ETICA LAICA

RELIGIONE E NO
Letture sul tema della religione e della laicità


18 - ETICA LAICA

Nel libro di cui ho parlato, Sam Harris osserva che se la religione fosse necessaria per la moralità, dovrebbe esserci qualche evidenza che gli atei sono meno morali dei credenti. Invece, le indagini empiriche danno risultati esattamente contrari. Richard Dawkins cita il rapporto di una ricerca apparso sul Journal of Religion and Society, (233) nel quale il paleontologo Gregory S. Paul ha messo a confronto il livello etico di diciassette nazioni più sviluppate. La conclusione è che a più alti livelli di religiosità “corrispondono più alti livelli di omicidi, mortalità infantile e giovanile, malattie veneree, gravidanze e aborti di adolescenti”. Degli studi prontamente messi in cantiere da organizzazioni religiose per dimostrare il contrario non si è saputo più nulla…

Una celebre frase di Einstein dice: “Se le persone fossero buone solo per timore della punizione e speranza della ricompensa, saremmo messi molto male”. Penso che si possa essere d’accordo che se uno non delinque solo perché ha paura della polizia, beh, allora non potremmo certo pensare che costui sia dotato di un’etica rispettabile. Né più né meno che se uno non pecca per paura dell’Inferno, non potremmo ritenerlo dotato di una salda morale, nemmeno secondo i propri criteri religiosi.

Quasi tutte le religioni, e anche molti laici, sostengono che non si possa fare a meno della religione parlando di etica. Esaminiamo più da vicino questa affermazione.

Nel libro L’illusione di Dio, Richard Dawkins prende in esame la Bibbia, non perché l’autore sia interessato a stabilirne la veridicità o meno, quanto per dimostrare che da essa non può derivare una morale moderna. E osserva: “No, gli apologeti non possono cavarsela dicendo che la religione è una sorta di bussola interiore capace di indicare la retta via, insomma una fonte privilegiata di discernimento inaccessibile agli atei. Non possono cavarsela nemmeno ricorrendo all’amato trucchetto di interpretare certi brani per il valore simbolico e altri per il valore letterale. In base a quali criteri si decide quali passi sono simbolici e quali no?”. D’altra parte, nemmeno nel caso del Nuovo Testamento, per quanto il cristianesimo abbia segnato un progresso etico, c’è molto da stare allegri. Intanto, quanto a morale familiare (Luca, 14.26) (234); in secondo luogo, per l’idea che senza il sangue non c’è redenzione, proveniente dalla teologia ebraica e ripresa da Paolo di Tarso, ma presente anche presso altri popoli. Se vogliamo, è la vecchia pratica del capro espiatorio, del sacrificio di sangue; caro – aggiungo - a certa lirica greca (Archiloco), ma che ha anche illustri precedenti nella mitologia egiziana e nel mito dionisiaco dello smembramento del dio e della sua rinascita.

Ma c’è un caso di inchiesta scientifica, di cui parla Dawkins, che vale la pena riferire, a proposito della volatilità della morale su base religiosa. Lo psicologo israeliano George Tamarin fece leggere a oltre mille studenti tra gli otto e i quattordici anni il passo dell’Antico Testamento relativo alla conquista e alla distruzione di Gerico da parte di Giosuè (235), nel quale si manifesta una ferocia davvero inumana (vale la pena di leggerlo), e chiese loro cosa ne pensassero: il 66% approvò senza condizioni l’operato di Giosuè, il 26% lo disapprovò totalmente e l’8% l’approvò parzialmente. Da notare che alcuni di quelli che disapprovarono, lo fecero con motivazioni ancora più tremende di quelle di Giosuè. Poi, lo psicologo somministrò lo stesso testo a un altro gruppo di bambini e di ragazzi israeliani (un gruppo di controllo), ma ambientando l’azione in Cina ad opera di un generale Lin al posto di Giosuè. I risultati dell’esperimento sono stati opposti: il 75% ha disapprovato il comportamento di Lin e solo il 7% lo ha approvato. La morale può tirarla il lettore, ma Dawkins suggerisce di pensare che è stata la religione a fare la differenza.

Dawkins non nega, di fronte ai ricorrenti episodi di violenza omicida della storia, anche recentissima, che “la forte tendenza dell’umanità a essere fedele al proprio gruppo e ostile ai gruppi esterni esisterebbe anche senza la religione”, ma osserva che essa funziona da facile e più disponibile etichetta, e spesso da giustificazione, aggravando e esasperando i contrasti con diverse strategie dipendenti dalla sua natura.

Il fatto è che, poi, “l’integralismo religioso sta precludendo l’istruzione scientifica a molte migliaia di giovani cervelli innocenti e pieni di buona volontà e buone intenzioni”. L’autore, tra le diverse argomentazioni della risposta alla domanda su che cosa c’è di male nella religione? porta l’esempio di Kurt Wise un geologo laureato a Harvard che ha attraversato una crisi religiosa derivante dal contrasto tra ciò che gli dicevano i dati scientifici a proposito delle età della Terra e ciò che sosteneva l’interpretazione biblica. In alcuni passi esemplari dei testi scritti in proposito da lui stesso, quando, avendo fatto un confronto tra i brani della Bibbia che davano indicazioni sulla struttura del mondo con ciò che diceva la scienza, e tagliando con le forbici tutti i passi che non si accordavano con quest’ultima, alla fine scrive: “nonostante i miei sforzi, e benché i margini fossero rimasti intatti, mi era impossibile prenderla in mano senza che mi si sbriciolasse tra le dita. Dovetti scegliere tra evoluzione e scrittura. [...] Quella notte accettai la parola di Dio e rifiutai tutto quello che l’avrebbe contraddetta, compresa l’evoluzione. Così con grande dolore, gettai alle ortiche tutti i miei sogni e le mie speranze di scienziato. [...] Come dissi ai miei professori anni fa, quando ero al college, se tutte le prove dell’universo andassero contro il creazionismo, sarei stato il primo ad ammetterlo, ma sarei rimasto creazionista perché è quello che la Parola di Dio sembra indicare. E io qui debbo collocarmi”. Ogni commento mi sembra superfluo. Oggi Wise dirige il Center for Origins Research del Bryan College di Dayton (un’organizzazione creazionista), sul cui sito c’è in pratica scritto un ossimoro: “Coltiva il pensiero critico e biblico”.

