METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
Dalle conoscenze alle competenze, passando per le opzioni


LA STORIOGRAFIA AMERICANA CONTEMPORANEA

Malcolm X

Sin dalla II guerra mondiale l'evoluzione del pensiero storico americano è stata largamente determinata da un forte rinnovamento delle sue basi metodologiche. Si cominciò infatti coll'adottare i metodi cosiddetti quantitativi e interdisciplinari, molto più positivistici del logoro neokantismo.

Naturalmente le esigenze della politica governativa, in tale mutamento, ebbero la loro parte. La maggioranza degli storici americani sposò le idee di un gruppo sociale elitario e costituì l'ala apologetica degli studi storici di questo paese: una piccola minoranza invece rifletteva gli interessi dell'opposizione sociopolitica e per questo la si può definire socialmente critica.

Il legame tra ricerca storica e schieramento politico è sempre stato molto sentito negli Stati Uniti: proprio in virtù di esso gli storici decidono le metodologie da adottare, gli argomenti da trattare, le fonti da consultare, ecc.

Negli anni '50 e '60 del secolo scorso la scuola apologetica del consensus servì da "portavoce storiografica" alle istituzioni: essa tolse al passato americano la scomoda realtà dei conflitti di classe e alimentò il concetto di "esclusività americana".

Tuttavia, a partire dalla metà degli anni '60 sino alla fine degli anni '70, il trend storiografico radicaldemocratico, che si sviluppò in sintonia con i movimenti democratici di massa di quel periodo, provocò un'inversione di rotta. Gli antagonismi, le contraddizioni e i conflitti non solo smettevano d'essere censurati, ma venivano anche posti alla base del processo storico.

Si può in sostanza dire che la storiografia americana non marxista è passata, dalla seconda guerra mondiale sino all'inizio degli anni '80, per tre stadi: conservativo, liberale e radicaldemocratico, ognuno dei quali ha chiaramente espresso uno stretto legame fra la storia come disciplina e le situazioni sociopolitiche in mutamento.

Negli anni '40 e '50 la storiografia reagì favorevolmente alla "guerra fredda" scatenata dalle autorità americane e alla pesante atmosfera anticomunista. La scuola del "consenso" era riuscita facilmente a far convergere gli orientamenti conservatori e liberali, la cui principale differenza stava semplicemente nell'idea storica dell'America.

Gli storici conservatori sostenevano che la società nordamericana avesse conseguito la sua forma classica nel momento in cui i Padri pellegrini (o fondatori) sbarcarono in America dal Mayflower nel 1620, stipulando il primo "contratto sociale" della storia. I liberals invece sostenevano il capitalismo monopolistico riformato, che, a loro giudizio, avrebbe creato uno stato di prosperità universale.

In ogni caso entrambi i gruppi manifestavano piena lealtà alla teoria dell'esclusività americana, e interpretavano l'esperienza storica americana come l'incarnazione di un esperimento democratico unico. Essi videro lo Stato economico creato dai monopoli come molto solido e negarono la presenza di antagonismi di classe e conflitti sociali acuti nella storia americana.

L'assenza di un'eredità feudale nel passato americano si pensava avesse liberato la storia degli Usa non solo dalla tradizione borghese rivoluzionaria ma anche da quella socialista. Questa tesi, elaborata per la prima volta da Louis Hartz nel 1955, acquistò subito vasti consensi.

La tradizione socialista veniva così ad essere considerata una conseguenza della lotta antifeudale, non antiborghese: era il prodotto non della società capitalista ma di quella feudale. Questa concezione storica priva di qualunque scientificità venne usata proprio per eliminare la tradizione rivoluzionaria, radicale e socialista del passato americano.

Ma proprio nel momento in cui sembrava che l'edificio costruito su questi pilastri teoretici fosse di una solidità eccezionale, scoppiò la gravissima crisi degli anni '60. Influenzati dalla lotta per i diritti civili dei neri americani, dal movimento di massa antimilitarista e dalle azioni politicosindacali della classe operaia, gli storici cominciarono ad assumere posizioni radicali e di sinistra.

