Alla ricerca di un nuovo equilibrio

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Alla ricerca di un nuovo equilibrio

Dario Lodi

Con la fine della seconda guerra mondiale si chiude la lunga era di predominio sul mondo da parte dell’Europa. Un’Europa che in realtà da tempo parlava inglese, tedesco e francese. L’Inghilterra perde più di tutte le altre nazioni. Salgono alla ribalta Usa e Urss.

L’America porta fondi e libertà, esporta americanismo (consumo, disinvoltura: ci sarebbe anche l’impegno serio, ma per il momento, rimanendo più che altro nelle idee, non incide: il Vecchio Continente, piegato in due, non riesce a recepirlo, ne attua l’apparenza con la voglia di godere spensieratamente degli effetti).

L’unione Sovietica esporta un sogno che consiste nell’indipendenza dal consumismo, nella solidarietà fra gli uomini, nella valorizzazione dell’individuo in sé, contro la visione della massa indistinta da usare e gettare propria del capitalismo.

Chi va con gli americani, l’Europa dell’Ovest (secondo precisi accordi fra i due nuovi colossi), si ritrova, presto o tardi, nel Patto Atlantico e nella Nato a protezione dal pericolo sovietico (l’Urss rispose con il Patto di Varsavia).

La pax americana, agli albori, consentì la secolare competizione all’interno dell’Europa.

Agli inizi degli anni ’50, su principale iniziativa francese di Monnet e Schuman, si formava il primo nucleo dell’Europa Unita (formazione tuttora in cammino): nasceva la Ceca (Comunità europea carbone e acciaio), sei paesi membri, Italia compresa, con l’intento iniziale, da parte francese, di evitare la scelta americana di avere come partner europeo di riferimento la Germania (uscita peraltro, da poco, dalla minaccia di dissoluzione avanzata da Stalin), scelta possibile di Washington per fronteggiare l’Urss in modo affidabile (siamo agli inizi della cosiddetta Guerra Fredda).

L’Europa occidentale poté crescere indisturbata, pur fra mille difficoltà (la Francia di De Gaulle reagì all’indifferenza americana nei suoi confronti e varò una parvenza di politica a sé). Quella orientale fu sotto il tallone sovietico e regredì. Provò a protestare e fu schiacciata (Ungheria, Praga; la nostalgia sovietica funziona ancora, vedi Putin).

Le due potenze si scontrarono ovviamente, anche sul piano internazionale, causando o alimentando (con l’aiuto dell’industria bellica di vari paesi, europei inclusi) parecchie crisi, ad esempio quella mediorientale.   

Gli americani, col tempo, ebbero la meglio grazie al proprio retroterra industriale e finanziario, assolutamente imbattibile.

E grazie anche alla mentalità generale, totalmente aliena, in pratica, a qualsiasi tipo di comunanza (eccetto quella convenzionale, logicamente, che come si sa è in buona parte forzata pure lei).

Il comunismo rappresentato dall’Urss, fece perdere, poi, la voglia di sposare questa filosofia: i comunisti degli altri paesi la riportarono alla loro dimensione tradizionale, una dimensione nella quale non c’era posto per un’eversione sociale totale, ma per la protesta contro l’ingiusto trattamento economico dei lavoratori. D’altro canto, l’individuo comune non era assolutamente in grado di sostituirsi alla complessa macchina economica messa insieme nel corso di secoli.

La pax americana, vale a dire il mondo organizzato americanamente, si andava allargando e radicando negli animi, soprattutto nell’animo degli americani stessi: questo li spinse a forzare gli eventi, con esiti inevitabilmente ambigui, rammemoranti l’ombra sinistra del capitalismo guerrafondaio (ritorniamo alla guerra di Corea e alla sventuratissima avventura vietnamita).

Gli americani arrivarono ad avere la preminenza effettiva  dopo la caduta dell’Urss nel 1989: fu un risultato grazie al quale essi assunsero ufficialmente la responsabilità dell’umanità intera. Si concludeva un cammino.