Ma, per venire più da vicino al discorso dell’etica, è un fatto che la religione-istituzione ha assorbito storicamente nella sua sfera la religione naturale di cui ho parlato discorrendo di Daniel Dennett e che è stato il primo sigillo messo sulle regole di convivenza umana, quando la società era diventata così complessa da non essere più sufficiente l’etica istintiva che è propria degli esseri umani, ma che non è estranea agli animali superiori, come regola di comportamento dettata dall’evoluzione. (236)

Come ha scritto Francisco J. Ayala, “il pensiero astratto, il linguaggio simbolico, la complessa organizzazione sociale, i valori e l’etica sono manifestazioni della meravigliosa capacità del cervello umano di riunire e integrare informazioni sul mondo esterno e di reagire in modo flessibile a ciò che è stato percepito”. A suo tempo, fu necessario mettere il timbro della sacralizzazione sulle regole di convivenza, per dare maggiore cogenza alle norme sociali all’etica e all’organizzazione del potere. Da allora e finché non è nato il pensiero laico e non si è affermato il metodo scientifico – nonostante gli illustri precedenti di pensatori molto in anticipo sui tempi, come Epicuro, Tito Lucrezio Caro e pochi altri – etica e religione sono state strettamente legate; per cui esiste un abito mentale, praticamente una coazione inculcata fin dall’infanzia a considerare strettamente connesse etica e religione. A parte, poi, la tradizione storica per cui, almeno fino al XVII secolo, le leggi fondamentali erano formulate – scrive Eugenio Lecaldano – “in termini di doveri verso Dio, se stessi e gli altri”.

Insomma, la religione si è appropriata storicamente dell’etica, la quale esiste indipendentemente da essa. L’etica non è un prodotto della fede è un prodotto dell’evoluzione che ha favorito la cooperazione tra gli individui e l’affermazione di un senso morale per consolidare le società umane. Non c’è alcuna identificazione necessaria tra etica e fede. A meno che non si voglia sostenere, come adombra la citazione di Albert Einstein, che se non ci fosse la minaccia di pagarla cara in un’altra vita, l’umanità non sarebbe capace di bontà. Il che è discretamente assurdo, visto che, per converso, l’essere credenti non dispensa dal commettere azioni criminali: vogliamo parlare degli ultimi duemila anni oppure, per rimanere ai nostri giorni, ci si può chiedere che razza di rapporto può esistere tra i pizzini trovati nel covo del padrino mafioso e i santini e la Bibbia da lui devotamente compulsati? Scrive Cristopher Hitchens nel libro recensito in precedenza: “che un responsabile di crimini si ispiri a una fede è vero quasi al cento per cento, mentre l’ordine di probabilità che una persona di fede stia dalla parte dell’umanità e della morale è più o meno lo stesso che si ha giocando a testa e croce”. Oppure bisognerebbe riflettere sul fatto che, secondo un sondaggio Gallup, il 66% degli americani ritiene moralmente accettabile la pena di morte, confrontandolo con il circa 86% degli americani che si dichiara credente, contro uno stimato 14% di laici, una parte dei quali, certo, potrebbe essere anch’essa favorevole alla pena di morte. (237)

Ora, la propaganda ecclesiastica ha per secoli martellato nei cervelli degli europei l’idea che chi non crede sia un poco di buono, sospetto dei peggiori vizi e dedito a piaceri inconfessabili; oppure che intende lasciarsi andare all’anarchia morale e mentale. Scriveva lo scrittore cattolico G.K. Chesterton, con una scarsa considerazione dell’intelletto umano, che se gli uomini cessassero di credere in Dio comincerebbero a credere in tutto. Lo stesso concetto utilizzato da Dostoevskij per dire che se non ci sono punizioni e premi nell’aldilà, allora “tutto è lecito” su questa Terra. Ancora oggi, anche nelle più recenti omelie papali, non mancano i generici attacchi all’edonismo, con l’esplicita allusione che solo una morale cristiana – l’ossequio al magistero ecclesiastico e a una concezione della natura umana del tutto inventata e figlia diretta di un pensiero medievale - ci può salvare in questa vita e in quell’altra supposta. (238)

Del resto, sottolinea Remo Bodei in un saggio contenuto nel libro Le ragioni dei laici, che “il ricorso alla veritatis splendor sembra sottintendere che chi non è capace di vederlo sia, teoricamente e moralmente, cieco, daltonico o in malafede”. (239) Bodei osserva poi come il problema della Chiesa sia quello segnalato in queste pagine, cioè di una sua incapacità (o impossibilità, se non a condizione di auto sciogliersi?) di apprezzare l’autonomia della persona. “derubricata a relativismo etico, a sua volta concepito come il vizio segreto della democrazia”. Insomma, il contenzioso con la Chiesa sulla questione della libertà umana, a dispetto di tutta la buona volontà di dialogo (o di occultamento del problema da parte di alcuni laici e di altri credenti?), rimane al centro dell’asimmetria tra una morale confessionale (non dico cristiana) e un’etica laica. Per non parlare di inconciliabilità. (240)