La scuola del consenso andava perdendo ogni credibilità e l'ala liberale si stava progressivamente staccando da quella conservatrice. Una monografia di R. Hofstadter, leader riconosciuto della tendenza liberale, conferma questo mutamento. Mettendo criticamente a confronto le due principali scuole storiografiche non-marxiste degli Usa, quella del consensus e quella progressista, egli ammise non solo che nella storia dell'America ci sono stati forti conflitti e contraddizioni antagonistiche, ma anche che la guerra d'Indipendenza del 1775-83 e la guerra civile del 1861-65 avevano un carattere rivoluzionario (cfr The Progressive Historians: Turner, Beard, Parrington, N.Y. 1968).

Tuttavia, il risultato più importante degli anni '60 fu la formazione della cosiddetta storiografia new left (nuova sinistra), che si guadagnò i riconoscimenti accademici negli anni '70 e '80 con la denominazione di "scuola radicale".

Molto famosi divennero i suoi principali esponenti: W. A. Williams, G. Kolko, E. D. Genovese, E. Foner, H. G. Gutman, L. F. Litwack e M. Dubofski. A tutt'oggi essa rappresenta il meglio della storiografia americana. La stessa scuola marxista non regge il confronto.

Le sue origini risalgono alla progressive school degli inizi del secolo. Ch. Beard, C. L. Becker, V. L. Parrington, A. Schlesinger sr., C. Vann Wooward furono i primi non-marxisti ad elaborare una sofisticata analisi delle tradizioni rivoluzionarie, radicali e democratiche della storia americana, i primi a studiare la lotta di classe dei farmers e dei movimenti di massa antimonopolistici.

Questi storici distinguevano tre principali periodi nella loro concezione della storia americana: un periodo iniziale che va dalla formazione delle colonie nordamericane alla fine del XVIII sec.; un periodo medio che va sino al 1860; e l'ultimo periodo che andava a concludersi agli inizi del Novecento.

Stando alle loro analisi la guerra d'Indipendenza - definita come una "rivoluzione socio politica" - portò il primo periodo a maturità; la guerra civile (chiamata anche "seconda rivoluzione americana") concluse il secondo periodo; mentre la vittoria delle forze antimonopoliste fu l'atto culminante del terzo periodo.

Le concezioni contraddittorie e a volte semplicistiche di questa scuola progressista dipesero indubbiamente dalle origini piccolo borghesi dei suoi esponenti, nonché da un certo eclettismo metodologico. Sebbene infatti essi riconoscessero l'importante ruolo della lotta di classe nella storia degli Usa, non considerarono mai il proletariato come una classe indipendente, caratterizzato da una propria ideologia, preferendo invece vedere i lavoratori come alleati della borghesia liberaldemocratìca. Lo dimostra ad es. il fatto ch'essi stimavano il new deal di Roosevelt degli anni '30 come la "terza rivoluzione antimonopolistica" degli Usa.

Sotto questo aspetto si può tranquillamente affermare che gli storici radicali degli anni '60 siano stati influenzati dal marxismo molto più dei loro colleghi progressisti d'inizio secolo. Essi infatti videro la società capitalistica americana come un sistema antagonistico a livello economico, sociale e politico, che tale è stato - come essi ben evidenziarono - sin dall'inizio della storia americana, e non solo relativamente al periodo moderno. Di qui la loro esigenza di trasformare la critica dei monopoli in una critica del sistema qua talis.

I progressisti avevano ricondotto la lotta di classe a una serie di conflitti fra interessi meramente economici di diversi strati sociali. Gli storici radicali invece mostrarono l'influenza delle leggi economiche basilari del capitalismo (e anzitutto quella dell'accumulazione privata capitalistica) nelle motivazioni dello Stato borghese e della borghesia americana, in campi come quelli della politica sociale ed economica, interna ed estera.

Ma c'è di più. Gli storici progressisti pensavano che gli interessi di classe del proletariato fossero semplicemente volti a migliorare le proprie condizioni materiali d'esistenza, all'interno di una società borghese mai messa in discussione. Essi han sempre guardato la classe operaia come un alleato o addirittura come un supporto sociale dei politici liberalriformisti.

Viceversa, gli storici radicali erano convinti che gli interessi del proletariato fossero anticapitalisti e sostanzialmente diversi dagli obiettivi liberalriformisti. H. Gutman, D. Montgomery, M. Dubofsky, J. R. Green, J. Weinstein e altri, in questo senso, criticarono duramente la scuola del Wisconsin che aveva dominato gli studi del movimento operaio americano per buona parte di questo secolo.

