ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
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II. Politeismo e monoteismo La contrapposizione offerta nel titolo di questo paragrafo potrà forse far pensare all’atteggiamento preconcetto di chi voglia contrapporre il negativo al positivo. Questa sarebbe una posizione tipicamente ideologica, della quale le religioni sono la più perfetta espressione (in buona compagnia con ideologie che si richiamavano proprio all’ateismo!), ma non è certamente la nostra. Ciò che a noi interessa è l’aspetto critico della contrapposizione e il problema teorico posto da essa; ovvero del perché esistano due situazioni antropiche “limite”, la prima rappresentata dall’uomo “totalmente religioso” e la seconda dall’uomo per niente religioso, cioè l'"ateo". La nostra esposizione non potrà pertanto esimersi dal ritornare all’uomo arcaico per sviluppare adeguatamente la nostra indagine. Egli, infatti, possiede strumenti concettuali indefettibili per spiegare e sistematizzare il mondo e l’esistenza a partire dalla sacralità, strumenti che gli pervengono dal possedere una religiosità onnipervadente, che realizza il “sacro” nel modo più perfetto. Ricordiamo che, come aveva già concluso Levy-Bruhl, la visione del mondo dell’uomo arcaico è fondamentalmente mistica e pertanto prevalentemente sganciata dalla realtà fisica in cui si trova immerso. Ci pare quindi che l’elemento determinante e qualificante risulti il seguente: le sue categorie interpretative, con le quali vede e giudica il mondo, sono una proiezione della sua psiche sul mondo e non provengono da un’introiezione delle connotazioni del mondo reale su di sé; ciò determina una “creazione” poetica ed esplicativa di esso attraverso il mito, che è un immagine del mondo alternativa a quella scientifica e che per molti versi “funziona” persino meglio. Con tale operazione creativa l’uomo arcaico soltanto molto marginalmente traduce la sua percezione fisica del mondo in termini reali, poiché gli aspetti del mondo perdono immediatamente la loro qualità di oggetti percepibili, utili o dannosi, manipolabili o soltanto subibili, per diventare elementi sacrali di un mondo sacralizzato. Non è quindi la percezione l’elemento che fonda la sua visione del mondo, ma l’invenzione della sua nascosta natura e delle sue cause. Il mondo così “inventato” si struttura in un “sistema” che spiega se stesso e nel contempo spiega la posizione che l’uomo assume all’interno di esso e i suoi rapporti cogli enti che con lui lo formano. L’uomo arcaico infatti, avendo già spiegato attraverso il mito la struttura del mondo e le ragioni del suo essere, non ha altro fare che “leggerlo” come un libro già da sempre aperto e può dedicare la sua attività intellettuale non solo alla sua descrizione, ma ad un’attività classificatoria delle entità (soprattutto viventi) concernenti il territorio di sussistenza nella quale rivela dei livelli di sofisticazione osservativa e catalogativa straordinari. Passa probabilmente da tale punto cruciale il discrimine tra il destino di quelle comunità che in alcune aree del pianeta hanno vissuto la religiosità arcaica come una fase temporanea e quello di altre che invece vi si sono attestate, come una condizione soddisfacente, da conservare e da preservare da ogni turbativa culturale esterna e da ogni variazione interna. Ma va precisato che mentre Levy-Bruhl aveva definito la mentalità arcaica “pre-logica”, intendendo con ciò un “non ancora” rispetto al “nostro” pensiero logico, in realtà essa possiede una “sua” logica particolare e specifica di grande interesse antropologico, tanto è vero che il “sistema” del mondo che la religiosità arcaica realizza “funziona” benissimo e assicura continuità e prosperità alle poche comunità che ancora vi si attengono, sempre che l’uomo “tecnologico” non irrompa ad alterarne il territorio e turbarne la struttura sociale (93). In altre parole, l’uomo arcaico non sa che farsene della nostra logica, non gli serve, avendone elaborata nei millenni una, di carattere esclusivamente religioso, che risulta per lui del tutto soddisfacente. Infatti, è largamente testimoniato come l’uomo arcaico per un verso tema gli strumenti dell’uomo tecnologico (come oggetti di una magia che non conosce) e per un altro disconosca e disprezzi la scienza da cui traggono origine. Teme i primi perché non ne capisce il funzionamento e disprezza la seconda perché non ne percepisce l’utilità. In altre parole: egli teme e