Daniel C. Dennett ha scritto che i non credenti “prendono sul serio il loro impegno civile proprio perché non confidano nel fatto che Dio salverà l’umanità dalle sue follie”. C’è anche un altro autore italiano, Carlo Augusto Viano che, nel libro sui Laici in ginocchio, che ho in precedenza citato, dimostra di essere uno di quei laici che non si vergogna di esserlo, che non si rifugia dietro termini edulcorati per definire le proprie convinzioni, che difende la dignità di un'etica che non trova le sue motivazioni in principi religiosi. (241)

Anzi, tenendo fede al titolo del suo saggio, Viano attacca esplicitamente i cosiddetti laici devoti, gli opportunismi politici e le continue interferenze della Chiesa nelle istituzioni repubblicane. L'autore critica in modo esplicito Benedetto XVI e la sua pretesa di dettare le regole di un laicismo definito sano. Dove sano sarebbe "uno Stato il quale introduca nelle proprie leggi riferimenti etici, che trovano il loro fondamento ultimo nella religione." Per converso, insana sarebbe quella laicità che pensa a uno Stato aperto, nel quale hanno piena cittadinanza (e non semplice tolleranza) orientamenti morali, religiosi e filosofici diversi.

A parte un approccio molto radicale e autoconsistente della ricostruzione storica dei rapporti tra cattolicesimo e politica (e politica di sinistra) della seconda metà del Novecento, Viano attacca le motivazioni a favore di un atteggiamento che tenga conto del fondo religioso-culturale italiano (per quanto ormai minoritario nella concreta pratica, ma solo negli ultimi decenni). È però vero che è stata proprio la Chiesa, con le sue continue incursioni nell'ambito delle prerogative statali, a forzare abbondantemente i limiti della separazione dei poteri, per cui, come ho già osservato, l’anticleralicalismo attuale appare come una reazione difensiva necessaria. È con notevole orgoglio, poi, che Viano, sulla scia di Pierre Bayle, rivendica la superiorità di un'etica laica che non può trovare nessuna scusante o assoluzione di comodo "per venir meno a impegni morali”. (242)

Il filosofo della morale Eugenio Lecaldano affronta esattamente questo problema. (243) Non si tratta di un libro particolarmente innovativo, tuttavia rappresenta un’utilissima ricognizione dei ragionamenti e degli argomenti a sostegno di un’etica laica sganciata da suggestioni religiose. Lecaldano si muove nella stessa scia di Dawkins quando scrive che “solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente porre al centro della sua esistenza le richieste dell’etica, e solo colui che è senza Dio può attribuire alla morale tutta la portata e la forza che essa deve avere nelle scelte che riguardano la sua propria esistenza, sia in quelle che riguardano l’esistenza altrui”. Intanto, tutti coloro i quali sostengono che credere è una condizione necessaria per avere un’etica, dovrebbero prima precisare a quale Dio si riferiscono e “perché mai dovremmo privilegiare il suo Dio rispetto a quello di altre religioni”. Qui c’è un problema di universalismo, che tutte le grandi religioni rivendicano, attaccando il presunto relativismo laico e democratico.

Lecaldano osserva che il vero relativismo è proprio quello delle religioni, perché fanno dipendere l’etica da una particolare rivelazione e da una concezione esclusiva della divinità. Si può certo assumere una posizione deista (come quella che fu di molti illuministi) o razionalista, sostenendo che il credente e la morale sono comunque strettamente collegati, quale che sia la religione professata. Ma non mi pare un caso che nelle prove di dialogo in corso tra cattolicesimo e islam, il primo abbia proposto come tavola universale e condivisibile i diritti umani, ossia un’etica di derivazione illuministica e certamente laica. Segno che le risorse interne ad ogni religione pretendono di essere universali solo a condizione che tutti si convertano a quella determinata religione, mentre i principi di derivazione illuministica chiedono di essere osservati indipendentemente dal credo professato e si rivolgono a tutti gli esseri umani in quanto tali, senza distinzioni di religione o di altro.

Quando una chiesa o una credenza parlano di umanità pensano in primo luogo a quella determinata umanità di credenti nella stessa rivelazione, che si chiami cristianità o umma. Non sarà poi un caso che nella Chiesa cattolica si sente ancora levare l’accusa di irenismo come deviazione dalla vera dottrina o fede quando. Per usare la definizione di Tullio De Mauro, si definisce irenismo il “movimento spirituale e teologico che si propone di favorire la riconciliazione di tutte le chiese cristiane”.

Figuriamoci poi parlare di una conciliazione tra diverse religioni. E non sarà un caso che, soprattutto da parte tradizionalista, il Concilio Vaticano II sia stato spesso accusato per l’appunto di irenismo, seguendo la condanna comminata da Pio XII nella Humani generis. Anche se, di recente, Benedetto XVI ha cercato di salvare e di valorizzare quanto di ortodosso l’antico vescovo di Lione ha lasciato scritto, condannando peraltro in altra circostanza “il relativismo o il facile e falso irenismo che risolvono la ricerca ecumenica. Essi anzi la travisano e la disorientano”. (244)

Insomma ecumenismo sì, ma ognuno sulle proprie posizioni, per cui l’unico terreno di intesa interreligioso, e torno al punto, è dato dalla illuministica tavola dei diritti umani. Non c’è male per l’insistente accusa allo Stato moderno di essere vuoto. Come lo riempirebbe la Chiesa cattolica? Forse con la stessa cultura che ha dettato la recente riesumazione della preghiera antiebraica di origine tridentina?