I "wisconsinisti" - essi notarono - avevano scorrettamente equiparato la storia del proletariato americano con quella delle trade unions, sebbene quest'ultime non raccogliessero più di 1/5 di tutti i lavoratori americani. Peraltro di queste unions si preferiva prendere in considerazione solo il pensiero e l'azione dell'élite: gli altri membri venivano considerati più o meno consenzienti. Non a caso le contraddizioni fra il proletariato e la borghesia venivano ridotte a semplici conflitti di carattere economico-sindacale, riguardanti il mercato del lavoro.

Gli storici radicali, servendosi di metodi quantitativi moderni e di approcci interdisciplinari, contribuirono enormemente alla comprensione del ruolo della borghesia e dello Stato, della società monopolistica e della politica estera imperialistica. In particolare fornirono validi strumenti per individuare la mentalità del lavoratore americano, la cui vita sociale veniva analizzata sotto gli aspetti religiosi, familiari-parentali, politico ideali, ecc.

Oltre ai nomi citati possiamo ricordare M. Urofsky, R. Radosh, W. F. La Feber, G. Alperovitz, L. C. Gardner, T. Mc Cormic. Ma, nonostante ciò, molte loro opere soffrono di stereotipi ideologici e di eclettismo metodologico.

E' ben noto, ad esempio, l'approccio idealistico nell'analisi del ruolo della borghesia durante le prime tappe del capitalismo o l'ammirazione per le azioni spontaneistiche del movimento operaio. Alcuni storici radicali hanno sopravvalutato le capacità dei sistema monopolistico statale di preservare se stesso.

Queste due correnti continuano ad esercitare una certa autorità nel panorama degli studi storici americani. Alla presidenza dell'organizzazione degli storici americani si sono succeduti, nel corso degli anni Ottanta, tre radicali: Williams, Genovese e Litwach.

Ma a partire dalla metà degli anni '70 una terza corrente è venuta prepotentemente emergendo: quella conservatrice. Gli scrittori collegati a questo nuovo trend hanno esordito attaccando frontalmente non solo le concezioni radical democratiche ma anche quelle liberali. Essi ad es. condannano le politiche governative dei presidenti Kennedy e Johnson, rifiutano tutti i programmi di assistenza sociale degli anni '60, ritengono che la povertà e l'ineguaglianza siano inevitabili, parteggiano per il darwinismo sociale e le idee malthusiane.

In particolare, sul concetto di povertà le loro opinioni sono davvero singolari: chi sostiene che i poveri degli Usa sono molto più ricchi dei poveri del Terzo mondo, chi pensa che la povertà non sia un fenomeno oggettivo ma una "percezione soggettiva" degli strati sociali più bassi, chi addirittura ritiene che l'assistenza sociale sia un incentivo alla povertà: basta leggersi le opere di I. Kristol, D. Bell, T. J. Lowi, B. Y. Pines... Insomma, l'aspirazione massima di questi storici conservatori è quella di tornare all'americanismo anni '50, quando tutto appariva "facile".

Proprio alla fine degli anni '50 si verificò una sorta di "rivoluzione metodologica" negli studi storici: essa determinò la nascita della cosiddetta new scientific history. L'uso interdisciplinare dei metodi di molte scienze: sociologia, politologia, psicologia, antropologia, etnografia, demografia... unitamente all'adozione di metodi di ricerca quantitativi, portò alla convinzione che la storiografia poteva essere paragonata a una "scienza esatta".

Il tentativo non era solo quello di superare i limiti della teoria del consenso, ma anche quello di fornire un metodo scientifico, oggettivo, libero da ogni pregiudizio, da ogni orientamento ideologizzato, tanto che secondo ì fautori di questo nuovo indirizzo tutte le precedenti distinzioni storiografiche avrebbero perso il loro senso.

All'inizio, in effetti, si ebbe un'impressione alquanto favorevole. Gli orizzonti e le capacità della storiografia si erano allargati. Tantissime cose interessanti si erano scoperte, specie nello studio delle esperienze collettive e della consapevolezza dei popoli di epoche diverse.

Questa nuova metodologia divenne parte del bagaglio teorico di storici marxisti e non marxisti di tutte le tendenze. Ma sarebbe far loro un torto sostenere che la "nuova storia scientifica" abbia eliminato le differenze che li dividevano, o che i metodi quantitativi e interdisciplinari costituissero la quintessenza metodologica degli studi storici.

