STORIA DELL'ORO


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L'ORO DEL SUDAFRICA

UNO SCALO SULLA VIA DELLE INDIE

La necessità di una via marittima sicura per i mercati delle Indie, Cina e Giappone spinse le potenze marinare europee alla ricerca di approdi protetti e permanenti ove effettuare gli scali per il rifornimento di viveri e la riparazione delle navi, assolutamente necessari per viaggi che duravano 7-8 mesi. La zona del Capo di Buona Speranza era un luogo ideale in un lungo tratto di costa che non offre molte alternative. Durante il primo lungo periodo di dominio olandese fino alla guerra europea del 1794 (il primo periodo della storia del Sudafrica va dal 1652 al 1867, cioè dalla prima fondazione della Colonia del Capo da parte della Compagnia Olandese delle Indie Orientali alle scoperte dei grandi giacimenti minerari), la Compagnia delle Indie attuò una politica di forte controllo della piccola e ristretta colonia ed ostacolò fortemente ogni sua espansione e colonizzazione della regione interna.

Le popolazioni che vivevano nel perimetro sudafricano prima della colonizzazione europea sono divise in due razze: ottentotti e boscimani, mentre la bantù, che oggi rappresenta una grossa percentuale della popolazione negra, emigrò dal nordafrica in un lunghissimo periodo che, iniziato già prima della colonizzazione, arriva, come dimostrano gli scontri che i boeri dovettero sostenere, sino al 1800. Boscimani e bantù possedevano un’organizzazione sociale su base tribale, i primi traevano il proprio sostentamento dalla semplice raccolta e caccia senza agricoltura ed allevamento ed erano necessariamente gruppi nomadi molto piccoli, mentre i bantù possedevano un’organizzazione sociale più elevata basata sulle tribù, comunità altamente centralizzate con un proprio nome, territorio ed un capo con poteri trasmessi in modo ereditario. Le principali attività economiche erano l’agricoltura cui si dedicavano le donne e l’allevamento del bestiame cui si dedicavano gli uomini. Il capo tribù suddivideva il territorio tribale in lotti assegnati alle singole famiglie e riservandone una parte per i pascoli comuni.

Dunque popolazioni costituite da piccole entità distribuite in territori grandi quattro volte l’Italia, in minima parte stabili, indipendenti fra loro, che non si sono mai integrate e non hanno mai costituito una presunta nazionalità negra sudafricana. Questo aspetto, apparentemente marginale, fu abilmente ripreso per rispondere alla domanda su chi erano i nativi, chi i primi stabili colonizzatori e a chi spettasse la cospicua eredità fondiaria, con relativi storici confini, specialmente dopo la scoperta degli immensi giacimenti minerari.

Sterminati i boscimani e fortemente ridotti gli ottentotti restano le popolazioni bantù, gli eredi dei coloni boeri e gli inglesi. Fin dall’inizio le popolazioni negre locali si rifiutarono di lavorare per la Compagnia, che quindi decise di importare schiavi prima da Giava, che si integrarono rapidamente tramite matrimoni interrazziali, e successivamente schiavi negri dall’Angola e dalla costa malgascia, dando così inizio al popolamento negro e stabile della zona del Capo.

L’Inghilterra durante il periodo delle guerre europee occupava le colonie olandesi a Ceylon e Città del Capo e qui avviava una diversa politica tendente a concedere facilitazioni ai coloni e a stipulare patti con le popolazioni negre al fine di evitare scontri che l’avrebbero costretta ad accrescere il proprio apparato militare e a investire senza profitti. Rendendosi conto dell’importanza strategica della colonia promosse l’allargamento degli insediamenti tramite l’arrivo di nuovi coloni, prevalentemente inglesi, la distribuzione di territori su base semi permanente con affitti basati sulla diversa fertilità del suolo e la costruzione di una serie di cittadine che rappresentano la prima vera ed organizzata forma della colonizzazione.

Dal 1800 iniziava il contrasto tra i boeri ed il potere britannico. Questi pretendevano una legislazione che costringesse i negri a lavorare al loro servizio in regime di semi schiavitù, senza il diritto del possesso delle terre, e fomentavano la rivolta delle tribù con le quali invece l’Inghilterra cercava buoni contatti. Al contrario la politica inglese dell’abolizione della schiavitù, che si può considerare completamente realizzata nel 1838, la negazione di aiuti militari inglesi ai coloni, la ricerca di nuove terre e l’insicurezza della frontiera orientale provocò la grande emigrazione dei boeri che portò alla colonizzazione della parte nord del Sudafrica con la successiva formazione, non senza grandi scontri, di due repubbliche libere.

Da quel momento il Sudafrica fu diviso in due sezioni distinte: una settentrionale boera ed una meridionale britannica, contraddistinte da esigenze sociali diverse che portavano a rapporti diversi con gli indigeni, formalmente liberi ma costretti ad un rapporto di sottomissione che provoca condizioni economiche a livelli bassissimi. Al nord fu applicata una politica basata sulla sottomissione razziale, che permetteva di contenere al minimo le retribuzioni degli autoctoni impiegati nelle grandi fattorie o al servizio dei coloni, al sud invece maggiori libertà permettevano all’imperialismo inglese più libertà di movimento verso le tribù locali, compreso il diritto di voto ai colorati a partire dalle elezioni del 1854.

LA RICCHEZZA MINERARIA

Il secondo periodo della storia economica e politica del Sudafrica parte dalla scoperta degli enormi giacimenti di minerali preziosi, che evidentemente provocarono un radicale mutamento della politica inglese che, adesso sì, vista la facile prospettiva di ricavare grossi proventi, tende ad organizzare il subcontinente sotto un unico governo sottomesso all’Inghilterra. Parallelamente si rafforzava il nazionalismo delle repubbliche indipendenti ed altre potenze tentavano di entrare nella partita.

Oro e diamanti, oltre ad attrarre grandi masse d’immigranti, aprirono le porte ai capitali europei che permisero l’organizzazione su scala industriale dell’estrazione mineraria. L’improvviso impatto con il modo di produzione capitalista sconvolse, a partire dal 1884, il sistema economico delle Repubbliche, ancora agricolo e pastorale. Le maggiori Compagnie, per assicurarsi la stabilità del gigantesco finanziamento necessario e per ottenere una maggiore efficienza, si mossero verso la formazione di trust, tra i quali nel 1892 assunse rilievo la Compagnia di Rhodes, che tentava di costruire una grande federazione sudafricana e un asse ferroviario, e quindi controllo territoriale, dal Cairo a Città del Capo. Scoppiarono inevitabilmente delle guerre contro le Repubbliche boere che nel 1902 persero formalmente la loro indipendenza e divennero colonie britanniche.

Le guerre Anglo-Boere rappresentano lo scontro tra due modi di produzione: quello capitalistico moderno e quello agricolo e pastorale. Il conflitto e la vittoria inglese rappresenta non tanto lo schiacciamento della nazionalità boera a favore dell’imperialismo britannico, quanto la manifestazione del processo che vede la trasformazione dell’agricoltore boero in commerciante ed industriale, la nascita delle città, delle fabbriche, di un vero tessuto produttivo e mercantile nazionale. In breve il conflitto Anglo-Boero rappresenta la gestazione del moderno Stato sudafricano che si completa, anche se non con la piena autonomia, nel 1910.

La nuova produzione mineraria, la nascente industria manifatturiera e il commercio estero ingigantito mutano necessariamente il rapporto con le popolazioni indigene, che passa da una fase di difesa contro le scorrerie ed il nomadismo incontrollabile ad una impellente necessità economica per il reperimento e sfruttamento intensivo di mano d’opera a bassissimo prezzo. Dato che il problema della mano d’opera era legato a quello della proprietà terriera indigena, il democratico Partito Laburista dette inizio alla politica dell’apartheid, rivelandone da subito il carattere economico.

Nel 1913 varò una legge, il Nactives Land Act, che divideva il paese in zone riservate unicamente agli indigeni ed altre destinate solo per gli europei; stabiliva il principio che la residenza degli africani al di fuori delle aree loro assegnate potesse essere giustificata solo da un rapporto di lavoro con padroni ed imprenditori bianchi. In sostanza creò delle riserve, pari a solo il 7,3% di tutto il Sudafrica, veri magazzini di forza lavoro a basso costo in zone lontane dai centri minerari, non collegate alla rete ferroviaria, terre di scarto, paludose o desertiche da cui prelevare alla bisogna la quota strettamente e contingentemente necessaria. Ogni salariato negro doveva portare con sé il “libretto”, vidimato mensilmente dal datore di lavoro, senza il quale, fuori dalla propria riserva tribale che gli era stata assegnata dal governo o dal ghetto procuratogli dall’azienda capitalista, poteva essere arrestato immediatamente. Calcoli attendibili affermano che in tutto il periodo dell’apartheid furono operati circa 18 milioni di tali arresti.