L’America aveva debuttato sulla scena internazionale dopo la conclusione della prima guerra mondiale (a parte le incursioni finanziare precedenti), allorché, ispirandosi alla Santa Alleanza ottocentesca, spinse le potenze vincitrici a fondare la Società delle Nazioni, dalla quale, a sorpresa, di dimisero molto presto.

Fu importante il loro intervento politico nella creazione della Iugoslavia (uno stato deciso a tavolino, trascurando volontariamente, ma con qualcosa di virtuoso nel fondo, problemi etnici e religiosi delle varie regioni accorpate: una sorta di esempio per la politica inglese nel Medio Oriente – gli inglesi erano lì su mandato internazionale – dove, sulle spoglie dell’impero ottomano, definitivamente crollato con il lascito imbarazzante dell’uccisione degli armeni, furono fatti sorgere, con estrema disinvoltura, stati che non erano mai esistiti, mettendo insieme clan nemici fra loro, e preparando la riesumazione di Israele -  avvenuta nel 1948 grazie all’esodo ebraico concesso/ostacolato dagli inglesi stessi - con la vendita della terra abitata da secoli dai palestinesi al movimento sionista di Theodor Herzl: sarà tragedia, qui, fra palestinesi e israeliani, una tragedia che dura tuttora).

La seconda guerra mondiale fu molto più traumatica della prima.

Così, molto più deciso fu l’intervento degli americani nel programma di pace internazionale, attraverso la creazione dell’ONU, la cui fondazione li vide in prima fila. Praticamente la presiedettero da subito.

Ma si fece di più, e cioè fu redatta la Dichiarazione universale dei diritti umani. Firmata a Parigi nel 1948, essa contiene trenta articoli (alcuni “copiati” dalla Costituzione francese del 1789) di enorme spessore civile. 

Forse era stata la questione dei lager a sollecitare questa ultima iniziativa.

Il lager era entrato nell’immaginario collettivo in maniera più forte del gulag (anche perché allora del gulag si parlava poco, i sovietici facevano parte dei vincitori a pieno titolo dato il sacrificio di vite umane che avevano dovuto sopportare): due fenomeni entrambi criminali, ovviamente, ma l’uno, quello nazista, particolarmente aberrante, come si diceva, per l’inciviltà professata nonostante la civiltà da cui proveniva.

Quando la Arendt scrive “La banalità del male” riferendosi alla testimonianza di Eichmann (un semplice funzionario del crimine, secondo la testimonianza stessa) non riesce a trovare il modo per esprimere tutto il suo stupore di fronte ad una generazione, che, nonostante la cultura che la conteneva, s’è fatta rappresentare da un individuo come Eichmann! Ci fosse riuscita, sarebbe stato, però, come dire che quella secolare cultura era rimasta in superficie, che in realtà non esisteva.

La Dichiarazione universale dei diritti umani, voleva respingere una conclusione del genere e riproporre a chiare lettere la validità del programma di evoluzione civile. 

D’altro canto, il ‘900 non ha prodotto solo Stalin e Hitler, coadiuvati dagli Eichmann di turno, ma può vantare numerosissimi personaggi di ben altra tempra, di ben altro spessore (ad esempio, Gandhi, Aldo Capitini, Simon Wiesenthal, Martin Luther King – “papà” di Barack Obama, primo presidente nero americano –, Alexander Dubcek, papa Giovanni, Madre Teresa di Calcutta, Jan Palack, medici senza frontiere, missionari, ambientalisti, animalisti, pacifisti, solidaristi…).

La vergogna per quanto accaduto nel corso della seconda guerra mondiale cercava riscatto nella famosa dichiarazione umanitaria, nei suoi articoli esemplari, non importa di quanto difficile attuazione: la dichiarazione intendeva diventare una vera pietra miliare, un punto fermo della risorta coscienza umana. Un ideale punto di riferimento.

Bisogna dire che a tutto questo si ispiravano specialmente gli americani, anche se in maniera vaga.

