LA QUESTIONE DELL'IDENTITA'

RELIGIONE E NO
Letture sul tema della religione e della laicità


10 - LA QUESTIONE DELL'IDENTITA'

Il tema dell'identità è apparso di continuo durante le pagine precedenti e mi sembra che mai come in questi ultimi tempi esso sia invocato a proposito e a sproposito, a testimoniare un radicale cambiamento delle condizioni geopolitiche, la rottura di antiche certezze e di usanze consolidate, la perdita di orientamento sociale e i mutamenti demografici, il cambiamento dei modi di produrre e la crisi dei compromessi sociali storici (almeno nel mondo più sviluppato). Probabilmente è proprio il fatto che il lavoro costituisce uno dei più efficaci mezzi di auto riconoscimento della propria identità e il fatto che sia diventato così strutturalmente labile, liquido - per usare un'espressione che Zygmunt Bauman riserva all'intera categoria della modernità attuale – probabilmente è stato proprio tutto ciò che ha favorito l'aumento delle incertezze e una maggiore frammentazione sociale dei comportamenti, con una conseguente crescita di ansia da identità.

Da un lato, ci sono le interpretazioni, come quella di Luca Toschi, secondo cui il senso di una ricerca (di senso, di identità e così via) è nella ricerca stessa. (128) Perciò, "il punto di arrivo finisce per il prospettarsi come un nuovo punto di partenza, ma verso terre totalmente inesplorate"; insomma che "le risposte che non sollecitino altre domande non sono risposte". Un atteggiamento che mutua un abito mentale scientifico e laico, che però richiede una formazione e un esercizio continuo della razionalità e delle capacità critiche.

Dall'altro, ci sono gli atteggiamenti che ho chiamato le manie dell'assoluto, con la più tranquillizzante e quieta abitudine delle risposte definitive, che scaricano gli esseri umani dalla responsabilità personale e da una feconda inquietudine. In mezzo ci sono le gradazioni più varie dell'uso della questione dell'identità che in vario modo mettono tra parentesi il fatto che identità e persona, identità e autonomia, identità e contesto socio-economico e culturale sono declinati in modo assai vario e contraddittorio. Quando, come spesso accade, la questione dell'identità non equivale a un richiamo all'ordine, a serrare le fila di fronte a un nemico reale o supposto, facendo scattare contro quelli che non rinunciano a ragionare l'accusa di debolezza, se non addirittura di tradimento. Vecchia ferraglia oggi tornata in auge.

Naturalmente, sono molti i contributi e le diverse prospettive che sarebbe necessario prendere in considerazione per parlare della questione dell'identità. Ma in relazione al carattere di questo saggio di letture, centrato sul tema della religione e delle sue pretese assolutistiche, il libro di Amartya Sen, Identità e violenza fa al caso nostro più di altri testi. (129)

Si tratta di un libro importante, come tutti quelli del Premio Nobel per l'economia del 1998, che decolla quasi impercettibilmente, di gradino in gradino analitico, allargando progressivamente lo sguardo per illustrare il concetto di quanto sia abusivo e micidiale il tentativo di chiudere la persona in una identità univoca o egemone, perché "l'imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell'arte marziale che consiste nel fomentare conflitti serrati”. È storia, anche recente, il fatto che un gran parte delle guerre e delle atrocità commesse derivino dall'illusione di una identità univoca e senza possibilità di scelta.

L'avversario principale di Amartya Sen è il comunitarismo, ossia quel filone antropologico e politologico che ritiene l'identità comunitaria non solo positivamente prevalente, ma anche in qualche modo predeterminata, senza tenere conto né del modo di essere anche più intimo delle persone né della libertà di scelta che dovrebbe essere alla base di una vita democratica né del fatto che le identità di ognuno di noi sono in realtà multiple. I comunitaristi adottano così un riduzionismo e un determinismo tanto più pericolosi in quanto applicati ad argomenti storico-sociali e politici. Magari si tratta delle stesse persone che, cambiato cappello, sono pronte ad accusare di riduzionismo e di scientismo i metodi usati dalla scienza per accumulare conoscenza. Amartya Sen, usa una metafora molto efficace: "la tentazione di ricorrere al determinismo culturale spesso assume la forma catastrofica di ancorare al ruolo della cultura una nave che corre a tutto vapore”.