Poichè la forza lavoro bianca era una piccola quota, prevalentemente operai qualificati e tecnici, si stabilì già dal 1911 una Colour Bar, cioè un rapporto fisso, inizialmente di 3,5 operai di colore contro 1 bianco, con scarto fra le paghe similare. Tale rapporto venne ripetutamente aggiustato secondo le esigenze del capitale alimentando costantemente la separazione di classe fra i proletari di tutte le razze, organizzati sindacalmente in differenti sindacati.

Il Sudafrica partecipò affianco l’Inghilterra alla Prima Guerra Mondiale nel tentativo di ampliare ed ovest, a scapito della Germania, i suoi confini e di ottenere la completa indipendenza, obiettivi che non raggiunse completamente mentre ottenne vantaggi nel potenziamento del suo apparato produttivo e commerciale che durò per anni.

Nel 1922 scoppiò una violenta agitazione operaia a conseguenza del brusco calo del 30% del prezzo dell’oro passato da 130 a 90 scellini l’oncia: la Camera delle Miniere nel tentativo di limitare le perdite decise di abbassare il salario giornaliero, di licenziare 4.000 operai bianchi per sostituirli con mano d’opera negra, che accettava salari dieci volte inferiori, e di portare la Colour Bar al rapporto di 1 bianco ogni 10,5 bantù. I “Piccoli Bianchi”, come venivano chiamati i proletari europei o sudafricani bianchi privi di risorse e disposti a far qualsiasi lavoro, altrove chiamati anche “Poveri Bianchi”, insorsero in venti o trentamila ingaggiando duri scontri armati contro la Camera delle Miniere, sedati addirittura con l’intervento dell’artiglieria. Nel giro di una settimana la rivolta fu stroncata con una bilancio di 230 morti e quasi 1.000 feriti fra i minatori bianchi. Lo sciopero fallì anche perché ai bantù fu ordinato di continuare il lavoro, impedendo così il formarsi di un unico fronte di lotta di classe, come era già successo nel 1920 quando 60.000 minatori negri entrarono in sciopero per aumenti salariali e la possibilità di accedere a lavori qualificati e non fu dato loro appoggio dai sindacati dei minatori bianchi.

Questo episodio dimostra chiaramente che il razzismo sudafricano ha precisi fondamenti economici tesi unicamente a mantenere al più basso possibile il valore della forza lavoro: lo prova la facilità con cui a cannonate non hanno esitato a massacrare minatori qualificati di razza bianca in sciopero, per sostituirli con quelli negri a salari molto più bassi.

Il 1929, anno della grande depressione mondiale, vede la caduta delle quotazioni dei diamanti, per il crollo del mercato americano, e il ribasso del prezzo della lana che causarono un generale arresto dell’economia sudafricana. Ma le forti riserve auree, il naturale vigore del suo giovane capitalismo ed il forsennato sfruttamento della classe operaia permisero al Sudafrica di superare agilmente la crisi giungendo addirittura nel 1934 a colmare il deficit della bilancia dei pagamenti e nel 1938 a registrare un attivo di 19 milioni di sterline. Il tutto grazie alla tanto disprezzata massa bantù che con il suo lavoro aveva permesso il raddoppio del prodotto nazionale dal 1933 al 1939.

Sentendosi molto forte la borghesia sudafricana rafforzava la sua politica contro il suo proletariato ormai praticamente costituito dalla popolazione negra: nel 1936 promulgò la Representation of Natives Act che privava i negri, a partire dalla Provincia del Capo ed in breve estesa a tutta l’Unione, dei diritti elettorali che godevano dal 1853: da ora poterono scegliersi solo tre deputati di origine europea delegati a rappresentarli, affiancati dai Natives Representative Councils composti da negri, in parte eletti ed in parte nominati dall’alto. Il terrore di un partito di proletari negri di ispirazione comunista era certamente forte. Inoltre la nuova Natives Trust and Land Act, portando dal 7% al 13% i territori inalienabili riservati alle tribù, accompagnata dal divieto per i bantù di acquistare terre al di fuori delle riserve così costituite, dava l’avvio alla successiva politica dei Bantustan.

Il Sudafrica partecipò alla seconda guerra mondiale a fianco degli Alleati con uomini e mezzi, nonostante il suo fosse più che un esercito di tipo europeo un gigantesco corpo di polizia. Nonostante ciò, favorito dalla sua lontananza dai fronti bellici, riconvertendo parte del suo apparato industriale ed acquistando il resto grazie alle sue forti riserve, costituiva una discreta forza, al punto che «alla fine del 1944 l’aviazione sudafricana costituiva il 28% dell’intera forza aerea alleata impegnata sul fronte italiano; unità sudafricane parteciparono alla campagna d’Italia e nell’aprile 1944 furono le prime ad entrare a Firenze» (Storia del Sudafrica, B.Lugan, 1989).

Lontano dal teatro di guerra, il Sudafrica era una base di rifornimento ideale e per questo la sua economia ricevette una spinta gigantesca che durò per tutto il periodo bellico. Sorsero nuove industrie di produzione e trasformazione, sia industriale sia agricola, al punto che il prodotto industriale netto quadruplicò dal 1933 al 1945 passando da 61 a 276 milioni di rand; analogamente quello agricolo crebbe passando da 75 a 276 milioni. Lo sviluppo del comparto agricolo fu così radicale che l’agricoltura di quel paese uscì da un cinquantennio di crisi divenendo alla fine della seconda guerra mondiale una delle ricchezze del paese.

Non siamo riusciti a trovare alcuna documentazione circa il contributo di energie e sangue strappato al proletariato bantù per ottenere questi poderosi risultati, ma non è difficile immaginare che esso fu enorme e doloroso.

PRIMO METODO: L’APARTHEID

Il terzo periodo, dalla seconda guerra mondiale ad oggi, lo riscriviamo completamente perché possiamo qui considerare un arco di tempo maggiore in cui meglio si chiariscono i vari episodi, che vengono a confermare la struttura e l’impostazione del precedente rapporto, concludendo con una analisi dei dati economici.

Già in quel lavoro si rilevava che nella ripartizione del P.I.L. nei tre settori: agricoltura (7,6%), minerario (12,4%) ed industriale (21,6%), la somma delle ultime due parti, il 34%, poneva il Sudafrica fra i paesi industrializzati, essendo tali percentuali leggermente superiori a quelle dell’Italia, inferiori di poco a quelle dell’Inghilterra. È importante notare che già nel 1932 la percentuale della sola produzione industriale (13,6%) superava quella agricola (12,2%); quella mineraria è in testa col 24,3%. Il livello di proletarizzazione era del 70% della popolazione attiva contro il 51% dell’Italia, inoltre la forza lavoro si trovava concentrata nelle poche zone minerarie ed industriali: il 40% degli attivi nel 4% del territorio. Altro dato importante riportato era l’alta percentuale della produzione agricola proveniente da aziende private di grandi dimensioni, anche se dotate di una bassa meccanizzazione, 0,9 trattori per ettaro contro i 3 dell’Italia, dovuto al carattere estensivo delle colture.

Nel terzo periodo di quest’ultimo mezzo secolo si possono individuare due segmenti temporali strettamente legati fra loro: il primo dal 1948 al 1986 durante il quale si dispiega la politica dell’apartheid, per poi rivelare i suoi limiti pratici, economici e il suo fallimento; il secondo dal 1986 al 1994 in cui si rinuncia a tale politica e si creano le condizioni per un passaggio “morbido” del potere parlamentare alla maggioranza negra, culminato nell’elezione di Mandela, fatti salvi tutti i diritti economici politici e di sicurezza personale dei capitalisti bianchi e della piccola e media borghesia meticcia ed asiatica.

