ORIENTE E OCCIDENTE NELLA STORIA MONDIALE DELLA FILOSOFIA

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ORIENTE E OCCIDENTE NELLA STORIA MONDIALE DELLA FILOSOFIA

Come noto, nel corso dell'evoluzione storica spesso è accaduto che la tendenza dell'umanità a classificare, per ignoranza, entro determinati schemi, tutto ciò che appare 'diverso-inconsueto-anomalo', s'è poi tradotta in scelte di ordine politico, usate per giustificare ideologicamente l'assoggettamento o addirittura lo sterminio di interi popoli. Si pensi alla pratica del colonialismo, fatta passare per una missione umanitaria e civilizzatrice a vantaggio delle nazioni più arretrate. L'ideologia, in sostanza, speculava su difficoltà di tipo gnoseologico.

Fra i molti stereotipi che abbiamo saputo creare, vi è quello secondo cui i modi di pensare occidentale e orientale sarebbero del tutto divergenti. Ad es. si è convinti che la filosofia orientale non si è mai staccata dalla religione, che lo 'spiritualismo' orientale si oppone al 'naturalismo' occidentale, che il modo orientale di filosofare sarebbe prevalentemente caratterizzato da idealismo, irrazionalismo, introversione, cosmocentrismo, pessimismo, ai quali si opporrebbero materialismo, razionalismo, estroversione, antropocentrismo, ottimismo, ritenuti 'tipici' dell'occidente. Naturalmente anche in oriente vi sono correnti soggette a questi assurdi schematismi geo-filosofici.

In tal modo è praticamente impossibile individuare gli aspetti comuni, in virtù dei quali i popoli di oriente e occidente possono considerarsi co-protagonisti della storia di tutta l'umanità. Il che però non significa che dobbiamo puntare sull'uniformità dei modi di pensare. Questo, al massimo, è un obiettivo realizzabile a livelli molto semplici ed elementari (p. es. il diritto alla vita potrebbe essere riconosciuto in tutti i paesi del mondo).

Gli anni '50 e '60 sono stati i peggiori sul piano della ricerca di un punto in comune fra est e ovest: razionalismo e misticismo venivano contrapposti come il giorno alla notte, da ambo le parti, senza che neanche si sospettasse quanto rischi sempre di capovolgersi nel suo contrario qualsiasi presa di posizione unilaterale. Viceversa, a partire dagli anni '70 e fino ad oggi, si è venuta affermando una tendenza opposta, volta a cercare convergenze e simmetrie anche là dove solo con molta fantasia si potrebbe immaginarle. Così, ad es., si scoprirono presunti paralleli fra le idee di Wittgenstein e il taoismo, tra il Fedone di Platone e il Libro dei morti tibetano, fra l'etica di Kant e la morale di Confucio, fra la psicologia di Jung e lo yoga, tra la filosofia di Hegel e quella di Aurobingo Ghosh o quella di Whitehead, da un lato, e del Mahayana dall'altro. Ma. nonostante questi un po' forzati accostamenti, l'approccio ha dato risultati migliori dell'altro. Purtroppo, al comparativismo moderno è mancata un'idea 'generale', globale, che permettesse di universalizzare tutto il materiale a disposizione. Le ricerche sono state frammentarie, isolate, settoriali.

Ma ora vediamo quali assonanze si possono costatare fra i modi (non i contenuti) di fare 'filosofia' in occidente e in oriente. Durante i primi stadi dello sviluppo del pensiero europeo, rappresentato dagli Ionici e dagli Italici (siamo nel VI sec. a.C.), il problema principale era quello di determinare 'l'universale', ovvero il fondamento ultimo (acqua, fuoco, numeri, ecc.) dei macro- e microcosmi. Si attuò il passaggio, in forma del tutto embrionale, dal mito all'indagine razionale dell'universo, della natura e della storia. Mancava ancora una riflessione critica sugli strumenti cognitivi usati per scoprire il senso della realtà.

A partire invece dall'inizio del V sec. a.C., con Parmenide e, più tardi, gli Eleati e i Sofisti, nascono degli elementi epistemologici e razionale veri e propri (si pensi alla dialettica), che troveranno nella scuola filosofica di Atene il loro sviluppo più significativo. Tuttavia, la genesi di questa filosofia, quale tipo particolare di sapere analitico-scientifico, non determinò la sostituzione dei modi di pensare pre-teorici. Platone, ad es., rimase sempre un filosofo religioso, uno gnostico preoccupato alquanto della metempsicosi.

