Pluralità di dèi naturalistici, dio supremo, Dio unico

ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
Religione, naturalismo e scienza. La nascita della filosofia atea


II. Politeismo e monoteismo
2.4 Pluralità di dèi naturalistici, dio supremo, Dio unico

La tesi di etnologi come Tylor, che vedevano il monoteismo abramitico come l’ultimo stadio di un processo evolutivo della religiosità era poco convincente già quando venne formulata, ma col prosieguo delle ricerche etnologiche ed antropologiche è diventata oggi del tutto insostenibile. Come d’altra parte lo era quella di Lang e Schmidt, che ipotizzava la credenza originaria dell’uomo primitivo in un dio unico, quale innata e veritativa intuizione del reale Dio unico.

Non si può tuttavia negare che, da un punto di vista strettamente storico, relativamente alle società che si sono poi più meno consolidate nel monoteismo (la più parte) la successione parrebbe confermare la tesi evoluzionistica. Si consideri, infatti, che a partire dal VII secolo le conquista arabe e più tardi ottomane, in Africa e nell’Asia occidentale, hanno determinato un’ampia conversione all’Islam (il quale ha largamente sostituito le religioni preesistenti) e che, a partire dal XVI secolo, il Cristianesimo ha praticamente evangelizzato tutto il continente americano e parte di quello africano.

Si potrebbe discutere sul fatto che, in molti casi si sia trattato più di una sovrapposizione che di una sostituzione, ma questo esula dai nostri compiti euristici. Quello su cui di solito non ci si sofferma adeguatamente è sul concetto di “forza” di una religione, quale causa determinante per il passaggio da una credenza religiosa ad un'altra. Forza che deve essere intesa in due sensi, uno più estrinseco ed evidente, che è quello militare-politico-amministrativo, e un secondo, più intrinseco e sfuggente, che è quello ideologico.

Abbiamo già trattato in altra sede delle tipologie della credenza religiosa e della loro forza o debolezza (83), ci limiteremo pertanto qui a ricordare che il monoteismo è vincente perché offre risorse e garanzie che le più antiche religioni non potevano offrire, soprattutto per quanto riguarda l’unitaria e definita concezione del mondo e per l’aspetto salvifico ed escatologico. Il monoteismo risponde egregiamente alla incoercibile tendenza della psiche umana (84) a privilegiare l’unità rispetto alla pluralità, in quanto l’unità del tutto e l’unità dell’ente che determina il tutto offrono quelle garanzie di “senso” e di “ordine” compiuti che le visioni pluralistiche dei politeismi non potevano offrire.

Per l’argomento di questo paragrafo, che rappresenta uno dei temi più interessanti della storia delle religioni, è di rigore fare riferimento allo studioso che più si è occupato di questo problema: alludiamo a Raffaele Pettazzoni, al quale già abbiamo accennato nel § 1.1. Nel suo saggio, pubblicato nel 1955, dal titolo L’essere supremo nelle religioni primitive (L’onniscienza di Dio) viene ripreso, riassumendolo, il lavoro che egli aveva già sviluppato sull’argomento (a partire dal 1920) e che doveva essere la prima parte di una ricerca di più vasta mole rimasta incompiuta, il cui titolo avrebbe dovuto essere Dio: Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni.

A tale saggio quindi ci riferiremo nel nostro cercare di capire i motivi per i quali dalla spontaneità ingenua del politeismo “naturale” abbia potuto affacciarsi alla mente umana dapprima la supremazia delle divinità celesti rispetto a quelle terrene e marine, e perché poi, tra queste, il dio del fulmine e della tempesta sia assurto in un primo tempo al vertice della sfera divina, per dar luogo in seguito a quell'ipostasi artificiosa ed astratta che è il Dio del monoteismo.

Pettazzoni inizia il suo saggio rilevando che la teoria del “monoteismo primordiale” è viziata dalla confusione che viene fatta con la nozione di “essere supremo”, poiché la capacità di creare si connette strettamente a un sapere che è un “saper fare assoluto”, e che il dio stesso che “crea dal nulla” è una “sublimazione ideale del mago, operante per sola virtù cogitativa e potenza di volontà”.

L’autore continua la sua analisi mettendo il evidenza il fatto che in tutte le religioni, dal giudaico Jahvé, al vedico Varuna, al cinese Tien, l’essere supremo è anche sempre onnisciente, e che l’onniscienza si connette al vento, alla luce, all’acqua meteorica e a tutto ciò che è afferente il cielo. L’essere supremo è perciò sempre un dio uranico, che sa tutto degli uomini (85), che ne scruta le anime e li giudica, che manifesta la sua riprovazione col fulmine e con la tempesta.

