Giainismo

ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
Religione, naturalismo e scienza. La nascita della filosofia atea


VI. Elementi ateistici nella filosofia indiana
6.3 Giainismo

Il sistema jaina è considerato ateistico e tuttavia, più del Shâmkhya e più del Buddhismo (con cui ha molto in comune sul piano etico), possiede i caratteri di una religione, o meglio quelli di una filosofia gnostica rigorosamente soteriologica, quantunque ricca di aspetti teoretici piuttosto interessanti. Si tratta di una filosofia probabilmente tra le più antiche, che ha ricevuto formulazione tra il VI e il V sec. a.C. da parte di Vardhamâna (in seguito chiamato Mahâvîra). I giainisti però non considerano Mahâvîra il fondatore, in quanto esso non sarebbe che l’ultimo (il ventiquattresimo) di una lunga serie di tirthankara (“preparatori del “guado”), ventidue dei quali sono assolutamente mitici, mentre il ventitreesimo (Pârshva) sembra essere un personaggio storico reale, che sarebbe vissuto 246 anni prima di Mahâvîra.

Quindi, se questo ha raggiunto il nirvana (come i giainisti sostengono) nel 526 a.C. se ne deduce che Pârshva sarebbe morto nel 772 a.C. Questa periodizzazione sembra essere piuttosto schematica, come d’altra parte lo sono molti aspetti della dottrina giainistica, caratterizzata da una certa rigidità concettuale, nonché da una notevole intransigenza nelle regole di vita. Va tuttavia subito rilevato che delle quattro filosofie ateistiche che qui presentiamo il Giainismo è l’unica che conti tutt’oggi in India un numero significativo di adepti (436), concentrati prevalentemente nel Gujarât e perlopiù appartenenti a classi alte o comunque facoltose.

Un aspetto non secondario sta anche nel fatto che il Giainismo, a differenza di molte altre filosofie e religioni indiane, caratterizzate da rilevanti trasformazioni, modificazioni ed adattamenti, ha mantenuto quasi intatta la sua dottrina da diversi secoli a questa parte, a testimonianza di una rara solidità dottrinaria. La filosofia giainista presenta (insieme a quella buddhista) il rifiuto dell’autorità dei Veda e insieme il rifiuto del sistema brahmanico delle caste; essa è infatti aperta a tutti (indipendentemente dalla condizione), ma impone un rigido canone comportamentale (almeno nelle forme monastiche) (437).

Il Giainismo è una dottrina che propone il superamento del ciclo delle rinascite (il samsâra) verso uno stadio finale di ascesi nirvanica, ma lascia ai laici delle regole meno rigide, sotto le forme di una propedeutica al nirvana, colla quale la materialità che ci costituisce e ci affligge viene superata definitivamente. In altri termini, mentre l’asceta raggiunge “prima” la liberazione dalla materia il laico ci arriva “più tardi”.

I Tirthamkara, a cui abbiamo già accennato, sono una sorta di profeti o padri spirituali che in varie fasi cosmiche hanno rivelato la via della salvezza ( il “guado”) agli uomini comuni. La comunità giaina ha subìto (a causa di divergenze sulla disciplina e sulla dottrina) una scissione nel 79 a.C., dividendosi in due comunità: quella dei Digambara (in sanscrito: vestiti d’aria) e quella degli Svetambara (= vestiti di bianco). I primi, secondo le regole imposte da Mahavira, dovrebbero andare in giro completamente nudi (in realtà questa regola è stata sempre poco osservata), mentre i secondi portano una veste bianca.

Secondo la dottrina del Giainismo l’universo, eterno e increato, è visto come un immenso ed eterno organismo a più livelli, costituito da anime individuali (jîvâ), anch’esse eterne, e dall’insieme dei corpi inanimati (ajîva). Pressappoco come nel Sâmkhya le anime sono infinite di numero mentre la materia (pur costituita da atomi) è considerata un insieme unitario, ma la grande differenza sta nel fatto che mentre nel Sâmkhya le anime (là chiamate purusha) e la materia (la prakriti) sono completamente separati, nel Jaina le anime sono pervase di materia. Questa, nella misura in cui “infetta” l’anima (quale monade spirituale), ne determina il collocamento ad un certo “livello” dell’universo, il più elevato dei quali è quello della liberazione definitiva dalla materia coincidente col conseguimento del nirvana.

Queste anime sono anche principi animatori dei corpi e quindi principi vitali, in quanto tali che non hanno le caratteristiche di una sostanza unitaria posta in una zona del corpo ma piuttosto quella di un fluido che pervade il corpo stesso in ogni sua parte. Ma nello stesso tempo essa è a sua volta pervasa dalla materia di cui è affetta e dalla quale si deve liberare.

La materia, o l'“inanimato”, si presenta in cinque forme: a) la pugdala (materia vera e propria), che si presenta in forma elementare (anu) o aggregata (skanda), b) il dharma (principio del movimento), c) l’adharma (principio del riposo), d) l’akasa (lo spazio, come contenitore di tutto ciò che esiste, che viene definito da un numero infinito di punti (pradesâ), e) il kala (il tempo, divisibile in istanti, dove l’istante (samaya) è il tempo che un atomo impiega per passare da un punto spaziale a un altro.