Un comando esterno dell’etica la indebolisce, sostiene Lecaldano. Il divieto della violenza verso gli altri è un valore in sé, un portato dell’evoluzione, non un valore in quanto comando di un’autorità. Questo è il fondamento principale di una morale rigorosa e responsabile. Di qui la sua affermazione di una superiorità dell’etica laica su quella religiosa. L’etica non è un’etichetta, scrive l’autore; gli obblighi morali “sono validi indipendentemente da ciò che qualcuno ci dice di fare”. Ora, questa è una vecchia questione che riguarda la capacità umana di autogoverno. Se si ha un’idea degli esseri umani quali creature intrinsecamente cattive, magari decadute da una condizione originaria di innocenza, allora è chiaro che servono degli occhiuti carabinieri, oltre che secolari anche religiosi, e che sono aperte le relative conseguenze, fino agli estremi delle guardie iraniane della rivoluzione e delle vessazioni talebane.

Ma se si pensa che l’etica sia un portato dell’evoluzione biologica e della cultura (anch’essa permessa dalla particolare evoluzione di un bipede chiamato uomo), allora basteranno i carabinieri secolari e un’educazione appropriata che abbia coltivato il principio di responsabilità. A meno che non entrino in ballo altre questioni, come il reclamare un principio di coesione e di identità di un popolo che, giocando sull’effetto amico-nemico, permetta un controllo sociale più facile da parte del potere.

Ma cosa c’entri tutto ciò con la religione, se non come strumento molto terreno e poco trascendente, è facile intuire. Qui, naturalmente, esplode di nuovo la discussione su ciò che sarebbe naturale e ciò che non lo sarebbe. Dove è chiaro che “coloro che presentano la propria morale come tesa ad affermare ciò che è naturale per l’uomo, in realtà definiscono natura o secondo natura attraverso decisioni preventive e funzionali a quanto vogliono impedire, condannare o concedere”. Ossia a una tavola di valori, magari maturati nel Medioevo, nella quale la naturalità è un concetto piuttosto elastico e adattabile a seconda di ciò che si vuole sostenere, come abbiamo visto commentando il libro di Richard Dawkins.

Per Lecaldano, poi, a proposito del problema del male, non è nemmeno necessario ricorrere a una concezione naturalistica del mondo per dichiararsi in disaccordo con l’idea di un disegno benefico e intelligente che lo guiderebbe. Basta un argomento dialettico, per cui “è proprio la realtà del mondo” a respingere una tale convinzione, a causa del male che ha sempre attraversato la storia umana. Un male le cui caratteristiche e i cui contenuti non sono stati sempre uguali nel tempo, un male che nessuna religione ha saputo arginare.

Se si affronta la questione della religione dal punto di vista etico-politico le cose peggiorano ulteriormente, perché “chi intende la moralità come una serie di comandi assoluti provenienti da Dio non può accettare che le leggi dello Stato facciano valere ciò che è errato o moralmente falso”. E, naturalmente, non si tratta di accuse gratuite; basti pensare a tutti i temi cosiddetti eticamente sensibili o alla recente e ignobile vicenda dell’istituzione del registro delle unioni di fatto, respinta in Campidoglio (al contrario di quanto è avvenuto in altre città) per l’opposizione della gerarchia cattolica che ha ordinato ai credenti di votare contro e che ha trovato la compiacente disponibilità di cosiddetti laici. Incredibili le contorsioni di ragionamento espresse della gran parte dei politici cattolici per giustificare la vicenda. Esse danno ragione all’osservazione di Lecaldano che “mentre credere che Dio non esiste non ha alcuna incidenza sul carattere morale di un individuo, credere il contrario e credere che è da lui soltanto che discendono e si legittimano i nostri valori e doveri morali potrebbe avere un’influenza non secondaria sul modo in cui psicologicamente l’individuo si rapporta ad altri”.

Qui il condizionale è però superfluo, visto che tutto ciò autorizza la pretesa della Chiesa cattolica “di imporre a tutti – per il loro bene – come devono morire, come devono mettere su famiglia e come devono curarsi”. In altre parole, è fatto divieto di rispettare le convinzioni altrui e l’autonoma responsabilità morale delle persone, la quale – in buona sostanza – significa invece che “solo quando l’individuo assume su di sé la responsabilità di ciò che ha fatto, avanzando le sue ragioni, testimonia il suo accesso alla sfera morale”. L’affermazione mi fa venire in mente un passo di Italo Calvino: “Dare ai nostri gesti, ai nostri pensieri, la continuità del prima di noi e del dopo di noi, è una cosa in cui credo”. Sembra questo il cuore di un’assunzione delle proprie responsabilità, di un’etica scomoda ma rigorosa che non cerca in un altrove la propria giustificazione, né si arrende di fronte all’enormità dei problemi esistenti.

L’etica non appartiene – insisto – alla religione perché, come hanno abbondantemente spiegato non solo i filosofi ma anche le scienze naturali, “nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri moralmente responsabili, questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza della sofferenza e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all’altrui sofferenza, da alleviare o da eliminare”.

