I Sofisti

ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
Religione, naturalismo e scienza. La nascita della filosofia atea


III. I prodromi dell’ateismo nel mondo greco
3.4 I Sofisti

«Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità di sapere né che sono né che non sono. Molti sono gli ostacoli che impediscono di sapere, sia l’oscurità dell’argomento sia la brevità della vita umana.» (182)

Diogene Laerzio ripete questa celeberrima frase (IX, 51-52) con l’aggiunta:

Per questo proemio dell’opera, fu bandito dagli Ateniesi; e i suoi libri furono bruciati nella piazza del mercato dopo che per mezzo di un araldo erano state requisite tutte le copie a coloro che le possedevano, uno per uno. (183)

Che il rogo dei libri di Protagora sia veramente avvenuto non sembra del tutto sicuro, ma non è improbabile, poiché quella frase (ricordata anche in numerosi luoghi dell’opera platonica) doveva essere stata indubbiamente pericolosa. E ciò senza giungere alle estreme conseguenze che riferisce Sesto Empirico (Adversus mathematicos, IX, 55-56) secondo il quale:

S’accorda con costoro [gli atei Evemero, Diagora, Prodico, Crizia] anche Teodoro l’ateo e secondo alcuni anche Protagora di Abdera … per aver scritto testualmente così: «Riguardo agli dèi, non posso affermare né che sono né di che natura sono; perché molte sono le cose che me l’impediscono». A cagione di ciò gli ateniesi lo condannarono a morte; riuscito a fuggire, fece naufragio e morì per mare. (184)

A parte l’attendibilità di questi elementi biografici, appare straordinaria questa esemplare affermazione di Protagora circa l’impossibilità di decidere se la divinità sia o non sia, vuoi per la natura del problema e vuoi per le difficoltà che ciò comporta (185). Un’affermazione che potrebbe venir assunta dagli agnostici contemporanei almeno quanto la definizione canonica che dell’agnosticismo diede Thomas H. Huxley verso la metà dell’800.

Protagora, infatti, da un punto di vista formale si presenta come un agnostico e non come un ateo, in quanto è solamente uno che “razionalmente” si rende conto dell’impossibilità di decidere se gli dèi esistano o no. Un atteggiamento di non facile equilibrismo concettuale, ma tuttavia (a parte le testimonianze sopra riportate) che avrebbe anche potuto “funzionare”, senza fargli correre eccessivi rischi, e consentirgli nello stesso tempo di difendere le sue posizioni. Tant’è che Platone, il quale aveva stigmatizzato in modo ben più severo i “fisici”, nei confronti di questo dialettico-erista mantiene un atteggiamento tutto sommato abbastanza rispettoso. Nel Cratilo egli mette in bocca a Socrate quella che può essere considerata la sintesi del pensiero protagoreo:

Ebbene, vediamo Ermogene, se ti sembra che anche gli esseri stiano così: la loro essenza è relativa a ciascuno in particolare, come affermava Protagora, sostenendo che l’uomo è misura di tutte le cose [386 a], ossia che le cose quali appaiono a me, tali sono per me, quali appaiono a te, tali sono per te? Oppure ti sembra che abbiano una certa stabilità nell’essenza? (186)

Posizione che verrà confutata nel Teeteto, dopo l’immaginaria autodifesa di Protagora (166 d – 168 c), nei seguenti termini (171 b):

Da parte di tutti, dunque, a cominciare da Protagora, ciò sarà messo in discussione. Da lui, però, verrà piuttosto un’ammissione: qualora riconosca, a chi dice il contrario di lui, che ha opinione vera, [c] allora anche lo stesso Protagora riconoscerà che né un cane né un uomo, quale che sia, è misura, neppure di una sola delle cose che non abbiamo appresa. Non è così? […] Dunque, poiché è messa in discussione da tutti, per nessuno la «verità» di Protagora sarà vera, né per un altro, né per lui stesso. (187)

