LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


LA TRANSIZIONE DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO

H. Holbein, Georg Gisze, un mercante tedesco a Londra, 1532

Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo furono senz'altro indispensabili il perfezionamento della tecnica, la divisione del lavoro, vasti mercati, grandi manifatture, concentrazioni di capitali... Ma oltre a ciò, fu necessaria anche una buona dose di fiducia in un futuro migliore, non molto lontano, quella di credere che, emancipandosi dal servaggio o dalla coercizione corporativa, si potesse diventare più liberi senza fare alcuna rivoluzione sociale.

In questo senso contadini e artigiani s'illusero pensando che, per emanciparsi veramente, fosse sufficiente partecipare con la borghesia alla rivoluzione politica antifeudale. L'illusione stava appunto in questo, nel credere che dalla rivoluzione politica potesse scaturire automaticamente anche quella sociale, cioè che una mera rivendicazione giuspolitica di diritti fosse sufficiente per la democrazia sociale.

Era giusto emanciparsi dalla condizione servile che il feudalesimo imponeva, ma nel farlo bisognava assicurarsi di non finire in una condizione sociale peggiore. In che modo? Impedendo alla borghesia di guidare da sola la rivoluzione politica o comunque di non gestirne da sola i risultati conseguiti.

L'individualismo così si è accentuato. Il benessere è aumentato solo per pochi. E' vero, in Europa occidentale il benessere, col tempo, ha riguardato sempre più persone, ma solo perché, grazie al colonialismo e all'imperialismo, la miseria e l'indigenza sono state trasferite nel Terzo Mondo. Se non ci fosse stata la conquista dell'America, dell'Africa e in parte dell'Asia, l'Europa occidentale sarebbe andata incontro a una catastrofe economica, o forse il Medioevo sarebbe stato più lungo, oppure, a fronte delle insanabili crisi del capitalismo emergente, si sarebbe passati dal feudalesimo al socialismo. L'Europa occidentale ha potuto supplire alla mancanza di una "democrazia" interna (che l'Europa ortodossa dell'est invece parzialmente aveva) grazie appunto al colonialismo.

Gli storici devono smetterla di considerare il capitalismo come un progresso rispetto al feudalesimo. Il feudalesimo poteva evolvere verso il benessere perfezionando gli strumenti produttivi, da un lato, e compiendo una riforma agraria dall'altro, tale per cui i contadini fossero veramente padroni della loro terra, così come tutti gli artigiani, associati in cooperativa, avrebbero dovuto esserlo della loro corporazione, e gli operai della loro manifattura. Non c'era alcun bisogno di sconvolgere un sistema produttivo sostanzialmente legato alla natura con un sistema produttivo così artificiale e disumano.

Il capitalismo ha provocato dei guasti d'incalcolabile portata: ha separato il lavoratore dai mezzi di produzione (rendendo tutta la vita sociale e privata profondamente alienante); ha separato il produttore dal consumatore, mettendo quest'ultimo nelle mani dell'altro; ha subordinato tutto alla logica del profitto e dell'interesse (rendendo cinici i rapporti umani); ha creato delle istituzioni statali, burocratiche e amministrative, politiche, giudiziarie e militari che tolgono agli individui qualunque forma di libertà, di sicurezza e di responsabilità; ha saccheggiato le risorse di interi Paesi, regioni e continenti senza dare nulla in cambio, se non tutte quelle cose che servono ad arricchire le metropoli occidentali; ha danneggiato l'ambiente in maniera irreparabile, nell'illusione di poter ricostruire con la scienza e la tecnica ambienti sostitutivi di quelli naturali; ha scatenato centinaia di guerre, anche mondiali, con milioni e milioni di morti. Come stupirsi se in queste condizioni vi sono state nazioni legate al feudalesimo sino al secolo scorso e che dal feudalesimo sono volute passare direttamente al socialismo?

Ovviamente non ha senso fare dei confronti con due sistemi così diversi: qui si vuole soltanto precisare che non si può "condannare" il feudalesimo in nome del capitalismo. Ogni sistema va esaminato per le proprie contraddizioni interne. E' sulla base di queste contraddizioni che bisogna cercare di capire quante possibilità c'erano di creare la transizione da un sistema all'altro.

Perché la Cina o qualche Paese arabo non sono diventati capitalisti nel XVI secolo? Se riusciremo a comprendere i motivi per cui né la Spagna né il Portogallo sono diventate nazioni capitalistiche, pur avendo inaugurato il moderno colonialismo, troveremo relativamente facile rispondere alla suddetta domanda.

La storia ha dimostrato che per entrare nella via del capitalismo non è sufficiente avere una tecnologia abbastanza sviluppata o dei commerci molto avanzati, oppure delle contraddizioni feudali molto forti: occorre anche una mentalità, una forma di cultura particolare. Questa mentalità è mancata alla penisola iberica, troppo cattolica per essere pienamente, consapevolmente capitalistica, ed è mancata alle due grandi nazioni asiatiche: Cina e India, caratterizzate da due religioni della rassegnazione: Induismo e Buddismo.

