CULTURA E FILOSOFIA DELLA VIOLENZA

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CULTURA E FILOSOFIA DELLA VIOLENZA (*)

I - II

Antonio Chiocchi - www.cooperweb.it

Il bene e il male si fronteggiano

1. Il volto del nemico - 2. Apocalittica e messianismo - 3. L'autopunizione - 4. Libertà e schiavitù

1. Il volto del nemico

I codici della violenza (e, in particolare, della violenza politica) trovano nelle culture e nel culto del dualismo alcuni loro archetipi. Il codice dualistico disegna un incrocio complesso con la presa di coscienza del problema del bene e del male nel mondo [1]. Non può non ammantarsi, conseguentemente, di un'aura che è, insieme, mitico-religiosa ed etico-simbolica. Il problema della violenza finisce invariabilmente col designare la presenza del male e l'eterno conflitto tra bene e male. In tale trama, la lotta del male contro il bene e del bene contro il male mette capo a due codificazioni originarie e speculari della violenza. Ognuna delle due trova la sua ragion d'essere e il suo motivo di legittimazione rilevante nel soggiogamento o, almeno, nella vulnerazione dell'altra. Tali codificazioni hanno la funzione precisa di visibilizzare il nemico, assumendolo come male; così giustificando e legittimando la propria esistenza come esistenza virtuosa del bene.

Questo luogo cultuale e culturale primordiale, che tanto ha caratterizzato e caratterizza la civiltà materiale e simbolica dell'Occidente, ha un luogo d'origine "misto", nel senso che non è strettamente occidentale. La storiografia filosofica è solita far risalire la prima formulazione della concezione dualistica a Zoroastro, operante in Persia intorno al VII sec. a. C. L'architrave della concezione dualistica e/o "concezione iranica" sta nel convincimento assiomatico che la realtà sia il teatro cosmico di una lotta titanica fra il principio del bene e il principio del male. Non casualmente, il principio del bene è simboleggiato come Dio/luce (Ormuzd); mentre il principio del male, come anti-Dio/tenebre (Ahriman).

Due secoli dopo, nel V s. a. C., reperiamo questa concezione nel pensiero greco e, precisamente, in Empedocle di Agrigento [2]. In Empedocle, il principio del bene lo rinveniamo materializzato nell'unificazione della forza dell'amore;il principio del male, nella divisione della forza della discordia. Il destino del mondo e delle crea-ture viventi qui sta tutto nel movimento di attrazione-repulsione che si sprigiona tra queste due forze. Nel momento primo predomina la forza unificatrice dell'Amore; ma nella realtà effettuale Odio e Amore coabitano e confliggono, essendo essa unità e lotta. Con il predominio dell'odio, si rompe l'unità: le radici dell'esistenza e del tempo si scindono violentemente tra di loro. L'Amore è unità cosmica del mondo della vita e degli oggetti; l'Odio, invece, divisione cosmica del mondo della vita e degli oggetti. La contesa permanente tra queste due forze arcane e inesauribili non lascia mai vacanti lo spazio del tempo e il tempo della vita: “le due forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai l'infinito tempo di questa coppia sarà vuoto” (Fr. 16). Ai mortali, allora, non è mai dato raggiungere il momento perfetto ed eterno dell'unità cosmica assoluta, in quanto sempre è in agguato o presente l'Odio; nemmeno è loro dato perdersi nella divisione cosmica e assoluta, poiché sempre operante è l'Amore. Gli esseri umani non sono altro che una particella nell'oscillazione permanente della contesa tra Amore e Odio; la vita stessa è una particella, una zona intermedia di questa contesa.

Ma, come avverte Subilia, la linea più conseguente dello sviluppo della concezione dualistica sta nella progressione zoroastriano-gnostico-marcionita, filtrata dalla speculazione platonica [3]. Riassumendo sinteticamente, per Platone (LA REPUBBLICA e i DIALOGHI), il processo di costituzione della realtà è la risultante della combinazione dualistica dell'azione dell'intelligenza razionale con l'irrazionalità della necessità: tutto ciò che è buono e bello è frutto dell'intelligenza razionale; ciò che si discosta dal buono e dal bello è ingenerato dall'oscura irrazionalità della necessità. Due anime governano, quindi, la vita e il mondo: l'una che procede con intelligenza ed è il principio del bene; l'altra che procede irrazionalmente ed è il principio del male (Le Leggi). Qui trova modo di innestarsi, intorno al II s. d. C., il postulato gnostico secondo cui da Dio può conseguire soltanto il bene: il dualismo non è più circoscritto, come ancora in Platone, all'opposizione tra intelligenza e necessità; è Dio che diviene principio del bene e allontana da sé definitivamente e irriconciliabilmente il male, che ora può alloggiare solo e tutto fuori di lui.

