ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
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III. I prodromi dell’ateismo nel mondo greco
Diogene Laerzio ripete questa celeberrima frase (IX, 51-52) con l’aggiunta:
Che il rogo dei libri di Protagora sia veramente avvenuto non sembra del tutto sicuro, ma non è improbabile, poiché quella frase (ricordata anche in numerosi luoghi dell’opera platonica) doveva essere stata indubbiamente pericolosa. E ciò senza giungere alle estreme conseguenze che riferisce Sesto Empirico (Adversus mathematicos, IX, 55-56) secondo il quale:
A parte l’attendibilità di questi elementi biografici, appare straordinaria questa esemplare affermazione di Protagora circa l’impossibilità di decidere se la divinità sia o non sia, vuoi per la natura del problema e vuoi per le difficoltà che ciò comporta (185). Un’affermazione che potrebbe venir assunta dagli agnostici contemporanei almeno quanto la definizione canonica che dell’agnosticismo diede Thomas H. Huxley verso la metà dell’800. Protagora, infatti, da un punto di vista formale si presenta come un agnostico e non come un ateo, in quanto è solamente uno che “razionalmente” si rende conto dell’impossibilità di decidere se gli dèi esistano o no. Un atteggiamento di non facile equilibrismo concettuale, ma tuttavia (a parte le testimonianze sopra riportate) che avrebbe anche potuto “funzionare”, senza fargli correre eccessivi rischi, e consentirgli nello stesso tempo di difendere le sue posizioni. Tant’è che Platone, il quale aveva stigmatizzato in modo ben più severo i “fisici”, nei confronti di questo dialettico-erista mantiene un atteggiamento tutto sommato abbastanza rispettoso. Nel Cratilo egli mette in bocca a Socrate quella che può essere considerata la sintesi del pensiero protagoreo:
Posizione che verrà confutata nel Teeteto, dopo l’immaginaria autodifesa di Protagora (166 d – 168 c), nei seguenti termini (171 b):
Protagora comunque, seppure confutato acutamente dal discorso logico-dialettico di Platone, appare, nelle linee essenziali delle sue tesi, un razionalista assoluto che non si fa scrupoli di creare sconcerto in una società legata a convenzioni religiose istituzionalizzate, forse poco sentite a livello individuale, ma sicuramente cogenti a livello pubblico. Inoltre, a prescindere dai drammatici elementi biografici sopra ricordati, si potrebbe persino ipotizzare che egli avesse perfettamente calcolato i rischi delle sue affermazioni, ma che grazie al dominio della parola e degli astuti assemblaggi sintattici e grammaticali di essa (unitamente ad una perfetta conoscenza della linguistica greca) si fosse posto nelle condizioni di poter fare qualsiasi affermazione senza incorrere nei rigori della legge. Da tali performance gli sarebbe sicuramente derivato prestigio di abile erista, e nel contempo, probabilmente, anche la possibilità di render più cospicue le tariffe per le sue lezioni. D’altra parte, il successo e la fama che arrisero a Protagora sono testimoni di questa straordinaria padronanza del discorso, che ne fece uno dei prìncipi dell’argomentazione. Per il tema del nostro saggio, tuttavia, il Protagora noto e riconosciuto non è di grande interesse, poiché lo spessore teoretico dei suoi argomenti appare modesto. Ma tra le pieghe della dossografia qualcosa, ammesso che sia autentico, sembra emergere a rintuzzare il nostro interesse. E ciò ci viene ancora da Sesto Empirico (Schizzi pirroniani, I, 216-19) che dapprima ci sintetizza ciò che già sappiamo:
Ma appena dopo aggiunge qualcosa che non è dato trovare in altre testimonianze:
Pare che Sesto ritenga oscura la relazione tra la “materia fluttuante” e il fatto che essa sia nel contempo la “ragione” dei fenomeni stessi, mentre (da empirista radicale) ritenga chiaro che “ciò che appare è e ciò che non appare non è”. A noi pare il contrario, ma forse le due asserzioni si possono connettere, nel senso che il fluire della materia e (di converso) il fluire delle sensazioni che da essa derivano ai sensi umani, sono le due facce della stessa medaglia: ovvero, ontologia, fisiologia e psicologia si corrispondono perfettamente. Se l’uomo ha la sensazione che una cosa “sia” ciò significa che essa realmente “è” , e ciò in base al fatto che la materia non è statica, bensì dinamica. La portata di tale conclusione teoretica farebbe sì che la filosofia di Protagora assuma un nuovo spessore, anche perché risulterebbe anticipatrice di ciò che Epicuro sosterrà quasi un secolo e mezzo più tardi. Siccome però essa implica un elemento, la “fluidità della materia”, che fa riferimento alla fisica (materia della quale non ci risulta che il Nostro si sia mai occupato) la nostra ipotesi ci fa porre la domanda: «Ma la “fluidità della materia” è concetto originale protagoreo o echeggia un concetto di qualcun altro?». Di primo acchito il nome che viene in mente è quello di Eraclito, ma riesce difficile pensare che un pragmatico come Protagora si sentisse attratto da un concetto che, aldilà della mera enunciazione “tutto scorre”, è eminentemente mistico, come è mistica tutta la filosofia eraclitea. Viene allora da pensare ad Anassagora, oppure a Leucippo, o ad entrambi. Il primo sembrerebbe più probabile, perché è ad Atene negli anni in cui c’è anche Protagora ed entrambi fanno parte del gruppo di intellettuali che orbita intorno a Pericle. Ma per altro verso la sua patria, Abdera, è il luogo dove Leucippo (verosimilmente suo coetaneo o quasi) mette a fuoco la propria ontologia atomistica. Ci tocca però lasciare la domanda senza una risposta per l’assenza di altri elementi al riguardo. Vale a dire, “protagoramente”, poiché «molte sono le cose che l’impediscono». Gorgia è altro importante sofista, di poco più giovane di Protagora, che proviene da un altro capo del mondo greco (la Sicilia), ma che nel 427 sarà ad Atene per ragioni politiche e finirà poi la sua vita in Tessaglia. Secondo una certa tradizione sarebbe stato allievo di Empedocle, ma è difficile trovare tracce dirette ed evidenti della filosofia di questo. Tuttavia, in base ad alcune testimonianze egli avrebbe avuto interessi naturalistici ed astronomici che potrebbero ben conciliarsi con la filosofia empedoclea. In una dubbia testimonianza di Sopatro, un retore ateniese del IV sec. (dove il riferimento sarebbe piuttosto ad Anassagora) si legge (in Hermogenem ed. Waltz, Rhetores greci VIII, 23, Vors.82.B.31):
A questa affermazione si accompagna solo la testimonianza di Plutarco (Vitae, X, Oratorum, 838 d) che riferisce una notizia resa dal periegeta Eliodoro, il quale, a proposito della tomba di Isocrate, avrebbe affermato:
Ed è proprio Isocrate, suo probabile allievo quando, gia molto anziano, si era rifugiato in Tessaglia, a darci una sintesi del suo nichilismo in questi termini (Isocrate Orazioni ed. Blass 10, 3):
In questa testimonianza emergono tre elementi: l’elogio della bravura eristica di Gorgia, il suo nichilismo paradossale e l’accostamento a quell’altro “principe del paradosso” che è Zenone di Elea. Ne L’elogio di Elena (Vors. 82.C.11) abbiamo un documento estremamente interessante, poiché ci reca un’esemplificazione del modo di argomentare gorgiano. L’intento è quello di dimostrare che l’avvenente causa della guerra di Troia è stata incolpevole vittima, e quindi non responsabile, dell’abbandono del tetto coniugale e di ciò che ne è seguito. Vediamone lo sviluppo per sommi capi:
Dunque che Elena abbandonasse Menelao era “naturale”, come dire che la fuga con Paride era inevitabile. Segue un interessante passaggio in cui Gorgia elenca quattro possibili “cause” della fuga di Elena, non prive di qualche implicazione filosofica:
La prima causa addotta da Gorgia è in realtà un gruppo di cause trascendenti l’umano. Il blocco Caso/Dèi/Necessità” va a costituire un accorpamento omogeneo di ciò che è ineluttabile «poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire». Ma Gorgia ci dice anche che ciò va accettato non in virtù del fatto che ciò che è divino è migliore, ma semplicemente poiché è giusto che il più forte prevalga. Sembra qui che Gorgia intenda dire che non è l’eccellenza divina ma unicamente la “forza” di cui dispone a fondare una sorta di “diritto naturale” a prevalere. E questa affermazione non è priva di blasfemia, poiché né Omero né Esiodo (né nessuno dopo di loro) si sarebbe azzardato a fare della divinità una pura questione di forza. Ma Gorgia ci lascia capire che questo non sarebbe il suo pensiero quando subito dopo passa al rapimento “con forza”:
Poi viene presa in considerazione una causa che il sofista conosce molto bene: la parola:
Sarebbe allora il caso, per inciso, di chiedersi : «Ma se Gorgia pensa che la parola “che divinissime cose sa compiere” opera il raggiro, allora anche il raggiro è in qualche modo divino?» Poco dopo però viene ritirato in ballo il concetto di “forza” proprio in riferimento alla parola:
Avremmo qui (ma il testo originale greco risulta qui corrotto) una specie di divinizzazione della parola, in quanto dotata di tale potenza persuasiva da assumere carattere di ineluttabilità. Si passa quindi alla quarta causa possibile: l’amore:
L’orgogliosa conclusione è la seguente:
Se ci siamo soffermati su questa orazione retorica è perché volevamo evidenziare tre concetti gorgiani che ne emergono (200). Partendo dal fondo: a) la dialettica come “gioco”, basata b) sulla “forza” della parola, a sua volta facente parte del più ampio concetto di “forza naturale”, come valore legittimante ciò che deve prevalere in base a quella che appare come una non negativa “legge del più forte”. Ma se l’unico valore è la forza il nichilismo ontologico allora diventa evidente ed inevitabile. Dal punto di vista filosofico il nichilismo rappresenta indubbiamente l’aspetto più interessante dell’atteggiamento di Gorgia, anche se non si può fare a meno di osservare che il modo con cui egli espone il suo pensiero nichilistico rivela qualcosa di artificioso, in quanto la veste retorica del discorso finisce per mettere un po’ in secondo piano il contenuto teoretico (che indubbiamente c’è) rispetto all’intento eristico. Della famosa argomentazione esposta nel trattato Del non essere o Della natura, possediamo due versioni complete, quella pseudo-aritotelica esposta in De Melisso Xenophane Gorgia e quella riportata da Sesto Empirico nell’Adversus mathematicos, che sul piano contenutistico praticamente si corrispondono. Citeremo alcuni passaggi di quest’ultima perché sembra riferirsi un poco di più ad un discorso originale, mentre la seconda ci pare più interpretativa. Riferisce Sesto (VII, 65-87):
Già da questi tre “capisaldi” anticipati da Sesto si comprende l’arbitrarietà delle premesse gorgiane e l’argomentazione che segue è un inanellamento di affermazioni che posseggono sì una certa loro logica interna, ma sempre sul filo del rasoio del paradosso:
Come ben si comprende argomento assurdo e privo di senso, a cui fa seguito:
Conclusione del tutto arbitraria, seguita da un argomentazione piuttosto inconsistente:
La labirintica girandola verbale, dopo aver bordeggiato il non-senso approda a una proposizione sensata, ma per riprendere subito il largo con un procedimento parallelo (e così di seguito). Alla fine Sesto conclude (87):