Si tratta di un fenomeno, peraltro, non limitato ai soli esseri umani. Una qualche partecipazione al dolore dei loro consimili è stata dimostrata anche tra gli altri animali e, in particolare, tra i primati, a dimostrazione della naturalità primigenia di questa empatia alla base dell’etica. Ma, ovviamente, la Chiesa cattolica riconosce a scartamento ridotto la sofferenza altrui. Anzi, ne fa una base salvifica (vogliamo parlare di nuovo delle allucinanti dichiarazioni di Teresa di Calcutta e delle condizioni indegne in cui teneva i sofferenti, privati di qualsiasi terapia del dolore?). La cosa è anche molto meno esotica di malattie come la peste: basti pensare alla gelatinosa resistenza con cui una cultura genericamente cattolica impedisce che negli ospedali italiani si generalizzino le terapie del dolore. Per non parlare dell’accanimento terapeutico

Eppure, dovrebbe essere ormai chiaro che l’etica “è una pratica generalmente diffusa tra gli uomini, i quali ne beneficiano per compiere delle scelte in termini cooperativi, regolati e condivisi”. Insomma – insiste Lecaldano – dobbiamo convincerci che “la capacità degli esseri umani di farsi guidare da distinzioni tra bene e male, giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso è radicata nella loro natura biologica”.

Lo scandalo è che la Chiesa combatte la secolarizzazione della morale o il riconoscimento di questo dato di fatto perché intende conservarne il monopolio, a costo di ledere la libertà e l’autonomia individuali. Il che, ha di nuovo a che fare con il tema del rapporto tra cattolicesimo e democrazia. Cioè con il rifiuto ecclesiastico di accettare che “è la ragione […] ciò che ci permette di apprezzare la superiorità di un punto di vista che non esprima o tuteli l’interesse particolare nostro o di qualcuno ma costituisca piuttosto la regola, la norma e che tuteli l’interesse di tutti”. Ma ha anche a che fare con il diritto perché concordo con la giusta osservazione di Gustavo Zagrebelsky che “l’Europa in cui viviamo è storia della secolarizzazione del diritto”, per cui la minaccia presente è il ritorno a una giurisprudenza se non proprio esercitata in nome di Dio – come vorrebbero i fondamentalisti americani – almeno influenzata dalle convinzioni e dalle prescrizioni religiose, dove Dio e popolo, secondo certe tendenze che sono persino andate al potere in Italia, sono due facce della stessa concezione.

Ma tutto ciò riguarda anche i comportamenti antisociali e anarcoidi prevalenti tra gli italiani, visto che è la cultura cattolica quella che ha impregnato nei secoli l’ethos della popolazione. La doppia morale di molti cattolici non è una bella cosa se nasconde l’ipocrisia dei comportamenti; sta alla pari, dal punto di vista civico, con il fanatismo bigotto, anche se è perlomeno un segno di un’occultata aspirazione all’indipendenza di scelta, che non riesce però a diventare indipendenza di giudizio. Tuttavia la sua grande diffusione ha dei riflessi sociali pesantemente negativi sull’ethos nazionale italiano. Qui il discorso si farebbe troppo lungo, ma penso che sia chiaro cosa voglio dire.

La via che propone l’autore è quella naturalistica e di un ricostruzione storica del processo di sviluppo dell’etica umana, per cui “i diritti morali […] sono quelli che – sulla base del lungo processo di sviluppo storico che ci caratterizza in quanto specie umana - attribuiamo a tutti gli esseri umani”. Qui si innesta il tema dell’universalità dei diritti, oltre che dell’etica. L’incardinamento della ricostruzione nel processo storico, peraltro, permette di riconoscere “le diversità invocate dalla stessa esistenza delle persone che abitano la terra circa la nascita, la morte e la cura”. Ma permette anche un progressivo e costante ampliamente dei diritti e la loro almeno parziale estensione a altri esseri viventi, come gli animali, in modo da reinserire l’uomo nell’orizzonte naturale con molta maggiore efficacia dei tentativi su base metafisica compiuti, per esempio, da Hans Jonas.

Ma la condotta morale individuale va attentamente esaminata anche sotto un’altra luce. In primo luogo, le religioni ritengono che sia la sanzione giuridica (il braccio secolare, insomma, di cui continuano a servirsi, come dimostra di nuovo il caso di Roma citato poco sopra) “lo strumento più adeguato di controllo della nostra condotta”. E, nella loro versione laicizzante, l’accompagnano spesso con un richiamo forte alle identità, o alle radici o a qualsiasi altra cosa possa servire da ferreo contenente di obblighi imposti anche a chi non ne vuole sapere, come abbiamo visto parlando di Amartya Sen. Al contrario, “un’etica senza Dio non rivendica una comune appartenenza o una uniformità di condotta, ma proprio il valore positivo della diversità dei soggetti morali, che in quanto tali devono essere liberi e individualmente responsabili”.

La questione del relativismo, come sappiamo, tiene banco sia nella controffensiva cattolica, sia nella cultura politica conservatrice cosiddetta laica, o meglio, dei laici devoti. Ma nel campo dei laici coerenti e non codini si è cominciato da qualche tempo a rispondere con vigore e a contestare quella che sembra diventato un vero e proprio ritornello, privo di significato ma non meno insidioso nella formazione dell’opinione pubblica.