Ma l'autore non esenta nemmeno la scienza economica e, in particolare la teoria economica oggi prevalente dall'accusa di essere artificiosa e unilaterale, in quanto totalmente indifferente alla persona, inventandosi la figura dell'uomo economico (homo oeconomicus) che rappresenterebbe l'agente razionale che è alla base del funzionamento del mercato. Un'astrazione che viene spesso pagata molto cara in un mondo globalizzato dominato da astratte teorie e da interessi molto concreti, come ha documentato efficacemente Joseph E. Stiglitz. (130)

Per la teoria comunitarista, purtroppo in ascesa negli ultimi anni, l'adesione al gruppo "tende spesso a considerare l'appartenenza alla comunità come una sorta di estensione dell'io all'individuo.” In buona sostanza, l'individuo non avrebbe accesso a concezioni dell'identità indipendenti dalla comunità e, inoltre, nella comparazione dei diversi fattori "l'importanza della identità comunitaria risulterebbe evidente”. Tornano qui, in qualche modo, anche le osservazioni di Jervis sulla persona plurale di cui abbiamo parlato e persino i dati neurobiologici e della psicologia sperimentale che sono a disposizione per interpretare il funzionamento della nostra individualità. "Se il circuito comunitario è stretto e chiuso – osserva Sen - la libertà di scelta non esiste perché non si hanno alternative”. La cronaca nera è piene di tragedie in cui la comunità familiare, più o meno larga, è responsabile di comportamenti inaccettabili e di vere e proprie tragedie.

I comunitaristi, in buona sostanza, suddividono e chiudono le popolazioni in tanti compartimenti, ognuno dei quali corrisponde a una diversa civiltà, in genere identificata su una base religiosa. Non starò qui a richiamare il solito Huntington e la sua “percezione piuttosto nebulosa della storia” – come la definisce Sen. Il pericolo maggiore, annota saggiamente l’autore, è poi nel fatto che in questo modo l'Occidente tende a dare una risposta al fenomeno terrorista particolarmente inefficace. E pericolosa, aggiungo, per le stesse democrazie occidentali. L'autore lamenta, per esempio, che gli esponenti del clero islamico vengano senz'altro assunti come portavoce dell'intera galassia musulmana, come già denunciavano Fatema Mernissi e altri esponenti dell'islam moderato. In tale modo si cancellano milioni di individui che, nell'ambito dell'islam, si battono, pagando spesso di persona, per godere di una maggiore libertà di pensiero, di comportamento e per avere diritti politici e sociali.

Uno dei pregi del saggio di Amartya Sen è che riporta alla realtà il discorso culturalista estremo praticato dai comunitaristi - che assegna cioè alle culture non solo una dinamica autonoma dai processi sociali e economici, ma in qualche modo anche una prevalenza. L’autore esamina le condizioni strutturali delle società che vi sottostanno e che l'accompagnano (e, in una certa misura, che le condizionano). In primo luogo, per quanto la cultura possa essere fondamentale, essa “non è l'unico elemento che determina la nostra vita e la nostra identità. Anche altri elementi, come la classe, la razza, il genere, la professione, la politica, posso avere un ruolo. E un ruolo molto importante”. Qui, peraltro, andrebbe sviluppata una riflessione specifica sulla religione come fattore identitario, perché esiste una grossa differenza tra quelle identità plurime e “l'appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della verità” – come ha detto Gustavo Zagrebelsky in un recente convegno. Il che comporta dei problemi per l'esistenza di una corretta democrazia, perché – ha scritto in seguito sempre Zagrebelsky – “la fede è compatibile con la democrazia a una condizione: che non sia etero-diretta da un potere dogmatico”. (131)

In secondo luogo, assumere le culture come qualcosa di organico e omogeneo significa non avere la minima idea né delle società a cui ci si riferisce, né di come funziona e si sviluppa in realtà la convivenza sociale nel mondo contemporaneo: significa avere in testa schemi astratti in cui imprigionare il mondo.