Nelle tradizioni del pensiero dell'antico oriente si trova un'analoga successione storica. Le scuole indiane che cercavano i fondamenti ultimi dell'universo e che corrispondevano, dal punto di vista tipologico, al periodo iniziale del pensiero ellenico, raggiunsero livelli assai elevati con la Samhita vedica e soprattutto con la dottrina delle Upanishad all'incirca nei secoli VI-V a.C. Qui, sin dal I e II sec. della nostra èra, l'esigenza di distinguere gli aspetti ontologici, soteriologici ed epistemologici di tutta la realtà, era già fortemente sentita. La filosofia veniva considerata nell'Arthashastra come una scienza particolare e insieme una fonte di unità dei metodi di ricerca delle diverse scuole filosofiche. Nel pensiero indiano, proprio come in quello greco-romano, ma forse in maniera ancora più netta, lo studio filosofico funzionava nel quadro di correnti religiose a carattere pre-analitico (induismo, buddismo, giainismo). Anche per la Cina si può parlare di somiglianza fra le concezioni della cosiddetta 'scuola dei Nomi' (IV-III sec. aC.) e quella dei circoli ionico-italici.

Un tratto specifico delle tradizioni orientali antiche è la pratica della psicotecnica (ad es. lo yoga), che in occidente ha cominciato a diffondersi solo in questo secolo. Un'altra particolarità è l'attenzione che i filosofi indiani prestano al sistema delle fonti del sapere e il rifiuto di isolare singole discipline filosofiche (metafisica, etica, filosofia della natura, ecc.), come invece noi, a partire da Aristotele, abbiamo sempre fatto. Anche la logica del sillogismo è diversa da quella aristotelica: gli esempi vengono usati per confermare e non per contraddire la tesi iniziale.

L'accresciuto interesse per la filosofia orientale è legato oggi non solo alla crisi dell'eurocentrismo, ma anche alla crisi dei valori tradizionali del modello di vita occidentale: troppo sicuro di sé, individualista e sprezzante della natura. Un modello che affonda le sue radici nel Rinascimento, in particolare in alcune formulazioni del Novum Organum di F. Bacone, secondo cui il nuovo ideale di sapere doveva sostituire l'ideale contemplativo risalente ad Aristotele. Con Bacone e, prima di lui, con Pico della Mirandola si fa strada l'idea di un 'sapere-potere', cioè di un sapere che vuole impadronirsi della natura. Di qui l'importanza del lavoro, dell'attività sociale, della produzione scientifica. Questo atteggiamento, che pur è stato fonte di enormi progressi in occidente, non è mai esistito nella filosofia orientale. Una delle ragioni che da noi lo ha messo seriamente in discussione, è stata senza dubbio la crisi ecologica. Albert Schweitzer fu uno dei primi a comprendere che, sotto questo aspetto, la filosofia orientale aveva conservato un rapporto più equilibrato con la natura.

A ben guardare però è assurdo parlare di un occidente 'materialista' e di un oriente 'spiritualista': sia perché il vero spirito consumistico e aggressivo nei confronti della realtà è nato solo con lo sviluppo dei rapporti sociali capitalistici (sostenuti dalle scienze sperimentali e matematiche), sia perchè anche in occidente non sono mai mancate correnti mistico-contemplative (si pensi, ad es., al neoplatonismo, che ha avuto una marcia inarrestabile da Plotino a Marsilio Ficino; lo stesso Hegel considerava Proclo uno dei più grandi dialettici della storia della filosofia). Anche nei paesi di cultura musulmana, il sufismo è strettamente imparentato al neoplatonismo. La dottrina sufista sulla unione estatica con la divinità ha dei paralleli evidenti con la descrizione poetica fatta dal mistico s. Giovanni della Croce nel suo famoso libro Salita sul monte Carmelo. Peraltro, prima di osannare o rifiutare il misticismo orientale, bisognerebbe valutarne le implicazioni socio-politiche e, in questo senso, quanto a forme politiche stagnanti di dispotismo, poteri illimitati di principi e monarchi, assenza totale di diritti dell'individuo, l'oriente non è stato certo inferiore all'occidente.

