IL TEMPO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE

IL TEMPO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE
LA RIDUZIONE DEL TEMPO A OGGETTO DI BANALITA’


RIFLESSIONI FINALI

A questo punto, con la filosofia esistenzialistica di Martin Heidegger, potrebbe esaurirsi il compito, sicuramente umile e modesto, della presente ricerca sul tema, assai vasto e complesso, del ”tempo”, in particolare come problema al centro della speculazione teoretico-metafisica e dell’indagine scientifica, nel corso più generale ed ampio della storia del pensiero occidentale (quantunque sia stata rappresentata e ricostruita in estrema sintesi).

Ebbene, dopo questa necessaria, utile e preziosa disamina storico-filosofica circa il senso e la nozione del “tempo” nella varietà e molteplicità delle sue interpretazioni (che contengono ed esprimono accezioni e sfumature assai differenti, sovente divergenti ed antitetiche, talvolta convergenti ed affini, sotto il profilo meramente concettuale), ogni altra considerazione potrebbe risultare sciocca e superflua.

Al contrario, mi pare che proprio tenendo conto di quelle impareggiabili costruzioni del pensiero e dello spirito umano, che hanno avuto per oggetto il problema del “tempo” (ma non solo), proprio in virtù dei risultati conseguiti da quelle indagini di stampo scientifico e/o filosofico, ad opera di alcuni tra i maggiori ingegni del genere umano (sono stati citati, infatti, Galilei, Newton, Kant, Einstein, Hegel, Bergson, Husserl, Heidegger...), non sarebbe per nulla scontato, né banale, pensare al “tempo” come al principio essenziale che riesce a conferire senso e valore alla nostra esistenza, individuale e collettiva, storica, sociale, di soggettività e di singole persone, ma altresì di specie o di genere umano.

Il “tempo” è stato e può essere concepito in quanto “durata”, “successione”, in maniera “lineare” o “circolare”, come “finito” o “infinito”, “assoluto” oppure “relativo”, “oggettivo” e “soggettivo”, “unico” o “molteplice”, e via discorrendo, ma una cosa è certa: senza il “tempo” non esisterebbe nulla.

Difatti, se non ci fosse ciò che definiamo “tempo” o, per meglio dire, se noi non tenessimo più conto del flusso del tempo, dell’esperienza vissuta, dei giorni e delle notti, dei cicli stagionali, degli anni, della nascita e del tramonto solari, dell’età che avanza inesorabilmente, della vita e della morte, insomma se noi vivessimo a prescindere dal “tempo”, se noi fossimo ad esempio immortali, molto probabilmente non sapremmo che fare, ci annoieremmo “a morte”, non potremmo e non sapremmo affatto apprezzare i veri ed essenziali valori della vita e del mondo, dunque saremmo persi, condannati ad un cieco destino senza fine.

Immaginiamo, per un momento, che la Terra fosse circondata da una sorta di immenso “guscio” astronomico che oscurasse il Sole, impedendo così la nostra percezione o coscienza, del “divenire” e dello scorrere del ”tempo”, che fine faremmo?

Oppure, cosa accadrebbe se, per ipotesi, noi abolissimo tutti gli orologi, i pendoli, le clessidre, i calendari, ed ogni criterio o strumento di misurazione temporale (per quanto relativa, finita, storica e terrestre, possa essere, secondo la teoria einsteniana della “relatività” del “tempo oggettivo”, scientificamente e matematicamente misurabile)?

Probabilmente, non ci sarebbe stato e non sarebbe affatto possibile alcun “progresso”, e noi non avremmo mai potuto realizzare tutto quanto l’umanità ha saputo compiere : l’invenzione della scrittura; la scoperta del fuoco e dell’agricoltura; la lavorazione dei metalli; la costruzione delle piramidi in Egitto, del Partenone, del Colosseo, dei grattacieli; l’invenzione dell’energia elettrica e dei calcolatori elettronici; la scoperta della matematica; la produzione di inestimabili capolavori artistici e letterari, nel campo della pittura, della scultura, della poesia, della musica, del romanzo, del teatro, del cinema (e perché no, anche del fumetto) e via discorrendo; l’invenzione della ruota, del motore a scoppio, dei sottomarini, degli aerei supersonici, delle astronavi spaziali, dei satelliti artificiali; l’invenzione del telegrafo, del telefono, della radio, della televisione, del fax, della trasmissione via Internet; l’invenzione dell’aria condizionata, di tutti quegli elettrodomestici che hanno alleviato e reso più comodo l’impegno quotidiano delle massaie e delle casalinghe (svolto sempre più, per fortuna, anche dagli uomini); la scoperta dell’America, l’esplorazione degli oceani e degli spazi interstellari ; la scoperta della penicillina e degli antibiotici, l’invenzione dei vaccini immunizzanti e tutti i grandi, preziosi sviluppi avvenuti nel campo medico-sanitario, legati non solo alla medicina tradizionale, a quella farmacologica propria della scuola occidentale, ma anche ad altre forme di medicina, di matrice orientale, in particolare a quella araba, a quella cinese, a quella indiana; è così via, l’elenco dei “progressi” e della “conquiste” compiute dall’umanità nel corso del tempo (che meriterebbero una menzione), non avrebbe termine...

In altre parole, non esisterebbe alcuna traccia di civiltà, di cultura, di intelligenza dell’uomo, e non vi sarebbe alcun segno della nostra stessa presenza sulla Terra.