Mi pare che valga, anche in questo caso, la solidità di un approccio evoluzionistico, che esige la varietà e la variabilità, piuttosto che l'ossificazione e la chiusura; e non c'è ragione di ritenere che il corso per così dire naturale delle culture risponda ad altri criteri. Caso mai, quando non vi risponde esse scompaiono, come è accaduto per tante specie animali.
Ma, saggiamente e in modo equilibrato, tornando alla questione islamica identitaria, Sen osserva che “per contenere la grossolana e oscena generalizzazione che accusa gli individui appartenenti alla civiltà islamica di essere depositari di una cultura bellicosa”, sia piuttosto consueto che “si affermi al contrario che la cultura islamica è una cultura di amicizia”. Una foto impietosa di modi opposti di ragionare che hanno rinunciato alle analisi differenziate e comparative per rifugiarsi, in un caso e nell'altro, nell'ideologia. Se si imbocca questa strada, non si potrà certo sostenere che la cultura del cristianesimo, storicamente parlando, sia un cultura di pace. Ma nemmeno il suo contrario.

La semplificazione culturalista, insomma, non serve a capire ciò che abbiamo di fronte, non serve a comprendere le dinamiche sociali. Serve invece al fatto che “fondamentalisti religiosi e semplificatori culturali occidentali procedono in realtà a braccetto, agli uni e agli altri serve una divisione della realtà in bianco e nero”. Quasi che la religione determinasse da sola tutte le decisioni che si prendono nella vita (il che è, per l'appunto, quel che vorrebbero i fondamentalisti religiosi) e quasi che ognuno di noi non esprimesse una serie molto complessa di identità il cui ordine di importanza ai nostri stessi occhi deriva dai fattori più vari. Non ultima l'educazione che abbiamo ricevuto. Il fatto è che, in un caso e nell'altro, "la classificazione unica conferisce un ruolo di comando ai personaggi dell'establishment all'interno delle rispettive gerarchie religiose". Cioè rinforza anche il loro controllo politico e sociale.

Tutto ciò, aggiungo, vale a maggior ragione anche per le cosiddette identità etniche. In Europa dovremmo esser vaccinati, dopo le ferocie e i massacri di due guerre mondiali, nei confronti del nazionalismo e degli etnicismi. Ma a quanto pare non è bastato, a cominciare da ciò che è accaduto e sta accadendo nei Balcani, con la creazioni di mini-Stato artificiali e con le tensioni ai confini che ancora continuano. La storia certo non si ripete tal quale e se si ripete ciò non avviene con le stesse modalità; eppure dovremmo essere attenti a ogni segnale di minaccia che possa insanguinare qualsiasi parte del continente. Questo è uno dei casi in cui la difesa della democrazia e della convivenza richiede vigilanza e persino azioni preventive nei confronti dei germi iniziali, prima che possano crescere e andare fuori controllo.

Se poi mettiamo a confronto Occidente reale (quello dei comportamenti economici e della politica estera che vengono di fatto praticati) e Occidente presunto (quello delle dichiarazioni di principio e delle costituzioni scritte), assieme all'origine di alcuni principi universali, quale quello della libertà, scopriamo – sottolinea l'autore – che “non c'è niente di specificamente occidentale nel giudicare la libertà un bene prezioso”. Anzi, se l'Occidente continua a pretendere di essere il depositario esclusivo dei principi democratici, associandolo nei fatti a comportamenti di potenza e di prepotenza, il rischio è che "la reazione più naturale nell'opporsi all'invadenza occidentale consiste nel buttare via il bambino con l'acqua sporca"; ossia, nel considerare la democrazia un’insidiosa e blasfema idea occidentale. Non serve ripercorrere qui gli esempi che Sen porta a sostegno della sua tesi, compresi i casi di esperienze democratiche nate anche in altre epoche in paesi non occidentali, e i casi di mancata coincidenza tra culture e religioni, le cui comparazioni mostrano come gli alfieri dello scontro di civiltà siano piuttosto superficiali, oltre che pericolosi.