Protagora comunque, seppure confutato acutamente dal discorso logico-dialettico di Platone, appare, nelle linee essenziali delle sue tesi, un razionalista assoluto che non si fa scrupoli di creare sconcerto in una società legata a convenzioni religiose istituzionalizzate, forse poco sentite a livello individuale, ma sicuramente cogenti a livello pubblico. Inoltre, a prescindere dai drammatici elementi biografici sopra ricordati, si potrebbe persino ipotizzare che egli avesse perfettamente calcolato i rischi delle sue affermazioni, ma che grazie al dominio della parola e degli astuti assemblaggi sintattici e grammaticali di essa (unitamente ad una perfetta conoscenza della linguistica greca) si fosse posto nelle condizioni di poter fare qualsiasi affermazione senza incorrere nei rigori della legge.

Da tali performance gli sarebbe sicuramente derivato prestigio di abile erista, e nel contempo, probabilmente, anche la possibilità di render più cospicue le tariffe per le sue lezioni. D’altra parte, il successo e la fama che arrisero a Protagora sono testimoni di questa straordinaria padronanza del discorso, che ne fece uno dei prìncipi dell’argomentazione. Per il tema del nostro saggio, tuttavia, il Protagora noto e riconosciuto non è di grande interesse, poiché lo spessore teoretico dei suoi argomenti appare modesto.

Ma tra le pieghe della dossografia qualcosa, ammesso che sia autentico, sembra emergere a rintuzzare il nostro interesse. E ciò ci viene ancora da Sesto Empirico (Schizzi pirroniani, I, 216-19) che dapprima ci sintetizza ciò che già sappiamo:

(216) Anche Protagora vuole che di tutte le cose sia misura l’uomo: di quelle che sono, a quel modo che sono, di quelle che non sono, a quel modo che non sono; chiamando «misura», il criterio e «cose» i fatti; come se dicesse che di tutti i fatti criterio è l’uomo, di quelli che sono, al modo che sono, di quelli che non sono sono, a quel modo che non sono. Per tal modo egli ammette solo ciò che appare a ciascuno e così introduce la relatività. (188)

Ma appena dopo aggiunge qualcosa che non è dato trovare in altre testimonianze:

(217) Dice, dunque, quest’uomo, che la materia è fluttuante, e, fluendo essa ininterrottamente, si verificano aggiunte al posto delle perdite, e le sensazioni mutano e variano secondo l’età e secondo le altre costituzioni dei corpi. (218) E dice pure che le ragioni di tutti i fenomeni sono contenute nella materia, talché la materia, quanto a se stessa, può essere tutto ciò che appare a tutti. Gli uomini, poi, ora percepiscono una cosa ora un’altra, secondo le differenti disposizioni. (189)

Pare che Sesto ritenga oscura la relazione tra la “materia fluttuante” e il fatto che essa sia nel contempo la “ragione” dei fenomeni stessi, mentre (da empirista radicale) ritenga chiaro che “ciò che appare è e ciò che non appare non è”. A noi pare il contrario, ma forse le due asserzioni si possono connettere, nel senso che il fluire della materia e (di converso) il fluire delle sensazioni che da essa derivano ai sensi umani, sono le due facce della stessa medaglia: ovvero, ontologia, fisiologia e psicologia si corrispondono perfettamente. Se l’uomo ha la sensazione che una cosa “sia” ciò significa che essa realmente “è” , e ciò in base al fatto che la materia non è statica, bensì dinamica.

La portata di tale conclusione teoretica farebbe sì che la filosofia di Protagora assuma un nuovo spessore, anche perché risulterebbe anticipatrice di ciò che Epicuro sosterrà quasi un secolo e mezzo più tardi. Siccome però essa implica un elemento, la “fluidità della materia”, che fa riferimento alla fisica (materia della quale non ci risulta che il Nostro si sia mai occupato) la nostra ipotesi ci fa porre la domanda: «Ma la “fluidità della materia” è concetto originale protagoreo o echeggia un concetto di qualcun altro?».