Nel 1948 le elezioni politiche decretarono la forte vittoria del nuovo schieramento borghese nazionalista e conservatore ed ora il fronte dell’apartheid ebbero via libera dalla maggioranza parlamentare. Il concetto di apartheid, un neologismo comparso per la prima volta nel 1929, consistente nella “netta separazione di carattere politico e sociale tra le diverse componenti della popolazione sudafricana”, fu discusso e calibrato nel periodo bellico e di fatto costituì il vero nodo e significato delle elezioni dell’immediato dopoguerra. Fu precisato che apartheid non significava sterminio ma separazione fra negri e bianchi e noi abbiamo sempre precisato che si trattava di separazione di classe. Ovviamente lo sterminio dei bantù avrebbe significato la chiusura di fabbriche, miniere e aziende agricole, oppure ricorrere all’immigrazione di una decina di milioni di proletari bianchi o, ancor peggio, che la piccola borghesia sudafricana e famiglie entrassero loro direttamente nel vulcano della produzione.

Lasciamo perdere, per dignità nostra, le argomentazioni teologiche delle locali Chiese Olandesi Riformate, che ovviamente hanno trovato in alcuni passi della Bibbia la derivazione e quindi la giustificazione del differente sviluppo, e di conseguenza del ritardo, delle diverse razze. Cancellare quelle differenze razziali avrebbe significhato, per i teologi della City e del Sudafrica, cancellare un preciso disegno divino, colpa assai grave per quei timorati del Dio Capitale.

Nel 1949 fu approvato il Prohibition of Mixed Marriages Act e nel 1950 lo Immorality Amendment Act: il primo vietava i matrimoni misti, il secondo ogni contatto sessuale fra razze diverse. Seguì nello stesso anno il Population Registration Act, che classificava tutte le popolazioni sudafricane in quattro gruppi razziali: Bianchi, Meticci, Indiani e Negri, ed il Group Areas Act, legge sulle zone di insediamento che stabiliva per ciascun gruppo razziale lo spazio geografico in cui avrebbe dovuto abitare. Di fatto tutto il Paese fu diviso in due settori: una zona molto vasta per la popolazione bianca, dove la nuova legge regolava l’insediamento dei non bianchi, e dieci territori nazionali, o Homelands, uno per ciascuna delle etnie negre, primo passo per l’avvio dei Bantustan. Furono poi rafforzate le leggi sul libretto di lavoro, quelle sulla separazione dei luoghi pubblici e quella sui mezzi di trasporto. Sempre nel 1950 il piccolo Partito comunista sudafricano fu messo fuori legge.

Infine arrivò il Bantustan Authorities Act che prevedeva la costituzione graduale nel tempo di otto territori nazionali all’interno dei quali i negri avrebbero dovuto tornare alla loro organizzazione tribale prima di ricevere l’autonomia sotto l’autorità dei capi tradizionali; al di fuori di questi sarebbero diventati stranieri e clandestini. I confini di queste riserve coatte, dove si pensava di relegare la maggior parte dei negri che assediavano le città e i centri industriali, ripercorrevano solo parzialmente i confini storici tribali, per il resto erano totalmente artificiali e rispondevano più ai bisogni del capitalismo locale che a discutibili criteri etnici.

L’inizio ufficiale dell’indipendenza dei Bantustan è del 1976, che chiude il lento ciclo preparatorio iniziato nel 1913 con la Legge sulle Terre Indigene. Un primo esperimento pilota risale al 1963 con la formazione del Transkei che conteneva 2.400.000 negri di etnia Xhosa e l’ultimo fu il Ciskei nel 1981 con altri 500.000; in totale secondo il piano del 1976 nei 10 Bantustan previsti dovevano risiedere 8,6 milioni di bantù su una popolazione complessiva negra di 18 milioni, pari al 47% del totale.

Questi territori tribali avevano un’economia propria che arrivava malapena alla pura sussistenza e per il resto: istruzione di base, sanità, amministrazione, polizia e poco altro dovevano dipendere totalmente dal governo centrale, cosa che portò, causa anche la crisi economica generale, a costi proibitivi. I dati sul Transkei relativi al 1972/73 così indicano le entrate del governo locale: 9,1 milioni di rand, pari al 32,3% del totale, dalla tassazione del reddito locale e 28,1 milioni dal governo centrale sudafricano. Nel 1974/75 il reddito locale produceva sempre 9,1 milioni di rand mentre sale a 64 milioni il contributo governativo. Progressivamente furono avviati gli altri Bantustan, non senza la dura opposizione della popolazione negra che dovette comunque sottostare a questa enorme pulizia etnica.

Dal 1959 iniziano le grandi agitazioni negre contro il costante indurimento delle restrizioni nei loro confronti, le quali furono tutte represse violentemente; tra queste la più feroce accadde nel 1960 a Sharpeville quando le forze di polizia, prese dal panico durante una manifestazione, aprirono il fuoco sui manifestanti negri uccidendone 69 e ferendone alcune centinaia.

Il tutto avveniva mentre la ricchezza nazionale cresceva ancor più per l’avvio dello sfruttamento intensivo delle miniere di uranio. In questa situazione di euforia economica e di repressione si svolse il referendum per la proclamazione della repubblica indipendente ed il 52% dei 1.626.336 elettori bianchi, gli unici ad averne diritto dal 1936, votò Si e, su un pressante invito di molti paesi membri, uscì dal Commonwealth. Il capitalismo mondiale e quello britannico, sanzioni o meno, come il ridicolo embargo sulle armi del 1963 che fu esteso e reso più duro nel 1977, continueranno egualmente i loro affari. Solo lamentavano la “concorrenza sleale” di un capitalismo che aveva la fortuna di poteva pagare così poco i suoi salariati.

Dal 1961 al 1970 la polizia si impegnò con gran efficacia per la repressione di tutte le organizzazione di qualsiasi tipo e livello che si opponevano al governo e i moti più vistosi cessarono.

Ma nel giugno 1976 riesplose la situazione con le violente manifestazioni degli studenti delle zone urbane ed in particolar modo di Soweto, l’enorme ghetto negro alla periferia di Johannesburg, cioè della piccola borghesia negra, organizzata dalla Black Conscioussness (Coscienza Nera) contro il tipo di insegnamento scolastico impartito ai negri, giudicato inferiore a quello dei bianchi ed umiliante, retaggio di una legge del 1922, lo Apprendiceship Act, che da quella data riservava solo ai bianchi la formazione professionale e quindi la possibilità di carriera nelle aziende.

Il grande movimento di opposizione negra era costituito dall’ANC, African National Congress, fondato nel 1912, originariamente di tendenze cristiane, liberali e non violente, anche a causa della forte influenza esercitata da Gandhi, agli inizi del secolo avvocato in Sudafrica, ma fino al 1949 rimasto un piccolo movimento. Nel gennaio di quell’anno scoppiò una violenta sommossa tra indiani ed africani, prevalentemente zulù, costata 150 morti e oltre 1.000 feriti. Questo scontro determinò un temporaneo avvicinamento delle razze non bianche che stabilirono di combattere insieme il comune nemico. L’ANC abbandonò la linea pacifista e stabilì il suo nuovo indirizzo che chiarisce subito la sua basilare inconsistenza di classe: «Azioni, non più parole; indipendenza nazionale invece che giustizia». Questo impegno si concretizzò nel giugno 1950 nel proclamare uno sciopero generale da parte dell’ANC, del Partito del Congresso indiano e del Partito Comunista per protesta contro il progetto, poi realizzato, di mettere fuori legge il Partito Comunista. La predetta fonte però non cita i dati sull’esito dello sciopero.

Le organizzazioni comuniste erano sorte in Sudafrica da una scissione del movimento sindacale bianco che, nel nome dell’internazionalismo proletario, raccolse i lavoratori ostili alla Prima Guerra Mondiale. Raggruppati nell’ISL (International Socialist League) si trasformò, sostanzialmente solo di nome, in Partito Comunista nel 1921 rimanendo però estraneo alla questione dei negri. Nel 1924 la nuova direzione decise di organizzare anche i lavoratori di colore ed il partito crebbe ulteriormente. Sono del 1928 le indicazioni del Comintern contenute nelle “ Tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e semicolonie” (1 settembre 1928) per costituire una repubblica indigena indipendente interrazziale, tappa verso la costituzione di un governo di operai e contadini.

Ma già nel 1930 si capì che tutti gli sforzi per creare un unico fronte di classe si bloccavano contro le antiche barriere tribali e quelle più moderne del capitalismo bianco. Il movimento, causa anche la seconda guerra mondiale, rinculò e nel 1948 i bianchi che avevano votato per il Partito Comunista si erano ridotti a soli 1.784; due anni dopo fu messo facilmente fuori legge e buona parte dei suoi componenti entrò nell’ANC. Seguì un periodo di scissioni tra gruppi interrazziali e gruppi estremisti di soli negri fino alla rivolta di Sharpeville del 1960, che fu l’occasione che il governo utilizzò per sciogliere tutte le organizzazioni presenti ed incarcerarne i gruppi dirigenti.