L’essere supremo, infatti, in quanto onnisciente, onnipotente e deputato a giudicare le azioni degli uomini, dispone del mezzo formidabile della “sanzione meteorica”, che lo rende molto temibile, in quanto i suoi interventi possono mettere a repentaglio la vita dell’uomo e dei suoi animali, ma soprattutto l’abbondanza dei suoi raccolti.

Nell’osservare tuttavia che il dio creatore è molto spesso un deus otiosus, che crea il mondo e poi si ritira nella usa beatitudine lasciando il campo al “dio della tempesta”, Pettazzoni rileva due categorie di esseri supremi, quella in cui prevale l’onniveggenza e quella in cui prevale la creatività, e ne deduce una distinzione piuttosto importante:

[…] Questo dualismo non è puramente ideologico, esso è anche religioso, e religiosamente rispecchia due istanze diverse. All’attributo dell’onniscienza corrisponde un’esperienza religiosa specifica che non è la stessa che sta sotto all’attributo della creatività. Non c’è dietro la struttura dell’onniscienza divina quella elementare angoscia esistenziale che si esprime nei miti delle origini in genere e in quelli della creazione in ispecie. È una esperienza sui generis, nella quale sul sentimento della precaria condizione umana trema l’ombra di un’altra angoscia, il senso di una diffusa immanente presenza che incombe su l’uomo in ogni luogo e in ogni momento, senza tregua e senza scampo, senza rifugio e senza evasione, di uno sguardo cui nulla sfugge e cui nessuno può sottrarsi, di un mistero che circonda l’uomo, lo fascia e lo imprigiona, e a volte subitamente prorompe nella violenza grandiosa dei fenomeni meteorici (86).

Abbiamo così un quadro esistenziale drammatico, che riguarda anche culture arcaiche come quelle degli Apache o degli Eschimesi, ma che è indubbiamente determinante in culture più evolute come quella giudaica, in riferimento alla figura e alle prerogative dello Jahvé biblico.

Venendo al dio del monoteismo vero e proprio, Pettazzoni rileva che esso è sostanzialmente omogeneo con tutti gli altri precedenti dei uranici onniscienti-onniveggenti-giudici di ogni altra religione e operanti con lo strumento della punizione meteorica:

Se Jahve è il dio unico di una religione monoteistica e Zeus il dio supremo di una religione politeistica, ciò riguarda il diverso destino storico delle rispettive religioni, l’ebraica e la greca, e non dirime l’originaria omogeneità dei due iddii, inerente alla loro pertinenza – in ultima istanza – a civiltà omogenee. Il dio degli ebrei nomadi non è un Dio unico pel fatto che «il deserto è monoteistico (Renan)»; egli diventa un Dio unico per il messaggio di Mosè potenziato dallo sforzo assiduo dei Profeti. Jahve non diventa un dio del cielo soltanto dopo l’esilio per influenza del persiano Ahura Mazda, ma molto probabilmente risale ad un primitivo iddio del cielo dalle teofanie meteorologiche violente, quali sono proprie di tanti esseri di popoli civili e meno civili. L’onniscienza di Jahve non è un riflesso di idee egiziane e babilonesi, come si potrebbe a maggiore ragione sostenere per l’onniscienza demiurgica dei testi sapienziali (Hempel); la sua onniscienza – onniscienza visiva applicata alle azioni umane e associata a una sanzione punitiva di carattere meteorico – è più antica dei Salmi (contro Gunkel), più antica di Amos (contro Gressmann), più antica, in un certo senso, di Mosè: nello stesso senso onde anche l’onniscienza di Ahura Mazda è probabilmente più antica di Zarathustra e quella di Allah forse più antica di Maometto. Dietro il dio unico onnisciente di una religione monoteistica spunta il sommo onnisciente di una religione politeistica, come dietro a questo si affaccia sovente il supremo onniveggente essere celeste di una religione primitivistica (87).

Forse qui Pettazzoni non si rende conto di finire per dare ragione all’evoluzionista Tylor, a cui il suo storicismo intende contrapporsi, ma indubbiamente rende un quadro credibile dell’arcaicità dell’idea dell’onniscienza-onniveggenza divina connessa con la punizione atmosferica, sia essa la tempesta e la grandine, oppure il caso estremo del diluvio.