Di primo acchito il nome che viene in mente è quello di Eraclito, ma riesce difficile pensare che un pragmatico come Protagora si sentisse attratto da un concetto che, aldilà della mera enunciazione “tutto scorre”, è eminentemente mistico, come è mistica tutta la filosofia eraclitea. Viene allora da pensare ad Anassagora, oppure a Leucippo, o ad entrambi. Il primo sembrerebbe più probabile, perché è ad Atene negli anni in cui c’è anche Protagora ed entrambi fanno parte del gruppo di intellettuali che orbita intorno a Pericle. Ma per altro verso la sua patria, Abdera, è il luogo dove Leucippo (verosimilmente suo coetaneo o quasi) mette a fuoco la propria ontologia atomistica. Ci tocca però lasciare la domanda senza una risposta per l’assenza di altri elementi al riguardo. Vale a dire, “protagoramente”, poiché «molte sono le cose che l’impediscono».

Gorgia è altro importante sofista, di poco più giovane di Protagora, che proviene da un altro capo del mondo greco (la Sicilia), ma che nel 427 sarà ad Atene per ragioni politiche e finirà poi la sua vita in Tessaglia. Secondo una certa tradizione sarebbe stato allievo di Empedocle, ma è difficile trovare tracce dirette ed evidenti della filosofia di questo. Tuttavia, in base ad alcune testimonianze egli avrebbe avuto interessi naturalistici ed astronomici che potrebbero ben conciliarsi con la filosofia empedoclea. In una dubbia testimonianza di Sopatro, un retore ateniese del IV sec. (dove il riferimento sarebbe piuttosto ad Anassagora) si legge (in Hermogenem ed. Waltz, Rhetores greci VIII, 23, Vors.82.B.31):

Gorgia diceva che il sole è una massa di ferro incandescente. (190)

A questa affermazione si accompagna solo la testimonianza di Plutarco (Vitae, X, Oratorum, 838 d) che riferisce una notizia resa dal periegeta Eliodoro, il quale, a proposito della tomba di Isocrate, avrebbe affermato:

C’era anche lì accanto una stele funebre a bassorilievo, rappresentante delle figure di poeti e di maestri di lui, fra i quali anche Gorgia, in atto di osservare una sfera celeste, e con lo stesso Isocrate accanto. (191)

Ed è proprio Isocrate, suo probabile allievo quando, gia molto anziano, si era rifugiato in Tessaglia, a darci una sintesi del suo nichilismo in questi termini (Isocrate Orazioni ed. Blass 10, 3):

E come sarebbe mai possibile superare Gorgia, colui che ha osato affermare che nulla c’è di esistente, o quel Zenone che ha cercato di dimostrare che una stessa cosa è possibile e impossibile! (192)

In questa testimonianza emergono tre elementi: l’elogio della bravura eristica di Gorgia, il suo nichilismo paradossale e l’accostamento a quell’altro “principe del paradosso” che è Zenone di Elea.

Ne L’elogio di Elena (Vors. 82.C.11) abbiamo un documento estremamente interessante, poiché ci reca un’esemplificazione del modo di argomentare gorgiano. L’intento è quello di dimostrare che l’avvenente causa della guerra di Troia è stata incolpevole vittima, e quindi non responsabile, dell’abbandono del tetto coniugale e di ciò che ne è seguito. Vediamone lo sviluppo per sommi capi:

È decoro allo stato una balda gioventù; al corpo, bellezza; all’animo, sapienza; all’azione, virtù; alla parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. […] (4) Da tali generata, ebbe bellezza di dea, e, avutala, non nascose d’averla. […] (5) Ma chi fu e per qual motivo, e in che modo, appagò l’amore colui che conquistò Elena non lo dirò: ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge fiducia, ma non porta diletto. E però, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia. (193)

Dunque che Elena abbandonasse Menelao era “naturale”, come dire che la fuga con Paride era inevitabile. Segue un interessante passaggio in cui Gorgia elenca quattro possibili “cause” della fuga di Elena, non prive di qualche implicazione filosofica:

(6) Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione degli Dèi, e decreto di Necessità; oppure rapita per forza; o indotta con parole, <o presa da amore>. Se è per il primo motivo è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; […] (194)

La prima causa addotta da Gorgia è in realtà un gruppo di cause trascendenti l’umano. Il blocco Caso/Dèi/Necessità” va a costituire un accorpamento omogeneo di ciò che è ineluttabile «poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire». Ma Gorgia ci dice anche che ciò va accettato non in virtù del fatto che ciò che è divino è migliore, ma semplicemente poiché è giusto che il più forte prevalga. Sembra qui che Gorgia intenda dire che non è l’eccellenza divina ma unicamente la “forza” di cui dispone a fondare una sorta di “diritto naturale” a prevalere. E questa affermazione non è priva di blasfemia, poiché né Omero né Esiodo (né nessuno dopo di loro) si sarebbe azzardato a fare della divinità una pura questione di forza. Ma Gorgia ci lascia capire che questo non sarebbe il suo pensiero quando subito dopo passa al rapimento “con forza”:

(7) E se per forza fu rapita [..] è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto l’oltraggiò, […] Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa. D’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente[…] (195)

Poi viene presa in considerazione una causa che il sofista conosce molto bene: la parola:

(8) Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; […] (196)

Sarebbe allora il caso, per inciso, di chiedersi : «Ma se Gorgia pensa che la parola “che divinissime cose sa compiere” opera il raggiro, allora anche il raggiro è in qualche modo divino?» Poco dopo però viene ritirato in ballo il concetto di “forza” proprio in riferimento alla parola:

(12) […] Così si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. (197)

Avremmo qui (ma il testo originale greco risulta qui corrotto) una specie di divinizzazione della parola, in quanto dotata di tale potenza persuasiva da assumere carattere di ineluttabilità. Si passa quindi alla quarta causa possibile: l’amore:

(19) […] il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? (198)

L’orgogliosa conclusione è la seguente:

(21) Ho distrutto con la parola l’infamia di una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico. (199)

Se ci siamo soffermati su questa orazione retorica è perché volevamo evidenziare tre concetti gorgiani che ne emergono (200). Partendo dal fondo: a) la dialettica come “gioco”, basata b) sulla “forza” della parola, a sua volta facente parte del più ampio concetto di “forza naturale”, come valore legittimante ciò che deve prevalere in base a quella che appare come una non negativa “legge del più forte”. Ma se l’unico valore è la forza il nichilismo ontologico allora diventa evidente ed inevitabile.

Dal punto di vista filosofico il nichilismo rappresenta indubbiamente l’aspetto più interessante dell’atteggiamento di Gorgia, anche se non si può fare a meno di osservare che il modo con cui egli espone il suo pensiero nichilistico rivela qualcosa di artificioso, in quanto la veste retorica del discorso finisce per mettere un po’ in secondo piano il contenuto teoretico (che indubbiamente c’è) rispetto all’intento eristico. Della famosa argomentazione esposta nel trattato Del non essere o Della natura, possediamo due versioni complete, quella pseudo-aritotelica esposta in De Melisso Xenophane Gorgia e quella riportata da Sesto Empirico nell’Adversus mathematicos, che sul piano contenutistico praticamente si corrispondono. Citeremo alcuni passaggi di quest’ultima perché sembra riferirsi un poco di più ad un discorso originale, mentre la seconda ci pare più interpretativa. Riferisce Sesto (VII, 65-87):

Gorgia da Leontini fu anche lui dl gruppo di coloro che escludono una norma assoluta di giudizio; non però con le stesse obbiezioni che muoveva Protagora e la sua scuola. Infatti nel suo libro intitolato Del non essere o Della natura egli pone tre capisaldi, l’uno conseguente all’altro: 1) nulla esiste; 2) se anche alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; 3) se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri. (201)

Già da questi tre “capisaldi” anticipati da Sesto si comprende l’arbitrarietà delle premesse gorgiane e l’argomentazione che segue è un inanellamento di affermazioni che posseggono sì una certa loro logica interna, ma sempre sul filo del rasoio del paradosso:

(66) Che nulla esiste, lo argomenta in questo modo: ammesso che qualcosa esista, esiste soltanto o ciò che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme ciò che è e ciò che non è.