La repressione poliziesca garantì al capitale il controllo del Sudafrica, se si escludono i moti di Durban del 1972/73 contro il carovita, fino alla rivolta di Soweto del 1976. Da quella data iniziò nelle grandi città una protesta sempre più forte ed estesa mentre vari gruppi si fuserono nel 1978 nell’AZAPO, Organizzazione del Popolo di Azania, il nome dato al Sudafrica dagli indipendentisti negri. I gruppi più radicali e consistenti, particolarmente l’ANC, che lo dichiara esplicitamente, si dotano di “santuari” per la lotta armata, soprattutto nei paesi vicini, continuamente bombardati dall’esercito sudafricano.

SECONDO METODO: IL GOVERNO NEGRO

La situazione evolve radicalmente dal 1982 a seguito di una concomitanza di fattori politici ed economici internazionali che avranno un ruolo importante, tra cui quello macroscopico del crollo del corso dell’oro che passa da 850 dollari per oncia del gennaio 1980 a 325 del marzo 1982 con una caduta netta del 62%; inoltre il pericolo dell’esplosione della polveriera negra e la necessità di scambi economici più agili da parte dei paesi più industrializzati premono per un allentamento dell’apartheid, condizione per una attenuazione del sistema delle sanzioni. Nel 1982 si concede ai ghetti urbani negri uno statuto particolare per ovviare le difficoltà della normativa dei Bantustan, applicata a una popolazione molto più estesa e mobile di quella prevista, e, nel 1983, una parziale e separata partecipazione al potere politico alla minoranza meticcia e asiatica, quella negra esclusa perché “cittadina” dei Bantustan.

Lo scontro si estende anche fra negri, contro quelli che hanno accettato la collaborazione, e quindi anche il posto di lavoro nel sistema centrale, compresi quelli nella polizia: sfocia in sistematiche distruzioni dei servizi pubblici nei ghetti e nel linciaggio dei funzionari negri e delle rispettive famiglie accusati di sostenere prezzolati il regime dei bianchi. E' prassi il pneumatico incendiato intorno alle braccia. Nei grandi ghetti urbani dall’estate 1984 a tutto il 1985 avviene lo scontro per il controllo delle township che coinvolge anche occupati contro disoccupati divisi per gruppi etnici. In questo breve periodo il bilancio è di parecchie centinaia di morti, uccisi in parte dalla polizia, in parte da regolamenti di conti fra etnie diverse, economicamente contrapposte, che porta nei ghetti all’imposizione dello stato d’assedio.

«I principali disordini repressi dalla polizia sono stati quelli di Sharpeville (3 settembre 1984), di Uitenhage e dei sobborghi di Città del Capo (28 febbraio 1985) nel corso dei quali rimasero uccisi quarantacinque neri. Ma ben più gravi sono gli scontri tra neri. Nella regione di Johannesburg il 25 settembre ed il 5 novembre 1984 si affrontarono minatori in sciopero ed altri non scioperanti appartenenti ad etnie diverse, e dieci di loro trovarono la morte. Il 7 agosto 1985 nei dintorni di Durban i quartieri indiani furono attaccati dai neri, che vi massacrarono cinquanta persone e ne ferirono centinaia d’altre; nel dicembre dello stesso anno restarono uccisi sessanta neri durante i combattimenti fra 2.000 e 3.000 Pondo a Umbogintwini, a sud di Durban» (ibidem).

Le altre cause economiche dell’aggravarsi della situazione sono: una profonda crisi nel settore agroalimentare dovuta ad una lunga siccità; la carestia conseguente provocò l’allontanamento incontrollato dai territori tribali verso le città, un ancora più gravoso, ormai inutile, sostegno economico fornito ai Bantustan (mai riconosciuti come Stati indipendenti da nessuno e quindi i suoi abitanti erano privi di qualsiasi cittadinanza e passaporto) e il proliferare di bidonville illegali sorte intorno alle città, assolutamente incontrollabili, costituite da sottoproletari e sbandati di ogni genere. Semplici voci circa l’evacuazione di queste baraccopoli a Crossroads e Kayelitsha presso Città del Capo il 18 giugno 1985 provocano uno scontro con la polizia con 16 morti e 200 feriti.

Il sistema dell’apartheid, divenuto non gestibile, rischia ormai di mettere in crisi, nel caso dell’estendersi e radicalizzarsi della lotta, tutto il sistema economico. La borghesia sudafricana, giunto il momento di dar ascolto ai piagnistei pacifisti, dichiara di voler allentare la morsa verso il proletariato negro, prima con riforme parlamentari e costituzionali e concedere infine la cittadinanza sudafricana, cioè l’abolizione di tutte le restrizioni razziali nei confronti dei negri, compresi i cittadini delle Homelands che ne facciano richiesta. Il 31 gennaio 1986 il Parlamento sudafricano annuncia la fine della politica di apartheid e di dare inizio alla formazione di un’unica nazione veramente democratica costituita da minoranze razziali con pari dignità. Nel giugno 1986 il Consiglio Europeo all’Aia richiede sanzioni economiche contro il Sudafrica a sostegno della richiesta di liberazione di Mandela, designandolo così come il capo del nuovo comitato d’affari in quel Paese.

Due anni dopo però il governo proibisce l’attività politica delle organizzazioni antirazziste sia bianche sia negre e si svolgono le prime elezioni amministrative multirazziali, ma su base ed per organismi separati, che sono boicottate dall’ANC, dalla Chiesa Anglicana e dal COSATU, il potente sindacato sorto nel 1985, mentre quelle politiche con il medesimo sistema sono previste alla fine del 1989. La situazione peggiora ed infine si dimettono i falchi del regime, rappresentati dal 1978 dal premier Botha ed arrivano le colombe, con De Klerk che porta il ramo d’ulivo, per preparare l’ormai necessario cambiamento. In quei pochi mesi e nel mandato successivo fino al 1994 si organizza il passaggio delle consegne alla maggioranza negra in modo indolore, controllato e soprattutto garantista per i diritti economici del capitale locale, compreso l’accordo di escludere ogni forma di nazionalizzazione dell’apparato produttivo e fondiario privato esistente. Occorre ricordare che già il 60% dell’economia è nazionalizzata.

La figura simbolo e garante di questo progetto è Mandela che viene dapprima liberato (1990) poi insignito del Nobel della pace (1993). Parallelamente al riconoscimento legale dell’ANC, si provvede a ridurre d’importanza i partiti estremisti tramite bande di sicari che eliminavano i dirigenti più radicali, sia bianchi sia negri; tale fu l’impegno che dal 1990 più di 10.000 attivisti politici e sindacali furono assassinati da forze irregolari, perfettamente armate e protette dall’esercito e dalla polizia, come emerse da successive inchieste della magistratura.

L’ANC intanto dichiara di volere essere un partito populista, interclassista e per la riconciliazione nazionale, cercando di fare marcia indietro rispetto le precedenti posizioni di tendenza trotzkista sulle nazionalizzazioni dei mezzi di produzione e sul controllo operaio, che le erano servite per chiamare a sé l’ala più combattiva e radicale del proletariato negro. In questo periodo è tutto un fiorire di organizzazioni politiche che si agitano per ritagliarsi una fetta di potere e affari nella nuova èra; tra queste la Chiesa Anglicana locale, con a capo Monsignor Tutu, altro Nobel per la pace, forte della teologia della liberazione, diventa una importante alleata del Fronte democratico unito (UDF); l’Inkata, potente organizzazione politica zulù, inizialmente pacifista, riformista e nata a sostegno di quell’etnia, rompe poi con l’ANC quando questa opta per la linea interrazziale, la lotta armata ed il sostegno dell’URSS e si schiera con i gruppi reazionari occupandosi con le sue organizzazioni paramilitari di vergognose rappresaglie contro altri negri e indiani. Risorge anche un Partito Comunista.

I lavoratori sono diretti dalla COSATU, sorta nel dicembre 1985, dalla unificazione di 34 Union tra cui la FUSATU, federazione di sindacati nei settori industriali, e la NUM che raggruppava essenzialmente i minatori. A differenza della CUSA, sindacato razzista ispirato al movimento di Coscienza Negra, la COSATU tende a raggruppare tutti i lavoratori su una base di classe e non razziale.