Il Nostro rileva però più oltre un altro aspetto comune dei monoteismi: quello che l’avvento di essi è sempre coincidente con una riforma religiosa rispetto a una religione precedente, e che a determinarla vi è sempre una figura specifica, che è il riformatore di quella vecchia e fondatore di quella nuova. Vi è però ancora un’altro aspetto da rilevare ed è quello che riguarda l’intolleranza religiosa dei monoteismi nei confronti non soltanto di ogni politeismo ma anche di ogni altro monoteismo, con la dicotomia tra l’eletto superiore e lo straniero inferiore, tra il credente nella verità e lo schiavo della menzogna idolatra, tra il fedele e l’infedele.

Ma l’instaurazione del dio unico rappresenta la cassazione di tutte le divinità precedenti o la loro immediata riqualificazione come demoni. Il caso più evidente, specialmente per i suoi aspetti linguistici, è riscontrabile nel Mazdeismo. Zarathustra rifonda la religione persiana cominciando col dire che gli dèi tradizionali (i daêva) si sono votati alla falsità e all’inganno e facendoli perciò diventare demoni.

Tuttavia essi mantengono il loro nome, che significa appunto dèi, ma si tratta di dèi che sono diventati “falsi”; allora Ahura Mazdā riceve una nuova qualifica come “dio vero” e unico che essi combatte. Con questa degradazione degli dèi a demoni il Mazdeismo si presenta apparentemente come dualistico, in realtà il vero Dio è unico. D’altra parte anche nel Giudaismo e nel Cristianesimo i demoni sono angeli ribelli; il loro capo, Satana (corrispondente all’Angra Mainyu del Mazdeismo), è passato dalla condizione divina a quella demonica. Osserva il Pettazzoni:

Di questo dio supremo dell’antica religione politeistica Zarathustra fece il suo Dio unico. Quanto agli altri dèi, egli non negò la loro esistenza; li negò come dèi, ma li mantenne nella forma che sola era compatibile con la dottrina monoteistica, cioè come demoni. In ciò noi abbiamo in certo qual modo un’anticipazione di quel che accadde più tardi nella religione cristiana. Anche il Cristianesimo non poteva che negare le antiche divinità del politeismo greco e romano; e tuttavia non negò la loro esistenza, bensì e fece dei démoni: omnes dii gentium daemonia, secondo la formula di sant’Agostino, «tutti gli dèi dei gentili sono démoni» (Enarrat. in Psalm. XCV-XCVI). (88)

Relativamente agli influssi della religione persiana (Mazdeismo prima e Manicheismo poi) sul mondo giudaico e successivamente su quello cristiano è piuttosto interessante l’analisi che ne fa Dario Sabbatucci. Secondo questo studioso contemporaneo, appartenente anch’esso alla scuola storicistica; il Mazdeismo (o Zoroastrismo) compare già con Dario, che regna dal 522 al 486 a.C.. Esso risulterebbe perciò precedere (anche se non di molto) la formalizzazione della religione di Jahvé in terra ebraica (89); ciò avverrà infatti soltanto dopo la cattività babilonese e quindi certamente in tempi posteriori al 520 a.C. (90). Sottolinea lapidariamente questo autore:

Certo è che Isaia parla di Dario, ma Dario non parla d’Isaia. Certo è che nella sacra scrittura ebraica si parla dei Persiani, ma nel libro sacro persiano, l’Avesta, non si parla degli Ebrei.

L’antropomorfismo di Dio fu l’elemento dottrinario che i filosofi tardo-antichi rimproveravano al Cristianesimo, in quanto veniva considerato il negativo recupero di un volgare antropomorfismo pagano che consideravano ormai superato. Ma è già in tale situazione che la teologia cristiana mostra quella grande plasticità concettuale che rimarrà esemplare nei secoli, quella di adattare sempre la dottrina alle necessità contingenti poste da obbiezioni logiche o da evidenze scientifiche non espungibili provenienti dall'“esterno”. Salvo poi colpire in modo feroce e intollerante ogni alternativa dottrinaria proveniente dall'"interno", bollarla col termine di eresia e ricorrere, se necessario, anche alla violenza.

Ma va precisato che ciò è regola e prassi di ogni ideologia, anche laica, come la storia, in ogni tempo e occasione, ci insegna. Il problema dell’antropomorfismo di Dio è stato abilmente e intelligentemente risolto portando ogni attributo divino di derivazione umana all’ennesima potenza, quindi ad un livello ontologico del tutto trascendente l’uomo, sancendo inoltre l’inversione creativa narrata nel Vecchio Testamento, per cui sarebbe stato Dio a creato l’uomo a propria immagine e somiglianza e non (Feuerbach insegna) il contrario.