Tuttavia, la morale, per gli americani, non è cosa da poco, come invece rischia di diventare persino presso i cattolici, per non parlare dei laici.

Per quanto poco efficace, la morale è dentro l’americano, sottoforma di timore per un comportamento non all’altezza dell’imperativo religioso che, nel caso del puritanesimo, è un’inderogabile correttezza per la salvezza del proprio corpo e della propria anima.

La cosa si traduce in una competizione sociale non per il bene individuale, ma per l’esaltazione delle capacità umane in ossequio a chi gliele ha fornite. 

Il puritanesimo americano (assai simile alla categoricità kantiana) impone una devozione attiva, mentre il cattolicesimo tollera ampiamente quella passiva e il protestantesimo classico ha da tempo laicizzato gli insegnamenti religiosi, con licenze occasionali.

Il Dio americano è implacabile e gli americani talvolta temono di non essere all’altezza del suo giudizio, specialmente da quando si sono visti diventare il perno del mondo.

Da qui le incertezze e le esitazioni comportamentali specialmente di carattere militare, dove, la paura di

perdere vite umane (le proprie, in particolar modo, in quanto appartenenti ai “salvatori”) è nettamente superiore al desiderio distruttivo, trasformato, tramite i bombardamenti mirati, in operazioni dissuasive (nulla di idillico, ovviamente: abbiamo ancora negli occhi gli sganciamenti furibondi su obiettivi militari, presi in maniera indiscriminata, e sui cosiddetti effetti collaterali: nel Vietnam, d’una gravità eccezionale; recentemente nell’ultima guerra balcanica, fu colpita, tra il molto altro, Pancevo (da aerei dell’ONU, quelli americani in testa, naturalmente) una cittadina in mezzo ad un polo chimico, nei pressi di Belgrado, causando un inquinamento pari ad almeno dieci Chernobyl, la famigerata centrale sovietica esplosa da sé tempo prima; in Irak due volte, la seconda straziante (per citare solo alcuni casi). 

Forti dell’esperienza vietnamita, dove la loro “crociata” non ebbe successo nonostante l’altissima perdita di vite umane, gli americani esitano a continuare le operazioni belliche, quelle di terra, dopo i bombardamenti.

Fra i significati delle esitazioni c’è il desiderio di credere nella sufficienza di quella che viene ritenuta una vera e propria ammonizione, vale a dire il bombardamento (talvolta anche la sola sanzione, la condanna all’isolamento da parte del paese “peccatore”) e di ritenere che il paese in questione debba, poi, prendere da sé la “strada maestra” (che ha ovviamente indicazioni americane).

Il pugno di ferro americano è, insomma, la conseguenza del ruolo di protagonista che Washington gioca nel mondo.

E’ conseguenza della crociata (etichettata liberalismo, con minor ipocrisia di quanto, tuttavia, si sia portati a credere) che l’America porta avanti, trovando in essa vantaggi, materiali e morali, che ritiene sacrosanti per il bene stesso della umanità. 

Tutto questo produce, comunque, ricchezza e la ricchezza mal distribuita porta a contrasti: il Medio Oriente, dove si gioca la partita petrolifera, non ha pace a causa dei paesi emergenti nella zona cruciale.

L’opposizione religiosa alla politica occidentale, capitalista e imperialista agli occhi arabi – e non si capisce, allo stato attuale delle cose, come poter contrastare questa visione – è soprattutto un pretesto per costringere i paesi occidentali a maggiori riconoscimenti economici e a minori interferenze in Medio Oriente. 

Nei quarant’anni circa di Guerra Fredda fra Usa e Urss, l’area mediorientale è stata uno dei punti di massima tensione, a partire dalla questione egiziana (diga di Assuan, guerra di Suez) dove, peraltro, gli americani si defilarono a favore di inglesi e francesi (una mezza tragedia, il risultato).

La Guerra Fredda toccò il massimo grado di calore con la faccenda di Cuba, allorché Castro, un altro comunista sui generis, liberò l’isola dal dittatore filo-americano Batista. L’aiuto dei russi fu determinante, rappresentò la risposta di Mosca alle interferenze americane in Asia.