Basta vedere cosa è successo in questi ultimi 40 anni: la new scientific history si è suddivisa in diverse branche, all'interno delle quali prevalgono nettamente le correnti conservatrici e liberali, nonché i metodi della più pura sociologia e politologia borghese.

Ecco alcuni esempi per convincersene: gli storici che hanno studiato le cause della guerra civile americana, sostengono che la schiavitù e di conseguenza gli antagonismi di classe fra il nord capitalista e il sud schiavista non ebbero alcuna parte di rilievo nello scatenamento della guerra, e lo dimostrerebbe secondo loro il fatto che gli elettori votarono per i democratici o i repubblicani a seconda delle diverse tradizioni etnico-religiose. In pratica la new political history considera molto più importanti dei conflitti di classe le contraddizioni di tipo etnico-religioso.

I leaders riconosciuti della new economic history, R. W. Fogel e S. L. Engerman, cercarono persino di dimostrare che il sud schiavista aveva conosciuto, nei decenni anteriori alla guerra, uno sviluppo progressivo. Il loro Time ori the Cross (Boston 1974), due volumi dedicati all'esame della schiavitù, si basa su quattro tesi fondamentali:

  1. la schiavitù negli Usa fu un sistema economico altamente produttivo e redditizio, che alla vigilia della guerra civile stava prosperando sia negli Stati costieri dell'Atlantico che nei nuovi Stati occidentali;
  2. il lavoro schiavistico nelle piantagioni fu più produttivo del lavoro libero dei farmers bianchi e dei salariati agricoli;
  3. le piantagioni garantivano agli schiavi un più alto standard di vita rispetto a quello offerto dal capitalismo al proletariato industriale e a quello raggiunto dai neri americani dopo l'emancipazione;
  4. le piantagioni non reprimevano le capacità fisiche, intellettuali e morali degli schiavi, i quali anzi appresero gli elementi del cristianesimo, della famiglia monogamica, ecc.

Queste tesi vennero sottoposte a dura critica da molti storici marxisti e non. In modo particolare non sfuggì loro che Engerman e Fogel (inclusi altri esponenti della new economic history) avevano comparato lo schiavismo delle piantagioni a un solo breve periodo del capitalismo industriale, quello dal 1825 al 1850.

Effettivamente risultava una minore produttività del capitalismo, ma solo perché questo era agli inizi del suo cammino e non, come lo schiavismo, nel pieno delle forze. D. C. North, T. C. Cochran, G. R. Taylor e P. Temin ribatterono sostenendo che la guerra civile non stimolò affatto lo sviluppo capitalistico, ma anzi lo impedì, portando l'America degli anni '70 più indietro rispetto al 1860.

Tuttavia questo regresso economico fu momentaneo e in un certo senso fisiologico: i frutti delle rivoluzioni sociopolitiche non si fanno sentire subito.

In sostanza la new scientific history non fa che spezzare la storia sociale di tutte le tappe del capitalismo americano in molti tipi di "storie" fra loro giustapposte o parallele, comunque isolate dalla base economica e dalla struttura politica della società: di qui la storia della famiglia, delle donne, dei figli, degli adolescenti, delle comunità etniche, delle sette religiose ecc. Ogni singola storia viene trattata senza tener conto né dei principali orientamenti dello sviluppo storico, né delle fondamentali distinzioni di classe.

L'antistoricismo di questi metodi liberalconservatori è alla base del rifiuto di tutti i metodi di ricerca della storiografia classica e, nonostante gli approcci interdisciplinari e le tecniche quantitative, esso resta sostanzialmente apologetico del sistema borghese.

Viceversa, la storiografia radicaldemocratica, benché numericamente più debole dell'altra, rappresenta un'importante tendenza nell'evoluzione della new scientific history americana. M. B. Katz, M. J. Doucet e M. J. Stern, studiando la struttura sociale americana del 1850-75, hanno criticato l'interpretazione behaviouristica e sociopsicologica delle classi fornita dalla storiografia borghese, e hanno mostrato che gli interessi di classe possono trovare nel proletariato una consapevolezza e un comportamento inadeguati, ma non per questo essi risultano meno reali.