In tal modo la concezione del Dio unico ebraico-cristiano risulta ineccepibile e inattaccabile, in quanto l’uomo è copia della divinità (come per Platone lo erano le realtà sensibili rispetto alle idee), la quale rimane trascendente, nella sua suprema perfezione di onniscienza e onnipotenza, all’umanità stessa che l’ha posta. Il Dio cristiano (ma non meno l’Allah islamico) rivivifica lo Jahvé giudaico, ma nello stesso tempo lo spoglia delle sue indubbie rozzezze arcaiche, perfezionandolo alla luce della filosofia greca (platonica, aristotelica, e stoica).

Di essa il monoteismo mutua e ingloba gli aspetti compatibili con se stesso e nel contempo rende inoffensivi (presentandoli come concettualmente superati) quelli non compatibili o superflui. In tal modo la geniale macchina teologica che Paolo da Tarso aveva messo in marcia con la sua interpretazione della figura di Gesù (e con la sua indefessa e quasi eroica predicazione) veniva perfezionata e rodata dalla teologia posteriore, facendone una splendida ideologia di consenso e di gratificazione psichica, prima ancora che espressione di autorità spirituale e morale.

Il Cristianesimo opera così una sintesi tra il concetto di divinità espresso dal (per molti versi irrazionale) biblico Jahvé e il Dio (tutto razionalità e perfezione) della filosofia platonica. Ma la gestione di questa sintesi, proprio in quanto connubio di differenti (e per qualche verso opposte) concezioni della divinità, costringe la teologia a continui aggiustamenti e la espone inoltre al rischio di contestazioni e divisioni al proprio interno. Dio, infatti, in quanto onnipotente, potrebbe anche fare il male, ma ciò risulta inconciliabile con la sua perfezione. E allora il male diventa presente nel mondo sia come conseguenza del peccato originale e sia per la continua attività corruttrice di Satana.

E tuttavia l’esistenza del mondo, in quanto regno del male, mal si concilia con l’assoluta bontà di Dio, la quale, si noti, non è più la benevolenza interessata di Zeus e neppure l’atto d’amore di Jahvé verso il “suo” popolo, ma è l’essenza del puro amore all’estrema potenza, che si rivolge indifferentemente a tutti gli uomini di buona volontà sulla faccia della terra. E tuttavia la conciliazione c’è nella figura del Cristo, ed è tale che porta, in realtà, proprio all’apoteosi di un Dio trinitario non solo amorevole ma che fa dell’amore e della pietà i massimi comandamenti. Non per nulla il suo amore è tanto grande da averlo condotto alla kenosi (91) e al sacrificio di se stesso sulla croce (sia pure solo come “figlio”), redimendo con ciò l’umanità dalle conseguenze della trasgressione dei suoi edenici progenitori.

Ma come può un Dio che manifesta la sua bontà infinità nel creare l’uomo prima e nel soffrire poi sulla croce per salvarlo dalla terribile condanna (che in quanto giudice ha pur dovuto infliggergli) permettere che il male continui a trionfare nel mondo? Problema dottrinario non da poco. Ma anche qui la teologia cristiana compie il suo miracolo; infatti il male del mondo non è fine a se stesso, ma col suo imperversare esplica la funzione di mettere alla prova la fede degli uomini. Il “grande ribelle” Satana ridiventa così, nella sua veste di biblico tentatore, un divino strumento nelle mani di Dio, assumendo e nel contempo superando il sottile dualismo zoroastriano (92), di cui certamente il cristianesimo è tributario. Come Satana ha tentato paradigmaticamente e strumentalmente Gesù nel deserto per metterlo alla prova e (implicitamente) per dimostrarne la divinità, così il male (in generale) appare come lo strumento mandato da Dio per mettere alla prova la fede del cristiano, dimostrare la sua dignità di creatura privilegiata e consentirgli di conseguire il premio supremo di accedere alla paradisiaca comunione con lui.

Il meccanismo teologico-politico che viene messo in atto dalla teologia cristiana dei primi secoli, e almeno fino al tardo medioevo, consiste soprattutto nel determinare la lettera e la forma delle sacre scritture e nel fissare nei ricorrenti concilii i dogmi inappellabili in cui la fede si estrinseca come credenza e come culto, proprio per far fronte a tutte le aporie che la complessità di una dottrina sincretistica aveva generato. Complessità derivante dal voler conciliare il Dio della filosofia con quello della fede, il Dio della ragione con quello dell’amore, il Dio onnipotente con quello che deve ammettere il male per realizzare il suo fine salvifico.