Dopo la caduta dell’Urss (nonostante Gorbaciov), gli Stati Uniti videro ufficialmente premiato il loro sistema: da qui il desiderio d’imporlo “amichevolmente” a tutto il mondo.

A dire il vero qualcosa di sano è veramente accaduto: il fenomeno Kosovo. 

E’ giusto dirlo: l’intervento americano nel Kosovo è stato straordinario. Forse il primo nella storia a favore del solo interesse umano, o per una buona percentuale.

Il primo intervento americano in Irak, giustificato dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, non aveva certo la stessa nobiltà: lì c’era interesse petrolifero. L’intervento in Somalia fu fatto di malavoglia, con esiti disastrosi. Per niente nobile la seconda guerra contro l’Irak: una sorta di rappresaglia, durissima rappresaglia, per dell’attentato alle Torri Gemelle di New York e alla stessa Casa Bianca, da parte di fanatici arabi, organizzati dal fantomatico Osama Bin Laden; incerto l’intervento americano in Afghanistan e dunque poco incisivo in tutti i sensi.

Ma su tutto, occorre ribadirlo, è importante il Kosovo. 

Chi non ci crede, adducendo la ragione che nel Kosovo gli americani sono entrati con mire umanitarie perché non era difficile farlo, si può rispondere con forza che comunque un’azione umanitaria è stata fatta, per la prima volta non è stato solo detto che si doveva fare.

E’ certo più difficile andare in Cina a risolvere problemi di diritti umani, peraltro sfumati e “giustificati” da una certa possibilità di disordini e di destabilizzazioni con serio pericolo di anarchia per sostanziale fragilità civile generale (vedi la storia tribolata del Paese).

Nel Kosovo i diritti umani venivano calpestati con violenza inaudita e con mentalità razzista (i Serbi non si limitarono certo qui, come ben si sa; l’Onu in questo caso è riuscita a condannare i responsabili come autori di crimini verso l’umanità, non è pochissima cosa; ma suppergiù nello stesso periodo della  crisi del Kosovo, molti sono stati i confronti armati lasciati a sé –  taluni avvengono tuttora –. Ecco le aree forse più rilevanti: Indonesia, Filippine, Nepal, India, Kashmir, Sri Lanka, Messico – regione del Chiapas -,  Colombia).

Veramente grave è il sostanziale disinteresse dell’Onu, praticamente degli americani che lo condizionano, nei confronti della sanguinosissime lotte tribali in Africa (oltre 4 milioni di morti nel Congo dal 1998; tragedie, e silenzio internazionale, nel Ruanda e nel Burundi; dramma interminabile nel Sudan, nella regione del Darfur): certo per scarso peso da parte dei paesi interessati.

Il comportamento degli americani sul piano civile è insomma imprevedibile, non ha una forte coerenza a causa di un idealismo di fondo che ha poco a che fare con la realtà e un pragmatismo che spinge per allontanarlo, per annullarlo.

L’incoerenza si manifesta anche sul piano economico, dove la tentazione di uscire dal circolo virtuoso è continuamente viva, grazie alla cosciente impunità del pragmatismo esercitato con disinvoltura dall’alto di una posizione inattaccabile.

Lo provano due crisi economiche di peso: quella del ’29, da cui si è usciti con la seconda guerra mondiale, e quella del 2008, dalla quale non si sa come usciremo.

Data la posizione americana nel mondo, le ricadute delle pessime avventure finanziarie di Washington vanno a toccare l’intero mondo.

Alla seconda crisi, più commendevole della prima, gli Stati Uniti hanno risposto con iniziative para-nazionalistiche andando a sostenere, paradossalmente per certi versi, l’iniziativa privata (briciole al sociale), volontariamente e involontariamente co-responsabile del disastro (attraverso collocazioni finanziarie, usate spregiudicatamente da certe banche, con effetti a catena inenarrabili): tutto questo in un mondo saturo di beni, facilmente condannabile all’involuzione, che sarebbe inevitabile se non ci fosse il terzo e quarto mondo da conquistare (l’attuale crisi economica, evidenzia un ritardo in questo senso, ritardo che ha causato l’invenzione di una finanza interna, una sorta di ultima spiaggia, secondo certe regole, quelle legate al tornaconto spregiudicato).