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La distinzione della filosofia in occidentale e orientale ha dunque senso solo entro determinati limiti cronologici, condizionati dalla nascita in Europa del capitalismo. Questa formazione socio-economica, in effetti, ha radicalmente trasformato tutte le sfere della vita spirituale, determinando una potente rivoluzione tecno-scientifica, un'importante riforma religiosa (quella protestante) e una forte secolarizzazione del pensiero filosofico. E' appunto a partire dai secoli XVI-XVII che si vedono formare i primi elementi di opposizione tra la filosofia occidentale (europea prima, americana dopo) e tutte le altre tradizioni filosofiche: arabe, indiane, cinesi, dell'Asia orientale.

Eppure, nonostante questo, le somiglianze restavano. Paradossalmente, avevano più punti in comune le tradizioni filosofiche arabe e indiane con la filosofia europea che con quella cinese. Lo scambio continuo delle idee (si pensi al ruolo dell'aristotelismo nella filosofia araba), il ricorso a linguaggi e sistemi di scrittura alfabetica più o meno equivalenti, la stessa vicinanza geografica, avevano permesso una benefica influenza reciproca.

Viceversa, la filosofia cinese, costituitasi all'interno di una cultura alquanto originale, ebbe pochissimi contatti con le altre tradizioni spirituali. Quello più significativo vide come protagonista il buddismo dei primi secoli d.C. Tuttavia, il buddismo, una volta entrato in Cina, si sviluppò essenzialmente in forma religiosa, in quanto la filosofia cinese era già troppo avanzata. Ecco perché il rapporto con la filosofia indiana non comportò dei mutamenti qualitativi nella tradizione filosofica cinese.

La filosofia tradizionale cinese non solo non ha elaborato delle dottrine idealiste analoghe al platonismo o neo-platonismo (per non parlare dell'idealismo classico europeo dei tempi moderni), ma non ha neppure conosciuto una filosofia della natura alla 'Democrito', cioè consapevolmente in opposizione alle forme idealistiche del pensiero. Vi sono in essa delle tendenze materialistiche, ma di un naturalismo tipologicamente simile alla maniera pre-socratica di ragionare. Non è mai esistita nella filosofia cinese la logica formale, la psicologia e la dialettica nel senso proprio del termine.

Il pathos naturalista del pensiero filosofico cinese ha dato vita a forme altamente sviluppate di numerologia, di antropologia sociale e psicosomatica e di dialettica spontanea, istintiva, la cui specificità è la facoltà di concentrarsi sulle interazioni e le reciproche trasformazioni dei contrari. Gli antiche filosofi cinesi usavano in genere il concetto di contraddizione nel senso di una semplice contrarietà. Ma senza contraddizione non c'è vera dialettica e quella cinese pre-marxista altro non era che un gioco intellettuale dovuto alla plurivocità deliberata dei singoli termini.

L'uso di una medesima terminologia per le matematiche, la metafisica, la poesia, ecc., è stato reso possibile in questa filosofia dal carattere simbolico dei termini, nel senso che attraverso i simboli si esprimevano le idee. La polisemia dei termini implicava che uno stesso concetto potesse designare fenomeni alquanto differenti, se non opposti, a seconda dell'insieme classificatorio cui il concetto fa riferimento. Sicché i testi possedevano diversi livelli di 'senso', quello delle immagini o metafore, quello della scienza concreta, della filosofia astratta, ecc. Il Taoto king, ad es., è poetico e ritmato, ma è anche una grandissima opera filosofica che si lascia interpretare in maniera razionale e matematica. Mancando la metodologia logico-formale, la filosofia tradizionale cinese ha sviluppato un sistema teorico avente per elementi dei complessi numerici e delle strutture spaziali legati fra loro simbolicamente o anche mnemonicamente, esteticamente, empiricamente e in altri modi ancora.

