CHIESA EXTRAPARLAMENTARE: IL CONTROLLORE AUTOCONTROLLATO

RELIGIONE E NO
Letture sul tema della religione e della laicità


15 - CHIESA EXTRAPARLAMENTARE:
IL CONTROLLORE AUTOCONTROLLATO

Ora dobbiamo riprendere il cammino dentro gli ultimi decenni della Chiesa utilizzando un agile libretto, che non è una novità editoriale ma che per fortuna è ancora in commercio. Ci aiuta anche a contrastare quell’opera di occultamento e distorsione della storia di cui ho parlato. Si legga a tale proposito anche l’articolo di Marina Caffiero, intitolato Miracoli e storia, sul numero monografico di Micromega intitolato Per una riscossa laica sull’imponente tentativo in corso da parte di ambienti cattolici e reazionari di falsificare la storia, contraffacendo citazioni, prendendo per buoni documenti inattendibili, accusando gli storici di giacobinismo e reintroducendo nella storia “il soprannaturale, il mistero, l’irrazionale” come spiegazione degli eventi. (198)

Il capofila di questa pubblicistica – secondo Marina Caffiero - è lo scrittore Vittorio Messori, il quale ritiene che “la fede rappresenta il principio assoluto di verità a cui anche la ricerca scientifica deve essere subordinata”– applicando le istruzioni ufficiali della Chiesa sulla prevalenza della fede sulla scienza – per cui la storia si riduce a una apologetica infarcita di miracoli. La bestia nera di questo filone in espansione è la Rivoluzione francese perché “vi vede il frutto maggiore del complotto anticattolico, l’antitesi radicale e manichea tra Chiesa e modernità e tra fede e ragione, l’avvio di minacciosi processi di secolarizzazione e di laicizzazione in grado di sconvolgere l’assetto tradizionale della società cristiana”. Naturalmente, queste correnti ideologiche – che trovano ospitalità in giornali autorevoli - professano un antiebraismo nemmeno tanto occultato.

Il libro a cui mi riferivo all’inizio è Chiesa extraparlamentare di Sandro Magister, il vaticanista largamente citato in questo saggio, che è diventato un punto di riferimento, non solo per il felice conio dell’espressione del titolo. (199)

È noto che Sandro Magister è piuttosto informato sui movimenti meno decifrabili interni alla Chiesa cattolica, specialmente per quanto riguarda la gerarchia ecclesiastica e i suoi orientamenti etico-politici. In alcuni casi sembra quasi agire da portavoce ufficioso (ma non autorizzato) di qualche personaggio della Curia. Comunque, l'agilità e la brevità del libro nulla tolgono all'essenzialità delle sue argomentazioni. C'è a mio avviso solo una precisazione da fare, quando all'inizio, parlando del Novecento europeo, l'autore scrive che tutta la famiglia di partiti che si sono denominati cristiani, salvo alcuni intervalli di tempo, "ha dettato legge per un secolo buono".

Ora, questo è vero ma solo a partire dal Novecento inoltrato, con la seconda guerra mondiale a fare da spartiacque, tra un prima e un dopo. Non che in precedenza i partiti cristiani e il Vaticano possano chiamarsi fuori dalle responsabilità che pure hanno avuto nelle vicende del tempo. Del resto, le diverse strategie messe in atto dalla Chiesa nei confronti della modernità sono significativamente messe in evidenza dagli stessi titoli dei capitoli del libro, dove la loro traiettoria è contrassegnata dai seguenti passaggi: dal pulpito al partito, per poi occuparsi di vita miracoli e morte del partito cattolico, e concludersi con un dal partito al pulpito, che segna in pratica un ritorno alla strategia inaugurata da Pio IX e continuata dai successori in un prima fase della modernità. Una strategia in cui la Chiesa si impegna direttamente, senza intermediazioni, nella lotta politica e negli affari pubblici, in nome del suo magistero. Perché, come ha ricordato Papa Wojtyla riprendendo Giovanni XXIII, "la Chiesa ha il diritto e il dovere non solo di tutelare i principi dell'ordine etico e religioso, ma anche di intervenire autoritativamente [c.vo mio] nella sfera dell'ordine temporale, quando si tratta di giudicare dell'applicazione di quei principi ai casi concreti."