Ma, come ricorda P. Ricoeur: “...ben prima della gnosi, lo Jahvista — o la sua scuola — aveva dovuto combattere contro le rappresentazioni babilonesi del male, che ne facevano una potenza contemporanea all'origine delle cose, combattuta e vinta da Dio prima della fondazione del mondo e per fondare il mondo” [4]. Al di là della questione delle origini babilonesi, dall'alterità assoluta tra Dio e male la gnosi deriva il dualismo tra anima e corpo e tra spirito e materia: l'anima e lo spirito divengono principio del bene e il corpo e la materia principio del male (dun-que: principio del mondo). La questione e la prospettiva della redenzione ritrovano qui il loro radicamento: la possibilità della speranza si risolve nella necessità del riscatto, nella redenzione dal male ad opera del bene, nel ritorno a Dio, allo spirito e all'anima. La radicale rescissione gnostica tra bene e male è, in realtà, radicale allontanamento della presenza di Dio dal problema del male.

Con Marcione, teologo greco che si trasferisce a Roma intorno al 140 d. C., invece, il dualismo penetra nella figura medesima di Dio. Due sono, per Marcione, le forme in cui si invera Dio: il Dio superiore buono che dimora nella sommità dei cieli; il Dio inferiore giusto che contempla la figura terribile, onnipotente e spietata del Demiurgo dell'Antico Testamento. In quanto suo creatore, il Demiurgo è responsabile del male del mondo (e del mondo del male): in primo luogo, della violenza, delle guerre, dell'ingiustizia e della malvagità che esistono tra gli esseri umani.

Il Dio cosmocratico è Dio inferiore, proprio perché la sua volontà di creazione esprime inestricabilmente una volontà di violenza e di dominio. La cosmogonia diviene cosmologia regolata dalla volontà del Dio buono e si differenzia qualitativamente dalla cosmologia del Dio giusto, la quale rimanda a una cosmogonia perversa e malata: più esattamente, quest'ultima è una cosmocrazia.

Il Dio giusto, in quanto Demiurgo, è cosmocrate. In questo caso, il dualismo dà luogo, ad un polo del contrasto irreconciliabile, ad una concezione demiurgica e cosmocratica. In Marcione, il cosmo è duale, perché la divinità è duale; col che la concezione cristiana del mondo e di Dio è profondamente scossa. È Tertulliano (155-220), nel quadro generale della sua polemica antifilosofica, a confutare vibratamente l'eresia marcionita, identificando come sua origine lo stoicismo (CONTRO MARCIONE); confutazione a cui, paradossalmente, non sono estranei motivi stoici [5].

Ma l'estrema e più famosa espressione del dualismo è quella fornita dal principe persiano Mani, operante nel III secolo [6]. Come è noto, lo stesso S. Agostino abbraccia in gioventù il manicheismo, di cui ci offre un fedele ritratto (SULLE ERESIE). Secondo la dottrina manichea, osserva Agostino, l'universo è regolato dall'“esistenza di due princípi tra loro diversi e avversi e, nel tempo stesso, eterni e coeterni”. L'esistenza di questi due princípi si accompagna con la sussistenza di “due nature e sostanze, del bene e del male”, le quali sono “in lotta e commiste tra di loro”. Per i manichei, continua Agostino, “il Bene è la luce, sole e luna sono i vascelli che riconducono a Dio la luce sparsa in tutto il mondo e mescolata al principio opposto ... due anime e due intelligenze, l'una buona, l'altra cattiva, lottano tra di loro nell'uomo, essere unico, quando la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito desideri contrari alla carne”. Nella dottrina manichea, il principio del bene e il principio del male si scindono in due polarità di segno e senso contrario: Dio e l'Anti-Dio o il Demoniaco. In quanto riconducente a/e scaturente da Dio, il principio del bene è principio della Luce; in quanto riconducente al/e scaturente dal Demone, il principio del male è principio delle Tenebre. Nell'uomo, la lotta tra il principio del bene e il principio del male deve virtuosamente risolversi nella rescissione del Divino dal Demoniaco. L'Io dei mortali deve conformarsi all'Io divino, in contrapposizione all'Io demoniaco. Come si vede, nei manichei, il principio del bene non è semplicemente un principio etico; è anche o soprattutto un principio ontologico-cosmico. La soluzione del problema del male è qui la soluzione ontologica (i) dell'origine e della durata del cosmo e (ii) dell'autofondazione cosmica della virtù infinita e indefettibile di Dio. Per questi motivi, la concezione dualistica, soprattutto nella versione manichea, non ha bisogno di una teodicea e nemmeno di una teologia, le quali (anzi) saranno strumento di confutazione del manicheismo nelle mani dei Padri e dei loro più fedeli successori.