Il fenomeno caratteristico del Nord America in quel periodo di espansioni, la mobilità sociale, può aver fatto credere che non esistessero antagonismi fra le classi, ma si è trattato di una pura e semplice apparenza. Il capitalismo non fa sparire i conflitti tra le classi ma anzi li aggrava (cfr. The Social Organisation of Early Industrial Capitalism, Cambridge¬Mass., 1982).

Oggi la new scientific history, così come tutta la storiografia non marxista nordamericana, è suddivisa in tre fondamentali correnti, come già si è detto: conservatrice, liberale e radicaldemocratica. Nonostante alcuni punti in comune, a livello di metodo e di contenuto storiografici, le loro principali differenze si possono riassumere, per concludere, alle seguenti quattro:

  1. gli esponenti del trend liberale e conservatore aderiscono all'idea di una esclusività storica nazionale. Essi vedono la storia del mondo come una somma meccanica di storie nazionali, ognuna delle quali si è sviluppata secondo proprie leggi. Negli ultimi 30 anni s'è imposta una variante dell'esclusività americana. R. Palmer e i suoi seguaci hanno lanciato l'idea che la regione atlantica "avanzata" include anche i paesi euroccidentali, i quali però restano inferiori alla insuperata civiltà americana. Gli esponenti della tendenza radicale ritengono invece che il processo storico-universale sia unitario, nel senso che esistono alcune fondamentali leggi storiche che possono essere applicate allo studio della storia di ogni singola nazione.
  2. La maggioranza degli storici liberalconservatori sostiene un approccio multi-facIor alla casualità storica e crede nell'equivalenza dei fattori. Chi invece attribuisce l'importanza maggiore a un singolo fattore, il più delle volte sceglie fra i seguenti: mutamenti tecnologici, influenze ambientali, lo Stato e i partiti politici, aspetti biopsicologici. Viceversa, gli storici radicali puntano l'attenzione sugli elementi materiali ed economici dello sviluppo storico, e fra questi considerano che i conflitti sociali e di classe giocano un ruolo decisivo.
  3. Va detto tuttavia che solo gli storici più conservatori oggi negano completamente l'esistenza dei conflitti nella storia del loro paese. Per quelli liberali o moderati l'interpretazione dei conflitti storici viene usata come contrappeso a quella marxista. Si può anzi dire, sotto questo aspetto, che tra le principali interpretazioni liberalborghesi dei conflitti sociali vi sono: quella che nega il conflitto di classe ai livelli delle relazioni produttive, situandolo solo in quelle distributive; quella che, dopo aver diviso la società in molti piccoli gruppi, vede i conflitti sociali nelle diverse esigenze professionali o comunque vitali di questi gruppi, che pur possono avere un medesimo rapporto nei confronti della proprietà dei mezzi produttivi; quella infine che enfatizza i contrasti generazionali e della convivenza interetnica e religiosa.
  4. Sul piano della concezione politica del mondo, sia i conservatori che i liberali vogliono preservare, come noto, le posizioni storiche del capitalismo monopolistico, benché i liberali, a differenza dei conservatori, vogliono questo in virtù di riforme e di una regolazione monopolistico-statale dell'economia. Fra gli storici liberali si possono riscontrare anche sentimenti pacifisti e vagamente antimperialistici. I rappresentanti dell'ala radicale sono invece molto più netti nell'opposizione al dominio dei monopoli.

STORIOGRAFIA AMERICA SULLA POLITICA ESTERA

La situazione negli studi storici americani durante la transizione all'imperialismo e alla "Progressive Era" (fine 800 e prima decade del XX sec.) vedeva gli storici di professione cominciare a prendere il posto dei dilettanti e le tecniche di ricerca diventare sempre più perfezionate.

Nel 1884 si fondò l'American Historical Association e nel 1885 uscì il primo numero dell'American Historicol Review. L'approccio critico nei confronti del passato divenne un'esigenza comune: ne furono coinvolte discipline e scienze come il positivismo, diverse branche delle scienze naturali e, per certi versi, il marxismo.

Il trend economico-progressista di studiosi cone F. J. Turner, C. Beard, C. Becker e V. Parrington dominava la scena.

Che rapporti c'erano fra questi processi e l'evoluzione della storiografia della politica estera? Esisteva allora la cosiddetta "storia diplomatica", un settore degli studi storici completamente a se stante.