Nel 1994 si considera completata la preparazione per il passaggio delle consegne e il 9 maggio si svolgono le prime elezioni interrazziali. Come da copione Mandela viene eletto presidente e tutti applaudono per il Sudafrica dove inizia l’era di vera democrazia, di riconciliazione, di sviluppo e di risanamento degli enormi squilibri sociali, politici ed economici di un passato che si vuole frettolosamente dimenticare. Il risultato di questo primo mandato appena concluso con l’elezione di Mbeki, un collaboratore di Mandela, è ben misera cosa, come ammesso dal presidente stesso in una relazione al parlamento: il 42% dei negri è disoccupato!

Emerge dunque che la via democratica, non essendocene state altre di classe, né lì né altrove, per il momento può fregare ed incatenare una seconda volta il proletariato africano, principale preoccupazione della borghesia nazionalista negra e bianca di tutta l’Africa australe. Questa paura era ben chiara già da tempo, dall’indipendenza dello Zimbabwe e dalla lunga crisi del Mozambico il cui presidente, in un’intervista a “Le Monde” nel 1985, avvertiva che una rivoluzione in Sudafrica sarebbe più radicale e potrebbe avere maggiori conseguenze di quella francese del 1789. Proprio per questo borghesia negra e bianca costituiscono un fronte unico contro tutto il proletariato dell’Africa australe.

UNA GRANDE TRADIZIONE DI CLASSE

Un nostro successivo rapporto, del 1985, Prospettive della Rivoluzione in Sudafrica (P.C. n.135/1985), si incentra sullo sviluppo economico e sulla formazione delle organizzazioni sindacali, lavoro poi completato in Nuovi Sindacati operai in Sudafrica per un Fronte interrazziale contro il Capitale (P.C. n.152/1987).

Il primo sindacato negro ICU sorse nel 1919 e già nel 1920 organizzò come già detto il primo sciopero a cui parteciparono 60.000 minatori negri, che non ricevettero alcun sostegno dai colleghi bianchi i quali temevano, come poi avvenne gradualmente nel tempo, li sostituissero nel lavoro. È del 1922 lo sciopero contro questo inevitabile processo, finito a cannonate dopo una settimana di scontri armati. Negli anni dal 1934 al 1945 si contano 304 scioperi per aumenti salariali con 58.000 partecipanti; il salario medio di un negro rispetto quello di un bianco passa dal 20% del 1930 al 27% del 1941.

Con l’entrata in guerra dell’URSS, il Partito Comunista Sudafricano si oppose ad ogni azione sindacale che potesse indebolire il rifornimento bellico verso l’Inghilterra e gli Alleati contro la Germania, contro la quale il Sudafrica aveva vecchi conti in sospeso sulla Namibia, e manovrò per la scissione della grande centrale sindacale negra la CNETU (Council of Non-european Trade Unions). Al contrario la minoranza che uscì per fondare la PTU (Progressive Trade Union) argomentava giustamente che i lavoratori non avevano niente da guadagnare aiutando il governo a vincere la sua guerra. Nonostante le misure di guerra il numero dei giorni di sciopero nel periodo 1940/45 raddoppiò rispetto il 1930 culminando nel grande sciopero dei 100.000 minatori negri del 1946, fermati con l’esercito e che costò la morte di 12 proletari.

Nell’immediato dopoguerra inizia la politica dell’apartheid e della forte repressione ma la lotta di classe non si arresta e le poche forze operaie con un minimo di organizzazione nel 1955 si raggruppano nel SACTU che condusse subito lotte per un salario minimo di una sterlina al giorno. Questa organizzazione crebbe fino ai grandi scontri di Sharpeville del 1960 costati 69 morti e centinaia di feriti, ma in seguito, pur non essendo formalmente messo fuori legge come accadde per l’ANC, il sindacato fu disperso a causa dell’immediato arresto di 160 fra membri e dirigenti.

Lo sviluppo industriale del dopoguerra è intenso ed accresce enormemente l’esercito dei lavoratori, che si diversifica nettamente tra semplici lavoratori negri, che crescono di numero, ed aristocrazia operaia esclusivamente bianca. I numeri di questo incremento sono eloquenti: dal 1951 si passa, solo nell’industria, da 742.000 addetti, di cui 360.000 negri e 250.000 bianchi, al 1972 con 1.650.000 in totale di, cui 950.000 negri e 340.000 bianchi.

La cappa di pace sociale si spezza nel 1972 a partire da uno sciopero di una piccola fabbrica tessile che innesca la forte lotta dei conduttori di autobus, che ogni giorno garantiscono il trasporto di centinaia di migliaia di lavoratori dai quartieri negri alle fabbriche, i quali ottengono un aumento salariale del 33%; il periodo di lotta si estende per due anni mobilitando l’intero paese nei settori industriali e dei servizi.

La crisi economica del 1975, superata dal capitalismo sudafricano grazie alle sue forti riserve, provoca invece un consistente peggioramento al 40% del tasso di povertà del proletariato, che ne deve sopportare tutti i danni. Nel 1973 l’80% di esso riceve salari insufficienti per sollevarsi dalla povertà e dal 1971 al 1975 i disoccupati crescono di 11.000 al mese. Seguono inoltre fortissimi rincari degli alimenti di base mais e granturco. Nei Bantustan la situazione è catastrofica e la miseria dilaga: l’89% dei bambini è sottoalimentata e 1.000.000 di persone vivono di sola carità.

Questa concatenazione di scioperi determina la riorganizzazione sindacale. Nel 1969 sopravvivevano 13 sindacati con 16.000 iscritti; nel 1973 se ne formarono altri 17, ma è la grande crisi degli anni ’80, come espressione locale di quella mondiale, a determinare un gigantesco rafforzamento degli iscritti: 35.000 nel 1997; 360.000 nel 1981; 550.000 nel 1983 e 1.500.000 nel 1984.

Le Union che sorgono, eccetto la CUSA che è influenzata dal movimento Coscienza Nera, non prevedono alcune distinzione razziale e, nonostante la grande differenza di condizioni retributive e di lavoro, sono aperte anche ai lavoratori bianchi, una minoranza dei quali vi milita, benché la pressione sociale che subiscono renda instabile la loro adesione. Nonostante i numeri vi è una grande frammentazione in tante Union, sovente a livello di singola piccola azienda; basti considerare che il sindacato più forte, il FOSA, creato nel 1979, nel 1983 raggruppava 109.000 operai in 490 fabbriche, questa situazione rendendo improbabile una continuativa azione di lotta generale.

Il movimento di concentrazione delle forze operaie inizia dalle tre organizzazioni più grandi: la FOSATU nel settore industriale, la NUM nel settore minerario e la CUSA. Quest’ultima però, oltre al problema razziale, avanza difficoltà sulla questione della registrazione legale, cui si oppone sostenendo che malgrado il suo non riconoscimento ufficiale essa è accettata nelle aziende sia dai lavoratori sia dal padronato; questi due argomenti le impediranno di aderire alla COSATU, sorta nel giugno del 1985 dalla fusione delle altre organizzazioni.

Alla crescente necessità di manodopera qualificata e di tecnici da parte dell’industria locale si era finora sopperito principalmente con l’immigrazione di quadri di razza bianca, ma con gli anni ’80 tale saldo diventa negativo e le stime a breve termine indicano già in quel periodo la carenza di 750.000 tecnici. Ecco una valida motivazione economica per la borghesia sudafricana per iniziare ad allentare il blocco della segregazione razziale. Un’altra determinante economica consiste nei bassi salari e nel regime di segregazione dei negri, che ostacolano il formarsi di un mercato interno sostenuto dai consumi del proletariato.

Quel nostro articolo in P.C. n.152/1987 salutava la nascita e l’affermarsi della COSATU, che al momento della sua formazione contava mezzo milione di iscritti, paganti regolarmente le quote, per giungere in breve tempo a raddoppiarne il numero al termine del processo di unificazione. Ai militanti dell’organizzazione appariva chiaro che il nodo dell’emancipazione dei lavoratori non risiedeva nel superamento dell’oppressione razziale poiché i recenti esempi di Mozambico, Zimbabwe, Angola e Zaire, dove al potere c’era la locale borghesia negra, mostravano chiaramente negri che opprimono e sfruttano altri negri e che la condizione della classe operaia vi era spesso peggiore di quella del Sudafrica. L’ostacolo maggiore per l’unificazione di tutto il movimento operaio sudafricano stava nelle profonde differenze economiche tra lavoratori bianchi e non bianchi, precedentemente organizzati in distinti gruppi tendenti a conservare i propri vantaggi acquisiti.