Le sette verità fondamentali (tattvâ), vere categorie dell’essere, sono 1) le anime, 2) l’inanimato, 3) gli influssi (âsravâ),con cui la materia pervade le anime, 4), il legame (bandha), 5) difesa (samvara), l’estirpazione (nirjarâ) e infine 7) la liberazione (moksha). Le prime due sono le “sostanze” del divenire cosmico, mentre le altre cinque sono gli “stati” che caratterizzano la condizione in cui può presentarsi l’anima (jîva) . Le anime individuali, nella fenomenologia dell’affezione della materia fino alla liberazione finale, soggiacciono al legame con essa e da ciò ne traggono una certa “colorazione”.

I colori (lesyâ) sono variabili secondo una scala ascendente, dove la monade spirituale risulta più o meno legata alla materia che la pervade in base al colore che ne deriva (nero, blu, grigio, rosso, giallo, bianco); dove il colore più chiaro corrisponde allo stato, o livello, del moksha (la liberazione). Ma la materia che pervade l’anima e la invischia nel ciclo delle rinascite non è poi nient’altro che il karma; quindi questo, nella dottrina giainista, è considerato non una legge astratta che regola la trasmigrazione, bensì una materia concreta, una materia “karmica”, appunto, della quale l’anima si deve liberare per raggiungere lo stato di perfezione e la sua autenticità.

Il karma opera sull’anima in otto maniere diverse: 1) impedendo la retta visione della realtà, 2) offuscando le capacità intellettive, 3) rendendoci sensibili alla gioia e al dolore, 4) turbando la fede nella verità e inducendo a condotte scorrette, 5) determinando la straticazione degli esseri secondo vari livelli, 6) determinando la psiche del soggetto, 7) determinando lo stato sociale di ogni individuo, 8) impedendo all’anima di fruire delle sue facoltà. Sono questi gli “otto modi del karma” che vengono dai dogmatici successivamente suddivisi in 148 sottomodi.

In realtà il karma, che inquina l’anima, cresce o diminuisce nella misura in cui l’agire è negativo o positivo. L’azione buona porta al rilascio di karma, ovvero al suo consumo, mente quella cattiva ne assume del nuovo. Una persona durante la propria vita, affinché nella successiva possa collocarsi ad un livello superiore, deve “alleggerire” la sua anima di karma, per far ciò deve “consumare” quello accumulato nella vita precedente, e nel contempo fare in modo che il nuovo accumulo dovuto alle cattive azioni sia nettamente inferiore al rilascio determinato da quelle buone.

Tuttavia, al di là del proposito di agire bene o male, è soltanto in base a una legge cosmica, che trascende gli individui, che si determina la quantità di karma che in seguito all’azione viene consumato o acquisito dall’anima, e tale effetto non è immediato, ma a posteriori. D’altra parte, l’anima sembra essere non soltanto l’entità personale che subisce gli effetti dell’azione, ma, in quanto tutt’uno con la persona con cui si identifica, essere nel contempo soggetto ed oggetto della propria liberazione, come si evince da questo passo (Viyâhapanatti, 7, 10):

Come quando un uomo mangia un cibo gustoso…mescolato con veleno e dopo averlo inghiottito apparisce in buona salute, ma poi cambia le proprie condizioni [in peggio],… così cambiano le anime se danneggiano il prossimo, mentiscono, si appropriano indebitamente di beni altrui…Come quando un uomo mangia un cibo gustoso…mescolato con sostanze salutari e subito dopo averlo inghiottito non diventa sano, ma poi cambia le proprie condizioni [in meglio], così si comportano le anime che si astengono dal danneggiare il prossimo, dal mentire, dall’appropriarsi indebitamente dei beni altrui… (438)

Il Giainismo, come si noterà, si presenta come una dottrina salvifica abbastanza simile al Sâmkhya sul piano teoretico, ma molto più rigida e dogmatica nelle sue definizioni e nelle sue regole comportamentali; una caratteristica che ci permette di affermare che esso, pur negando ogni riferimento alla divinità, presenta in definitiva i caratteri di una di religione laica e nello stesso tempo mistica. Si pensi alla liberazione dell’anima concepita come una salita di 14 gradini, ordinati non secondo un principio cronologico bensì logico-mistico.

L’asceta che applica rigorosamente le regole può fare “salti” di livello come può patire “discese” nel caso che si distragga, ma a partire dall’undicesimo livello (quello dell’asceta che si è completamente liberato dalle passioni) si ascende rigorosamente per gradi contigui. Siccome le azioni producono karma (che vincola l’anima a sé), si potrebbe pensare che, interrompendo la morte ogni attività, potrebbe risultare consigliabile il suicidio al fine di sfuggire ad esse. In realtà il suicidio è ammesso soltanto dopo l’undicesimo stadio, quando può venire attuato in uno stato di pura razionalità che tiene lontani dalle passioni.