disprezza le nostre nozioni e le risorse strumentali che ne derivano, che non capisce (ma ciò è anche, dal più al meno e di converso, ciò che solitamente facciamo noi nei confronti delle sue). Per l’uomo arcaico tra scienza e produzione di cose non può esistere alcun rapporto, così come non esiste tra concetti ed oggetti. Solo questi sono reali e la spiegazione del fatto che esistano non è suscettibile di indagine, per la semplice ragione che di essi, come del “tutto” in generale, egli “sa già tutto”. La nostra attività scientifica, come inarrestabile ricerca delle cause gli pare un gioco inconcludente, e soprattutto inutile. La ricerca delle cause è infatti l’operazione di uno che “non sa” mentre l’arcaico “sa” a priori come stanno e vanno le cose, e ciò forse anche perché le cose nella realtà arcaica non sono un “altro da me”, ma entità integrate “come me” in un sistema che ci comprende tutti e il cui funzionamento avviene secondo leggi immutabili fissate illo tempore. A questo proposito è estremamente significativo il modo con cui l’uomo arcaico classifica le cose del mondo e le inserisce in uno schema di corrispondenze e di dipendenze. In un famoso saggio del 1902 (94) Emile Durkheim e il suo (allora) allievo Marcel Mauss hanno reso esplicito il sistema classificatorio di alcune popolazioni dell’Oceania e dell’America, rinvenendo diffuse coincidenze nelle modalità con le quali anche altrove si “sistematizza” il mondo. E questa sistematizzazione, secondo le loro ricerche, ha come modello non già la struttura del mondo stesso, ma la struttura sociale del gruppo di appartenenza nel quale avviene il suo rispecchiamento. I rapporti esistenti tra gli individui all’interno della comunità arcaica determinano i rapporti tra le cose del mondo ed esse vengono sistematizzate secondo il modello dei rapporti sociali, quindi in maniera relazionale e gerarchica a prescindere dalla loro realtà fisica. Il sistema primitivo di classificazione e gerarchizzazione prescinde in misura così radicale dal mondo stesso che il sole, in un certo sistema totemico, può essere fatto derivare dal pellicano, dove questo è il totem e quello uno dei suoi sotto-totem. L’assimilazione di un animale che calca la terra con un astro che sta nel cielo non deve stupire, infatti non è la “natura” dell’elemento a contare, ma la sua “funzione” religiosa. Questa classificazione, per noi illogica, è invece per l’uomo arcaico perfettamente logica, secondo la prospettiva religioso-pragmatica in cui vive e si realizza. Il concetto astratto utilizzato nel pensiero scientifico, che estrae le proprie enunciazioni dall’empiria della prassi, nella mentalità primitiva non esiste; il pensiero è sempre ”pragmaticamente” una classificazione di esseri e funzioni all’interno di un sistema “sacrale”, perfetto e immutabile, che funziona indipendentemente dalle evidenze fisiche. La società dell’homo religiosus per eccellenza, quella arcaica, è basata su una “macchina divina” immutabile e alla quale nessuno può attentare, che dispone della vita di ogni persona e impone ruoli, riti, tabù, rapporti e azioni definite, con possibilità di scelte individuale praticamente nulle e dove il concetto di individualità è quasi ignorato, poiché, solo l’insieme è “soggetto” umano “reale”. Non si può non cogliere qui il rapporto esistente tra le società arcaiche e la società brahmanica, nella quale l’appartenenza ad una casta determina posizione, compiti e possibilità di vita di ogni singolo individuo. Ma la società castale ci offre anche un altro elemento importante per il nostro studio, in quanto incarna, con maggiore evidenza di qualunque altra, il “blocco” religioso di ogni dinamica sociale, al fine di assicurare una stabilità assoluta di ruoli e di prospettive esistenziali. In tale situazione anche chi appartiene alla casta più bassa, quella dei paria, e soffre le peggiori condizioni del sistema, se ne sente nel contempo totalmente rassicurato e garantito, in quanto sa che se osserverà diligentemente il dharma (il dovere-ruolo) che gli compete accadrà che nella prossima reincarnazione assumerà automaticamente lo status sociale di una casta superiore. Ciò poiché è solo la legge samsarica che determina il destino dell’uomo: con essa nulla è indeterminato e nulla è casuale. Il sistema brahmanico rappresenta la più perfetta struttura sociale esistente, in quanto esso ha espunto alla radice l’indeterminazione e la variabilità dall’orizzonte del mondo, istituzionalizzandone i loro opposti. Il