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Per concludere, i fautori di una opposizione netta fra oriente e occidente, spesso inclini ad obbedire a cliché colonialisti di pensiero, invocano oggi in occidente l'esistenza di una presunta 'formazione asiatica', la quale sarebbe sempre stata caratterizzata, almeno sino ad oggi, dalla stagnazione e dall'inerzia. Di qui la convinzione che il pensiero filosofico orientale sarebbe tradizionalista, irrazionalista, etico-mistico, antiscientifico, ecc. Tutto ciò è semplicemente assurdo. Gli stessi concetti di 'oriente' e 'occidente' sono quanto di più vago si possa pensare. Per i filosofi cinesi del XX secolo, sia il marxismo che il pensiero pre-marxista russo sono dottrine 'occidentali', mentre per gli storici borghesi ovest-europei della filosofia, il pensiero filosofico russo e sovietico è una varietà del pensiero 'orientale'. La stessa filosofia dei paesi centro-europei (inclusa la Polonia) e anche del sud-est dell'Europa (si pensi alla Grecia), viene considerata, a seconda delle posizioni di classe degli storici del pensiero, di tipo 'occidentale' o 'orientale'.

Al massimo dunque si potrebbe parlare di una certa originalità nazionale di determinate forme di pensiero: ad es. quella pre-marxista indiana o cinese, che per più di due millenni hanno dettato legge, anche per la lentezza dello sviluppo socio-economico di quei paesi. Anzi, in questo senso, si dovrebbe parlare di 'modo di produzione asiatico'. Un 'modo' che oggi non sussiste ormai più da nessuna parte. Proprio la diffusione mondiale del marxismo ha fatto definitivamente saltare tutti i luoghi comuni geo-politico-filosofici tradizionalmente alimentati dal pensiero borghese.

Per non parlare del fatto che civiltà indiana, cinese e araba sono così differenti fra loro che non è assolutamente possibile inserirle nel quadro di una cultura 'orientale' comune. Si può anzi dire che sia in oriente sia in occidente sono coesistiti da tempi immemorabili diversi modi di filosofare, di cui il razionalismo e l'irrazionalismo costituiscono i due estremi. La ragione ha lavorato sia per criticare una verità accettata per fede, sia per proteggerla e giustificarla contro ogni confutazione. Di qui l'esistenza di un razionalismo anticanonico, o addirittura antireligioso e, nel contempo, di una scolastica apologetica. Tali furono i ruoli dello yoga meditativo nei confronti del bramanesimo, dello zen nei confronti del dogmatismo buddista, del sufismo in rapporto al kalam musulmano, ecc.

L'orientamento mistico nella storia del pensiero orientale è stato forte proprio perché doveva far fronte non soltanto a un potente dogmatismo autoritario, ma anche a un dogmatismo scolastico-religioso razionalmente fondato. Qualunque confronto fra modi 'orientali' e 'occidentali' di filosofare, ha senso solo di fronte a fenomeni comuni o analoghi. È inutile, in tal senso, come invece ancora molti ricercatori fanno, confutare la linea mistica delle filosofie orientali (taoismo, zen-buddismo, sufismo, ecc.) con la tradizione razionalista europea. Ha più senso comparare il misticismo orientale con la gnosi, il neoplatonismo e il misticismo cristiano.

Peraltro, è impossibile sostenere che in oriente non sono mai esistite dottrine materialiste vere e proprie, quando ancora non siamo riusciti a trovare per molte categorie qui usate un esatto equivalente fra i concetti europei. Come minimo dobbiamo prima comprendere sino in fondo il modo di pensare, la terminologia, il linguaggio filosofico in uso in oriente. Forse così un giorno potremmo anche scoprire l'esistenza di modi diversi di essere "materialisti", "dialettici" o "razionalisti".

I limiti del razionalismo occidentale

Dovremmo chiederci più spesso se la razionalità occidentale sia un criterio dirimente per la razionalità in quanto tale. Da noi razionalità coincide con "logica", che è basata sul "sillogismo", il quale viene usato prevalentemente per giustificare il lato peggiore delle cose. Eccone un esempio classico: "Se taluni cittadini non pagano le tasse e lo Stato glielo permette, anch'io, che sono cittadino del medesimo Stato, non voglio pagarle". Come si può notare, la conclusione non serve a mettere in discussione la legittimità di chiedere tributi da parte di uno Stato disastrato, né serve a ribadire la necessità sociale di pagare le tasse, ma serve unicamente per confermare la realtà di un ingiusto privilegio e per far sì ch'esso sia fruito da quante più persone possibili.