Giulio Giorello, per esempio, affronta bene la questione. (245) L’autore, come altri, è per un "relativismo relativo". Nel senso che teorie, norme, massime e pratiche etiche non vanno poste tutte sullo stesso piano. Tuttavia "là dove abbiamo buone ragioni per credere nella verità di una teoria o nella bontà di una norma - precisa Giorello - non possiamo escludere in linea di principio che si possano trovare argomenti per teorie e norme rivali". Naturalmente, il ragionamento dell'autore affronta anche temi molto discussi, come quello delle tecniche per la riproduzione umana, sostenendo che è molto più umano che ciascuno sostenga il peso della propria sofferenza ma anche quello di una libera scelta. Laddove l'alternativa sarebbe tra un intervento responsabile oppure un atteggiamento irresponsabile, inchinandosi al caso. Quel caso che i credenti ritengono che scaturisca invece da una volontà divina, riaprendo così il circuito infernale dell’origine del male.

Se poi si invoca quella che l'autore chiama la questione del fondamento, ossia qualcosa che è centrale nel pensiero religioso, "occorre riconoscere - svrive - come essa non trovi cittadinanza entro quella pratica che da qualche secolo chiamiamo scienza".

Rivendicando lo statuto del laico, Giorello ricorda come l'etimologia del termine significhi volgare, popolare, ma anche profano, ossia escluso dalla cerchia dei sacerdoti. Per inciso e al contrario delle definizioni fasulle circolanti nei media, l’opposto di laico non è il termine di credente o di religioso, ma quello di clericale. (246)

Tutto ciò comporta l’adozione immediata del principio di tolleranza scegliendo l'orizzonte di questo mondo come l'unico a cui concretamente guardare, perché è l'unico che condividiamo nei fatti. Principio di tolleranza che non può tuttavia essere assoluto, in quanto la società deve essere legittimata a intervenire su chiunque nuoccia agli altri, maggioranze o minoranze che siano. Ma non possono considerarsi comunque legittime azioni che tendano a imporre una modello sanitario o a modellare le mentalità o a frugare nelle coscienze o tra le lenzuola dei letti altrui..

La solidarietà necessaria per tenere insieme una società, comporta il riconoscimento che le cosiddette radici culturali siano plurime e che si riconosca che l'origine (di una identità, di un popolo e così via) è sempre particolare e contingente. Questa solidarietà si intreccia oggi a tre fili (natura, tecnica e società) senza che ciò significhi, per rimanere nel solco della tolleranza, l'adozione di un principio trascendente, ma senza nemmeno escluderlo. Questo principio trascendente deve arrestarsi, però, sulla soglia della coscienza e delle scelte altrui. Per dirla con il neurobiologo Jean-Pierre Changeux, "è certamente un'aberrazione pericolosa l'idea di una morale universale pensata da una comunità culturale particolare". E questo vale anche per tutte le religioni.

Il che, aggiungo, porta diritti a confermare il principio di libertà per tutti; purché si riconosca, per usare ancora un’affermazione dell’autore, che lo scontro attuale in corso non è tra fede e ragione, ma tra fallibilismo e infallibilismo. Il che, però non risolve di fatto la questione, visto che la Chiesa sostiene che non c’è contraddizione tra fede e ragione, ma non rinuncia all’infallibilità, sicché è proprio attraverso questo grimaldello che la fede vuole sovrastare e dirigere la ragione.

In un altro libro che Giulio Giorello ha scritto insieme all’oncologo Umberto Veronesi, si affrontano i problemi legati a un settore particolare dell’etica, la bioetica. (247) Dove il termine particolare non significa affatto periferico, perché è proprio sulle scienze della vita che si sta consumando lo scontro più aspro tra il futuro e la regressione culturale e politica.

Il termine di bioetica, è nato da una proposta del 1971 di "sostituire le consuete forme di morale con un'etica genuina, un'etica cioè che si basasse sulle leggi della biologia". Un'idea di ritorno alla natura, tanto impraticabile, quanto stravagante, visto che – come sostiene Giorello – "di fatto, non vi è nulla di più artificiale, di più culturale della definizione di naturale". E poi, quale etica? – si chiede Veronesi – visto che l'evoluzione procede per mutazioni che "di per sé, non sono né etiche né non etiche". Infatti, si sottolinea in seguito, si tratta di mutazioni piuttosto casuali, per cui – paradossalmente – si dovrebbe riporre maggior fiducia negli incidenti genetici che nella ragione. Insomma, non si capisce bene perché si deifica la natura. Piuttosto – secondo gli autori - in seguito la bioetica è divenuto il luogo, il mezzo per sovrapporre impropri lacci e limitazioni alla libertà di ricerca, muovendo spesso da pregiudizi e da una cattiva informazione propinata soprattutto dai media.

Accanimento terapeutico, eutanasia attiva e passiva, in breve il diritto di morire (ma anche la clonazione) sono al centro delle preoccupazioni e delle provocazioni dei due autori. Riallacciandosi alla citazione di Giorello di una famosa frase di Indro Montanelli ("non capisco come sia legittimo decidere della propria vita, ma non decidere della propria morte"), Veronesi ci ricorda che una volta "la giustificazione del dolore compensava la capacità di vincerlo". (248)

Ma ora, che senso ha? - pensando anche alla scarsissima attenzione della diffusa cultura sanitaria nazionale per le terapie del dolore. Per cui si assiste al curioso capovolgimento logico: quelle che sono culture della morte diventerebbero culture della vita e viceversa, grazie ad un insondabile piano salvifico amministrato con criteri imposti all'insieme della società. Anche a quella parte della società che nei piani salvifici non crede. La posta in gioco, insiste Giorello, è un principio di libertà, "la libertà dell'individuo di determinare da sé la propria esistenza". Il punto è molto semplice, in effetti. C'è chi parla di "un'assoluta indisponibilità della vita per singole persone" e c'è chi pensa che questo sia un sequestro della libertà individuale, un'invasione della coscienza altrui. Ottenuta, aggiungo, attraverso la concretezza e la cogenza di norme positive richieste al dominio temporale. "I possessori di valori assoluti – dichiara Giorello – si sentono offesi" dalla richiesta di libertà di pensiero, di qualsiasi schema concettuale, di esprimere le proprie idee e di uniformarvi le proprie decisioni, in modo da far vivere davvero la democrazia come è, ossia una democrazia di conflitto? "Continueremo a offenderli, questo è pacifico" – conclude.