Perciò, grazie di esistere al “tempo”, a ciò che, convenzionalmente, definiamo tale, alla vita e alla morte, nella misura in cui senza la morte, ovvero senza il “tempo”, non potrebbe esserci nemmeno la vita, e noi non sapremmo come e quanto apprezzare, riconoscere e consolidare i valori, i beni, le ricchezze, le bellezze, i piaceri e le gioie che l’esistenza medesima è in grado di offrirci, proprio in ragione del fatto che possiamo e sappiamo riconoscere e disprezzare (e, paradossalmente, apprezzare) il male, la violenza, l’orrore, l’ingiustizia, le bruttezze, la malvagità, la prepotenza, i dispiaceri, il dolore, la morte...

Da quanto esposto finora può discendere un’estrema (ma non conclusiva) valutazione.

Banalmente, ciò che davvero conta, non è tanto la durata, ossia la quantità del nostro tempo vissuto, bensì la sua qualità.

A riguardo, mi sovviene un altro, diffusissimo luogo comune, il quale si può così tradurre: ”Ho cinquanta anni, ma me ne sento venti”. In verità, potrebbe persino essere l’esatto contrario: ”Ho venti anni, ma ne sento cinquanta”.

Forse, la soluzione del dilemma risiede (banalmente?) nel mezzo, ossia nella giusta misura, nel senso che le risposte ad ogni domanda dell’esistenza, richiedono una sintesi tra due opposti estremi, per sanarne le contraddizioni, anche per ricomporre le più irriducibili e radicali fra le antitesi.

Questo ragionamento (di matrice hegeliana) ha sicuramente un senso, quantomeno per il quesito prima formulato. Voglio dire che, indubbiamente (e fortunatamente) l’età anagrafica esiste, nella misura in cui il tempo scorre ed avanza in modo implacabile e ineluttabile.

Ma è altrettanto vero ed innegabile che non sempre l’età mentale e soggettiva (cioè il tempo interiore, spirituale, qualitativo) corrisponde all’età anagrafica, vale a dire al tempo cronologico, esteriore, oggettivo, assoluto, matematicamente misurabile e quantificabile.

Ed è altresì vero e inoppugnabile che tutto ciò che ha a che fare col “tempo”, è assolutamente storico, relativo, personale, quindi effimero, fugace, transitorio e mutevole, nel senso che io potrei avere (anagraficamente parlando) trent’anni e sentirmene, in un dato momento o in un altro contesto, appena diciotto, mentre in un’altra situazione o in un altro frangente addirittura settanta!...

Tutto è assolutamente relativo e storicizzabile, soprattutto il “tempo”. Ciò che appare oggettivo e reale, può diventare soggettivo, grazie al “tempo”, ed è sempre il “tempo” che rende finito e mortale ciò che appare o crediamo infinito ed immortale, e viceversa.

Dunque, il “tempo” costituisce la misura del valore che ha la nostra esistenza, che è unica e sola, fino a prova contraria (nel senso che possiamo vivere una volta sola), a meno che non sia vera la dottrina della “metempsicosi”.

Tuttavia, il “tempo”, quantunque possa apparire un problema oltremodo astratto e cerebrale, quasi incomprensibile per certi versi (pensiamo, ad esempio, all’analisi heideggeriana), non può assolutamente essere banalizzato, perché rischieremmo di banalizzare la nostra stessa esistenza, il che vuol dire rischiare di vivere inconsciamente, ciecamente, vanamente, ossia banalmente!

UN’UTOPIA POSSIBILE E NECESSARIA

Sovente penso a un paradosso di portata storica globale che pure mi riguarda personalmente, ma che investe direttamente ciascun essere umano.

Mi riferisco a un’oggettiva contraddizione tra il crescente progresso tecnico-scientifico compiuto soprattutto negli ultimi decenni, che permetterebbe all’intero genere umano di vivere molto meglio, e la realtà planetaria che evidenzia un sensibile peggioramento delle condizioni economiche, materiali e sociali, soprattutto dei produttori e dei lavoratori salariati (anzi sotto-salariati) che vivono anche nel mondo occidentale cosiddetto “avanzato”.

Ebbene, grazie alle più recenti conquiste dello sviluppo tecnico e scientifico, la grandiosa, nobile, quanto antica “utopia” dell’emancipazione dell’umanità (tutta l’umanità) dal bisogno di lavorare e, quindi, dallo sfruttamento materiale, è teoricamente (ossia virtualmente) realizzabile, oggi più che nel passato, nel senso che sarebbe oggettivamente possibile, oltre che necessaria, ma nel contempo è impraticabile, almeno nel quadro dei rapporti giuridici ed economici esistenti, che si basano sulle leggi e sulle tendenze classiste insite nel sistema capitalistico-borghese, che non a caso attraversa un periodo di grave crisi strutturale.

Pertanto, l’idea dell’affrancamento definitivo e totale dell’umanità dallo sfruttamento e dall’alienazione che si compiono durante il tempo di lavoro, appare molto prossima alla sua attuazione. Pur tuttavia, ciò non potrebbe compiersi senza una violenta rottura rivoluzionaria rispetto al predominio capitalistico-borghese vigente su scala planetaria.

Come gli antichi greci si occupavano liberamente, e amabilmente, di politica, di filosofia, di poesia e delle belle arti, e godevano di tutti i piaceri offerti dalla vita, in quanto erano esonerati dal lavoro materiale svolto dagli schiavi, così gli uomini e le donne di oggi potrebbero dedicarsi alle piacevoli attività del corpo e dello spirito, affrancandosi finalmente dal tempo di lavoro affidato esclusivamente ai robot e condotto grazie a crescenti processi di automazione e informatizzazione della produzione di beni materiali.

Questo traguardo storico rivoluzionario è oggi raggiungibile, almeno in teoria, proprio in virtù delle enormi potenzialità “emancipatrici” ed “eversive” offerte dallo sviluppo della scienza e della tecnica soprattutto nel campo della robotica, della cibernetica e dell’informatica.


Web Homolaicus

Testo di Lucio Garofalo


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 31/12/2009