2. Apocalittica e messianismo

Espressioni tutte particolari e, per alcuni versi originali, della concezione dualistica sono la tradizione apocalittica ebraica e cristiana e le più o meno collegate manifestazioni di messianismo [7].

La tradizione apocalittica è strettamente interconnessa al profetismo ebraico che, a sua volta, è intimamente collegato alla concezione di Jahveh quale unico, vero e onnipotente Dio. Il tema della salvezza dipende strettamente dal riscatto e dalla conversione di tutti gli esseri umani operati dal popolo eletto di Israele. Il dolore, la sofferenza, la schiavitù e il dominio del male vengono recuperati in quest'orizzonte salvifico-finalistico. Il tema della "terra promessa" si intreccia saldamente con il tema del "nuovo Eden"; e la conquista del Paradiso perduto deve necessariamente far seguito all'Apocalisse. Il punto di transito della salvezza diviene, così, l'Apocalisse; anzi, il cammino della salvezza prende corpo esattamente come contraltare dell'Apocalisse.

La visione profetica della luce della salvezza non solo anticipa la parabola tenebrosa della fine, ma la recupera a una funzione escatologica, quale punto di condensazione e attivazione dell'insorgenza trionfale delle forze del bene. L'escatologia profetica è un codice di regolazione delle movenze del bene e, ancora di più, del libero e totale dominio del Regno del bene di contro alla malvagità demoniaca delle forze del male. Il culmine della storia si insedia precisamente nel punto in cui il male assoluto, assolutamente trionfante, sarà sconfitto definitivamente dal bene assoluto, assolutamente trionfante.

Pervenuta a questo culmine, la storia si compie. Nell'escatologia profetica, il trionfo del Regno del bene viene a coincidere con la fine della storia. Il bene assoluto non può avere successori o eredi: il suo assoluto presente coincide con il suo assoluto futuro. Questo paradosso — meglio: questa paradossale cancellazione del tempo — costituisce una costante puntualmente riprodotta, nelle sue cangianti espressioni, dall'escatologia rivoluzionaria, sia in epoca moderna che in quella contemporanea. La posizione di Walter Benjamin, nel XX secolo, costituisce una delle coniugazioni filosofico-politiche più dense di escatologia messianica, in cui il tema stesso del comunismo è avviluppato in una tragica felicità che non si corona, mancando il redentore salvifico di passare attraverso la "porta stretta" della storia [8].

Nella prima apocalisse a noi pervenuta (il "sogno" del Libro di Daniele, scritto verso il 165 a. C.), il tema escatologico è indissolubilmente connesso a quello del messia. In essa, la figura del messia si tinge di attributi divini, secondo una linea di ascendenza/discendenza diretta da Dio. Daniele non esita a nominarlo “figlio dell'uomo” disceso con “le nuvole del cielo”. Approfondendosi le condizioni di cattività del popolo di Israele, il messia va sempre più assumendo condizioni di super-uomo, supremamente potente e grande guerriero: questo il caso delle profezie di Baruch ed Ezra, formulate nel I secolo d. C. [9]. Aumentando le condizioni di indigenza storico-esistenziale, il codice escatologico si trova, in una certa misura, costretto a dare sembianze sovraumane, piuttosto che divine, al messia: allontanandosi la terra dal cielo, non resta altro da fare che avvicinare il cielo alla terra, per mantenere ancora aperta la prospettiva della salvezza.

Il peso della profetica e dell'apocalittica ebraiche nel cristianesimo delle origini è rilevante e possiamo rinvenirlo già nei Vangeli. Cristo stesso ricorre al codice profetico: “In verità io vi dico che alcuni di coloro che son qui presenti non gusteranno la morte finché non abbian visto il Figlio dell'uomo venire nel suo regno” (Matteo, 16, 27-28). La figura del messia, ancora più precisamente che nella tradizione ebraica, nel paleocristianesimo, diviene il punto storico discriminante tra l'era della miseria (e/o del peccato e della malvagità) e l'era dell'abbondanza (e/o del bene e dell'innocenza). L'avvento del bene e della giustizia è solo e solamente avvento del messia: soltanto il regno del messia può essere il regno del bene.

