inizio del XX sec. in avanti. Unanimemente essi giustificavano la Monroe Doctrine, la politica-diplomatica del dollaro nei confronti del Sudamerica (si pensi alla guerra con la Spagna nel 1898), la politica delle "porte aperte" nel Far East, l'occupazione di Cuba, la "rivoluzione" di Panama e altri non meno evidenti atti aggressivi americani.
Ai seguaci di Turner sembrava completamente naturale che il processo di espansione coloniale del loro paese fosse culminato coll'avanzamento della frontiera americana verso l'oceano Pacifico, il Far East e le Filippine, senza parlare dei paesi dei Caraibi.
Si era insomma convinti, in buona o cattiva fede qui non importa, che fossero appunto i paesi conquistati a beneficiare dell'influenza commerciale americana (vedi soprattutto le opere di J. M. Callahan e J. H. Latanè).
Possono essere considerati "progressisti" storici di tal genere? Il fatto è che a quell'epoca le esigenze dell'espansione e della riforma erano essenzialmente due facce della stesso medaglia. T. Roosevelt e W. Wilson furono per il loro paese dei riformatori borghesi (perché criticavano il passato), ma erano anche apertamente sostenitori della politica estera espansionista.
Non è quindi strano, ad es., che la teoria della frontiera di Turner influenzasse sia le idee espansioniste a lui contemporanee che il riformismo di Roosevelt. Bisogna infatti considerare che ci furono molti studenti di Turner fra i maggiori storici diplomatici d'America (ad es. Bemis, F. Merk e A. F. Whitaker).
Il credo espansionista della Progressive School fu definitivamente confermato da A. Darling. Stando all'opinione di questo studente e seguace di Turner, l'espansione americana fu dura e spietato, ma essa "diffuse la libertà" e, in ultima istanza, fu un evento "positivo".
L'apologia dell'espansionismo fu Ia principale ma non unica caratteristica della storia diplomatica del periodo progressista. Lo spirito critico di quel tempo non poteva non promuovere più alti livelli della ricerco scientifica e portare alla comparsa di un certo numero di opere che rivedevano le idee convenzionali sulla storia degli Stati Uniti e su taluni aspetti della politica estera.
Significativamente, la vecchia concezione della guerra del 1812 fra lnghilterra e Usa come di una lotta per difendere i diritti marittimi di quest'ultimi e l'onore nazionale, fu riconsiderata da H. Lewis, D. R. Anderson, L. M. Hacker e soprattutto da J. W. Pratt. Fu proprio Pratt che con più coerenza mostrò come venne giocato un ruolo decisivo dai piani espansionistici che gli ambienti governativi d'America avevano nei confronti della Florido e del Canada.
Col passare del tempo apparvero altre serie ricerche, in cui le idee espansioniste e nazionaliste venivano biasimate (si pensi alla monografia di A. K. Weinberg sulle relazioni fra Usa e tribù indiane). E. Tatum fu il primo che ritenne Io Monroe Doctrine diretta essenzialmente contro l'England. Whitaker analizzò la lotta dei popoli sudamericani per l'indipendenza. L'elenco potrebbe continuare, poiché negli anni '20 e '30 gli studi furono assai numerosi e molti di rilievo.
la fine della II guerra mondiale segnò invece una svolta negativa nello studio della storia degli Usa. Per almeno 15 anni ogni sorta di idee liberali, per non parlare di quelle radicali, furono guardate con sospetto e perseguitate (si pensi al maccartismo e alla guerra fredda).
Naturalmente la pesante atmosfera neoconservatrice si rifletteva sul modo d'intendere i problemi della politica estera. Una delle ragioni di questo stava nel fatto che i principali artefici del "consenso" negli studi storici, D. Boorstin, L. Hartz e R. Hofstadter, non erano competenti in materia di affari esteri. E, d'altro conto, i maggiori storici diplomatici come Bemis e Pratt, T. A. Bailey e D. Perkins, rimasero attivi anche dopo la II guerra mondiale.
Tuttavia, se fino alla guerra le loro opere continuarono a riflettere le idee progressiste degli anni '20 e '30 (chi più come Pratt, chi meno come Perkins), durante la seconda metà del Novecento tali autori assunsero posizioni più conservatrici. Gli accenti antibritannici di Bemis, per quanto riguarda gli affari esteri, si affievolirono notevolmente, e Perkins cominciò a enfatizzare le divergenze ideologiche fra Usa e Urss. Come i loro colleghi più giovani (vedi ad es. R. W. Leopold e A. De Conde, essi erano unanimi nella valutazione della "minaccia sovietica": Bemis arrivò addirittura a paragonare Yalta con Monaco!
Unanime era anche il giudizio sulla politica estera americana post-bellica. Furono molti gli storici della diplomazia che a partire dagli anni '50 fino alla prima metà degli anni '60 difesero a spada tratta la guerra fredda, la dottrina Truman, il piano Marshall e l'antisovietismo: si pensi a J. Spanier, J. Lukacs, D. Donnelly, W. H. McNeil, H. Feis, A. Schlesinger jr. ecc.
Curiosa è stata la metamorfosi accaduta dopo il 1945 fra i membri dell'estrema destra. Fino ollo scoppio della guerra essi erano su posizioni rigidamente isolazioniste. Negli anni '50 invece divennero accesi interventisti e sostenitori di una crociata globale contro il comunismo. Dopo la guerra, W. H. Chamberlin, che aveva approvato il patto di Monaco dei 1938, affermò che se l'Inghilterra e la Francia avessero mostrato la necessaria fermezza, la Germania e l'Urss si sarebbero distrutte a vicenda. E' sintomatico che Chamberlin dedicasse il suo nuovo libro a J. F. Dulles, guerrafondaio patentato.
Tesi ultraconservatrici le troviamo anche nelle opere di J. Burnham, R. H. Hupè e S. Possony, per i quali persino le posizioni di Truman e D. Acheson risultavano moderate.
Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di "interesse nazionale" e di "equilibrio delle forze". Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.
Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l'occasione di alludere ai valori dell'altra corrente. D'altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.
La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d'impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l'onore nazionale.
Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l'accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.
Il mutamento di clima si fece sentire anche sull'interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni '20 e '30 c'erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.
Tutto ciò però subì un'improvvisa sterzata alla fine degli anni '60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta "nuova sinistra". Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all'università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.
All'inizio degli anni '70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell'Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state "aggressive" (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).
Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna "minaccia sovietica", in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell'aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.
I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell'espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.
Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell'imperialismo. Egli sostenne anche che l'ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni '90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in "veste industriale" di quelle concezioni espansioniste in "veste agricola" che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.
Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l'interesse dell'America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all'inizio della loro indipendenza in occasione dell'esproprio delle terre.
Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l'opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull'Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell'espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.
Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni '70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla "sporca guerra" in Vietnam, sulla guerra fredda, sull'uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l'organizzazione dell'Associazione storica americana subirono una battuta d'arresto assai preoccupante.
La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni '50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della "Truman Administration".
Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull'Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l'idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l'Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l'uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).
Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d'influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l'appoggio degli Usa.
Per la nuova sintesi post-revisionista l'esistenza dell'impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch'essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.
Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l'influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.
Il loro scopo in pratico si riduce - come ha detto Lafeber - a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati - come vuole C. S. Maier - un "figlio bastardo" degli studi storici americani.