Mentre nel XIX sec. le opinioni sulla diplomazia americana dipendevano da argomenti di carattere generale, relativi alla storici degli Usa (si pensi alle opere di G. Bancroft, R. Hildreth e J. B. McMaster), con l'inizio del XX sec. invece, uscirono diversi studi specializzati sulla storia della politica estera, da parte di J. W. Foster, A. B. Hart, J. B. Moore, C. R. Fish e altri.

L'ingresso degli Stati Uniti sulla scena internazionale aveva stimolato l'interesse collettivo per le relazioni mondiali. Le maggiori università introdussero corsi monografici di politica estera, tenuti do famosi storici come il suddetto Hart e E. Channing ad Harvard, Turner e Fish nel Wisconsin.

Più tardi, negli anni '20, la prima opera a più tomi sui Segretariati di stato e la loro diplomazia apparve nelle edizioni del giovane S. F. Bemis.

Il carattere apologetico a favore dell'espansionismo americano cominciò a caratterizzare i lavori degli storici diplomatici professionisti dall'inizio del XX sec. in avanti. Unanimemente essi giustificavano la Monroe Doctrine, la politica-diplomatica del dollaro nei confronti del Sudamerica (si pensi alla guerra con la Spagna nel 1898), la politica delle "porte aperte" nel Far East, l'occupazione di Cuba, la "rivoluzione" di Panama e altri non meno evidenti atti aggressivi americani.

Ai seguaci di Turner sembrava completamente naturale che il processo di espansione coloniale del loro paese fosse culminato coll'avanzamento della frontiera americana verso l'oceano Pacifico, il Far East e le Filippine, senza parlare dei paesi dei Caraibi.

Si era insomma convinti, in buona o cattiva fede qui non importa, che fossero appunto i paesi conquistati a beneficiare dell'influenza commerciale americana (vedi soprattutto le opere di J. M. Callahan e J. H. Latanè).

Possono essere considerati "progressisti" storici di tal genere? Il fatto è che a quell'epoca le esigenze dell'espansione e della riforma erano essenzialmente due facce della stesso medaglia. T. Roosevelt e W. Wilson furono per il loro paese dei riformatori borghesi (perché criticavano il passato), ma erano anche apertamente sostenitori della politica estera espansionista.

Non è quindi strano, ad es., che la teoria della frontiera di Turner influenzasse sia le idee espansioniste a lui contemporanee che il riformismo di Roosevelt. Bisogna infatti considerare che ci furono molti studenti di Turner fra i maggiori storici diplomatici d'America (ad es. Bemis, F. Merk e A. F. Whitaker).

Il credo espansionista della Progressive School fu definitivamente confermato da A. Darling. Stando all'opinione di questo studente e seguace di Turner, l'espansione americana fu dura e spietato, ma essa "diffuse la libertà" e, in ultima istanza, fu un evento "positivo".

L'apologia dell'espansionismo fu Ia principale ma non unica caratteristica della storia diplomatica del periodo progressista. Lo spirito critico di quel tempo non poteva non promuovere più alti livelli della ricerco scientifica e portare alla comparsa di un certo numero di opere che rivedevano le idee convenzionali sulla storia degli Stati Uniti e su taluni aspetti della politica estera.

Significativamente, la vecchia concezione della guerra del 1812 fra lnghilterra e Usa come di una lotta per difendere i diritti marittimi di quest'ultimi e l'onore nazionale, fu riconsiderata da H. Lewis, D. R. Anderson, L. M. Hacker e soprattutto da J. W. Pratt. Fu proprio Pratt che con più coerenza mostrò come venne giocato un ruolo decisivo dai piani espansionistici che gli ambienti governativi d'America avevano nei confronti della Florido e del Canada.

Col passare del tempo apparvero altre serie ricerche, in cui le idee espansioniste e nazionaliste venivano biasimate (si pensi alla monografia di A. K. Weinberg sulle relazioni fra Usa e tribù indiane). E. Tatum fu il primo che ritenne Io Monroe Doctrine diretta essenzialmente contro l'England. Whitaker analizzò la lotta dei popoli sudamericani per l'indipendenza. L'elenco potrebbe continuare, poiché negli anni '20 e '30 gli studi furono assai numerosi e molti di rilievo.

la fine della II guerra mondiale segnò invece una svolta negativa nello studio della storia degli Usa. Per almeno 15 anni ogni sorta di idee liberali, per non parlare di quelle radicali, furono guardate con sospetto e perseguitate (si pensi al maccartismo e alla guerra fredda).