Ciò detto, l'autore passa a esaminare il rapporto tra la libertà culturale e le priorità che si assegnano al multiculturalismo. La diversità culturale è certamente un valore, ma se concentriamo la nostra attenzione sulla libertà, inclusa quella culturale, allora non possiamo ignorare che la diversità culturale non può essere assoluta. E ciò in quanto "perorare la diversità culturale perché è quello che gruppi diversi di persone hanno ereditato dai loro predecessori", nonostante le apparenze, non è un argomento a favore della libertà culturale. Specialmente se alle persone non sono stati forniti gli strumenti critici e conoscitivi per poter scegliere. In questo caso si tratta piuttosto di un conformismo forzato, quando non di un conservatorismo. È qui che si consuma una paradossale convergenza tra certi ambienti di sinistra e il tradizionalismo di altre culture.

A questo proposito, Amartya Sen attacca la politica multiculturale della Gran Bretagna, in cui si costituisce in sostanza una specie di federazione delle comunità, ognuna delle quali conserva al suo interno e ripete schemi di comportamento e usanze originari. Forse gli inglesi non hanno fatto altro che continuare, a casa loro, le politiche separatiste seguite nelle loro ex colonie. L'adozione di tali politiche rende difficile ai membri della comunità chiusa di sfuggire alla coartazione delle proprie scelte (dovuta alla pressione sociale circostante e familiare) e le scuole di impronta religiosa e etnica non fanno altro che prendere dei bambini e dire loro: “Questa è la tua identità e non potrai avere altro”. Si tratta di una tesi simile a quella sostenuta dal politologo Giovanni Sartori, secondo il quale "il multiculturalismo non è una prosecuzione ed estensione del pluralismo ma un suo capovolgimento che lo nega". (132)

In coerenza con la tesi che il culturalismo non può spiegare tutto né essere autosufficiente, Amartya Sen affronta poi il capitolo della globalizzazione passando in rassegna alcuni dei fattori che sono alla sua base. In questo modo, sarà poi più agevole, per lui e per il lettore, risalire dalle cause di tante distorsioni all'adozione di politiche appropriate.

Intanto, va detto che il sentimento di appartenenza globale esiste, anche se non è abbastanza diffuso quanto sarebbe necessario, e che – quali che siano le critiche che vengono mosse alla globalizzazione - il movimento dei no global esprime proprio questo sentimento di appartenenza, anche se oggi non è più così vivace. Un sentimento importante, perché esso è la base primaria di un'etica universale condivisa.

C'è qui, al di là delle troppo facili formule del tipo glocal (globale e insieme locale), un confronto tra ciò che è provinciale e ciò che è globale e che rischia di fare danni ulteriori nei paesi meno sviluppati. Se, per esempio, si dice che la globalizzazione va combattuta in quanto implica una occidentalizzazione, si deve sapere che si tratta di una tesi regressiva che ha danneggiato il mondo post coloniale, perché spesso si tratta invece di idee e pratiche che ritornano dopo secoli nei paesi che le hanno inventate. Se l'Europa avesse a suo tempo resistito alla globalizzazione della scienza, se cioè non avesse accettato di essere invasa dalla matematica, dalle scienze e dalle tecnologie indiane, iraniane, cinesi e arabe, sarebbe oggi “molto più povera – economicamente, culturalmente e scientificamente”. Amartya Sen è per una civiltà aperta. E se la globalizzazione suscita critiche e resistenze, "non è perché l'umanità sofferente abbia desiderio di rinchiudersi nel suo guscio", ma perché la globalizzazione così come è non è abbastanza aperta, è a senso unico e questo senso è tutto a favore dei “dominanti del processo [che] non sono affatto intenzionati a dividerne più equamente i frutti”.