Aporie che si incontrano molto meno nell’ebraismo, dove la divinità è tutta autosufficiente e compiutamente espressa nella lettera biblica, che ne è epifania compiuta nella “giustizia”, secondo il patto di alleanza, e non secondo “bontà”. Jahvé mette alla prova Isacco, chiedendogli il sacrificio del figlio, ma non si sognerebbe mai di mettere a repentaglio la sua integrità unitaria di creatore del mondo (neppure simbolicamente o metaforicamente) per amore del popolo che ha scelto ed eletto.

Nell’ebraismo l’esegesi opera all’interno di una concezione della divinità assoluta, autosufficiente e monolitica, mentre nel cristianesimo essa deve fare i conti con denotazioni complesse e articolate della divinità, che includono, tra l’altro, anche elementi dell’orfismo e dell’essenismo, oltre a quelli (già citati) dello zoroastrismo, e più tardi (a III secolo inoltrato) anche del neoplatonismo.

Anche il Dio dell’Islam è per molti versi un Dio semplice, un Dio che impone poche regole, ma una al disopra di tutte: quella dell’obbedienza. Pur avendo praticato per diversi secoli (culturalmente “luminosi” e contemporanei a quelli “bui” del Cristianesimo) la filosofia greca, l’Islam non ha mai preteso di fare di Allah un Dio di perfezione razionale e per ciò stesso di perfetta bontà (aspetti peraltro estranei al Dio di Abramo), ma si è preoccupato di farne un Dio onnipotente e temibile, che impone regole inappellabili sia sul piano cultuale, sia su quello etico, sia su quello civile. Vincolando in tal modo non solo il singolo maomettano, ma ogni comunità islamica a fare proprio il comando inappellabile della divinità in tutta la sua estensione e in ogni suo dettaglio, senza che possano avere spazio atteggiamenti dubbiosi o arbitri interpretativi.

Si potrebbe aggiungere che, in un certo senso, il Cristianesimo, con la sua intrinseca complessità dottrinale, ricca di un sincretismo che ingloba aspetti del misticismo ellenico, della religione iranica, della filosofa greca e della gnosi, mescolando il tutto col messaggio biblico, abbia finito per determinare una fortezza che giganteggia per la sua mole concettuale, ma che presenta numerose soluzioni di continuità nelle sue muraglie.

Punti di fragilità che si evidenziano specialmente dove essa pretende di conciliare la fede con la ragione, per cui le aporie interpretative e le contraddizioni diventano tali, e così evidenti, da consentire al pensiero scientifico (e all’ateismo che lo segue da vicino) di insinuare i cunei di una razionalità vera, che mette in mora (e spesso ridicolizza) la pretesa razionalità “d’acquisto” della teologia cristiana.

Per contro, sia l’Ebraismo sia l’Islam non soffrono (se non in modo molto marginale) gli attacchi del pensiero scientifico, proprio perché Dio è in essi “il fuori scala”, ineffabile e irrapresentabile, ma soprattutto ininterpretabile da parte della mente umana. Jahvé e Allah, intrattengono con il fedele un rapporto di sudditanza severo ed assoluto, che esclude ogni concessione adattativa alle modalità operative della ragione umana in termini di approccio intepretativo di carattere filosofico razionalistico.

I loro attributi possono anch’essi venire considerati quelli umani positivi portati all’estremo limite di perfezione, ma non comprendono quelli dell’amore del dio cristiano, bensì quelli, per alcuni versi ad esso antitetici, della giustizia e dell’intransigenza; attributi che conferiscono a Dio una potenza e un livello di trascendenza che lo allontanano ontologicamente in modo netto dall’uomo e dalle sue possibilità di un rapporto razionale.

D’altra parte, il Dio di questi due monoteismi, come abbiamo visto, non solo non si qualifica come razionale, ma espunge la razionalità stessa dagli orizzonti umani concernenti il “sacro”. Per essi tutte le conquiste della ragione e dell’intelletto umani gli sono completamente estranei, o almeno indifferenti, e soprattutto irrilevanti sul piano dell’acquisizione di meriti validi sul piano del sacro.