Nulla di molto diverso, nella sostanza, dalla proposizione ventisette del Sillabo di Pio IX in cui si sanciva come errore l'opinione che "I sacri ministri della Chiesa e lo stesso Romano Pontefice si debbono al tutto rimuovere da ogni cura e dominio delle cose temporali”. (200) Certo, come si dice, molta acqua è passata sotto i ponti, molte cose sono cambiate e il linguaggio si è adeguato ai tempi, tuttavia la continuità della tradizione rivendicata costantemente dalla gerarchia non si limita agli aspetti spirituali e pratici della religione, ma si estende a una dimensione temporale ovvero di potere che con la spiritualità c'entra assai poco. La Chiesa ha rapidamente assorbito la fine dei partiti cattolici unitari e laddove se ne è presentata l'occasione – come in Polonia, scrive l'autore – il Papa si è ben guardato dal proporne la costituzione.

La nuova strategia adottata è singolarmente parallela a tendenze e pulsioni esistenti nella società italiana, per esempio a proposito del successo di chi si presenta come alfiere dell'antipolitica, e consiste nell'indebolire e svalutare il momento politico negandone la vocazione (che, certo, può essere tradita) di massima espressione di un progetto civile, sociale, economico e culturale.

Sta di fatto che Paolo Donati, un autorevole esponente della cerchia di Ruini e autore di una pericolosa teoria che ha avuto un certo successo, per cui la società civile è altra cosa dalla politica e che è quest'ultima a creare le divisioni sociali, scriveva che "la prospettiva del prossimo secolo è quella della società civile che deve riappropriarsi in prima persona delle scelte morali, e esprimere le indicazioni politiche di volta in volta e su soggetti politici che possono cambiare nel tempo”. Dove, se l'idea è quella di una società civile per definizione virtuosa (quella italiana, poi!) siamo di fronte ad una caricatura sociopolitica. E ciò senza nulla togliere al fatto che esiste per davvero una parte della società civile più o meno virtuosa. Ma mentre si sottintende che i partiti politici sono una semplice superfetazione di politicanti, ovviamente la Chiesa e le sue strutture farebbero pienamente parte della società civile. Insomma, alla vecchia teoria andreottiana dei due forni (di destra e di sinistra) ai quali la DC poteva approvvigionarsi a seconda delle convenienze, si sostituisce quella della pluralità dei forni e dell'approvvigionamento just in time, come nei più avanzati sistemi produttivi.

Un secolo e mezzo fa, di fronte al crollo del regime temporale, all'affermazione dello Stato liberale e al lento e contrastato avanzare della democrazia, la Chiesa rispondeva – in tutta Europa, salvo che in Francia - con lo scontro politico-culturale frontale e con il radicamento sociale attraverso una ramificata presenza di associazioni e di organismi direttamente rispondenti alla gerarchia. La formula potrebbe essere appunto sintetizzata così: dal pulpito alla società. Fu allora che si affermò l'espressione di origine cattolica del Paese reale opposto al Paese legale, che ha fatto rifiorire e ha coltivato tenacemente la storica estraneità degli italiani alle istituzioni e alla collettività organizzata in Stato. Una responsabilità storica della Chiesa che non può essere cancellata e che continua a fare danni nei comportamenti molecolari della società civile e nei suoi diffusi costumi quotidiani. Ma anche questo è un problema che non è affrontabile nell’economia di questo saggio.

Comunque, proprio l'esperienza dei cattolici acquisita nella sfera sociale, la lenta selezione di gruppi dirigenti coscienti della propria forza e il panico dei ceti liberali di fronte all'avanzare del socialismo, allentarono, prima a livello locale e poi a livello nazionale, il permanente divieto del Vaticano ai cattolici di entrare in politica. La storia dei tentativi di formare un partito cattolico, in primo luogo quello di Romolo Murri, e le resistenze opposte dalla gerarchia ecclesiastica sono noti. (201) Finché la cosa non riuscì al sacerdote Luigi Sturzo con la costruzione del partito popolare (Ppi), nonostante le continue ingerenze e resistenze da parte della Segreteria di Stato vaticana e dei vescovi. Anche quando nel 1921 il Ppi ottenne un lusinghiero successo elettorale, diventando il secondo partito dopo i socialisti per numero di deputati, la rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica (espressione diretta del pensiero del Papa e della Curia vaticana) criticò "il profilo e i metodi del nuovo partito cattolico", giudicandoli troppo simili a quelli del partito avversario, ossia ai socialisti.