Il senso di un’etica laica è stato esposto in modo piano e discorsivo da Fernando Savater sostenendo un abito mentale per cui “l’etica per un uomo libero non ha nulla a che vedere con punizioni e premi distribuiti dall’autorità, umana o divina che sia fa lo stesso”. (249)

Il filosofo invita a chiedere a se stessi come gestire la propria vita, perché “l’etica non è altro che il tentativo razionale di indagare su come vivere meglio”. “Quello che mi interessa – aggiunge - non è se c’è la vita dopo la morte, ma che ci sia prima. E che questa vita sia buona, non semplice sopravvivenza o continua paura di morire”. Perciò, insiste sul fatto che “colui che si limita a sfuggire alla punizione e cercare la ricompensa che gli altri gli offrono, in base a norme stabilite da costoro, non è che un povero schiavo”.

“Essere umano significa non riuscire a capire se stessi se si trascura e s'ignora il resto dei propri simili”- aggiunge l’autore. Il che ci porta proprio alla base dell’etica, la quale è fondata sul fatto – diffuso anche presso altre specie – che se non si trattano gli altri come vorremmo essere trattati noi e, cioè, in primo luogo, non come cose, non si creano le condizioni “perché anche loro mi diano quello che solo una persona può dare a un’altra persona”. Da questo punto di vista, la prova metaforica dello specchio è essenziale. Specchio in senso reale, di fronte al quale ci si possa guardare tranquillamente, e specchio metaforico come foro della coscienza. Il che, tutto sommato, riflette anche il significato profondo della scoperta dei neuroni specchio e delle capacità empatiche dell’uomo.

Tutto ciò non esclude, anzi pretende che “il primo dei diritti dell’uomo è quello di non essere la fotocopia del vicino, a essere più o meno strani”. In primo luogo affrontando in modo davvero laico la questione del sesso, sul quale le fobie religiose invece si sprecano. Perché, suggerisce Savater al giovane figlio, “quando la gente parla di morale, e soprattutto di immoralità, l’ottanta per cento delle volte – e stai sicuro che non sto esagerando – la predica ha a che fare in qualche modo con il sesso”. E bisogna stare ancora più in guardia se tali prediche vengono invocate in nome di qualche dettame naturale. “La verità – scrive Savater – è che sono proprio gli animali quelli che usano il sesso solo per procreare, così come usano il cibo solo per nutrirsi e l’esercizio fisico solo per mantenersi in salute; noi esseri umani, invece, abbiamo inventato l’erotismo, la gastronomia e lo sport”.

Ma - e qui è d’obbligo correggere l’autore - per la verità esistono altre specie in cui il sesso non è destinato alla sola procreazione, come nel noto caso degli scimpanzé bonobo, che lo usano per rafforzare i legami sociali e per regolare questioni di potere; per non parlare delle decine di casi di comportamenti omosessuali in altre specie animali, leoni compresi: il simbolo della mascolinità combattente. Purtroppo, nella specie umana allignano anche i puritani, i quali credono che “quando uno vive bene non deve spassarsela e che quando uno se la passa male vuol dire che vive bene”. Dopodiché, è ovvio che persone di tal fatta spendano il proprio tempo a controllare i comportamenti del prossimo, considerandosi i più morali del mondo.

A me piace in modo particolare un suggerimento che Savater dà al figlio, per cui “l’etica ha la funzione di garantire che vale la pena vivere, che persino con tutte le pene che la vita comporta, vale la pena”. Ma perché ciò sia possibile, ha sostenuto altrove l’autore in un suo intervento, è necessaria la tolleranza, che è precisamente “la disposizione civica a vivere in armonia con persone che hanno idee e costumi differenti”. Ma non si tratta di indifferenza. Una società pluralista ha dei limiti, non tutto può essere tollerato. Intanto, ripeto, non si possono tollerare gli intolleranti e poi esiste una differenza fondamentale tra il tollerare le persone e il non condividerne le idee, per cui le si critica. La tolleranza non è affatto debolezza o timidezza di fronte alle idee altrui. Anche se un tartufesco costume oggi invalso scambia volentieri la critica con l’intolleranza, per cui il vero intollerante cerca di passare per vittima non appena si criticano le sue convinzioni.

Occorre poi ricordare sempre che è il genere umano il destinatario della nostra etica, della nostra tolleranza e, di conseguenza, dei diritti umani. Genere umano in senso generale, ma anche genere umano come persone in carne e ossa. In fondo,” non ha molto senso amare l’Umanità in astratto” – dice Savater; anzi, i fanatici della morale eterodiretta (cioè dettata da una religione o, comunque, da un’autorità esterna) spesso amano proprio l’Umanità astratta e, in nome di essa, sono capaci di compiere dai più orrendi misfatti alla concreta negazione del diritto degli altri a vivere secondo le proprie scelte e inclinazioni personali. “Dopo tutto – osserva Savater - nessuno di noi incontrerà mai la signora Umanità né sarà costretto a cederle il posto in autobus; ma ciò che è veramente difficile è rispettare gli altri esseri umani reali e ancor di più se sono strani, se vengono da lontano, se parlano un'altra lingua e hanno altre credenze, come ormai accade in molte nostre città.

