LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


CAPITALISMO E PROGRESSO TECNOLOGICO

Per introdurre il discorso sull'evoluzione tecnologica occidentale di questi ultimi 500 anni si potrebbe partire da una domanda di carattere generale, le cui risposte però possono portare in direzioni molto diverse.

I progressi tecnologici che hanno indotto gli uomini a vivere sempre meno sull'autosussistenza e sempre più sullo scambio delle merci, vanno considerati come uno sviluppo naturale, che prescinde dalle determinazioni specifiche del capitalismo, oppure dobbiamo considerare questi progressi come peculiari del capitalismo?

In altre parole, il capitalismo s'è innestato su qualcosa che già c'era o l'ha invece prodotto? Lo scambio infatti è sempre esistito, ma solo sotto il capitalismo è diventato preponderante. Va considerata "naturale" questa evoluzione delle cose?

Generalmente tutti gli equivoci risiedono nell'incomprensione della differenza tra i concetti di "necessità" e "inevitabilità". La storia dell'uomo è la storia della libertà, perché l'essere umano è l'unico essere vivente dotato di libertà di scelta. E' una "necessità" dell'uomo dover scegliere e fa parte della "inevitabilità delle cose" il fatto che determinate scelte abbiano, ad un certo punto, determinate conseguenze. Nessuna scelta rimane senza conseguenze e nessuna conseguenza è mai stata, almeno fino ad oggi, così grave da impedire alla specie umana di compiere una nuova scelta, diversa dalla precedente.

Sotto questo aspetto il capitalismo merita d'essere preso in esame perché per la prima volta nella storia gli uomini hanno voluto assegnare un primato assoluto a un aspetto che, nelle civiltà precedenti, era sempre stato considerato di secondaria importanza: quello cioè di attribuire allo scambio delle merci un'importanza infinitamente superiore alla produzione per l'autoconsumo.

Qual è stata la motivazione culturale che ha spinto gli uomini a compiere questa rivoluzione copernicana nel modo di vivere l'economia? Per quale motivo l'eccedenza è diventata così assolutamente prioritaria rispetto alla soddisfazione dei bisogni primari?

Il paradosso più incredibile del capitalismo è che proprio nel momento in cui il cittadino o il lavoratore potrebbe mettersi in proprio per non dipendere da nessuno e uscire definitivamente dal servaggio di memoria feudale, in virtù della libertà giuridica acquisita, ecco che subentra un nuovo processo di dipendenza, che lega il cittadino-lavoratore non tanto alla terra ma alla fabbrica e, più in generale, al mercato, che di fatto lo priva della libertà giuridica acquisita. L'operaio resta formalmente libero ma sostanzialmente è di nuovo schiavo.

Perché è potuto accadere che la rivendicazione di una forma di libertà personale e sociale si sia trasformata in una tragica illusione?

La prima ragione di questo risiede nella mancanza di una riforma agraria, che permettesse all'ex servo della gleba di diventare padrone di una porzione di terra coltivabile.

I contadini sono stati cacciati o indotti ad andar via dalle terre in cui prima vivevano: i più sono emigrati in cerca di fortuna verso le zone industrializzate, senza portarsi dietro alcunché. E le terre che loro lavoravano si sono trasformate in latifondi, in terre incolte, in pascoli o in possessi fondiari usati in maniera capitalistica (piantando p.es. monocolture la cui vendita era destinata al mercato, oppure edificandoci sopra strade, ponti, ferrovie... per il trasporto delle merci capitalistiche, ecc.).

Moltissime altre persone disoccupate sono andate a ingrossare le fila dell'amministrazione statale, degli apparati militari, delle compagini politiche o religiose; non poche persone hanno scelto la strada della resistenza armata (brigantaggio) o della criminalità più o meno organizzata.

Il lavoratore è stato espropriato dell'uso dei mezzi produttivi tradizionali: si è trovato libero ma poverissimo. Cioè non solo non aveva acquisito la proprietà dei mezzi che usava nel periodo del servaggio o della mezzadria, ma aveva addirittura perduto la facoltà di usarli.

Il capitalismo non sarebbe mai potuto nascere senza questa espropriazione iniziale, senza questa forma irrazionale di individualismo, fatta passare come l'affermazione di una libertà personale.

In secondo luogo, ma è "secondo" solo per esigenza espositiva, in quanto, nella realtà, fu contestuale al primo, si deve considerare la motivazione culturale che ha spinto gli uomini ad accettare più o meno consapevolmente l'evoluzione di questo sconvolgimento nello stile di vita.

E qui difficilmente si potrebbe prescindere da tutti quei fenomeni religiosi cosiddetti "ereticali" che, a partire dal Mille, minarono le consolidate tradizioni di potere delle gerarchie cattolico-romane, fino all'esplosione della riforma protestante.

Non si sarebbe stata alcuna evoluzione "naturale" verso il capitalismo se questa evoluzione non fosse stata culturalmente preparata, per mezzo millennio, da una revisione intellettuale del cristianesimo feudale di matrice latina che ad un certo punto prese la direzione di un neo-cristianesimo di matrice anglosassone.

Ecco perché una qualunque analisi del capitalismo non potrà mai ritenersi "scientifica" finché si limita ad affrontare gli aspetti economici, senza integrarli con quelli culturali. Non basta analizzare un fenomeno per poterlo capire, bisogna anche cercare di individuare le motivazioni culturali che possono averlo fatto sorgere in un certo luogo e tempo.

Certo, sarebbe stupido cercare dei nessi di causa-effetto tra i processi di ordine culturale e quelli di ordine economico, anche perché, di regola, i primi coinvolgono persone del tutto diverse da quelle coinvolte nei processi economici e non necessariamente i protagonisti culturali e sociali di questi fenomeni sono in contatto tra loro.