Il fatto è che la formazione politica di don Sturzo non solo si era dichiarata aconfessionale, ma rivendicava che le proprie decisioni fossero prese attraverso il metodo democratico e non attraverso le istruzioni dirette da parte della gerarchia ecclesiastica. Poi sopraggiunse la crisi del governo Mussolini, che era andato al potere anche grazie alla benevola posizione assunta dal Ppi. Ma ben presto, nel partito cominciò ad emergere una volontà antifascista, cosicché fu abbandonato da molti cattolici conservatori. In seguito al delitto Matteotti, il segretario dei socialisti, Turati, propose ai cattolici una collaborazione tra i due partiti. De Gasperi, allora segretario dei popolari sembrava possibilista, ma un articolo su La Civiltà Cattolica troncò sul nascere il discorso e poco dopo Pio XI espresse chiaramente la sua contrarietà all'ipotesi. "Il veto vaticano, scrive Sandro Magister, contribuì non poco a far fallire l'alleanza tra i partiti socialista e cattolico”. Ossia l'unica alleanza politica che avrebbe potuto fermare il fascismo.

La storia successiva, fino alla seconda guerra mondiale, è tutta all'insegna della diplomatizzazione e non della diretta opposizione politica ai regimi totalitari di destra da parte della Chiesa. (202)

Con la fine della guerra risorgono i partiti cattolici in Europa, ma è ormai ampiamente documentata la scarsa convinzione delle gerarchie ecclesiastiche sulla nascita di uno strumento politico unitario dei cattolici, che per quanto questa volta non si definisse più aconfessionale, poneva pur sempre dei problemi di intermediazione politica tra il Vaticano e le istituzioni statali. L'esistenza di più partiti di impronta cattolica avrebbe lasciato la Chiesa più libera di muoversi e arbitra meno condizionata delle dinamiche politiche. Tanto è vero che proprio i due più influenti prelati vicini a Pio XII dettero il via libera, tra il 1943 e 1944, alla formazione del Partito della sinistra cristiana "animato da Franco Rodano, un intellettuale vicino al numero uno del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti”. Ma di fronte alla forza espressa dai socialisti e dai comunisti prevalse la linea dell'unità politica dei cattolici, cosicché per decenni la Democrazia Cristiana è stato l'unico partito democristiano europeo "in cui hanno convissuto – ha osservato Giuseppe Vacca - una destra conservatrice e una sinistra riformista". Forse anche per questa ragione, la storia della Democrazia Cristiana nei suoi rapporti con la Chiesa, specialmente con De Gasperi, è segnata dalla rivendicazione quasi costante di una certa autonomia della politica dalle continue invadenze ecclesiastiche.

"L'anomalia del Pci è per De Gasperi la ragione dell'anomalia della Democrazia cristiana – scrive l'autore - rispetto alla tradizione degli altri partiti cattolici. Un partito unico, la DC, come unico è il suo legame con la Chiesa”. E proprio per ancorare la stessa Chiesa a una politica univoca nei confronti della nuova formazione politica, nei suoi principi costitutivi si dichiarava un partito confessionale, "come coalizione di uomini che intendono affermare l'integralismo della loro fede”. I gruppi dirigenti, nel primo periodo, avevano per il settanta per cento "ricoperto cariche diocesane o provinciali nelle organizzazioni cattoliche, e quasi un terzo cariche di rilievo nazionale”. Del resto, anche i militanti più attivi, secondo un'inchiesta del tempo, provenivano per due terzi dall'associazionismo cattolico che aveva quindi funzionato per lungo tempo come palestra e scuola di formazione per prepararsi alla politica. De Gasperi difese comunque, entro i limiti per lui possibili, la sovranità del partito sulle scelte politiche contro le continue incursioni della gerarchia ecclesiastica.