Grazie alla crisi in atto, diventa palpabile il pericolo del ricorso a vecchie regole protezionistiche che non fanno certo bene al commercio internazionale (altro che globalizzazione e altro che “fratellanza” universale!), di cui, peraltro, già si avverte una contrazione. 

Ma qui interessa l’ostinato ottimismo americano, la convinzione teorica di una ripresa nonostante gli errori, che addirittura conterrebbero della buona fede (infatti le punizioni non sono esemplari, altrimenti sarebbe la punizione dell’intero sistema).

Diversa è l’Europa: qui l’ottimismo non è di casa. E’ di casa un realismo che cerca sfoghi e consolazioni. Cerca gli uni e le altre da tempo, da quando l’Europa ha perduto il primato civile.

Da allora ha avuto inizio una sorta di percorso penitenziale che ha portato a silenziosi ravvedimenti, culminati nell’attenzione, più doverosa che dovuta, verso i problemi umani elementari (il cosiddetto Welfare). 

La decadenza civile europea va a causare quella culturale.

L’insicurezza, l’incertezza, il dubbio perseguito quasi sadicamente e masochisticamente allo stesso tempo, prendono consistenza.

Si presenta una sorta di scetticismo dotto sul quale ci si immola con piacere, ostentando il patimento intellettuale. Questo atteggiamento, che è pena senza speranza, non ha una rispondenza nella vita di tutti i giorni, ovviamente, ma trova collocazione nella speculazione filosofica, la quale, tuttavia, data la decadenza europea, subisce una forte emarginazione, dalla quale cerca riscatto attraverso comportamenti provocatori che non  vorrebbero essere superficiali: vorrebbero essere richiami al patrimonio culturale europeo, più unico che raro, e incitamenti alla corretta appropriazione dello stesso. 

La filosofia europea non intende sacrificare la sua funzione di guida del mondo, si adegua alla circostanza che vede premiato il materialismo americano – considerando quel puritanesimo un accessorio poco credibile - con un certo risentimento, con sdegno che esprime a fatica, quasi senza fidarsi di sé per le angosce passate, angosce per le quali chiede comunque comprensione e assoluzione, grazie all’altro culturale che possiede. Fra i meandri di tutto questo c’è un fatalismo che comporta rese e riflessioni insieme.

L’esistenzialismo è la matrice di questo fatalismo.

Non è certo l’esistenzialismo ottocentesco di Kierkegaard: il filosofo danese andava alla ricerca spasmodica di un senso dell’essere, a prescindere da qualsiasi vicenda esteriore. Era un fenomeno astorico.

Quello del secondo dopoguerra ha reazioni immanenti, rabbiose e rassegnate insieme, rifiuta le basi culturali consolidate, i metodi speculativi tradizionali: Sartre, più viscerale che razionale, ne è l’esempio più vistoso (molto più incisivo Raymond Aron, personaggio peraltro fuori dagli schemi, uomo a tutto tondo, una rarità).

Heidegger, allievo di Husserl, provò ad esaltare la razionalità, tentò di portarla oltre i propri compiti analitici incombenti, nella speranza-certezza di raggiungere un’assolutezza umana basata sul concreto.

La consolazione per la sconfitta europea, quanto mai emblematica, nascosta fra i vortici dell’attivismo sartriano e dell’impegno intellettuale di Heidegger, viene fornita da Barth e soprattutto da Jaspers, che si vedono trasportati nell’ineffabile non da estranei, bensì da passeggeri privilegiati nella dinamica degli eventi.

Altra consolazione si trova nella continuità del Surrealismo: Dalì, Mirò, Magritte, De Chirico, Sebastian Matta, e in particolar modo Dorothea Tanning, non smettono di creare un mondo onirico, dove tutto può ancora avvenire.