meccanismo vedico, attraverso una rigorosa sistematizzazione ontologica di ogni entità vivente e del suo destino, realizza ordine e stabilità, per cui garantisce ai propri appartenenti, anche nelle peggiori condizioni di esistenza, un quadro concettuale “certo” e immutabile del mondo e della vita. Entro la sua cornice è sempre possibile la sofferenza fisica e psichica, ma risulta escluso ogni elemento concettuale che possa turbare lo schema di riferimento in cui la psiche si riconosce. Una realtà umana spesso stupefacente, e sempre affascinante, che l’uomo “tecnologico” europeo o americano sperimenta con sorpresa da diversi secoli ogni qual volta viene a contatto con la mentalità induista. Per quanto si possano avere dei dubbi sulla opportunità antropica di uno status come quello dell’homo religiosus ci vediamo costretti ad ammettere che si tratta di una condizione umana che presenta i suoi innegabili vantaggi, dal momento che rende un immagine del mondo rassicurante e gratificante, con l’estirpazione radicale del disordine e della casualità. È per questa ragione che l’ateismo appare anche, e per molti versi, del tutto prematuro (e persino inopportuno) rispetto a quel contesto, anche per il fatto che la religiosità (come interiorizzazione, tematizzazione e organizzazione della sacralità) risulta largamente vincente a tutte le latitudini e continua ad impregnare la maggior parte dell’umanità, dimostrando così una sua innegabile funzionalità antropica. Essa infatti riesce a stigmatizzare ideologicamente il caos e il caso come espressioni del “male”; un male metafisico eliminabile soltanto col ricorso al “bene” metafisico, ovvero all’entità trascendentale che si realizza nella “divinità” che conferisce ordine e senso al mondo. L’homo religiosus si sente a suo agio (potremmo dire che “sta bene”), quando può fare riferimento ad un “sacro” istituzionalizzato e garantito dalla chiesa-comunità di cui fa parte; che è poi la vera “sostanza” di esso. Sostanza che è nello stesso tempo storia sacra che si ripete e si conferma all’infinito, in quanto realizzazione della storia divina (nei moderni monoteismi) o del mito ciclico (nelle religioni arcaiche). Anzi, il “bene” e lo “star bene” si identificano con l’epifania del “sacro” (la ierofania di Eliade) e questo, come fulcro dell’esistenza umana, diventa il “centro” della realtà autentica, rispetto alla quale la realtà fisica ed effettuale non è semmai che una sua imperfetta copia degradata e reietta. Questo centro, d’altra parte, è origine e fine della comunità stessa nel suo essere mondo. Il mito in cui l’homo religiosus arcaico riconferma il “sacro”, crea e ricrea continuamente un mondo fuso con la trascendenza, e quindi col “bene” assoluto. Dunque la religiosità primitiva realizza una circolarità di proiezioni psichiche che nasce dal centro di gravità del sacro e determina gli ambiti del bene e del male (il sacro e il profano), ovvero l’ordine dell’immutabile contro il disordine del diveniente. Tuttavia, se il mondo arcaico ci disvela l’essenza della religione, affondando questa il suo sorgere nella notte dei tempi, non è ancora per nulla chiarito perché il mondo arcaico sia rimasto completamente “dentro” il sacro, mentre quello che abbiamo chiamato “antico” (concernente il passato delle società tecnologiche) se ne sia distaccato in buona parte. Ma una prima parziale conclusione possiamo trarla, osservando che, evidentemente, l’homo religiosus arcaico ha ritenuto conveniente il dominio della sacralità per gli innegabili vantaggi che essa garantisce in termini di “identità” individuali sempre ricomprese in una totalità unitaria. Perdere la propria identità (ovvero il “centro”) è tutt’uno col perdere la vita, e quando ciò accade sopravviene la morte civile dell’individuo e ciò conduce anche, abbastanza spesso, anche quella biologica (95). Il termine di homo religiosus allude allo status antropico di quella parte di umanità non ancora contaminata dal pensiero scientifico e, secondo un’interpretazione laica, tale status consiste nell’essere immerso in una weltanschauung caratterizzata dal prevalere di un modo irrazionale e ingenuo di pensare il mondo e l’esistenza, profondamente pervaso dalla credenza in una realtà illusoria. Questa viene determinata dalla sovrapposizione alla realtà effettuale di una realtà sacra onnipervadente che la mette in ombra e la svilisce. Tale lettura laica della weltanschauung arcaica contrasta nettamente con quella che ne ha dato