La diaspora politica cattolica inizia sul serio attorno al 1976, quando nel primo convegno nazionale della Chiesa italiana, si dichiara la legittimità di scelte politiche diverse da parte dei cattolici, purché si rimanga coerenti con il messaggio evangelico. "È la revoca, la prima ufficiale, dell'investitura esclusiva data dalla Chiesa alla DC”. Con la fine della DC, alcuni anni dopo, conseguenza del crollo dell'Unione sovietica, ma anche dei rivolgimenti tecnologici, geopolitici ed economici, di tangentopoli (e anche della decisione del PCI di trasformarsi in un partito diverso) - tutti fatti che l'autore cita rapidamente - cessa davvero l'unità dei cattolici, per quanto la Chiesa, e in particolare il cardinale Ruini, si adoperassero per ritardare se non per arrestare il processo.

Per la Chiesa inizia un percorso inverso nella propria strategia politica. Poiché non era più praticabile lo schema dal pulpito al partito, si torna al pulpito e alla società. Uno schema interventista diverso da quello del passato per le mutate condizioni storiche e, soprattutto, grazie al fatto che i rapporti giuridici tra la Chiesa e lo Stato sono ormai fissati da un Concordato, per cui essa non deve più temere le incursioni delle autorità civili nella sfera ecclesiastica, come avveniva con la politica antiecclesiastica del primo Stato unitario, quando la sede episcopale di Milano rimase vacante per otto anni e quella di Bologna per ventidue.
Questa nuova strategia, fortemente sostenuta dagli ultimi pontefici e da quello regnante, ha trovato nella CEI il suo braccio operativo.

Gli interventi ecclesiastici nella materie più disparate della convivenza civile e anche negli affari pubblici sono andati crescendo, riuscendo davvero difficile catalogarli sotto la voce spiritualità. Il martellamento è ormai continuo e se i laici sollevano obiezioni, si invoca il principio di tolleranza nei confronti di queste esternazioni come specifica virtù laica che non può essere contraddetta. Quella parte assai rilevante di popolazione che non accetta il "magistero" ecclesiastico deve tollerare questa situazione. Ma un comportamento simmetrico da parte dei laici nei confronti della Chiesa è denunciato come vetero-laico o peggio. Il che, naturalmente, significa che la denuncia del nuovo clericalismo non avrebbe nemmeno il diritto di essere sussurrata.

Qualche tempo fa c'è stata una vera e propria sollevazione di scudi da parte dell'episcopato e della stampa cattolica (e anche non cattolica) di fronte a critiche circostanziate, fatte con molta civiltà, alla politica del Vaticano in tema di diritti civili e sessuali. La critica alle posizioni del Papa è stata in pratica equiparata a un delitto di lesa maestà pretendendo un'asimmetria di parola e di espressione del pensiero tra laici e religiosi. Una cosa inaccettabile in qualsiasi paese civile. Altre volte si è arrivati alla banalizzazione del problema. Poco tempo fa, un esponente politico cattolico, di fronte al rilievo della nuova invadenza della gerarchia, ha osservato che essa ne ha tutto il diritto e che, del resto, anche organizzazioni sindacali e altre grandi organizzazioni sociali dicono la loro sulle questioni istituzionali e politiche. L'interessato non si poneva minimamente il problema che tali organizzazioni non sono autonome rispetto all'assetto istituzionale del Paese, come nel caso della Chiesa; che sono soggette alla Costituzione italiana, al contrario della Chiesa; che i loro rapporti con lo Stato non sono certo regolati da un concordato tra ordinamenti sovrani, come nel caso italiano. Forse quest'ultimo comincia a stare stretto allo stesso Vaticano?