L'anno Mille diviene il punto/tempo dell'avvento del messia: l'apocalisse viene recuperata dalla resurrezione generale dei morti e la Nuova Gerusalemme cala dal Dio dei cieli giù sulla terra. Vediamo come plasticamente nell'apocalisse del "Libro della Rivelazione" è espresso questo messianismo escatologico: “E poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non era più. E io, Giovanni, vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scender giù da vicino a Dio dal Cielo, preparata come una sposa adorna per lo sposo. E udii una gran voce dal cielo che diceva: Ecco, il tabernacolo di Dio con gli uomini, e abiterò con loro, ed essi saranno il suo popolo, e Dio stesso sarà con loro, e sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi; e la morte non sarà più, non ci sarà più dolore, non pianto, né pena; perché le cose di prima sono passate. E colui che sedeva sul trono disse: Ecco, io faccio ogni cosa nuova” (13.1, 7-8).

Uno dei dati più interessanti è che il messianismo escatologico cristiano, già nel basso medioevo, dà luogo a dei veri e propri movimenti di massa, di cui il più importante è il montanismo, dalla predicazione di Montano che nel 156 d. C., in Frigia, si dichiara l'incarnazione dello Spirito Santo. Come osserva N. Cohn: “Il tema delle loro [dei montanisti] illuminazioni era l'imminente avvento del Regno: la Nuova Gerusalemme stava per scendere dai cieli sul suolo frigio, dove sarebbe diventata dimora dei santi ... Fu un movimento ferocemente ascetico, assetato di sofferenza e persino di martirio: non erano, soprattutto, i martiri risorti nella carne che dovevano diventare cittadini del Millennio?” [10]. Sotto l'incalzare delle persecuzioni, il montanismo si diffonde in tutto l'impero romano e ad esso aderisce anche Tertulliano, l'insigne teologo che abbiamo visto in prima fila nella confutazione dell'eresia marcionita.

Ma probabilmente l'integrazione più organica della tradizione messianico-profetica nel corpus dottrinario del cristianesimo si deve ad Ireneo, allorché, sul finire del II secolo, dall'Asia Minore si trasferisce in Gallia, divenendo vescovo di Lione: “I capitoli conclusivi del suo massiccio trattato Contro le eresie formano un'antologia comprensiva di profezie messianiche e millenaristiche raccolte dal vecchio e dal Nuovo Testamento ... Secondo Ireneo è parte indispensabile dell'ortodossia credere che tali cose avverranno veramente su questa terra, a beneficio dei giusti morti, che risorgeranno, e dei giusti viventi” [11]. In questa sua opera, Ireneo sostiene: “Perché è giusto che in quella stessa creazione in cui tribolarono e furono afflitti e furono provati in ogni maniera dalla sofferenza, essi ricevano il compenso della loro sofferenza; e che nella stessa creazione in cui furono uccisi per amore di Dio essi siano fatti rivivere; e che nella stessa creazione in cui subirono la servitù essi regnino. Perché Dio è ricco in tutte le cose, e tutte le cose sono sue. È opportuno, quindi, che la creazione stessa, ristabilita nella sua condizione primitiva, sia senza riserve sotto il dominio dei giusti” (L. V, capp. XXXII-XXXIV, 1210).

Il tema che ci preme ora sottolineare è il ribaltamento delle logiche del dominio: dal dominio degli ingiusti sui giusti, passiamo al dominio dei giusti sugli ingiusti [12]. La transizione escatologico-salvifica si palesa come vittoria del bene sul male: meglio, come vendetta del bene sul male. Il primato del bene è un trionfo e, insieme, un'operazione di giustizia: in questo senso, è una vendetta. I poli della dicotomia, in tal modo, evidenziano con maggiore nettezza l'azione di contrasto tra due soggetti alternativi: il Cristo della Resurrezione e l'Anti-Cristo della perdizione. Se Cristo è il Dio del bene e della giustizia, l'Anti-Cristo è il genio malefico del male e dell'ingiustizia. La vittoria di Cristo e del bene si esprime come la loro vendetta sull'Anti-Cristo e il male. Questi motivi li reperiamo nella predicazione di Lattanzio, operante nel IV secolo: la figura di Cristo si incarna come figura del liberatore e il tema della salvezza coniuga la liberazione dell'umanità dall'assedio delle forze del male, perfidamente comandate dall'Anti-Cristo (DIVINAE INSTITUTIONES, L. VII).