Eliade, per il quale (come abbiamo già visto) l’homo religiosus, al contrario, sperimentando autenticamente il “sacro”, vive immerso nel “vero” essere. Un essere, che si estrinseca in uno spazio (96) e in un tempo sacri, nettamente contrapposti a quelli profani. Ricordiamo che tale contrapposizione è altrettanto netta di quella che operava Durkheim e in termini analoghi; ma mentre in questo la chiave di lettura è sociologica nello studioso rumeno essa è invece ontologica; ne deriva che quella di Eliade si presenta come la più chiara, coerente ed universale antitesi alla weltanschauung atea. Questa lettura non ci offre soltanto una definizione di religiosità che vale per il contesto arcaico, ma che può valere in generale per ogni religione, anche per quella che nei contesti in cui è presente il pensiero scientifico ha assunto una forma meno rigida, ma proprio per questo, dal più al meno, “degradata”. Nell’interpretazione di Eliade il tempo sacro, come sospensione del tempo profano, e lo spazio sacro, come luogo “separato” e privilegiato, mettono l’uomo in rapporto diretto con la trascendenza. Ma a ben vedere si può legittimamente concludere che essi sono tipici ed indispensabili elementi di ogni religiosità, sia essa politeistica, panteistica o monoteistica. Non esiste infatti nessuna religione priva di un calendario liturgico, di rituali periodici, di occasioni liete o tristi in cui ritualizzare e riattualizzare la storia sacra o il mito, così come ogni fede religiosa trova il proprio “centro” in uno spazio dove abita la divinità, determinato e separato dal mondo profano; sia esso il tempio egiziano, la cattedrale cristiana o il bosco sacro dei pagani. Sembra tuttavia fuori discussione che, in termini di “autenticità”, la religiosità arcaica si presenti al livello più alto di “fede” e di interiorizzazione della credenza nel sacro. Che il cristiano creda nel Dio “vero” e che l’uomo arcaico creda in uno “falso” fa la differenza soltanto ove si esprima un giudizio assiologico dall'"interno" di una fede e di una credenza, ma dal punto di vista delle denotazioni religiose (o meglio sacrali) che abbiamo delineato è indubitabile che la religiosità arcaica si presenti come “superiore” a quella cristiana. Ma se l’homo religiosus trova il suo humus ideale nel contesto arcaico ciò non significa che anche in un contesto contemporaneo altamente permeato dal pensiero scientifico non sia possibile vivere una religiosità profonda ed autentica. La monaca di clausura di un convento posto all’interno di una grande metropoli è, in linea di principio, nelle condizioni di riuscire a vivere la sua fede in modo non meno autentico dell’uomo arcaico. Ma è assai probabile che un biologo cristiano, che lavori all’interno di un laboratorio altamente tecnologico, incontrerà maggiori difficoltà a vivere la propria fede con la stessa intensità e gli stessi livelli “qualitativi” della monaca di clausura. Va tuttavia aggiunto che, se risulta possibile che un cristiano moderno riesca a vivere pienamente e intensamente la propria fede anche in un contesto fortemente laicizzato e profano, ciò costituisce la riprova di quanto la religione a cui aderisce vanti una struttura concettuale straordinariamente “plastica”, e quindi in grado di adattarsi ad ogni temperie senza perdere la sua sostanziale efficacia. Questo va a tutto merito del sistema dottrinario cristiano sul piano dell’efficienza, ma rimane il fatto, quasi inevitabile, che la religiosità cristiana, in generale, abbia perduto negli ultimi tre secoli, sul piano cultuale e rituale, la condizione “ideale” e auspicabile che era riuscita a mantenere ben oltre la fine del Medioevo, che era stato indubbiamente il periodo più glorioso del Cristianesimo in termini di autenticità religiosa. Infatti, se il rapporto con la divinità è l “essenza” dell’esistenza umana, è evidente che quanto più stretto, coinvolgente e costante esso può essere, tanto più “santa” risulterà la vita del fedele. Da questo punto di vista la condizione arcaica risulta quindi privilegiata in termini, ci pare, indiscutibili. Diventa però qui necessario tentare un confronto tra la religiosità arcaica e quella dei monoteismi abramitici, prese entrambe nella loro generalità, per capire in che cosa esse differiscano. Ciò dal momento che, sia l’una che l’altra, sono riuscite sia a sopravvivere attraverso i millenni, sia a mantenere fondamentalmente inalterata la loro weltanschauung; la cui validità, su un piano che definiremo “funzionalistico”, non ha quasi subito cedimenti. Senza alcuna pretesa di lasciarci andare a valutazioni etno-antropologiche sofisticate la nostra riflessione ci conduce però a ravvisare un elemento comune tra esse, che ci pare essere quello relativo al fatto che entrambe le tipologie religiose si presentano come “sistemiche”. Non erano infatti sistemi i politeismi pagani fioriti in ambito medio-orientale ed europeo precedentemente all’avvento del Cristianesimo, con la loro indeterminazione e l’estrema variabilità dei miti e delle loro personificazioni. Tanto è vero che non hanno retto all’impatto del messaggio dei monoteismi cristiano ed islamico, i quali (con la loro visione del mondo, la loro dottrina soteriologica e la loro escatologia) colmavano un vuoto esistenziale che i paganesimi antichi con la loro debolezza (in termini concettuali e dottrinari) non potevano certo riempire. Non vorremmo però dare la sensazione di voler qui equiparare la religiosità arcaica a quella monoteistica, poiché le differenze restano enormi, specialmente in termini di "forza" (97). Dove per forza intendiamo non già la religiosità in sé, in termini di autenticità, ma la “macchina” di persuasione che essa supporta. Ed è indubitabile che una macchina di persuasione si basa non soltanto su una migliore struttura dottrinaria e una maggior capacità dialettica nell’esporla, ma anche in quegli strumenti “al contorno”, offerti dalla tecnologia, dalle arti e dalla letteratura, che le catechesi cristiana ed islamica possono utilizzare. Quasi tutte le religioni arcaiche (sia pure con sopravvivenze sincretiche nei monoteismi ad esse subentrati) sono state via via spazzate via da Cristianesimo e Islam, attraverso la conquista o la colonizzazione, in un vasto areale che va dalla penisola indiana, all’Africa e alle Americhe. D’altra parte, sia le religioni arcaiche sia quelle abramitiche sono, pur possedendo caratteristiche molto differenti, religioni assolutamente “sistemiche”, dove nelle prime il sistema si presenta piuttosto semplice e nelle seconde più complesso. Questa relativa equivalenza è riconoscibile quantunque quelle arcaiche non posseggano la struttura ideologica di quelle monoteistiche e soprattutto la loro universalità, che è un elemento fondamentale per il superamento di localizzazioni ed etnicizzazioni. L’elemento che rende quindi comprensibile la sopravvivenza delle religioni mitiche nei contesti arcaici non è soltanto la loro sistemicità, ma soprattutto il loro “isolamento”. Infatti, solamente questo le ha preservate e difese dall’irruzione della weltanschauung monoteistica, la quale, qualora si fosse affacciata ai loro orizzonti, le avrebbe annullate completamente con la sua forza religiosa. La tesi che noi sosteniamo è che il successo o l’insuccesso di una religione dipende sì anche da ragioni storiche ed ambientali, ma soprattutto dalla sua forza, che è costituita da un aspetto intrinseco, che è la sua weltanschauung in termini di appagamento psichico, e da uno estrinseco, che è il più elevato livello intellettuale e tecnologico di chi la propone o la impone (98). Tornando al nostro discorso principale, dobbiamo ora rilevare che la dicotomia tra homo religiosus ed homo ateus indica allora la contrapposizione estrema che può verificarsi tra due atteggiamenti esistenziali reciprocamente incompatibili, che dal punto di vista antropologico costituiscono due limiti, per ragioni opposte, difficilmente raggiungibili. Nel nostro mondo, infatti, quello più o meno tecnologico nel quale il pensiero scientifico ha inferto duri colpi alla religiosità, è veramente difficile, oggi, essere portatori e testimoni di una credenza religiosa assoluta e priva di dubbi. E se pure è già meno facile accettare in tutto e per tutto il nucleo di una dottrina risalente a molti secoli fa è tuttavia nel campo cultuale e ritualistico dove il cristiano moderno si trova a marcare il proprio distacco dai precetti e dai sacramenti afferenti, di rigore, l’impianto dottrinario. Ma per altro verso non è neppure facile far propria una filosofia, quella atea, che azzeri venti secoli di Cristianesimo, intendendo riallacciarsi ad un pensiero filosofico che ne ha preceduto l’avvento di cinque secoli, ma che poi è stato quasi dimenticato durante quindici secoli di dominio teologico. Dominio il quale, non facciamoci illusioni, ha permeato in modo così profondo e totale la nostra cultura che non è possibile dl tutto prescinderne, neanche per chi si proclami ateo e senta