Come ben si comprende argomento assurdo e privo di senso, a cui fa seguito:

Ma né esiste ciò che è, come dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà; né infine, come anche ci spiegherà, l’essere e il non essere insieme. Dunque, nulla esiste (67)

Conclusione del tutto arbitraria, seguita da un argomentazione piuttosto inconsistente:

E invero, il non esser non è; perché supposto che il non essere sia, esso inisem sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non sarà, ma in qunto esoiste conme non esistene asua volta esisterà; ora è assolutamente assurdo che una cosa insieme sia e no sia; e dunque il non esser non è.

La labirintica girandola verbale, dopo aver bordeggiato il non-senso approda a una proposizione sensata, ma per riprendere subito il largo con un procedimento parallelo (e così di seguito). Alla fine Sesto conclude (87):

Di fronte a tali quesiti insolubili, sollevati da Gorgia, sparisce, per quanto li concerne, il criterio della verità; perché dell’inesistente, dell’inconoscibile, dell’inesprimibile non c’è possibilità di giudizio. (202)

Chiudiamo questo paragrafo sui sofisti con Crizia, un personaggio complesso, che in qualche modo alla sofistica si richiama pur essendo la sua opera di carattere letterario piuttosto che filosofico. Importante personaggio politico assai discusso, esponente del partito aristocratico che abbatté il governo democratico di Atene con l’appoggio degli Spartani, encomiato da alcuni e biasimato ferocemente da altri (per esempio da Senofonte) è ritenuto tradizionalmente allievo di Protagora, Socrate e Gorgia.

A capo dei cosiddetti Trenta Tiranni venne variamente accusato di essersi comportato in modo feroce e di essersi macchiato di operazioni corruttelari. Scrisse opere in prosa e in versi e in questo campo gli vengono attribuite opere ritenute in antico di Euripide, col quale vi è un intreccio attribuzionale mai veramente chiarito. Infatti sarebbero di Crizia alcune tragedie (Tennes, Radamente, Piritoo) già ritenute di Euripide, come pure un dramma satiresco, intitolato Sisifo, che Aezio attribuisce ad Euripide (I, 7, 2, Dox. 298) e da cui è tratto un brano che sottintende che la divinità è stata inventata quale “spauracchio” contro la malvagità. Scrive Aezio:

Euripide, il tragediografo, non volle manifestare direttamente le sue idee, per timore dell’Areopago, ma le fece capire nel modo seguente: mise in scena Sisifo rappresentante di questa opinione e gli fece dire: «Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sì che fosse Giustizia assoluta signora <egualmente di tutti> e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievano bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, <dapprima> un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timore <degli dèi> sicché uno spauracchio ci fosse ai malvagi […]». (203)

e che invece Sesto Empirico dà a Crizia affermando (Adversus mathematicos, IX, 54):

Anche Crizia, uno dei tiranni di Atene, sembra appartenere al gruppo degli atei, per avere detto che gli antichi legislatori finsero dio come una specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, con lo scopo che nessuno recasse ingiuria a tradimento al suo prossimo per paura d’un castigo degli dèi. Dice testualmente così «Tempo ci fu,… ». (204)

La sofistica fu un movimento intellettuale anticonvenzionale e sovvertitore di un'etica che, in generale, riteneva “reale” qualcosa come la “verità assoluta” (ovvero “divina”), avendo introdotto, contro di essa, il tarlo di un relativismo altrettanto assoluto. Certamente nei comportamenti dei sofisti vi sono state luci ed ombre (queste specialmente in relazione alla trasmissione del sapere “a pagamento”) ma non si può ignorare il loro apporto in termini di evoluzione dell’atteggiamento culturale, nel senso dell’abbandono di atteggiamenti retorici ed ipocriti. Ad esso non poteva ovviamente che opporsi aspramente sia l’idealismo di Platone sia il post-idealismo di Aristotele. Chiudiamo il paragrafo riportando il finale del Sofista, che è interessante per ciò che rivela dell’atteggiamento idealistico quanto per ciò che nasconde dell’atteggiamento sofistico (Sofista, 267-268d):