Se la Chiesa diventa un soggetto tra i tanti, così da frequentarne gli stessi ambiti temporali pubblici, allora è lecito chiedersi se essa rispetta le prescrizioni costituzionali come tutti gli altri attori in campo. La risposta è ovviamente no. Intanto, in essa non vale il principio repubblicano né democratico, per non parlare della discriminazione sessuale su cui si basa la sua organizzazione, oppure della assoluta opacità del diritto e delle procedure processuali adottate in numerosi casi. Ma l’assurdo, rileggendo la nostra Costituzione, è la patente disparità tra gli articoli 7 e 8. Nel primo, come è noto, si incardinano i Patti Lateranensi nella Carta fondamentale e si dice che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Nel secondo, destinato alle altre confessioni religiose, si afferma che esse hanno diritto di “organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”.

Si può dire della Chiesa cattolica che non rispetta l’ordinamento costituzionale italiano? No, in punta di diritto e di riconosciuta autonoma sovranità. Lo si può dire di una qualsiasi delle altre confessioni religiose? Sì, in punta di diritto e in quanto priva di sovranità. Ma il problema è proprio il Concordato per cui, al di là dei ragionamenti di opportunità e possibilità politica e della difficoltà di tornare indietro rispetto a un ordinamento settantennale, il vero e proprio monstrum giuridico è dato dalla nozione stessa di Concordato che solo per finzione viene identificato come un trattato internazionale. Non saprei dirlo con parole migliori usate da Antonio Gramsci nell’analizzare l’accordo del 1927, per cui in esso “si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli del concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione (sia pure di una speciale determinata giurisdizione)”. (203)

Si viene così a istituire una doppia sovranità sul medesimo territorio e essa “significa il riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è più quella medievale, ma la sostanza è la stessa”. In buona sostanza, attraverso questo strumento si permea uno Stato – aggiunge Gramsci – ma per poter fare questo la Chiesa ha bisogno di una cultura cattolica dei laici che realizzino quel governo indiretto teorizzato a suo tempo dal cardinale Bellarmino. Naturalmente, questo potere non è più oggi concepito come attuabile attraverso la coscienza cattolica dei sovrani, ma – appunto – attraverso il governo dei laici nelle cose temporali. In certi ambienti cattolici tradizionalisti nemmeno l’interpretazione moderata di Bellarmino va bene; gli si preferisce il Tommaso d’Aquino della Summa Theologica: “La potestà secolare è sottomessa alla spirituale, come il corpo all'anima, e perciò non si usurpa il potere se il Prelato spirituale si intromette nel temporale quanto alle cose nelle quali gli è sottomessa la potestà secolare”.

Qui si aprirebbe, piuttosto, una riflessione di merito (che va oltre quanto scrive Sandro Magister) sul mutamento dei comportamenti dei soggetti in campo negli ultimi decenni. Se la Chiesa può intervenire su tutto, come qualsiasi altra organizzazione sociale o politica nazionale (uno Stato sovrano che occupa gli spazi di un altro Stato sovrano, appunto), allora diventa inevitabile una "secolarizzazione" dei suoi rapporti con la società civile e politica. Per cui diviene di fatto anche legittimo, per credenti e non credenti, porsi il problema dell'organizzazione interna della Chiesa e della sua rispondenza ai principi democratici. Mi chiedo, visto che la Chiesa si comporta ormai come un attore politico nell’ambito dello scenario costituzionale, se sembrerebbe paradossalmente legittimo e affatto irrispettoso promuovere una campagna politica, per esempio sull'elezione dal basso e non la nomina dall'alto del presidente della Conferenza episcopale italiana, oppure porsi il problema della parità di genere per l'accesso alle cariche ecclesiastiche, e così via. Del resto, non sta prendendo piede nel diritto internazionale in diritto di ingerenza, in effetti praticato in alcune delle vicende geopolitiche più recenti?

A tanto potrebbe portare il paradosso della Chiesa che si fa attore politico nella sfera civile, rompendo quella separazione pur così contraddittoriamente sancita dalla Costituzione italiana e praticando così quel principio di reciprocità che i cattolici chiedono per se stessi. D’altra parte, è proprio il revisionato Concordato del 1984 che paradossalmente introduce un doppio legame tra Chiesa e Stato su questo tema. La premessa del documento, infatti, recita esattamente così: “Tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano II;
avendo presenti, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico [...]”. Ciò vuole dire, da un lato, che se una delle due parti modifica unilateralmente il contenuto dei due documento solennemente citati, verrebbero meno “le condizioni che l’hanno reso possibile e ne sostengono la validità”. (204) Dall’altro lato, mi pare che autorizzi le parti a preoccuparsi molto se il principio di laicità dello Stato o la dichiarata separazione tra religione e politica della Chiesa registrassero degli attentati. Non è forse il nostro caso per quanto riguarda la politica vaticana degli ultimi decenni?