Il programma della COSATU si incentra su quattro punti fondamentali di difesa classista: 1) salario minimo garantito valido in tutto il Sudafrica; 2) riduzione del tempo di lavoro a 40 ore settimanali, senza riduzione di salario, e dello straordinario; 3) l’organizzazione dei disoccupati in una Union affiliata che fornisca un fondo di sussistenza e cure mediche gratuite; 4) l’eliminazione del pass-book, ovvero il libretto di lavoro valido come passaporto interno, sostituito poi nel 1986 con un’unica carta di identità per tutti i cittadini del Sudafrica.

Il primo sciopero generale, organizzato per celebrare il 1° Maggio nel 1986, ha un’enorme adesione al punto che le fonti ufficiali dell’Anglo-Americano, il maggior conglomerato minerario-industriale, denuncia un’assenza dal lavoro dell’83%; il secondo sciopero generale, indetto per ricordare il decennale dei fatti di Soweto, ha altrettanta adesione.

Una spina nel fianco della COSATU è rappresentata dall’organizzazione zulù Inkata che opera per la preminenza di quell’etnia proponendo un programma di opposizione al gruppo bianco, portatore del capitalismo distruttore della vecchia società, si rivolge agli strati rurali più arretrati, fomenta gli odi razziali, lavora per organizzare un proprio sindacato in opposizione alla COSATU giungendo a provocare gravi scontri soprattutto contro gli indiani.

In breve tempo la COSATU ha rafforzato la propria posizione all’interno della società sudafricana divenendo la cinghia di trasmissione dell’ANC fra i lavoratori, principalmente nel periodo precedente le elezioni multirazziali, che prevedono anche miglioramenti per i lavoratori negri. In seguito, quando l’ANC ha abbandonato le rivendicazioni radicali ed il programma di nazionalizzazione dell’apparato produttivo e delle grandi imprese agroalimentari, e poi, nel periodo appena concluso di Mandela, quando è congelato il piano di ridistribuzione delle terre, ma soprattutto con l’inasprimento dell’Iva sui prodotti alimentari di base, la COSATU ha rivendicato una maggiore autonomia dall’ANC per quanto riguarda il piano economico. La grande organizzazione sindacale ha invece rinsaldato il suo legame con il SACP (Partito Comunista Sudafricano) dalle cui file proviene Mbeki, dal quale prudentemente si dimise prima delle elezioni del 1994 per divenire subito vice presidente, ed ora successore di Mandela.

LO SFONDO ECONOMICO DEL TRAPASSO

Il capitale mondiale ha seguito con la dovuta attenzione l’evolversi della situazione in Sudafrica e suoi numerosi centri di studi economici hanno puntualmente riferito lo svolgersi dell’economia di quel paese durante il passaggio che ha portato alla pacifica elezione di Mandela. In realtà questi documentati lavori ci descrivono non le difficoltà di un cambiamento sociale ma il degradarsi del corso del capitalismo in quel paese; non è la “nuova democrazia” ad arrancare col fiato corto ma è il processo di riproduzione e circolazione delle merci e dei capitali a mostrare tutta la sua senilità.

Il prima durante e dopo Mandela ci vengono descritti minuziosamente come il decorso di una terapia secondo la quale una nuova medicina, la fine dell’apartheid, è utilizzata in estremo per salvare dallo stato di coma permanente un ammalato grave che non si sa come altrimenti salvare; invero la sua agonia, pur lenta e non senza sussulti, è irreversibile, ma cesserà solo quando la rivoluzione proletaria, con il dovuto atto di forza, lo fredderà per sempre.

Seguiamo quindi la crisi economica in Sudafrica, riflesso di quella mondiale, attraverso le relazioni economiche apparse puntualmente a cadenza annuale su “Problèmes Économiques”.

Nel 1990 viene eletto De Klerk e, con le dovute precauzioni, è rimesso in circolazione Mandela. A quella data la popolazione della Repubblica Sudafricana è calcolata in 31 milioni, con l’esclusione dei quattro Bantustan più grandi, considerati indipendenti a tutti gli effetti, di cui 5 milioni di bianchi, 3 milioni di meticci, 1 milione di asiatici e 22 di negri. Attualmente essa è stimata in 40 milioni dopo l’accorpamento nello Stato centrale dei Bantustan, che fa da salire a 30 milioni la popolazione negra. La temuta fuga di una parte della classe dirigente bianca non è avvenuta se non a livelli bassissimi. Inoltre è stimata la presenza di oltre 1 milione di clandestini negri provenienti dai paesi confinanti, arrivati in Sudafrica in cerca di un lavoro. Secondo “Le Monde Diplomatique”, marzo 1999, il fenomeno è così vasto che «Le autorità hanno intensificato la caccia agli immigrati clandestini, venuti soprattutto dai paesi vicini; ne sono stati arrestati 100.000 durante i primi otto mesi del 1998».

I dati riportati nella relazione del 1992 della banca Parisbas sono confortanti: parlano di un paese che assicura l’autosufficienza alimentare, esporta anche il 20% della sua produzione agraria con un tasso di crescita delle produzioni alimentari superiore a quella dell’aumento della popolazione. Il fatto che le sue ingenti esportazioni siano costituite prevalentemente da materie prime, il 58% di tutto, piuttosto che di prodotti industriali e manifatturieri, pongono però il Sudafrica ancora tra i paesi in via di sviluppo la cui economia è fortemente legata al corso dei prezzi delle materie prime, calcolati nelle grandi capitali della finanza borghese, e quindi fortemente ed immediatamente esposta alle crisi della sovrapproduzione capitalista. Prova ne sia che il tasso di crescita nel periodo 1974/81 scende al 2,4%, ristagna allo 0% nel 1981/84, risale all’1,9% nel 1984/88, nel 1989 è in crescita per un 2,1% mentre nel 1990 è in negativo per 0,9%. Le sue esportazioni sono costituite inoltre per il 29% di prodotti manifatturieri e dal 3% di prodotti agroalimentari. La popolazione attiva è stimata in 13 milioni di cui 8 inseriti nel settore formale, 2,5 in quello “informale”, 1 vive di autosufficienza ed il rimanente 1,5 è disoccupato.

Secondo questi confortanti parametri il tasso di disoccupazione sarebbe del 10% scarso di tutta la popolazione attiva, valore che contrasta irrimediabilmente con quelli del 40% riferiti da altre fonti. Come già accennato Mandela nella sua relazione parlamentare a conclusione del suo mandato ammetterà che nel 1999 è salita al 42%. Probabilmente Parigi intende rastrellare capitali da convogliare in Sudafrica per cui, utilizzando certamente sistemi di calcolo diversi, per il momento presenta un quadro più ottimista.

Gli investimenti interni nel periodo 1985/90 sono pari al 20% del P.I.L. e sono ripartiti in 7,6% pubblici e 12,2% privati in cui fanno una buona parte i fondi pensione privati che per il momento non possono ancora operare all’estero. Nel 1990 l’attivo dei fondi pensione era di 21 miliardi di dollari e quello delle assicurazioni a lungo termine di 43,6 miliardi, pari a circa la metà del P.I.L. annuale stimato in 128 miliardi. Prima della fine dell’apartheid i disinvestimenti stranieri, soprattutto USA, a scopo di pressione sul governo centrale, sono solo di facciata e si tratta di puri trasferimenti di proprietà a società di comodo. È invece il corso delle materie prime che pesa sull’economia sudafricana, e di conseguenza sugli investimenti finanziari stranieri: ma, nonostante il mutevole andamento delle loro quotazioni, la bilancia commerciale è in attivo e il valore del P.I.L. pro capite è aumentato.

Questa è la situazione all’inizio della concertazione fra De Klerk e Mandela: secondo i dati dell’esercizio finanziario del 1985 si trova che il P.I.L. del Sudafrica come massa è un settimo di quello italiano ed un terzo come valore pro capite; rapportato all’Africa sempre come massa è uguale a quello di tutti i paesi del Maghreb più l’Egitto messi insieme, che hanno però una popolazione maggiore.