In ogni caso i suddetti nessi non sono mai immediati, in quanto i mutamenti di tipo culturale sono lenti, progressivi e devono necessariamente radicarsi nell'immaginario collettivo prima di indurre gli uomini a utilizzarli per giustificare i mutamenti della realtà economica e a pretendere mutamenti ancora più radicali.

Quando le motivazioni culturali sono sufficientemente chiare, è poi relativamente semplice rendersi conto, per uno storico, cioè per uno studioso che guarda le cose in retrospettiva, che gli sviluppi di tipo economico hanno una loro specifica ragione, cioè non sono determinati da circostanze fortuite o casuali, non dipendono dall'arbitrio di singoli individui, non sono frutto di una cieca necessità, ma fanno parte di una cultura caratterizzata da un percorso ambiguo, dove si susseguono, continuamente, istanze di liberazione e tradimenti, dove le scelte che si compiono vengono messe in discussione solo dopo che hanno sortito gli effetti più negativi, dove anche quando si fanno le scelte più sbagliate si pensa sempre vi sia la possibilità di tornare indietro e ricominciare da capo.

La storia tuttavia è proprio la conferma che, poste determinate opzioni di vita, raramente si è poi in grado di ripristinare la situazione originaria, a meno che gli uomini non lottino consapevolmente per una rivoluzione politica.

Nella genesi dei fenomeni è invisibile il nesso che lega i mutamenti culturali con quelli sociali.  Possono infatti esistere motivazioni profonde, di ordine psicologico o materiale, che inducono gli uomini a preferire un tipo di produzione economica rispetto a un'altra, ma, in ultima istanza, sono le motivazioni culturali, di cui il più delle volte si ha scarsa consapevolezza, che decidono il trionfo su larga scala di determinati metodi e mezzi produttivi.

E' solo la cultura che universalizza dei processi di natura economica, perché se questi processi, al loro apparire sono contrari alla mentalità dominante, agli usi e costumi consolidati per tradizione, non c'è modo di estenderli socialmente senza l'appoggio di un intervento culturale, più o meno diretto.

Un processo economico, una scoperta scientifica, una scelta tecnologica risultano "vincenti" soltanto quando la maggioranza della popolazione si è lasciata convincere dagli intellettuali della sua assoluta necessità o, se vogliamo, della sua compatibilità più o meno grande coi processi e le tecniche dominanti in un determinato momento storico.

La storia del capitalismo è quindi anche la storia delle idee che lo hanno culturalmente preparato, ne fossero o meno consapevoli gli intellettuali che le hanno elaborate. D'altra parte se gli uomini potessero sapere in anticipo dove potrebbe portarli lo sviluppo e l'applicazione pratica delle loro teorie, forse si preoccuperebbero di più a conservare la memoria del loro passato che non a puntare sul desiderio di vivere un futuro completamente diverso.

Tuttavia, anche questa è solo un'ipotesi, poiché non si possono porre confini all'esercizio della libertà umana.

* * *

La rivoluzione tecnologica, iniziata col capitalismo, non può essere considerata un evento neutrale, che sarebbe potuto accadere anche in assenza del primato concesso al capitale sul lavoro, o che, una volta posto, non avrebbe influito in maniera decisiva sullo sviluppo dello stesso capitalismo.

Prima del capitalismo sono esistite civiltà le cui classi dominanti ponevano l'interesse materiale (terre, schiavi, capitali commerciali) al di sopra di tutto, ma in assenza di una rivoluzione tecnologica si restava entro limiti ben definiti. Oggi invece si ha l'impressione che non esistano limiti.

La rivoluzione tecnologica ha cominciato ad affermarsi a partire dal XVI sec. e da allora non si è più fermata: è una componente essenziale del capitalismo.

Questo significa che un'alternativa al capitalismo non può non implicare un'alternativa anche alla tecnologia, cioè al suo attuale livello di complessità, di sofisticazione, di dipendenza dalle necessità di un sistema che di "umano" non ha nulla. Per dimostrare la superiorità del socialismo democratico non c'è bisogno di utilizzare la medesima tecnologia. E' assurdo pensare che l'impossibilità di poter padroneggiare con sicurezza l'odierna tecnologia sia comunque un segno di "progresso sociale e civile".

Tra l'altro i vantaggi non sono neppure sicuri dal punto di vista del capitale. Infatti, il capitalismo ha continuamente bisogno di perfezionare i propri strumenti di produzione, a causa della necessità che il capitale ha di valorizzarsi in maniera crescente, ma questo incessante aumento della complessità tecnologica e quindi del know how per poterla gestire porta a un decremento sempre più vistoso della manodopera meno qualificata e infine alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

Questo senza considerare che l'aumento progressivo del divario tra chi possiede i mezzi e le conoscenze più avanzate e chi no, non comporta alcun vero vantaggio per questi ultimi, che si sentono sempre più tagliati fuori dalla storia e sempre più disposti a rischiare qualunque cosa.

Insomma, dovendo scegliere tra conservazione delle forme e superamento della sostanza, ci si accorgerebbe facilmente che le due opzioni sono strettamente interconnesse, per cui non è più il caso di discutere se un'analoga rivoluzione tecnologica sarebbe potuta accadere a prescindere dal capitalismo: ormai infatti è evidente che, sotto il capitalismo, la tecnologia è sempre stata usata, sin dagli inizi, non solo per lo sfruttamento sociale, ma anche per quello ambientale e naturale.

L'uomo è un essere di natura: la sua tecnologia deve avere caratteristiche naturali o comunque non può avere un'artificiosità tale da pregiudicare gli interessi della natura stessa e della specie umana che le appartiene.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 08/02/2015