La risposta a queste illusioni (che tali appaiono i recuperi vitali di un’Europa in ginocchio) avviene tramite lo strazio nella pittura di Bacon, in ciò che il pennello dell’artista scova oltre l’aspetto esteriore dell’uomo: è una vivisezione feroce e incisiva della natura umana colta in fallo (ancora vive le esperienze belliche in Bacon, tramutate in considerazioni filosofiche agghiaccianti) che lascia decisamente il segno. Più lirica e fisicamente dolente è la visione di Burri, smarrita in colori e in intrecci di estenuante simbologia negativa nei confronti dell’umano.

Disperatamente vitale è Beuys, un artista capace di aggredire la vita, di non darsi per vinto (l’amico americano Warhol si limiterà, invece, ad un sarcasmo dolce-amaro, accettando di fatto la realtà americana).

Poetico d’una poesia lunare è Hartung. Selvaggia, quasi alla ricerca di un primitivo liberatorio (una fuga dal mondo) è l’espressione di Basquiat (così come è quella, molto meno drammatica, dell’americano Pollock).

Apprezzabile, dissacratoria, goliardica quanto intelligente è l’ironia di Fontana. Fantastica, da evasione vera e propria, è l’opera di Munari.

Altri artisti, in altri campi, sono o diventano esemplari nella trattazione dei problemi dell’umanità, a partire da quella europea, che ha su di sé l’incredulità per il recente passato. Prodromi del malessere esistenziale giungono dal teatro di Ibsen e di Strindberg: il decadentismo mostrava l’inefficacia dei sentimenti, l’Europa si lasciava andare alla superficialità della Belle Epoque.

Ibsen e Strindberg si maceravano all’idea della perdita sentimentale ed evidenziavano i danni morali che ne derivavano.

Pirandello si ispirava ai due – era impossibile non farlo allora – e si rifaceva al clima freudiano che s’era instaurato in quegli anni, per fondare un teatro nel quale tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo: nel mezzo un uomo che grazie alla robotizzazione non è più se stesso (ammesso lo sia mai stato). Arriviamo al teatro di Ionesco.

Ionesco, con sarcasmo inarrivabile, denuncia la miseria dietro le parole, dietro le convenzioni, prova a scuotere le coscienze mettendo in piazza l’assurdità del mondo borghese (si arrenderà davanti alla Primavera di Praga, al Vietnam).

Pungente e in certo qual modo disperato lo scetticismo di Beckett: la povertà del suo teatro è paradigma della povertà esistenziale umana (sempre conformata su quella borghese, specchio di un  umanesimo meccanico che non deve essere appagante – è in fondo non lo è -). Gli americani provarono a fare qualcosa di simile a questo teatro europeo, ma, per la mancanza di vero pathos nel loro ambiente, ottennero risultati modesti, a volte persino imbarazzanti (Kazan, pure cinematografaro pluripremiato, Miller, Williams).

Anche il cinema viene coinvolto nel problema.

Il malessere europeo concede approfondimenti al di là di se stesso. Lo dimostrano, Ingmar Bergman, insuperabile nella trattazione degli stati d’animo, Dreyer, lucido, rigoroso e sensibile, Ophuls, esemplarmente sentimentale, malinconico, Bunuel, dalla straordinaria, acuta ironia, Fellini, gran commediante, per arrivare all’epico Kurosawa, altro rappresentante di un paese pesantemente sconfitto, il Giappone e a Ichikawa, cantore della pena dell’uomo in guerra (entrambi debitori del malessere europeo, a volte, infatti, efficace e contagioso in modo speciale).

Eliot, Green, Bernhard, appaiono particolarmente sensibili  al richiamo culturale più profondo: le loro pagine sono ricche di esortazioni veramente sublimi al recupero e all’imposizione – una cosa assolutamente indispensabile – del cuore “razionale” dell’essere umano. Fu reso popolare il portoghese Pessoa, grande anticipatore del malessere dell’uomo europeo. Colpisce il giapponese Mishima, una vittima, nel vero senso della parola, del superomismo. 