Naturalmente, c'è un confronto interno alla comunità cattolica, anche su questi temi, ma come è ormai prassi consolidata nella storia della Chiesa, esso appare molto cifrato, condotto con passo felpato difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori. In quell'ambito l'attenzione sembra concentrarsi sul senso delle innovazioni prodotte dal Concilio Vaticano II. Dove l'interpretazione oggi esplicitamente prevalente negli ambienti che si riferiscono a Ruini e, mediante lui, al Pontefice, pongono l'accento sulla continuità, negando che il Concilio abbia rappresentato una cesura con il passato. Non si tratta solo del tradizionale approccio ecclesiastico che non fa mai davvero i conti con la propria storia, ma di una pietra angolare necessaria per sostenere proprio quella politica di intervento diretto dal pulpito, descritta così efficacemente da Sandro Magister.

Se non c'è stata cesura, se le vicende ecclesiastiche non possono essere storicizzate in nome di una compresente continuità che allude all'eternità, allora sono ancora validi, certo aggiornati, gli schemi di aspro confronto con la modernità e di invasione di campo organizzati dai pontefici tra Otto e Novecento. Questo sembra suggerire lo stesso attacco – di cui Sandro Magister parla in un suo articolo (205) - che il cardinale Ruini ha recentemente portato alla interpretazione che il cattolicesimo democratico ha dato del Vaticano II dichiarando: "L'interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un'interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità". La critica era diretta in particolare alla storia scritta da Giuseppe Alberigo di cui è leggibile, al di là dell'edizione monumentale, un più sintetico libro. (206)

Proprio attorno al discrimine del Vaticano II e al rimescolamento delle carte avvenute con la caduta dei regimi comunisti dell’est si muove il libro di Gaetano Quagliariello, Cattolici, Pacifisti, Teocon. (207) Si tratta di un’analisi degli orientamenti nella politica della Chiesa che ruota attorno alla difficile scelta da parte delle gerarchie ecclesiastiche di due modelli alternativi di rapporto con gli stati e con le società contemporanee.

Il primo modello potrebbe definirsi identitario e "mira all'affermazione del ruolo di tradizioni e patrimoni culturali in un determinato contesto sociale. Tale riconoscimento non implica specifici diritti positivi [leggi: Concordati], ma è garanzia complessiva di libertà di azione nell'ambito del rispetto dello Stato di diritto e della sua laicità”.

L'altro modello, che si può definire temporale e che ha ormai una tradizione bicentenaria nella storia del cattolicesimo, implica "una rigida separazione tra Stato e Chiesa, regolato sulla base di reciproci diritti e doveri garanzia della laicità dell'ordinamento”.

Il primo modello è prevalentemente anglosassone, il secondo è specifico dell'Europa continentale. L'autore, ripercorre la storia delle oscillazioni degli orientamenti cattolici in materia, specialmente da parte della Chiesa italiana dopo l'unificazione ("l'Italia è stata l'unica grande nazione dell'Occidente la cui unificazione si è fatta contro la volontà della Chiesa"), mettendo in luce le ragioni della creazione di organizzazioni strettamente confessionali "attive nel mondo della politica e del lavoro". La tendenza prevalente della Chiesa è stata di costituzionalizzare la funzione di vigilanza e di controllo sulla vita dello Stato.