Nel migliore dei casi la razionalità coincide con la "dialettica", che è l'unità e insieme l'opposizione dei contrari: il che significa saper vedere nelle cose il lato "buono" e il lato "cattivo". Non alla maniera del principio greco di "non-contraddizione", secondo cui una cosa non può essere allo stesso tempo "buona" e "cattiva". Questo principio, dalla moderna dialettica (scoperta da Hegel) è stato considerato terribilmente ingenuo ed anche poco proficuo, poiché non prevede la possibilità di creare l'essere dal non-essere, cioè il bene dal male.

Effettivamente quella di Hegel è stata una grande scoperta, solo che non abbiamo saputo metterla in pratica sino in fondo. E per una semplice ragione: ci siamo rifiutati di applicarla a noi stessi, cioè alla nostra civiltà. L'individuo occidentale, infatti, essendo portato, a causa della vita alienata che vive, a fare speculazioni astratte, raramente si trova ad avere quell'energia sufficiente per mettere in pratica le proprie riflessioni. Da noi si fanno grandi affermazioni di principio, contraddette sistematicamente e in modo alquanto grossolano dalla realtà. Questo per dire che il concetto di "razionalità" ha poco o nulla a che vedere con quello di "dialettica".

In Occidente l'uomo "razionale" prevalente è quello che "calcola" (imprenditore, commerciante, libero professionista...), è l'opportunista che sa fare i propri interessi, è il sofista con lo spirito di contraddizione (vedi ad es. certi politici, avvocati, giornalisti, insegnanti...), è il programmatore che usa una terminologia per iniziati, è il ricercatore tecnico-scientifico chiuso nel suo laboratorio... Perché non consideriamo razionale anche l'uomo che prova sentimenti profondi, radicati nella sua coscienza, l'uomo che sa essere istintivo senza essere bestiale o stupido? Per quale ragione nell'Occidente razionale l'istintività diventa subito banalità, trivialità, bassezza d'animo o addirittura sado-masochismo? La risposta è già stata detta: da noi l'esperienza coincide soprattutto col saper fare ragionamenti astratti, logico-formali (senza un vero riscontro con la realtà), cioè essa non riguarda -se non in maniera limitata, privata, ufficiosa- il rapporto umano sentito, concreto, profondamente vissuto.

L'ipertrofia razionalistica sembra essere una stretta conseguenza dell'accentuato individualismo che ci caratterizza. (Da notare che in Occidente le rivoluzioni socialiste sono fallite proprio per questo motivo: sotto il dominio dell'individualismo i rivoluzionari di professione si affidavano alla spontaneità delle masse; essi cioè pensavano che le masse sarebbero insorte da sole, semplicemente dopo aver "letto" i loro manifesti rivoluzionari!).

Nella nostra civiltà i sentimenti fanno parte della sfera privata, del non-detto e non-dicibile, del non-rappresentabile... A meno che il sistema non ne abbia bisogno per vendere certi prodotti commerciali o per controllare e condizionare la psicologia delle masse, ma in questo caso si tratta sempre di sentimenti stereotipati, facilmente prevedibili (vedi ad es. la pubblicità o i films drammatici o le interviste fatte dai giornalisti nei casi più tragici, come i terremoti, gli attentati, gli omicidi, i sequestri, le disgrazie con morti e feriti). I sentimenti si sono per così dire atrofizzati: chi li manifesta appare immediatamente come un individuo ingenuo, superficiale, inaffidabile, insomma un "perdente". Quasi si preferisce tollerare lo sviluppo degli istinti più bassi, come la gelosia, la vendetta, l'inimicizia, la sessualità malsana della pornografia, della pedofilia, della prostituzione.

Forse un giorno gli uomini capiranno che il rapporto umano non può essere sostituito da alcunché: non dal sesso, né dai soldi, né dal potere e neppure dalle parole. Chi pretende di farlo si dà, inevitabilmente, dei surrogati o delle perniciose sublimazioni. Sesso, soldi e potere (politico e/o intellettuale) non sono che stupefacenti -se vissuti per legittimare l'alienazione-, al pari della religione nel Medioevo o di qualunque altra ideologia in cui si crede fanaticamente. Forse un giorno gli uomini smetteranno di lamentarsi di questa loro miseria interiore e cercheranno di vivere intensamente ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della loro vita, pensando che tutto quanto non riguarda direttamente il rapporto umano è cosa inutile o falsa, cioè tempo sprecato.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018