Chiudiamo questo paragrafo sui sofisti con Crizia, un personaggio complesso, che in qualche modo alla sofistica si richiama pur essendo la sua opera di carattere letterario piuttosto che filosofico. Importante personaggio politico assai discusso, esponente del partito aristocratico che abbatté il governo democratico di Atene con l’appoggio degli Spartani, encomiato da alcuni e biasimato ferocemente da altri (per esempio da Senofonte) è ritenuto tradizionalmente allievo di Protagora, Socrate e Gorgia. A capo dei cosiddetti Trenta Tiranni venne variamente accusato di essersi comportato in modo feroce e di essersi macchiato di operazioni corruttelari. Scrisse opere in prosa e in versi e in questo campo gli vengono attribuite opere ritenute in antico di Euripide, col quale vi è un intreccio attribuzionale mai veramente chiarito. Infatti sarebbero di Crizia alcune tragedie (Tennes, Radamente, Piritoo) già ritenute di Euripide, come pure un dramma satiresco, intitolato Sisifo, che Aezio attribuisce ad Euripide (I, 7, 2, Dox. 298) e da cui è tratto un brano che sottintende che la divinità è stata inventata quale “spauracchio” contro la malvagità. Scrive Aezio:
e che invece Sesto Empirico dà a Crizia affermando (Adversus mathematicos, IX, 54):
La sofistica fu un movimento intellettuale anticonvenzionale e sovvertitore di un'etica che, in generale, riteneva “reale” qualcosa come la “verità assoluta” (ovvero “divina”), avendo introdotto, contro di essa, il tarlo di un relativismo altrettanto assoluto. Certamente nei comportamenti dei sofisti vi sono state luci ed ombre (queste specialmente in relazione alla trasmissione del sapere “a pagamento”) ma non si può ignorare il loro apporto in termini di evoluzione dell’atteggiamento culturale, nel senso dell’abbandono di atteggiamenti retorici ed ipocriti. Ad esso non poteva ovviamente che opporsi aspramente sia l’idealismo di Platone sia il post-idealismo di Aristotele. Chiudiamo il paragrafo riportando il finale del Sofista, che è interessante per ciò che rivela dell’atteggiamento idealistico quanto per ciò che nasconde dell’atteggiamento sofistico (Sofista, 267-268d):
La sezione “divina” dell’attività produttiva essendo, naturalmente, la fabbricazione della “verità platonica”, che trova la più compiuta espressione ne le Leggi, dove il sommo Platone, dopo aver tratto l’uomo (nel VII libro del Repubblica, VII) dall’ignoranza della mitica “caverna” gli impone la sua divina e salvifica etica sapienziale da “caserma”. (182) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. II, Laterza 1983, p. 374. (torna su) (184) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 881. (torna su) (185) In un recente studio di Stelio Zeppi, dal titolo L’ateismo ateistico di Protagora (in Il pensiero religioso nei Presocratici, Studium 2003, pp. 221-229) questo autore ipotizza una posizione filo-senofanea di Protagora; tesi che ci sembra francamente piuttosto inconsistente. Scrive Zeppi (p. 26): «Alludo al contenuto, od oggetto, all’agnosticismo in questione. Esso riguarda non già la conoscenza del Divino, di Dio, bensì soltanto quella degli dèi [si notino le iniziali maiuscole e minuscole!]. Protagora cioè prende le distanze dal politeismo della religione popolare, volgarmente intesa, e ciò facendo riprende la battaglia contro le credenze religiose in quanto stoltamente dogmatiche e risibili che era stata intrapresa da Senofane […]». (torna su) (186) Platone, Tutti gli scritti, Bompiani 2000, pp. 136-137. (torna su) (188) Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, Laterza 1926, pp. 61-62. (torna su) (190) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 947. (torna su) (193) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, pp. 927-929 passim. (torna su) (197) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 930. (torna su) (200) Un importante studio dell’Elogio di Elena è quello condotto da Mario Untersteiner nel suo I Sofisti (Einaudi 1949, p. 129 e ss.) che lo porta ad individuare i tre elementi-guida seguenti: I) La previdenza umana non può impedire il volere di un dio, II) La violenza è espressione dl divino, III) La parola è persuasione ed inganno. (torna su) (201) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, pp. 916-917. (torna su) (202) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 920. (torna su) (203) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 1026. (torna su) (205) Platone, Tutti gli scritti (cura Giovanni Reale), Il sofista, p. 310. (torna su) |