Rispettare il prossimo che ci somiglia è abbastanza ovvio, perché in certo modo equivale a rispettare noi stessi, visto che siamo come lui: la difficoltà inizia quando dobbiamo accettare il diverso, l'estraneo, lo straniero, l'immigrante”. Ma questa difficoltà esiste anche quando dobbiamo accettare che gli altri si comportino, in materia di scelte personali, in modo diverso da quelli che riteniamo la nostra visione della vita o, più pomposamente, gli architravi della civiltà.

“Ma, come vivere nel miglior modo possibile?”. Questa domanda, conclude l’autore, “è molto più sostanziosa di altre apparentemente tremende”, come la questione se dopo la morte c’è vita o se vale la pensa di vivere oppure se la vita ha un senso. “…La vita ha un senso, un senso unico; va avanti, non c’è la moviola, le giocate non si ripetono e non si possono correggere. Per questo bisogna riflettere su quello che uno vuole e pensare a quello che si fa”.


233) JRS, 7, 2005.
234) “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
235) Libro di Giosuè, 6,16-24.
236) Vedi l’articolo di A. De Marco, Tra egoismo ed altruismo, in steppa.net.
237) Secondo una più recente ricerca, basata su 35.000 interviste dai diciottenni in su, gli atei e gli agnostici americani sono il 16% e, tra i giovani, è il gruppo cresciuto di più negli ultimi anni. Tra gli americani compresi nella fascia di età di 18-29 anni, il 25% dichiara di non essere collegato a nessuna particolare religione, mentre il 71% dei non credenti sono sotto i 50 anni. L’adesione a una religione risulta molto mobile e il cattolicesimo è la confessione che ha registrato i maggiori abbandoni, solo in parte compensati dall’immigrazione latino-americana.[religions.pewforum.org/reports]
238) Osserva Mario Alighiero Manacorda in Lettura laica della Bibbia, Roma Editori Riuniti, 1989 che: “La religione non ha mutato in niente i costumi dell'uomo: li ha resi, semmai, più contraddittori con le idealità proclamate, aggiungendovi così la sua ipocrisia: «accumulando duol con duolo», per dirla con Dante. In questo senso è stata davvero, ed è tuttora, il male del mondo. Lo è soprattutto quando propagandosi oggi nel mondo non in forza propria ma in forza della civiltà evoluta di cui è parte, induce i «meno evoluti» a credere che in essa e solo in essa risieda una più alta morale, per seguire la quale si debbano anche prendere come oro colato le parole dei suoi antichi miti: è questo il caso delle odierne «evangelizzazioni». Come sarebbe bello se invece potessimo considerare serenamente i suoi dogmi e le sue prescrizioni come tappe della nostra difficile evoluzione! e se, per fondare una più alta morale, imparassimo a guardare all'uomo, anziché a un ipotetico dio!”.
239) R. Bodei, L’etica dei laici, in Le ragioni dei laici, Roma-Bari, Laterza, 2005.
240) Su questo tema c’è anche un altro libro di G. E. Rusconi, Non abusare di Dio. Per un’etica laica, Milano, Rizzoli, 2007, molto chiaro e argomentato, che tocca anche i temi attuali del confronto bioetico e dei diritti civili.
241) Op.cit.
242) Pierre Bayle (1647-1706), ugonotto francese e perseguitato, scrittore e polemista, in particolare nei Pensées Diverses sur la Comète, crea la figura dell'ateo virtuoso. Una persona che conduce una vita morale indipendente dai principi religiosi, “per cui chiunque può vivere in modo onesto e virtuoso semplicemente seguendo ragione e buon senso, a prescindere dall'ammettere o meno l'esistenza di un Dio vendicatore e remuneratore”.
243) E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Roma-Bari, Laterza, 2006.
244) Il testo è nel sito del Vaticano.
245) G. Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Milano, Cortina, 2005.
246) Mario Alighiero Manacorda osserva in Laicità: “... dobbiamo ammettere che qualsiasi scelta di pensiero è lecita, e che in nessun caso l'uomo può arrogarsi il diritto di imporre all'altro uomo, con la forza del potere, il proprio pensiero: questo sarebbe il contrario di laicità (laós), cioè clericalismo (kleros)”; poi continua: “se la laicità non può essere antireligiosa, deve però essere anticlericale. E come potrebbe non esserlo, in un paese in cui, malgrado le affermazioni (maldestre) di laicità dello Stato, c'è un clero che gode di privilegi concordatari e di favori che vanno ben al di là dello stesso concordato?” [www.fisicamente.net]
247) G. Giorello, U. Veronesi, La libertà della vita, Milano, Cortina, 2006.
248) In un altro testo di U. Veronesi e M. De Tilla, Nessuno deve scegliere per noi. La proposta del testamento biologico, Milano, Sperilg&Kupfer, 2007, si osserva: “In realtà noi pensiamo che nessuno debba decidere per noi. Ognuno ha il diritto di autodeterminarsi e di esprimere cosa vuol fare della propria esistenza nel caso di trovasse in condizioni che lo privano della sua identità e dignità. Ognuno dovrebbe essere libero di scegliere, anche se la sua scelta sarà di non esercitare il diritto in alcun modo”.
249) F. Savater, Etica per un figlio, Roma-Bari, Laterza, 2007.


Web Homolaicus

Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 06/09/2013