La svolta del Vaticano II ha diviso il mondo cattolico tra quelli che salutavano la riconciliazione della Chiesa con i diritti dell'uomo e quelli che la interpretarono come "l'inizio del declino del cristianesimo". Dopo il Concilio è ripresa una lenta e costante, anche se oscillante, operazione di ricupero e di riassorbimento delle novità conciliari. Ma la fine dell'unità politica dei cattolici ha rimescolato le carte: gli uni vi hanno colto la possibilità di desacralizzare la politica e di "ricuperare una vera spiritualità in uno spazio incontaminato", gli altri (i conservatori) l’hanno interpretata come l'inizio di una battaglia contro il cosiddetto nichilismo laico (e varianti: pluralismo, relativismo e così via) con il quale confrontarsi su nuove basi, rigettando la tradizionale separazione "tra sfera del pubblico e quella della fede”. Insomma, si tratta di fare politica direttamente, senza l'intermediazione di un partito cattolico, aumentando la stretta sulla società civile.

In questa lunga transizione la posizione della Chiesa nei confronti dei due possibili modelli di convivenza con lo Stato e con la società, almeno per quanto riguarda l'Italia ma non solo, sembra aver preso la strada di tentare di sommarli, piuttosto che di scegliere. La sintesi di questo orientamento è stata chiaramente espressa da mons. Betori nell'audizione al Parlamento italiano, a proposito della discussione sulle radici cristiane da inserire nella Costituzione europea. Da un lato, il prelato ha affermato che sarebbe difficile comprendere il moderno e il postmoderno senza riferirsi all'esperienza cristiana e, dall'altro, che riconoscere il patrimonio cristiano senza le garanzie concordatarie sarebbe praticamente inutile. Si tratta di una linea neointegralista che incontra la riscoperta da parte dei neoconservatori della religione come cemento della società. Insomma, come instrumentum regni. Con buona pace della modernità, nonostante le dichiarazioni di esponenti ecclesiastici che "non si tratta di tornare indietro nella storia".

Tra l’altro, questa insistenza della Chiesa sulle radici cristiane dell’Europa si basa su un’interpretazione inconsistente della storia. Non voglio certo dire che la cristianità non abbia avuto un peso enorme nella storia europea ma - qui è il punto – ciò non c’entra per nulla con la formazione della coscienza che l’Europa fosse un’entità geografica e storica unitaria; la quale inizia a farsi strada nel 1600 nelle élites culturali di diversi Paesi che si collegano tra loro (e non parlano il latino ma il francese). Così ha ragione lo storico Erica J. Hobsbawn a sostenere che “non è valida neppure l’idea che l’unità dell’Europa si fondi su una base cristiana”. A parte il fatto che la nascita e la crescita dell’Europa moderna, come abbiamo visto, è avvenuta contro la Chiesa.


198) "Micromega". Rivista trimestrale, Per una riscossa laica, supplemento, novembre 2007.
199) Sandro Magister, Chiesa extraparlamentare. Il trionfo del pulpito nell'era postdemocristiana, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2001.
200) Il testo è leggibile in "Totustuus.net".
[www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=275]
201) Su Romolo Murri e il murrismo c’è, tra gli altri, un ottimo saggio di Lorenzo Bedeschi, Cristianesimo e libertà. Il discorso di Romolo Murri (San Marino, 1902), Urbino, Editore QuattroVenti-Fondazione Romolo Murri, 1999.
202) La pubblicazione degli atti del Convegno di Torino, tenutosi il 25-26 ottobre 2001, a cura di Vincenzo Ferrone, La Chiesa cattolica e il totalitarismo, Firenze, Olschki, 2004 chiarisce molto bene, attraverso analisi comparate, i comportamenti storici delle chiese nazionali francese, tedesca e italiana di fronte alle ascese del fascismo e del nazismo. Come si sa, le ultime due non escono bene dal confronto.
203) A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, III, Q. 16, 10, Torino, Einaudi, 1975. Sulle differenze tra il Concordato del 1927 e l’aggiornamento del 1984 vedi E. Galavotti, in www.homolaicus.com/diritto/concordato/concordato.htm.
204) G. Zagrebelsky, Stato, Chiesa e lo spirito del Concordato, in op. cit.
205) In chiesa.it. [chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/34283]
206) G. Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano II, Bologna, il Mulino.
207) G. Quagliariello, Cattolici, Pacifisti, Teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Milano, Mondadori, 2006.


Web Homolaicus

Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 06/09/2013