profondamente il proprio distacco da essa nella realizzazione della propria libertà metafisica. Ma se l’homo religiosus è sempre più difficilmente realizzabile nel mondo moderno delle società tecnologiche anche quello l’homo ateus rappresenta un limite esistenziale assai problematico, se non altro perché gli strumenti culturali e di supporto messi a disposizione dalla cultura religiosa sono sconfinati, mentre quelli sulla teoresi atea attualmente disponibili sono pochissimi e perlopiù assenti dalla sfera pubblica. Questa differenza abissale tra il corpus della cultura religiosa (o di quella che indirettamente vi è riconducibile) e quella che (in qualche modo) reca un messaggio e dei contenuti atei non è priva di peso e significato, laddove si ponga il problema del “dubbio” sulle proprie convinzioni, nella prospettiva, se non di una conferma, almeno di un rafforzamento di esse. Ciò è assai importante proprio in riferimento a un ateismo di tipo non semplicemente “pratico” ma “teoretico”, cioè concettuale e non soltanto comportamentale. Dove per ateismo teoretico intendiamo quello che si fa interprete di una teoresi filosofica che si basa su di una totale libertà metafisica e che implica la totale espunzione del sacro dai suoi orizzonti ontologici. Ciò significa che rimane sempre facile, sia per ragioni filogenetiche che di imprinting (ma soprattutto per ragioni di disponibilità e presenza culturale) essere religiosi, mentre è assai difficile essere atei nel senso da noi posto che, lo ribadiamo, è quello che storicizza la religione e con essa si confronta sul piano etico. Se sul piano teoretico, infatti, nessun confronto è possibile tra ateismo e religione, non così sul piano etico, in quanto molti aspetti della morale religiosa (quelli che potremmo definire di carattere “naturale-universale”) sono perfettamente condivisibili anche da parte dell’ateo. Il confronto perciò si sviluppa, semmai, sulle alternative esistenziali che l’homo liberato dai vincoli metafisici è in grado di proporre e non sui comportamenti individuali e sociali realmente “virtuosi”. Il fulcro delle nostre tesi sulla religiosità e sulla sua funzione esistenziale (prima ancora che sociale) riposa fondamentalmente sul concetto di omeostasi psichica (99), a cui abbiamo poco sopra accennato. Essa consiste, secondo il nostro punto di vista, in uno stato di rilassamento della psiche che è condizione basilare per la buona salute dell’uomo in generale. Tale esigenza omeostatica, che soltanto eccezionalmente può risultare assente (100), determina l’orizzonte esistenziale in cui ogni individuo tende a collocarsi ai fini della sua sopravvivenza e del miglior modo di affrontare l’esistenza. Se la nostra tesi è plausibile ne deriva che l’attuale stato evolutivo dell’homo sapiens sembra testimoniare una selezione filogenetica che ha privilegiato, attraverso le generazioni, gli individui che posseggono una buona omeostasi psichica e non solamente chi è più dotato di forza e di intelligenza. D’altra parte, è quasi una banalità ricordarlo, chi possiede un ottima omeostasi psichica ha migliori possibilità di utilizzare al meglio le proprie risorse fisiche ed intellettuali, mentre, al contrario, ogni stato psichico perturbato rende scarsamente o malamente utilizzabili le proprie facoltà. Quanto sopra significa quindi che, a livello filogenetico, chi gode di omeostasi psichica ha migliori probabilità non solo di sopravvivere e di affrontare al meglio i casi della vita, ma soprattutto di avere una progenie più sana e numerosa (101); ciò nel senso che l’omeostasi favorisce la “tonicità” delle proprie risorse psico-fisiche e rende quindi più probabile essere dei “vincenti” anche in termini generativi. Tuttavia, se ciò è facilmente riscontrabile in una condizione umana caratterizzata dalla precarietà e dall’indigenza, per una (come la nostra) che abbia invece risolto i problemi esistentivi elementari e che abbia ampliato gli orizzonti della propria cultura è difficile dire se ciò rimanga vero. Va comunque considerato che la nascita della specie homo sapiens non supera in ogni caso i duecentomila anni e che quindi la sua evoluzione va riferita ad un tempo brevissimo in termini cosmologici. Ciò significa che nei prossimi millenni la nostra specie potrebbe subire delle alterazioni per noi ora inimmaginabili, sempre che il sapiens (come è già accaduto per il neanderthalensis) non si estingua lasciando il posto a una specie più evoluta e vincente. Se, pertanto, l’esigenza