Nel 1994, al termine del mandato preparatorio di De Klerk, il dipartimento delle finanze per l’Africa del Sud di Zurigo ha redatto un dettagliato rapporto sull’economia sudafricana che è stato pubblicato in sintesi su “Problèmes Économiques” di ottobre di quell’anno. Stimava in 40 milioni la popolazione di tutto il paese dopo l’unificazione dei Bantustan sotto il governo centrale, stabiliva in 2,4% il tasso di crescita annuale medio della popolazione, la cui composizione razziale era la seguente: 76% di negri, 13% di bianchi, 8,6% di meticci e 2,6% di asiatici.

L’economia sudafricana dopo la fine delle sanzioni economiche ha potuto sviluppare liberamente il settore finanziario che si è ben dispiegato sia nel mercato interno sia in quello esterno, rafforzando così i settori estrattivi e manifatturieri. Per prevenire un’eventuale fuga in massa di capitali viene introdotta la clausola che le finanziarie sudafricane possono esportare capitali in misura equivalente all’ingresso di capitali esteri. Nel 1995 questo tetto era fissato in 10 miliardi di rand mentre si stimava in 150 miliardi la cifra dei capitali che lascerebbero il paese in assenza dei controlli sui cambi.

La recessione iniziata nel marzo del 1989 ha toccato il livello più basso nel 1992 per risalire debolmente nel 1993. Essa non ha causato una considerevole caduta del P.I.L. reale ma è stata duramente sopportata dalla popolazione a causa di un significativo aumento della disoccupazione e ha subito un tasso di inflazione medio del periodo del 14%, Anche l’Iva è salita dal 10% al 14%, particolarmente sentita sugli alimenti di base, mentre i tassi di interesse bancario salgono dal 12% al 17%.

Man mano che il processo di trasferimento del potere si attua in modo lineare e pacifico anche il rapporto di parità tra rand e dollaro commerciale e finanziario si avvicina alla parità, segno di stabilità e tranquillità per buoni affari, e, pur svalutandosi, la differenza fra rand commerciale rispetto quello finanziario scende dal 38% del 1985 al 21% del 1993.

Complessivamente le esportazioni sono in costante crescita, nel 1993 sono di 79,5 milioni di rand e superano del 27% le importazioni; il 32,5% di queste vanno in Europa, il 18% in Asia e l’8,5% in America. Le importazioni seguono lo stesso flusso con rapporto un po’ diverso: 45% dall’Europa, 26,5 dall’Asia ed il 16% dall’America; la differenza consiste principalmente per quanto riguarda le esportazioni nel continente nero, dove il Sudafrica esporta senza reimportare adeguatamente. I settori merceologici del commercio estero sono nell’ordine, calcolati in rand, nel 1993: pietre preziose e semilavorati 12,7%; metalli di base 12,4%; minerali 10,6%; prodotti chimici 4,2%; macchinari 3,5%; veicoli ed equipaggiamenti per trasporto 3,4%; carta 2,4%. I prodotti alimentari complessivamente con il 4% costituiscono la quarta voce del bilancio.

CONTINUA L’ALTALENA DELLA CRISI

Basandosi su questa analisi l’ANC lancia, al momento delle prime votazioni interrazziali che lo portano inevitabilmente al potere, un programma di ricostruzione e sviluppo economico di 39 miliardi di rand in 5 anni (il P.I.L. del 1994 è stato di 422 miliardi). Il partito di opposizione più forte, il National Party, ovviamente contesta tali cifre considerandole irrisorie e parla di una cifra ben più grande: 600 miliardi di rand. Praticamente il NP ha contabilizzato i suoi debiti economici nei confronti del proletariato sudafricano poiché la sua dettagliata lista prevede spese di base: istruzione obbligatoria e gratuita per tutti i giovani, lotta all’analfabetismo per gli adulti, sanità diffusa ed opere per la maternità ed infanzia, sostegno alimentare ai più bisognosi, salario minimo garantito, costruzione di case, acquedotti, elettrificazione, riduzione dell’Iva sui prodotti di base, ridistribuzione delle terre e rimborsi per gli espropri delle zone minerarie. Questa è solo una parte di una lista completa di 23 voci del programma e dei relativi costi che il NP prevede necessari per sanare le evidenti ingiustizie presenti. Siamo grati per il minuzioso computo fatto da lor signori perché così facendo hanno avuto il coraggio di quantificare l’attuale minimo rimedio al loro secolare furto di ricchezze della terra e di plusvalore del proletariato.

Secondo una relazione dell’IFO, istituto di studi economici di Monaco (la Germania è il primo partner commerciale del Sudafrica con il 16,7% delle sue importazioni) l’anno successivo, il 1995, dal punto di vista finanziario è stato un anno positivo poiché il tasso di crescita si è attestato al 3,5% nonostante una caduta del 15% della produzione agricola a causa della siccità e del 3,5% della produzione mineraria. Il problema più preoccupante riguarda la produzione dell’oro, dovuto sia alla costante diminuzione del tenore di minerale delle miniere in esercizio, che calano dalle 1.000 tonnellate del 1970 alle 522 del 1995, sia alle sue quotazioni che continuano a scendere; ciò provoca la chiusura delle miniere meno redditizie, nonostante che la svalutazione del rand favorisca le esportazioni.

Terminata la siccità l’agricoltura riprende la sua crescita ed il suo apporto all’export; la produzione manifatturiera cresce del 7,5% rispetto all’anno precedente, il reddito pro-capite aumenta del 2,5% nel 1995 producendo un allargamento del mercato interno del 5%, principalmente rivolto ai beni durevoli e alle automobili. A causa della continua svalutazione del rand la bilancia commerciale con l’estero si deteriora notevolmente anche per la forte crescita delle importazioni, del 20% in volume e del 29% in valore, parzialmente attenuata da un aumento delle esportazioni del 16% in volume e del 24% in valore.

Le forti riserve auree e di valute pregiate hanno attutito il colpo ma si sono ridotte al livello di coprire 7 settimane di importazioni. Il corso del rand sul dollaro resta molto mutevole e rispecchia l’incertezza sulle capacità della nuova ed inesperta classe dirigente negra a controllare la situazione, considerata instabile nonostante l’euforia della prim’ora e la congiuntura economica ancora favorevole. Prova ne è che da febbraio ad aprile 1996 voci infondate circa una grave malattia di Mandela fece cadere del 16% il corso del rand.

Tutti si chiedono, anche noi, con attese e prospettive diverse dalle loro, che cosa accadrà quando la crisi economica svelerà tutta la sua durezza.

Nonostante i risultati economici positivi non c’è stato un aumento dell’occupazione: tra il giugno 1994 e ’95 è inferiore all’1%, corrispondente a 44.335 nuovi posti di lavoro nei settori non agricoli quando ogni anno si presentano per la prima volta sul mercato del lavoro 700.000 nuovi giovani. Il fatto è ancora più grave se si considera che nel 1995 per restrizioni di bilancio sono stati soppressi 32.000 posto di lavoro nelle amministrazioni regionali. Malgrado il settore informale, cioè precario e senza garanzie, assorba buona parte di questa forza lavoro, le stime più ottimiste parlano di un 35% fra disoccupati e sottoccupati.

È annunciata, come da programma elettorale, una revisione generale della legislazione sul lavoro ma non vi è più cenno del salario minimo. Grazie al basso costo del lavoro per unità di prodotto, vi è stato un aumento di produttività del 2,6% e l’inflazione è scesa, nel 1995, dall’11% al 6,9% mentre l’Iva rimane al 14%. Ciò vuol dire che ancora una volta la classe operaia non ha tratto alcun vantaggio dalla congiuntura favorevole ma ha dovuto sopportare il peso del risanamento economico. Basti pensare che agli inizi del 1994, poco prima delle elezioni di Mandela, il presidente uscente De Klerk, come gesto di distensione fra le parti, decise di annullare tutti i debiti che i ghetti negri urbani avevano con le amministrazioni municipali per quanto riguardava la fornitura di acqua, luce, raccolta dei rifiuti ed altri servizi urbani; due anni più tardi lo stesso Mandela ammise che la cifra di tali debiti era già risalita a 2 miliardi di rand, giacché meno del 10% della popolazione utilizzava “regolarmente” i servizi pubblici. Inoltre lo Stato riuscì a costruire solo 12.000 abitazioni contro le 50.000 realizzate nell’ultimo anno di apartheid.

Contemporaneamente nell’ambito dei rapporti fra le classi, i problemi più discussi per la stesura del testo della nuova Costituzione riguardano le restrizioni della legislazione fondiaria al fine di evitare una riforma agraria radicale e, sul piano del lavoro, l’inserimento o meno del diritto alla serrata per i datori di lavoro, che lo rivendicano per contrastare il già riconosciuto diritto di sciopero. Dopo aver indetto lo sciopero generale il 30 aprile 1996, la COSATU, sostenuta da Mandela, fa marcia indietro quando ottiene delle garanzie in merito, ma dovrà accettare una soluzione legale di compromesso.