Toccare questo argomento significa scatenare i fondamentalisti del mercato, i quali sono molto bravi a parlare dei sacri confini della patria quando coincidono con quelli della loro vigna, come diceva anni fa di un grande proprietario terriero Ghirighiz, un personaggio dei fumetti di Lunari. La domanda da fare, secondo Amartya Sen non è se dalla globalizzazione tutti guadagnano (il che non è peraltro nemmeno vero), ma se la distribuzione del guadagno sia equa e accettabile. E a questa domanda non si può rispondere: "Allora sei contro il mercato!" Né più né meno di quanto non si può rispondere alle donne che ritengono un assetto familiare iniquo e sessista: "se pensi che l'attuale divisione familiare sia ingiusta nei confronti delle donne, perché non vivi al di fuori della famiglia?" Ovviamente il nocciolo della questione non è famiglia sì famiglia no, ma le sue disuguaglianze interne "rispetto ad altri assetti possibili".

In realtà non esistono “gli effetti del mercato, sempre uguali a prescindere dalle condizioni che governano i mercati stessi”. Ci sono nel mondo molti modelli di proprietà, le risorse sono distribuite in un certo modo, le strutture sociali e normative sono diverse, le ragioni di scambio, i prezzi, la distribuzione del reddito, il modello dei consumi sono differenziati. Perciò, i mercati non agiscono in solitudine, secondo ferree regole auto referenti. Per non parlare delle asimmetrie informative descritte da Joseph E. Stiglitz e delle barriere commerciali che i paesi più ricchi alzano, frenando le esportazioni dei paesi più poveri. I quali sono costretti a cedere le materie prime a prezzi imposti o a essere invasi da prodotti a basso costo e, magari, di scarto, che mettono fuori mercato le produzioni locali. La globalizzazione non significa semplicemente aprire i mercati, come predicano tanti accademici e politici, ma significa anche la “creazione di assetti istituzionali più giusti ed equi per la distribuzione dei guadagni prodotti dai rapporti economici”. Insomma, "l'economia di mercato globale è buona o cattiva quanto buone o cattive sono le compagnie che frequenta".

È a questo punto che Sen comincia a tirare lentamente le fila dell'analisi strutturale, prendendo in primo luogo in esame il problema della povertà nel mondo e il suo supposto rapporto con la violenza, che spesso viene agitato per indurre i paesi più ricchi a comportarsi meglio per evitare guai politici peggiori. L'autore osserva che il problema dovrebbe essere visto dal versante dell'etica piuttosto che da quello della convenienza politica, e poi annota che l'indigenza può ovviamente indurre a comportamenti che sfidano le leggi e le regole costituite. "Ma non necessariamente – aggiunge – dà alle persone l'iniziativa, il coraggio e l'effettiva capacità di fare qualcosa di estremamente violento". Un morto di fame può essere piuttosto demoralizzato e troppo debole per protestare e combattere.

Ma se non c'è un collegamento diretto tra povertà e violenza, sarebbe sbagliato pensare che non ne esista alcuno. "Una cosa dobbiamo capire con chiarezza – conclude su questo punto – e cioè che la povertà, l'indigenza, l'abbandono e le umiliazioni associati a squilibri di potere sono in relazione, in un arco di tempo lungo, con un'inclinazione alla violenza legata a conflitti che traggono linfa dal risentimento contro i potenti di un mondo composto da identità divise". È questa una situazione diffusa in una fascia di popolazioni e di paesi nei quali si ha la sensazione o la certezza che il processo globale li sta lasciando indietro, e che si sta subendo un trattamento ingiusto e in cui magari c'è ancora il ricordo delle traversie coloniali subite o dei tradimenti dell'Occidente, che si genera quella muta accondiscendenza, in gente peraltro pacifica, nei confronti del terrorismo. (133)

Ora, esistono ovviamente modi diversi di reagire all'ingiustizia e alle disuguaglianze, ma la strada più semplice e recentemente più percorsa per sfruttare il malcontento fino all'ingresso nella tragedia è quello di canalizzarlo verso un principio di identità, “aprendo spazi di reclutamento a quella che viene spesso considerata violenza di ritorsione”. Disgraziatamente, i contrasti politici e economici “sono fatti in modo da combaciare – come un sottotema – con le differenze di appartenenza religiosa”. È da questo versante che è più sensato e corretto risalire alla questione del ruolo e del carattere delle religioni, se non vogliamo rimanere impiccati a controversie teologiche e a diatribe pseudo culturali, senza capire che l'islamismo radicale si pone a cavallo tra slanci religiosi e rivendicazioni economiche e sociali.