dell’omeostasi psichica caratterizza diffusamente e prevalentemente l’attuale stadio evolutivo dell’uomo, nulla vieta di pensare che questo, mutando il suo rapporto col mondo, possa, in uno stadio evolutivo futuro, trovare omeostasi in weltanschauungen differenti, che potrebbe avere a proprio fondamento proprio l’abbandono di ogni religiosità, ovvero la conquista di quella libertà metafisica che l’ateismo prefigura. È in questo senso che l’ateismo potrebbe risultare quindi “oggi” persino antropologicamente prematuro, in quanto realizzabile soltanto da parte di più o meno numerosi “fuori schema”, limitatamente a quella piccola parte del pianeta la cui cultura è pervasa di pensiero scientifico e dove può venir messa in discussione la struttura mentale dell’homo religiosus. Struttura tipica, che determina (per lo più inconsapevolmente) la sistematica eliminazione dal proprio orizzonte esistenziale di ogni elemento di carattere turbativo che possa insinuare disordine e casualità. Non deve quindi stupire che il caos ed il caso risultino due connotazioni cosmologiche e filosofiche che da sempre vengono combattute, ed in modo implacabile, da tutte le religioni. Una delle prime funzioni del “sacro” è infatti di recare ordine e definizione nel cosmo contro il disordine e l’indeterminazione. Di fronte alle difficoltà dell’esistenza, che devono essere affrontate col massimo apporto di energia psico-fisica, solamente una perfetta omeostasi della psiche (quale fondamentale “funzione” mentale) garantisce un’adeguata tonicità, con la più alta resa sul piano funzionale di ogni azione necessitata dalle circostanze o determinata dal desiderio. Qualunque “credenza”, indipendentemente dalla sua origine e dalla sua veridicità, che “stabilizzi” la psiche, permette allora di disporre compiutamente delle energie assorbibili dall’attività mentale. In altre parole, secondo la nostra tesi, il “sacro” è funzionale al miglior equilibrio psichico, in quanto protettivo e gratificante, mentre il “profano” è un territorio conflittuale dove la psiche è sottoposta a continui stress, che ne mettono a repentaglio lo stato di quiete o che (freudianamente) richiede un elevato dispendio energetico. Se l’homo ateus riesce a convivere col caos e col caso deve essere perché si è operata in lui una modificazione strutturale della psiche che glieli rende tollerabili, o almeno affrontabili, attraverso strumenti concettuali che il religiosus non possiede o rifiuta. In definitiva, possiamo dire che ciò che caratterizza precipuamente l’homo ateus rispetto al religiosus suo contemporaneo è il fatto di riuscire a conseguire la sua omeostasi psichica senza far ricorso ad una weltanschauung religiosa. L’homo ateus rappresenta quindi quello status esistenziale nel quale, da un punto di vista ontologico, viene ammesso e tollerato un universo casuale e privo di fini, nonché l’accettazione del fatto che il fenomeno “vita” (in un suo piccolo e insignificante pianeta) sia una realtà assolutamente casuale e priva di significati nell’economia del cosmo nella sua generalità. Nell’ateismo teoretico, quindi, il “senso” dell’esistere non può venire cercato né in un supposto essere finalistico dell’universo né nella presenza del fenomeno vita sul nostro pianeta, ma esclusivamente nell’immanenza dell’esistere che concerne ogni singolo uomo in rapporto ai propri simili, in rapporto alla vita nel suo complesso e in riferimento alla struttura di un universo che l’ha resa possibile. Ma è anche in riferimento al retaggio religioso, di cui ogni uomo ateo (consapevolmente o no) è comunque ed in qualche modo interprete, che non è tanto il rifiuto di esso a qualificare l’ateismo ma l’affermazione della libertà metafisica in termini teorici. Solo questo salto di qualità dell’ateismo rende coerente la scelta di esso quale orizzonte ontologico ed esistenziale foriero di quell’autodeterminazione anti-metafisica che soltanto la libertà metafisica rende, per l’appunto, possibile. (93) Ma occorre aggiungere che ciò accade finché l’uomo delle società avanzate non arriva a turbare il suo “edenico” equilibrio. Quando tale equilibrio si rompe i risultati culturali sono devastanti, poiché l’uomo arcaico non possiede l’elasticità mentale per elaborare una weltanschauung alternativa o adattata al nuovo orizzonte gnoseologico. Venendo messi in crisi i punti di riferimento della religiosità (vedi i § 1.1, 1.2 e 1.3) le società impregnate dalla weltanschauung mistica si frantumano e alla cultura