Ebbene, essa sarà l’imitare l’arte che produce contraddizioni, parte simulatrice dell’arte di produrre opinioni, del genere che produce apparenze sulla base della [d] capacità di produrre immagini, sezione non divina ma umana dell’attività produttiva. Cioè quella parte che fa meraviglie nei discorsi: chi dirà che «di questa stirpe e di questo sangue» è il vero sofista, dirà, come sembra la cosa più vera. (205)

La sezione “divina” dell’attività produttiva essendo, naturalmente, la fabbricazione della “verità platonica”, che trova la più compiuta espressione ne le Leggi, dove il sommo Platone, dopo aver tratto l’uomo (nel VII libro del Repubblica, VII) dall’ignoranza della mitica “caverna” gli impone la sua divina e salvifica etica sapienziale da “caserma”.


(182) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. II, Laterza 1983, p. 374. (torna su)

(183) Ibidem. (torna su)

(184) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 881. (torna su)

(185) In un recente studio di Stelio Zeppi, dal titolo L’ateismo ateistico di Protagora (in Il pensiero religioso nei Presocratici, Studium 2003, pp. 221-229) questo autore ipotizza una posizione filo-senofanea di Protagora; tesi che ci sembra francamente piuttosto inconsistente. Scrive Zeppi (p. 26): «Alludo al contenuto, od oggetto, all’agnosticismo in questione. Esso riguarda non già la conoscenza del Divino, di Dio, bensì soltanto quella degli dèi [si notino le iniziali maiuscole e minuscole!]. Protagora cioè prende le distanze dal politeismo della religione popolare, volgarmente intesa, e ciò facendo riprende la battaglia contro le credenze religiose in quanto stoltamente dogmatiche e risibili che era stata intrapresa da Senofane […]». (torna su)

(186) Platone, Tutti gli scritti, Bompiani 2000, pp. 136-137. (torna su)

(187) Ibidem. (torna su)

(188) Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, Laterza 1926, pp. 61-62. (torna su)

(189) Ivi, p. 62. (torna su)

(190) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 947. (torna su)

(191) Ivi, p. 911. (torna su)

(192) Ivi, p. 916 (torna su)

(193) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, pp. 927-929 passim. (torna su)

(194) Ivi, p. 929. (torna su)

(195) Ibidem. (torna su)

(196) Ibidem. (torna su)

(197) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 930. (torna su)

(198) Ivi, p. 933. (torna su)

(199) Ibidem. (torna su)

(200) Un importante studio dell’Elogio di Elena è quello condotto da Mario Untersteiner nel suo I Sofisti (Einaudi 1949, p. 129 e ss.) che lo porta ad individuare i tre elementi-guida seguenti: I) La previdenza umana non può impedire il volere di un dio, II) La violenza è espressione dl divino, III) La parola è persuasione ed inganno. (torna su)

(201) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, pp. 916-917. (torna su)

(202) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 920. (torna su)

(203) I presocratici, Laterza 2004, tomo secondo, p. 1026. (torna su)

(204) Ibidem. (torna su)

(205) Platone, Tutti gli scritti (cura Giovanni Reale), Il sofista, p. 310. (torna su)


Web Homolaicus

Testo di Carlo Tamagnone
Foto di Paolo Mulazzani

Il saggio è pubblicato dall'Editrice Clinamen di Firenze (304 pp., Euro 24,70) nella Collana "Il Diforàno"
ed è acquistabile nelle librerie o direttamente al sito: www.clinamen.it


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo antico
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Aggiornamento: 06/09/2013