Dopodiché, Amartya Sen torna a esaminare il problema del multiculturalismo e della libertà a cui aveva accennato all'inizio del saggio. Si tratta di un tema non facile, oltre che di grande attualità, perché al suo incrocio rischiano di scontrarsi concezioni che hanno dei fondamenti apparentemente similari, basati sull'apprezzamento di società tolleranti, prive di intossicazioni identitarie. Gli approcci prevalenti al multiculturalismo sono essenzialmente due. Il primo concepisce la promozione delle diversità come un valore in sé; il secondo mette l'accento sulla libertà di scelta e di decisione, nel senso che apprezza la diversità e la varietà in quanto liberamente scelte.

Lo sviluppo come libertà è un tema caro all'autore, che lo ha trattato in altri saggi e a proposito del quale sostiene che non c'è crescita senza democrazia; dove ovviamente tale crescita non si intende in senso riduttivamente economicistico. Da qui nascono due domande fondamentali:

i.) se gli esseri umani debbano essere classificati in base alle culture di nascita, non scelte, dando loro la priorità, oppure se valgano anche "altre affiliazioni legate alla politica, alla professione, alla classe, al genere, alla lingua, alla letteratura, ai coinvolgimenti sociali e a molte altre cose";

ii.) se "dobbiamo valutare la bontà di un sistema multiculturale da come lascia in pace gli individui di origine culturale differente, oppure da come mette in grado questi stessi individui, attraverso le opportunità sociali di istruzione e partecipazione alla società civile e al progresso politico ed economico del paese, di compiere scelte ragionate".

Il no dell'autore a un multiculturalismo che non fornisca fin dall'infanzia gli strumenti per apprendere a ragionare e per esercitare libere scelte, imponendo una cultura della comunità come recinto, è chiaro, molto netto e condivisibile. Così come è chiarissimo l'altro no ad un multiculturalismo che "insistesse sul fatto che l'identità di una persona debba essere definita dalla sua comunità o dalla sua religione".

Invitare in buona sostanza i cittadini a agire attraverso la comunità – anche come sottoinsieme di un società più vasta - equivale a dare in mano ai leader religiosi e politici lo strumento per mettere in secondo piano definizioni più ampie e plurime di identità, che sfuggirebbero al loro controllo, e significa concepire la società come un insieme di segmenti isolati, come una federazione di culture al cui interno le persone sono di fatto ingabbiate. Ancora una volta, Amartya Sen ricorda l'errore della politica inglese, grazie alla quale viaggiano l'una accanto all'altra un insieme di comunità etniche che difficilmente si incontrano e si influenzano. Ciò che deve essere evitata è perciò la confusione tra multiculturalismo con libertà culturale e monoculturalismo plurale con separatismo a base religiosa.

Se si accetta tale distinzione, allora sarà anche più facile capire se talune rivendicazioni di diversità nascono o meno dal mirare a una tale separatezza, oppure accettano di navigare nel mare aperto della libertà di scelta e del rispetto della persona, a partire dalla sua educazione. Se, in altre parole, l'invocazione alla libertà per rispettare le diversità non nasconde la volontà di conculcare diritti fondamentali per favorire un'angusta egemonia della comunità o, peggio, comportamenti criminali. Come nel caso del fratello di Tariq Ramadan, Hani, sulla cui vicenda Farian Sabahi, osserva: "Un'ambiguità [quella di Tariq Ramadan, che sostiene la legittimità del velo alle donne] che nel caso di suo fratello Hani, non sembra esistere affatto. (134)

Allontanato dall'insegnamento per avere sostenuto il valore della lapidazione delle donne colpevoli di adulterio, Hani Ramadan ha accusato le autorità di attentare alla sua libertà di espressione". O come nel caso della recente condanna a trent'anni del padre e dei cognati di Hina Saleem, la ventenne pakistana sgozzata e sepolta nell'orto della casa a Brescia perché "voleva vivere all'occidentale". A parte l'incredibile episodio della madre della ragazza, che ha dato in escandescenze, scagliandosi contro la corte e difendendo il marito, è inaccettabile qualche flebile voce levatasi dalla comunità locale con l'invito a rispettare la diversità.