Nei tempi in cui sono nati il capitalismo e il colonialismo, l'ideologia dominante, in Europa occidentale, era quella religiosa (prima cattolica, poi protestante). E' qui che vanno ricercati i motivi sovrastrutturali che hanno permesso un fenomeno così perverso.

Con uno studio molto approfondito si dovrebbe scoprire in quali enunciati teorici della teologia e della filosofia cattolica e protestante, si possono rintracciare le motivazioni culturali che hanno spinto gli uomini (anche inconsciamente) ad accettare il capitalismo e il colonialismo, nonché quelle motivazioni che (questa volta consapevolmente) sono state usate per giustificare la nuova formazione sociale. Cioè vanno ricercate quelle motivazioni che sono servite per legittimare direttamente o indirettamente (involontariamente) il capitalismo, e quelle motivazioni che sono state usate per contrastarlo praticamente o per condannarlo solo teoricamente.

Questo significa che non è più possibile scindere lo studio della storia da quello dell'ideologia (dominante, soprattutto), sia essa di tipo filosofico, religioso o politico. La storia deve diventare anzitutto la storia dell'economia in stretta correlazione con la storia del pensiero, nel senso weberiano che l'economia va vista come riflesso del pensiero, e nel senso marxiano che il pensiero va visto come riflesso dell'economia.

Le scelte, tra una formazione sociale e l'altra, tra una modalità e l'altra all'interno di una stessa formazione, si fanno sempre in un contesto di relativa libertà, altrimenti saremmo costretti ad ammettere l'inevitabilità della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Certo, vi possono essere dei processi sociali ed economici che oggettivamente, se non intervengono delle controtendenze, possono portare al capitalismo, ma se ad un certo punto non v'è un determinato consenso sociale (di massa), questi processi non vanno avanti. Gli uomini possono dare un consenso inconsapevole a certi fenomeni, ma sino a un certo punto, poiché ogni fenomeno contiene in sé delle contraddizioni che a posteriori possono essere individuate e superate (il superamento è tanto più facile quanto più è veloce l'individuazione e decisa la volontà). E' assolutamente falso affermare che la storia è un "processo senza soggetto".

Il determinismo economico non è certo in grado di spiegare il motivo per cui il capitalismo s'è sviluppato proprio in Europa occidentale e soprattutto nell'area geografica di religione protestante. E neppure è in grado di spiegare perché i Paesi di religione cattolica sono diventati capitalisti conservando solo la "forma" della loro religione. Questo non sta forse a dimostrare che fra cattolicesimo e protestantesimo non esistono differenze sostanziali, nel senso che l'uno non è che il rovescio dell'altro?

Solo così riusciremo a capire il motivo per cui i Paesi che non hanno conosciuto né il cattolicesimo né il protestantesimo si sono adeguati più facilmente alla realtà del socialismo, e perché i Paesi che non hanno conosciuto alcuna forma di cristianesimo, fanno molta fatica ad adeguarsi al capitalismo, volgendo piuttosto la loro attenzione verso il socialismo. Non è forse vero che il socialismo democratico vuole essere il recupero, ovviamente in forma diverse, più consapevoli, dello spirito del comunismo primitivo?

Il cristianesimo è la religione col più alto tasso di ambiguità della storia. La sua dialettica, le sue contraddizioni, soprattutto fra teoria e pratica, sono assolutamente inconcepibili per qualunque altra religione. Non è infatti immaginabile, in maniera naturale e spontanea, che si possano affermare le cose più sublimi di questo mondo e nello stesso tempo compiere le azioni più abominevoli. Occorre un livello di alienazione, di sdoppiamento della personalità, particolarmente elevato, non meno grande del livello di profondità di pensieri e di sentimenti.

Il cristianesimo ha dato all'umanità un'autoconsapevolezza prima impensabile. Ma, proprio per questo motivo, le ha dato anche una sicurezza, un coraggio, una fiducia in se stessa che nessun'altra religione ha mai saputo dare. Ora, ci si rende facilmente conto che se si vive questa sicurezza non per migliorare le cose, ma per giustificare un contesto caratterizzato da valori o da comportamenti negativi, il risultato che si ottiene col cristianesimo sarà infinitamente più disastroso. Se l'ideologia cristiana non viene vissuta in un contesto sociale comunitario (ma questo implica una revisione totale dell'interpretazione e delle modalità applicative dei vangeli), la tendenza sarà sempre quella ad usare il cristianesimo per colmare in misura irrazionale l'insopportabile scarto esistente fra metodo e contenuto.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 08/02/2015