Per altri versi resta ad essi inapplicabile un concetto come quello della cristiana teodicea, la loro giustizia è oltre ogni motivazione antropica e inavvicinabile per la comprensione umana. In definitiva il rapporto dell’uomo col Dio ebraico ed islamico non è mai un rapporto d’amore, ma solo ed esclusivamente di pura dipendenza. Allah non è né razionale né buono, ma semplicemente “grande”; al cospetto della sua grandezza l’uomo può soltanto prostrarsi, adorarlo e ubbidirlo; nient’altro. Non ci si stupirà quindi, se riteniamo di poter affermare che nell’Islam il monoteismo raggiunge il suo livello più alto di evoluzione e di concreta realizzazione nella coerenza.


(83) Necessità e libertà (Clinamen 2004) pp. 89-90 (torna su)

(84) Ivi – § 1.5, 4.1, 10.5. (torna su)

(85) Un’interessante eccezione a questa prerogativa dell’essere supremo è quella rappresentata dal greco Zeus, il quale in realtà non conosce le azioni e le intenzioni umane per virtù propria, ma perché dispone di una rete di trentamila informatori invisibili che osservano gli uomini e le loro azioni. Come sempre la religione greca, lontana dalle astrazioni, detrascendentalizza la divinità per riportarla alla concreta realtà umana sia pure in forma iper-umana. (torna su)

(86) Raffaele Pettazzoni, L’essere supremo nelle religioni primitive, Einaudi 1957, pp. 93-94. (torna su)

(87) Ivi – pp. 107-108. (torna su)

(88) Ivi p. 160. (torna su)

(89) Relativamente alle ascendenze del monoteismo ebraico va segnalato che un già molto anziano Sigmund Freud pubblicava tra il 1934 e 1938 tre saggi relativi a una sua lunga ricerca storica sfociata nell’ipotesi che Mosé non fosse ebreo ma un funzionario egiziano altolocato al servizio di Ekhnatòn. Alla luce di ciò la religione di Jahvè avrebbe origine, attraverso Mosé, nel monoteismo imposto da Ekhnatòn per combattere lo strapotere della classe sacerdotale egizia verso la metà del XIV secolo a.C. Il dio unico Atòn, imposto dal faraone per rafforzare la propria posizione, dominò la scena religiosa egizia per un pugno di anni finché il suo creatore non usci di scena (probabilmente assassinato) permettendo così il ritorno alla religione tradizionale. Mosè avrebbe in seguito lasciato l’Egitto e in terra ebraica, sulla base della religione del dio Atòn, da lui abbracciata, avrebbe dato vita (attraverso la fusione con elementi preesistenti) alla religione di Jahvé. Il dato di partenza di Freud sta nel fatto che il nome “Mosé” sarebbe una corruzione della parola egizia mose (lett. bambino), che compare come suffisso di numerosi nomi egizi dell’epoca (Ahmose, Tutmosi, Ramose). L’ipotesi freudiana non ha mai avuto molto eco e molto credito, ma ciò (indipendentemente dalla sua reale consistenza) è abbastanza comprensibile dato il fuoco di sbarramento ideologico che la contrasta, poiché se si configurasse come tesi avrebbe un’impatto devastante sulla dottrina ebraica. (torna su)

(90) Dario Sabbatucci, Monoteismo, Bulzoni 2001, p. 25. (torna su)

(91) Il termine, di origine greca (lett. svuotamento) indica la rinuncia di Dio, nella persona del Figlio, alle prerogative divine, con l’accettazione della condizione umana in tutta la sua fragilità e sensibilità alla sofferenza. Il concetto prende origine dalla Lettera ai Filippesi (2, 6-8) nella quale San Paolo afferma: «Egli, pur possedendo la natura divina, non pensò di valersi della sua eguaglianza con Dio, ma preferì annientare se stesso prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini […]». (torna su)

(92) Lo zoroastrismo (o mazdeismo) è un monoteismo che contiene forti elementi dualistici. Ahura Mazda, il supremo dio creatore e reggitore del mondo, per conservarlo nel bene è costretto a dover combattere continuamente l’azione devastante di Angra Mainyu (lo Spirito Malvagio) che domina e gestisce le forze del male. (torna su)


Web Homolaicus

Testo di Carlo Tamagnone
Foto di Paolo Mulazzani

Il saggio è pubblicato dall'Editrice Clinamen di Firenze (304 pp., Euro 24,70) nella Collana "Il Diforàno"
ed è acquistabile nelle librerie o direttamente al sito: www.clinamen.it


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo antico
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Aggiornamento: 06/09/2013