dell’immobilità subentra quella della competizione su base irrazionalistica. Rimanendo il pensiero arcaico sostanzialmente a livello pre-razionale, malgrado le iniezioni di razionalità mal assimilata implicita nell’addestramento all’uso di strumenti e apparecchi (dalle armi, alla televisione, al telefono, ecc) realizzati in un contesto estraneo, come è quello razionale e tecnologico, esso si trova a cavallo tra un mondo che “sta perdendo” ed un altro che “usa”, ma che non capisce. L’abbandono della weltanschauung religiosa costituisce allora un dramma epocale, poiché, da un lato, l’uomo arcaico non può abbandonare (senza perdere la propria identità individuale e sociale) la weltanschauung religiosa, ma nello stesso tempo essa nella sua mente si de-struttura, decadendo così a pura superstizione disordinata e arbitraria, e perde quindi tutti quegli aspetti positivi (conferimento di regola e di ordine) che la rendevano monolitica e perfetta. (torna su) (94) Su alcune forme primitive di classificazione in E.Durkheim, H.Hubert, M.Mauss, Le origini dei poteri magici, Bollati Boringhieri, Torino 1991. (torna su) (95) Mauss, in Teoria generale della magia (Einaudi 1991, p. 330-347), analizza i tipi di suicidio che l’uomo arcaico mette in opera quando ritiene di aver commesso una trasgressione irreparabile alle regole religiose del gruppo. (torna su) (96) Ci sembra interessante ribadire il punto di vista di Eliade con le sue stesse parole (Il sacro e il profano, Bollati Boringheri 1995, p. 45): «Se dovessimo riassumere il risultato delle precedenti descrizioni, diremmo che l’esperienza dello spazio sacro rende possibile la “fondazione del Mondo”; nello spazio ove il sacro si manifesta, là si rivela il reale, ha origine il Mondo. L’irruzione del sacro non proietta solo un punto fisso in mezzo all’amorfa fluidità dello spazio profano, un “Centro” nel “Caos”; essa dà luogo inoltre a una rottura di livello, apre la via di comunicazione tra i livelli cosmici (Terra e Cielo) facilita il passaggio, ontologicamente, da un modo di esser all’altro. Questa rottura nell’eterogeneità dello spazio profano crea il “Centro” attraverso il quale si può comunicare con il “trascendente”; il quale,rendendo possibile l’orientatio, fonda conseguentemente il “Mondo”. La manifestazione del sacro nello spazio ha quindi una validità cosmologica: ogni ierofania spaziale, ogni consacrazione di uno spazio, equivale a una “cosmogonia”». (torna su) (97) Abbiamo già introdotto questo concetto all’inizio del § 1.7 con riferimento al testo di Necessità e Libertà. In questo, al capitolo IV, noi supponevamo una sorta di “selezione naturale” concernente l’avvicendamento delle religioni, rispondente al concetto di ragione biologica, che avevamo posto come essenza originaria dell’evoluzione del mondo vivente, in ogni suo aspetto ed espressione. (torna su) (98) Non prendiamo qui in considerazione l’elemento più propriamente “politico”, ovvero il rapporto che si instaura tra una religione e il potere temporale, la cui importanza è fuori discussione. E’ però oggetto della sociologia e non della filosofia determinare gli strumenti attraverso i quali i poteri si scontrano e si alleano in vista del proprio successo, con reciproco rafforzamento delle differenti posizioni mediante collaborazione ideologica sul piano delle istituzioni, dell’etica, dell’istruzione e della cultura. (torna su) (99) Cfr. Necessità e Libertà Cap. IV. (torna su) (100) Come si sa vi sono individui che sfuggono sistematicamente ogni situazione esistenziale ripetitiva e che cercano costantemente la novità e il rischio proprio per rompere la monotonia della vita; essi realizzano pertanto se stessi attraverso la dinamicità esistenziale e non attraverso la stabilizzazione. Non è però chiaro se tale comportamento risulti dettato da una “scelta di vita” o non invece da una “pulsionalità” conseguente a specifici elementi caratteriali. Se di ciò si tratta, l’anticonvenzionalità e la trasgressione (rispetto ai moduli comportamentali comuni) sarebbero allora conseguenti ad una certa struttura della psiche individuale e non ad una scelta dettata da una razionalità consapevole. (torna su) (101) Una tesi collaterale, facilmente verificabile dai dati demografici, potrebbe enunciare che i contesti culturali che favoriscono l’omeostasi psichica (molto spesso quelli ad alto tenore di religiosità) favoriscano anche indirettamente i tassi di natalità. 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