Brodskij esalta l’animo russo, Nabokov il relativo, elegante  spirito d’osservazione, la Szymborska, polacca, tutto l’orgoglio e la fierezza della poesia. Pavese si smarrisce volontariamente, pur con qualche stupore, nella interiorità, Calvino reclama il diritto dell’immaginazione, della vacanza. L’egiziano Mahfuz scrive in modo occidentale dell’esistenza assurda e magica di tutti i giorni (la seconda appare una favolosa estraniazione).

Oz e Yehoshua, ebrei, sembrano europei a tutti gli effetti quando descrivono, con maestria, l’incongruenza umana. Gli Stati Uniti si devono “accontentare” di Hemingway, cantore di eroismi sanguigni, di Kerouac, alla inutile ricerca di orizzonti americani, e ultimamente di Pynchon, ironico per forza, fabulatore scaltramente dispersivo e interminabile, di Salinger, alla ricerca di una nuova identità, almeno letteraria.

Sempre in campo letterario, interessanti le iniziative di Robbe-Grillet e di Butor (capigruppo del “nouveau roman”), consistenti nella fredda, oggettiva, descrizione dei fatti: un  vedere in modo orizzontale, senza reazioni di sorta. Purtroppo, specie per quanto riguarda Robbe-Grillet, la visione si trasformò presto in occhiate dall’alto, grazie a rigurgiti sapienziali radicati e compiaciuti di vecchia matrice retorica.

I risultati sono stati deludenti per la scelta, forse addirittura inconsapevole, di un distacco dalle vicende umane in virtù di una sorta di semidivinità (seppure non mitizzabile) da parte del romanziere.

Butor, che ebbe minor notorietà, in quanto non fagocitato dal cinema (Robbe-Grillet scrisse diverse sceneggiature cinematografiche, collaborò con il regista Alain Resnais: per inciso, insieme fecero seri danni al cinema) si gettò con maggior profitto nella critica letteraria, avviando acute teorie sul futuro del romanzo.

La civiltà americana è invece ancorata al pragmatismo (una sorta di positivismo virtuoso), ispirato da Ralph Valdo Emerson e basato sulla raccomandazione della fiducia in sé, su un individualismo costruttivo che ha le sue profonde radici nel puritanesimo (ci risiamo).

Il pragmatismo avrà sviluppo con Peirce e James, quindi con John Dewey (strumentalismo), Santayana; ieri soprattutto con Rorty, oggi in particolar modo con Putnam: tutti alla ricerca di una solidità laica al principio informatore del fenomeno pragmatico, quello fornito dalla religione puritana, appunto (opposto al quale, intorno agli anni Ottanta, si forma la “new age”: una specie di ritorno all’ermetismo rammodernato da volontari rapimenti esoterici, spesso sconfinanti nell’astrusità; un modo ingenuo per sottrarsi a quella che sembra piatta modernità).

Il successo della civiltà americana ha creato un nuovo positivismo basato sulla fiducia nell’iniziativa individuale.

Nel cinema l’apprezziamo attraverso l’epica di John Ford, l’intelligenza e la sensibilità di Billy Wilder, la lucida visionarietà di Orson Welles, l’eleganza forse irraggiungibile di Hitchcock (fenomeni con qualche derivazione europea), il ritmo del tutto eccezionale di Spielberg, di Landis, Lucas; la freddezza di Kubrick; l’intelligentissimo sarcasmo dei Coen, il disincanto di Tarantino.

Nell’arte, abbiamo l’affermazione dell’iperrealismo, la spettacolarizzazione, con intenti falsamente critici, della pop-art, la disinvoltura dell’informale, la goliardia dell’happening, il coraggio dell’architettura.

C’è anche l’entusiasmo del jazz, il tip-tap di Fred Astaire e Ginger Rogers, c’è Charlot, c’è la melodia di Frank Sinatra, il dinamismo di Gene Kelly, ci sono Marilyn Monroe, John Wayne, Bogart, Grace Kelly.