Un elemento caratteristico del Giainismo, che lo rende unico nel suo genere (e per alcuni versi paradossale), è la prescrizione di non uccidere, per nessuna ragione, qualsivoglia essere vivente. Essa deriva dal fatto che per questa filosofia tutto ha un anima (non solo quindi animali e piante, ma persino molecole di materia). L’uccisione anche accidentale e involontaria di un essere vivente è una colpa che aumenta di molto la materia karmica che affetta l’anima e quindi ne favorisce la regressione di livello. È per questa ragione che gli animali da preda sono considerati inferiori agli erbivori, così come lo sono, tra gli uomini, i guerrieri, i cacciatori, i macellai, ecc. Si arriva così al punto che un giainista ordodosso ponga davanti alla bocca una mascherina per evitare di inghiottire involontariamente qualche microscopico essere vivente che vola.

La dottrina jaina in questo suo conferire importanza essenziale all’azione o all’inazione piuttosto che all’atteggiamento mentale non manca di elementi di una certa rozzezza, ove confrontata, per esempio, col Buddhismo, che presenta un’analoga dottrina di liberazione, ma non basata tanto su regole meccaniche quanto su atteggiamenti e sentimenti, i quali semmai presuppongono un controllo psichico piuttosto che motorio. Vi è quindi nel giainismo una specie di ingenuo materialismo (si pensi anche al karma quale “materia” karmica che “si attacca” all’anima e la invischia nelle rinascite) che genera qualche incoerenza con lo spiritualismo implicito nella “liberazione dell’anima” dalla materialità.

L’asceta giaina (analogamente a quello taoista) non agisce sugli altri e non reagisce a ciò che colpisce la sua persona. Si sottopone a una disciplina rigidissima, sia per il corpo che per la psiche, cercando di conseguire l’indifferenza assoluta nei confronti del mondo, eliminando così via via ogni traccia di materiale karmico. La regola imporrebbe anche di non lavarsi e di trascurare la cura del corpo, dormire sulla nuda terra o quanto meno su un supporto duro, vivere di questua e mangiare solo gli avanzi donatigli da altri aderenti alla fede.

Per quanto riguarda la gnoseologia della materia (basata sulla sensazione) quanto più la conoscenza delle cose del mondo è diretta e immediata tanto più è veritiera. La dottrina conoscitiva si compone di sette modalità di conoscenza, o punti di vista, (abituale, sintetica, generica, empirica, attuale, espressiva, strutturale). La verità viene acquisita soltanto allorché le condizioni di tutte le sette modalità vengono rispettate; la conoscenza assoluta è pertanto, in sé, molteplice.

La realtà nella sua pluralità va pertanto affrontata con un criterio altrettanto plurale, che non ne trascuri alcun aspetto né modalità di approccio. La dottrina jaina è pertanto vagamente spiritualistica nei fini, ma piuttosto materialista nel suo concepire le anime come delle entità attive sempre mescolate, dal più al meno, con la materia colla quale convivono e dalla quale si lasciano caratterizzare (teoria dei “colori”).

Il Della Casa (noto studioso italiano del Gianismo) vede in essa dei tratti riconducibili all’atomismo vaiseshika e quale « […] antica documentazione di un ramo della ricerca filosofica indiana, quello che parte dall’osservazione della natura e giunge all’ammissione dell’esistenza di una moltitudine di anime attive, in contrasto con l’altra grande corrente della speculazione, culminante nell’accettazione dell’Assoluto [l’unione di atman e brahman], del quale l’anima individuale non è che un riflesso illusorio.» (439)


(436) Ricavo dall’Enciclopedia delle Religioni, Garzanti (1989, p. 312) un’entità complessiva dell’attuale comunità giaina superiore ai tre milioni di adepti. Rispetto ad una statistica del 1951, che li dava a 1.618.000, vi sarebbe stato negli ultimi decenni un netto aumento. (torna su)

(437) Mentre per i laici le regole sono abbastanza allentate per i monaci esse sono rigidissime. Il novizio rinuncia a tutti i suoi averi personali, si rade a zero (in antico vigeva lo strappo della capigliatura) e rinuncia al proprio nome prendendone un altro. Pronuncia infine i cinque voti, che sono: a) non nuocere mai ad alcune essere vivente, b) non mentire, c) non rubare, d) attenersi ad una castità assoluta, e) rinunciare a qualsiasi possesso. (torna su)

(438) Carlo Della Casa, Il giainismo, Bollati Boringhieri 1993, p. 50. (torna su)

(439) Ivi – p. 97. (torna su)


Web Homolaicus

Testo di Carlo Tamagnone
Foto di Paolo Mulazzani

Il saggio è pubblicato dall'Editrice Clinamen di Firenze (304 pp., Euro 24,70) nella Collana "Il Diforàno"
ed è acquistabile nelle librerie o direttamente al sito: www.clinamen.it


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo antico
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Aggiornamento: 06/09/2013