Invece, sarebbe interessante approfondire il concetto di meticciato come possibile categoria di interpretazione più onnicomprensiva dei rapporti e del mescolamento in corso tra popolazioni e culture rilanciato da un saggio del cardinale Angelo Scola, anticipato su La Repubblica del 23 novembre 2007. (135) Il cardinale muove naturalmente da una concezione della storia inaccettabile per un laico, nella quale è Dio a guidarla secondo un preciso disegno, "cui le movenze contraddittorie della nostra libertà e la libertà della potenza e della libertà del maligno non può, alla fine, resistere".

Una concezione tradizionalmente contraddittoria della teologia cristiana, che viene coperta con il concetto di mistero, come vedremo quando parlerò di etica. Ma quello che interessa qui non sono le motivazioni religiose del cardinale, quanto gli effetti, anche giuridici di una tale impostazione. Riprendendo una proposta di Giuseppe Mirabelli, ordinario di diritto canonico e diritto ecclesiastico, consigliere del Vaticano e già Presidente della Corte Costituzionale, il cardinale parla del passaggio da "un meticciato dei diritti" a "un diritto del meticciato". Vorrei capire bene cosa significa e in che misura esso rappresenti un passo in avanti sulla strada dell'integrazione, ma non della diversità dei diritti di cui parlava Savater, al di là del fatto che non si può non concordare con l'ecclesiastico che le trincee delle identità sono del tutto illusorie.

Contro l'idea di una identità unica delle persone, d'altra parte, Amartya Sen porta alcuni esempi di vicende orribili di cui è stato testimone, così come tutti siamo stati testimoni di massacri giocati sulla rivendicazione di identità esclusive, specialmente fomentate e invocate da chi orchestrava gli scontri. Eppure, l'approccio comunitarista era originariamente nato da un'esigenza condivisibile, ossia quella di considerare gli esseri umani in modo più completo, esaminandone le caratteristiche anche all'interno di un contesto sociale – commenta l'autore.

Come su un altro versante, ma collegato – aggiungo –, l'idea di persona non si può ridurre a quella di individuo, ma deve esprimere tutta la complessità delle sue interrelazioni sociali e culturali, oltre che la pluralità delle sue identità. Purtroppo, è prevalsa in seguito una visione sempre più ristretta di comunità, con un'amputazione del tipo di quella compiuta dall'economia, per cui gli individui sarebbero "membri di un'unica comunità per ciascuno." Continuo a insistere sul fatto che mentre nelle scienze naturali il riduzionismo è un metodo per avvicinarsi progressivamente alla conoscenza dei fenomeni studiati, adottare nel caso delle scienze sociali e della politica lo stesso approccio significa, nel migliore dei casi, tentare di incasellare a martellate entro uno schema realtà assai complesse e, nel peggiore, andare incontro a carneficine e a comportamenti barbari.

Cosicché, l'autore si pone una domanda retorica e cioè perché mai, mentre è chiaro perché i fondamentalisti islamici tentino di escludere dai musulmani tutte le identità non coerenti con la loro ideologia, non è affatto chiaro perché quelli che intendono opporvisi cadano in una vera e propria trappola, ossia quella di “affidarsi esclusivamente all'interpretazione e all'esegesi dell'islam invece di ricorrere alle tante altre identità dei musulmani diverse dalla fede religiosa”. Perché, se mi è permessa una veloce e certamente troppo schematica risposta, "quelli" dovrebbero rivedere il peso assegnato ai propri interessi di breve e medio periodo a favore di quelli a più lungo termine e di una visione più larga e inclusiva di umanità; perché conviene alle gerarchie di altre religioni e alle politiche conservatrici tentare di stringere la cittadinanza attorno alla coppia amico-nemico di stampo religioso, piuttosto che mettere in campo politiche differenziate e non populiste; perché si dovrebbe riordinare il rapporto tra priorità interne e priorità esterne dell’Occidente e rivedere la distribuzione delle risorse, correggendo tra l'altro la polarizzazione sociale sempre più accentuata verificatasi dovunque negli ultimi decenni.