La mole dei problemi, delle contraddizioni economiche e dei continui cedimenti verso gli interessi del grande capitale obbligano la cricca di Mandela a ritirare, dopo soli due anni, il già debole programma economico pre-elettorale e a presentarne un secondo che addirittura in un arco di 10 anni prevede una crescita annua del 6% e la creazione di 500.000 posti di lavoro per anno, basandosi sulla previsione di una crescita delle esportazioni, oro escluso, del 10% annuale. Queste favorevoli prospettive derivano dal fatto che il Sudafrica è ora ammesso nel SADC, una comunità economica di libero scambio di 12 paesi dell’Africa australe, in cui il P.I.L. sudafricano è 4 volte superiore a quello degli altri 11 paesi messi insieme, verso i quali si può ora esportare senza restrizioni e vincoli doganali, mentre le importazioni sono minime, con un rapporto di 6 a 1 e che va sempre aumentando.

Al contrario delle nazionalizzazioni sbandierate in campagna elettorale ora invece si parla di privatizzazioni delle aziende nazionali e dei conseguenti piani di ristrutturazione che significano sempre licenziamenti ed aumento non di salario ma di sfruttamento. Questi piani appena lanciati hanno provocato una serie di scioperi selvaggi, bloccati con la promessa di un controllo sindacale e del mantenimento dei posti di lavoro.

BORGHESIA NEGRA ALLA PROVA

Tutti questi buoni risultati per il capitale hanno permesso a Mandela, nella primavera del 1996, di effettuare un giro politico in Europa allo scopo di rastrellare capitali da investire in Sudafrica e per mostrare che il processo di formazione di una classe dirigente e di una borghesia negra prosegue, anche se con le sue lentezze ed incertezze. A parole si parla moltissimo del trasferimento dei poteri verso i negri, ma nei fatti i capitali non hanno cambiato proprietà ed i nuovi dirigenti negri nelle aziende hanno un potere limitato riguardante prevalentemente questioni di gestione e non di controllo degli investimenti, il quale rimane ben saldo nelle mani della vecchia dirigenza.

Le poche aziende gestite esclusivamente da negri, inizialmente nel campo della produzione e distribuzione di birra e bevande varie di provenienza americana, dopo un breve periodo di espansione sono entrate in grave crisi ed alcune sono fallite. In sostanza si è trattato, nel primo momento, di una colossale azione della Pepsi Cola che tentava di penetrare nel paese e sottrarre quote di mercato alla Coca Cola utilizzando a tale scopo l’immagine e la presenza di personaggi dello spettacolo e dello sport della comunità negra americana. Successivamente in tutti i settori economici, e ove necessario anche con pressanti inviti, vi è stato l’inserimento di quadri dirigenti negri. Fino a venti anni fa i negri non possedevano alcun diritto di proprietà, di residenza permanente e di accesso ai capitali ed al grande credito, nel 1990 nessuna azienda detenuta e amministrata da negri era quotata alla Borsa di Johannesburg, mentre ora 17 imprese su 625 quotate sono controllate da negri con una capitalizzazione complessiva di 28,4 miliardi di rand.

In questo processo di formazione e di ampliamento di una piccola e media borghesia negra i sindacati svolgono un ruolo attivo di mediazione borghese: da una parte difendono gli interessi dei lavoratori contro le enormi storture presenti, dall’altro impiegano una buona parte dei loro fondi per la creazione di una classe dirigente negra mediante l’acquisto di quote societarie nelle aziende. Nessuna transazione sfociata in questo tipo di aumento di potere ai negri è avvenuta senza un congruo intervento economico dei sindacati, che in questo modo, oltre ad ottenere l’assunzione di quadri di loro gradimento, diventano, più che garanti, veri e propri soci in affari. Si tratterà di vedere che cosa succederà quando lo sviluppo della crisi imporrà i ben noti piani di ristrutturazione.

A conclusione del mandato presidenziale di Mandela, appena terminato nel giugno 1999 il quadro riassuntivo per quanti attendevano un reale miglioramento per la grande massa proletaria negra è desolante e descrive la situazione in un paese in cui la quasi totalità della popolazione, nonostante le grandi potenzialità economiche, vive in enormi e miseri quartieri ghetto ai margini delle grandi città o in centri periferici dove mancano ancora i servizi primari di luce, acqua e fognature.

Secondo le fonti governative sono state costruite soltanto 500.000 nuove abitazioni, attivate 10.000 nuove classi scolastiche, portata l’acqua potabile per 3 milioni di persone (spesso però di tratta si una semplice fontanella pubblica), elettricità per 2 milioni, telefoni per 1.700.000 fra ambulatori e piccoli ospedali. L’inflazione è scesa all’8% con però il 42% di lavoratori negri ed il 4% di bianchi disoccupati.

Eppure gli ultimi dati calcolano il P.I.L. del Sudafrica in 125 miliardi di dollari, uguale al 45% del totale dell’Africa e al 75% dell’intera regione subequatoriale. Rapportato alla scala mondiale il suo peso scende notevolmente allo 0,5% mentre a livello europeo grosso modo è paragonabile alla Bulgaria ed all’Ucraina.

Attualmente non vi sono clamorosi sviluppi in positivo, difficilmente pensabili in questo contesto di crisi economica a scala mondiale, anzi altri dati ci dicono che la situazione, pur rimanendo sotto controllo a causa della positiva fase di assestamento democratico, dal punto di vista economico ha fatto soltanto modesti progressi dovuti all’incremento degli scambi commerciali, non più limitati dalle sanzioni economiche. Tra questi è sensibile la vendita di armi, per 216 milioni di dollari nel 1997, il 34% in più rispetto il 1996; dal 1994 questa industria ha esportato per 600 milioni di dollari con un portafoglio di 91 clienti in tutto il mondo ed è diventata per importanza il secondo settore di esportazione manifatturiera, benché dia lavoro a solo l’1% della manodopera industriale.

Ma il continuo calo del prezzo dell’oro minaccia la chiusura di quasi la metà delle miniere in funzione, che attualmente debbono estrarre il minerale tra i 2.000 e 4.000 metri di profondità con costi molto elevati, controbilanciati sempre meno dai bassi salari che, ora più di prima, tendono a salire sensibilmente.

La forte disoccupazione è causa di una considerevole criminalità diffusa e le statistiche in merito sono impressionanti: secondo l’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza, ogni giorno si registrano una cinquantina di morti violente, il tasso più alto del mondo, sei volte superiore a quello degli Stati Uniti. La pena di morte è stata abolita, con molti contrasti, nel 1995, un anno dopo il governo Mandela; all’epoca dell’apartheid il Sudafrica deteneva il record di esecuzioni capitali nel mondo occidentale e attualmente, sempre secondo “Le Monde D.” del marzo 1999, «L’insicurezza ha favorito lo sviluppo di una florida industria della protezione privata. Le case dei bianchi benestanti sono tutte dotate di dispositivi di allarme. L’ultimo grido in materia è farsi installare un lanciafiamme optional sull’automobile. Le società private — 300.000 tra agenti ed impiegati — dispongono ormai di effettivi ben superiori a quelli della polizia (134.000 agenti). E anche tra i negri si assiste alla proliferazione di polizie private».

Sul fronte estero il Sudafrica si presenta come una potenza subcontinentale in fase di espansione che non disdegna l’intervento armato esterno “per motivi di sicurezza interna”, come avvenne in Lesotho nel settembre 1998 quando l’esercito sudafricano ricevette l’ordine di penetrarvi per porre fine ai gravi disordini sorti in quel minuscolo paese per le forti contestazioni di parte della popolazione e dell’esercito causate dai brogli elettorali appena avvenuti. Questo avvenimento fu commentato sulla nostra stampa di partito come la conferma di una continuità del Sudafrica nel ruolo di garante dell’ordine imperialista nell’Africa australe. In realtà c’è la profonda convinzione che il Sudafrica voglia annettersi questo piccolo regno, rimasto sempre indipendente già dai tempi della colonizzazione inglese, per realizzare un progetto di un grande complesso di dighe necessarie a fornire l’acqua a tutta la regione per potenziare il settore agricolo e l’allevamento.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia dell'oro
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Aggiornamento: 12/11/2013