Una grande affermazione mediatica in tutto il mondo con la conseguenza del placet ad una globalizzazione dominata dal sistema americano: è la vittoria della concretezza a stelle e strisce e quindi dell’ottimismo nei confronti di un futuro radioso per l’umanità, sulla cui  riuscita permane una morale di fondo con cui si deve essere sempre pronti a fare i conti.

Per gli osservatori rigorosi, in particolar modo gli europei, i quali si ostinano a credere di essere il modello culturale di riferimento (anche se non ne forniscono la traduzione contemporanea), l’ottimismo americano è limitato, lo confermano i fatti (consumismo, edonismo).

La morale di fondo è una volontaria illusione, dovuta a volontaria ingenuità, ad immaturità.

Teoricamente il modello americano è subito più che accettato, oggettivamente è il contrario, sia perché è conveniente perseguirlo (del resto, sarebbe pressoché impossibile sottrarvisi), sia perché possiede delle suggestioni per cui il protagonismo umano non è affatto perduto (non dimentichiamo che così sembrava, con riferimento alla civiltà europea crollata sotto nazismo e stalinismo), semmai è discusso.

E’ entro questa logica che si spiegano le posizioni problematiche della filosofia degli ultimi tempi, una filosofia veramente rivoluzionaria.

Popper, sulla scia di Friedrich C. Schiller, sostiene a chiare lettere che il mondo ideale dell’uomo è un’illusione; per Wittgenstein, e più tardi per Lyotard, tutto è precario; con impeto Foucault dichiara che ogni cosa è affidata al caso, salvo poi ammettere una certa linea logica evolutiva, andando a parare, con retorica, nello strutturalismo.

Secondo Lacan, l’inconscio possiede un suo linguaggio che condiziona il nostro pensiero e la nostra azione: vi sono timori ancestrali con cui non abbiamo ancora fatto i conti, altro che dominio razionale delle cose!

Infine il sorprendente, “taumaturgico” Derrida.

Derrida decostruisce l’espressione, promuove, cioè, l’analisi dall’interno, vuole dimostrare che l’espressione storicizzata è solo frutto di convenzione: non dice la verità, non costruisce la verità, è resa comprensibile soltanto dalla necessità esistenziale del momento.

E’ contingente e non conosce che la contingenza.

Derrida non si esprime seguendo un canone collaudato, ma quasi improvvisa (non può negare del tutto la preparazione accademica), fa quello che la musica fa con la dodecafonia: ma non ha intenzione di sostituire il suo vocabolario con quello vigente, come pretende di fare la dodecafonia, bensì vuole provocare una reazione salutare, consistente nella riflessione profonda sul modo corretto di pensare e quindi di esprimersi. Siamo, secondo il filosofo francese, all’abc, ecco perché lui consiglia di balbettare andando alla ricerca del modo migliore per mettere insieme una frase che abbia senso veramente compiuto. Derrida non è molto ottimista, forse per un eccesso di virtuosismo intellettuale, ma in fondo ottimista lo è, tanto è vero che insiste con le sue esortazioni.

Certo è che il finalismo classico, con questa filosofia, è in crisi profonda: da qui il vivere alla giornata e l’adozione di una morale relativa all’interesse del momento.

Viene negato il domani tradizionale, vale a dire viene negato il significato del giorno dopo.

Torna però alla mente l’esistenzialismo di Camus che recita (parafrasando): si sta per lottare. La lotta per la sopravvivenza è l’unica realtà logica.

Camus lo diceva con orgoglio.

Questo orgoglio è finalità. Stare per lottare significa adeguarsi agli eventi, accettare la logica dinamica. Statico è il principio che spiega tutto questo e che giustifica la morale.

Fonte:

Dentro la storia
Lodi Dario, 2010, Mjm Editore
a cura di Metta A.; Miu J.

MJM Editore Srl
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Aggiornamento: 14/12/2018