Insomma, ci ricorda Amartya Sen, è prevalsa una interpretazione tutta comunitarista e parareligiosa negli ultimi conflitti. Primo tra tutti in Iraq, dove gli occupanti hanno subito adottato una politica impostata sulle differenze confessionali che “ha gettato benzina in abbondanza su un incendio già divampato”. Il tutto è frutto di quell'approccio iperidentitario, di quella operazione di miniaturizzazione degli esseri umani, che cerca di impedire l'emergere di un sentimento di appartenenza globale e di contrastare la faticosa ma necessaria conquista di una democrazia globale che non usi soltanto il paraocchi dell'economia.

Anche se non mancano recenti critiche e elaborazioni teoriche contro l'idea di un'etica universale, identificata come un processo che porta alla violenza, come nel caso del libro di Judith Butler, (136) ci si può piuttosto e più concretamente chiedere che razza di etica globale può venire fuori da un approccio basato sulle identità religiose. In questo caso è certo che ne scaturirebbe un'etica armata e sopraffattrice, quali che siano le dichiarazioni di intenti e persino le buone intenzioni degli attori interessati. Se, più che una morale, si può trarre una indicazione di buon senso da tutta la faccenda esaminata finora è che bisogna tenere rigorosamente fuori la religione dalla sfera politica e istituzionale e, soprattutto, dai rapporti internazionali e tra comunità diverse, anche per riuscire a portare alla luce i problemi reali. Del resto, la rilevanza pubblica della religione, per la sua diffusione sociale, è assicurata dalle libertà costituzionali e dai diritti umani.

Che Cesare torni ad essere Cesare e non Teodosio o Maometto. Laddove Teodosio (e non Costantino) fu l'imperatore che elevò il cristianesimo a religione di Stato, mentre il Profeta non fece alcuna distinzione tra sfera politica e sfera religiosa. Semmai, Costantino, dopo averne riconosciuto la legittimità, eliminò tutti gli altri rami del cristianesimo: è stato lui il vero fondatore dell'ortodossia cattolica. Il che ci porta a guardare di nuovo e più da vicino il fenomeno religione.


128) L. Toschi, Maschere e luoghi della politica in Rete, in "Dopo la democrazia?", a cura di Derrick de Kerckhove e Antonio Tursi, Milano, Apogeo, 2006.
129) A. Sen, Identità e violenza, Roma-Bari, Laterza, 2006.
130) Vedi, in proposito, il libro di J. E. Stiglitz, in La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002. Stiglitz è stato premio Nobel dell'economia per il 2001, membro del Consiglio dei consulenti economici del Presidente Bill Clinton e poi capo economista e vice presidente della Banca mondiale. Perciò sa molto bene di cosa parla e svela infatti, grazie alla sua esperienza diretta, molti dei meccanismi che hanno condotto ad un’accentuazione di uno sviluppo ineguale nel mondo e, spesso, di vere e proprie tragedie. Per una rassegna del problema vedi anche il mio articolo su steppa.net Come se ne esce senza rompersi le ossa?
131) G. Zagrebelsky, Cattolicesimo e democrazia, op. cit.
132) G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Milano, Rizzoli, 2000.
133) R. Fisk, op.cit.
134) R. Ciccarelli intervista Farina Sabhai, L’inquietudine dell’islam europeo, in "Centro per la riforma dello Stato".
135) Vedi su Oasis, Ragionando di meticciato: da Venezia verso Amman.
136) J. Butler, Critica della violenza etica, Milano, Feltrinelli, 2005.


Web Homolaicus

Autore di questo testo PierLuigi Albini


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 06/09/2013