Naturalmente la pesante atmosfera neoconservatrice si rifletteva sul modo d'intendere i problemi della politica estera. Una delle ragioni di questo stava nel fatto che i principali artefici del "consenso" negli studi storici, D. Boorstin, L. Hartz e R. Hofstadter, non erano competenti in materia di affari esteri. E, d'altro conto, i maggiori storici diplomatici come Bemis e Pratt, T. A. Bailey e D. Perkins, rimasero attivi anche dopo la II guerra mondiale.

Tuttavia, se fino alla guerra le loro opere continuarono a riflettere le idee progressiste degli anni '20 e '30 (chi più come Pratt, chi meno come Perkins), durante la seconda metà del Novecento tali autori assunsero posizioni più conservatrici. Gli accenti antibritannici di Bemis, per quanto riguarda gli affari esteri, si affievolirono notevolmente, e Perkins cominciò a enfatizzare le divergenze ideologiche fra Usa e Urss. Come i loro colleghi più giovani (vedi ad es. R. W. Leopold e A. De Conde, essi erano unanimi nella valutazione della "minaccia sovietica": Bemis arrivò addirittura a paragonare Yalta con Monaco!

Unanime era anche il giudizio sulla politica estera americana post-bellica. Furono molti gli storici della diplomazia che a partire dagli anni '50 fino alla prima metà degli anni '60 difesero a spada tratta la guerra fredda, la dottrina Truman, il piano Marshall e l'antisovietismo: si pensi a J. Spanier, J. Lukacs, D. Donnelly, W. H. McNeil, H. Feis, A. Schlesinger jr. ecc.

Curiosa è stata la metamorfosi accaduta dopo il 1945 fra i membri dell'estrema destra. Fino ollo scoppio della guerra essi erano su posizioni rigidamente isolazioniste. Negli anni '50 invece divennero accesi interventisti e sostenitori di una crociata globale contro il comunismo. Dopo la guerra, W. H. Chamberlin, che aveva approvato il patto di Monaco dei 1938, affermò che se l'Inghilterra e la Francia avessero mostrato la necessaria fermezza, la Germania e l'Urss si sarebbero distrutte a vicenda. E' sintomatico che Chamberlin dedicasse il suo nuovo libro a J. F. Dulles, guerrafondaio patentato.

Tesi ultraconservatrici le troviamo anche nelle opere di J. Burnham, R. H. Hupè e S. Possony, per i quali persino le posizioni di Truman e D. Acheson risultavano moderate.

Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di "interesse nazionale" e di "equilibrio delle forze". Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.

Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l'occasione di alludere ai valori dell'altra corrente. D'altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.

La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d'impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l'onore nazionale.

Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l'accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.

Il mutamento di clima si fece sentire anche sull'interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni '20 e '30 c'erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.

Tutto ciò però subì un'improvvisa sterzata alla fine degli anni '60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta "nuova sinistra". Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all'università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.

All'inizio degli anni '70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell'Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state "aggressive" (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).

Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna "minaccia sovietica", in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell'aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.

I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell'espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.

Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell'imperialismo. Egli sostenne anche che l'ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni '90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in "veste industriale" di quelle concezioni espansioniste in "veste agricola" che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.

Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l'interesse dell'America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all'inizio della loro indipendenza in occasione dell'esproprio delle terre.

Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l'opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull'Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell'espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.

Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni '70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla "sporca guerra" in Vietnam, sulla guerra fredda, sull'uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l'organizzazione dell'Associazione storica americana subirono una battuta d'arresto assai preoccupante.

La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni '50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della "Truman Administration".

Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull'Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l'idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l'Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l'uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).

Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d'influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l'appoggio degli Usa.

Per la nuova sintesi post-revisionista l'esistenza dell'impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch'essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.

Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l'influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.

Il loro scopo in pratico si riduce - come ha detto Lafeber - a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati - come vuole C. S. Maier - un "figlio bastardo" degli studi storici americani.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Metodologia della ricerca storica
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Aggiornamento: 01/05/2015