Ecco che, dunque, nel millenarismo messianico reperiamo un'altra costante dell'escatologia rivoluzionaria. Possiamo legittimamente dire che le due costanti principali dell'escatologia siano proprio l'azzeramento del tempo e la liberazione dell'umanità, operati dall'evento salvifico attivato e, per così dire, guidato dalla figura del messia liberatore-salvatore. La combinazione di tutti questi elementi è alla base: (i) della proliferazione violenta dei movimenti messianico-egualitari nell'alto Medioevo, contro i poteri secolari e la stessa Chiesa ufficiale, ormai, ritenuta l'espressione formale dell'Anti-Cristo; (ii) dell'ideologia profetico-salvifica delle Crociate [13], le quali contemplano a tutt'oggi il paradigma perfettamente compiuto della "guerra giusta" [14]; (iii) della ripresa della teoria e prassi rivoluzionarie moderne e contemporanee.

3. L'autopunizione

I temi del sacrificio e del martirio non sono soltanto legati a forme di estroflessione di una violenza catartico-egualitaria. Essi hanno una parimenti densa coniugazione introflessivo-elitaria che, fermo restando il contesto apocalittico-messianico, anziché assumere come bersaglio il corpo demoniaco dell'Altro, si dirige e concentra contro il proprio corpo. Nel corso dell'alto Medioevo, il processo della catarsi salvifica è osservabile anche nelle forme elitarie della disciplina severa del proprio Sé, attraverso le pratiche e gli esercizi dell'autoflagellazione. Il più celebre movimento dedito all'autopunizione è quello dei Flagellanti, piccole comunità di eremiti di varia ispirazione ideologico-profetica che, dall'Italia, si diffondono in tutta l'Europa, dall'inizio dell'XI secolo fino alla fine del XV [15].

Rinveniamo qui il prototipo del rivoluzionario quale (i) apostolo del sacrificio e della rinuncia personale; (ii) angelo e martire della "causa finale". Più ancora che in quelli messianico-egualitari, nei movimenti messianico-elitari dei Flagellanti è reperibile la mimesi sublimata dell' esperienza della croce di Cristo: l'assunzione su di sé di tutto il dolore possibile diviene la leva per il riscatto e la salvezza da tutti i peccati e di tutti i peccatori. L'introflessione della violenza funge quale codice e mezzo della liberazione dal male e della redenzione dell'umanità. L'autopunizione trova questa motivazione superiore che, insieme, la legittima e la lenisce: la salvezza futura degli altri è il farmaco estatico per il proprio dolore presente. L'autopunizione è il dovere compiuto in ossequio a una disciplina morale superiore di attingimento della propria e dell'altrui salvezza. Felicità e bene sono degli attributi etici allo stato puro che trovano l'incarnazione perfetta nel regno millenario, al cui avvento occorre presentare se stessi e il mondo puri e incontaminati, sconfiggendo ed eliminando gli eserciti dell'Anti-Cristo. Come è agevole rilevare, reperiamo anche qui, come già nella polemica antifilosofica di Tertulliano, motivi stoici rivisitati e rielaborati [16].

L'elitismo messianico dei Flagellanti ci interessa, poiché nell'ipertrofia dell'etica della salvezza da essi inverata possiamo reperire, allo stato sorgivo, i sintomi perfettamente dispiegati di una malattia etica tragica: la violenza sul Sé come viatico della violenza sull'Altro. A tal punto la violenza su se stessi è interiorizzata e sublimata che non solo la violenza sugli altri non spaventa e non inibisce, ma diviene addirittura un'inebriante e indifferibile avventura purificatrice. L'estroflessione della violenza sta qui in una drammatica relazione di proporzionalità diretta con la sua introflessione. Il che rende, ben presto, l'élite messianica immemore della propria interiorità ed estranea alla propria esteriorità, fino a farla divenire preda reificata del potere organizzativo ed evocativo di miti salvifici, di credenze e aspettative millenarie. Ma l'atteggiamento dei Flagellanti (e, più in generale, di tutti i movimenti messianici) non è unicamente riconducibile a motivazioni d'ordine etico-religioso; esso costituisce anche: (i) la risposta perdente alla secolarizzazione del mondo, dei poteri e della Chiesa; (ii) il portato di un'epoca di grande povertà ed emarginazione sociale.

Non si tratta di una pura e semplice monomania a sfondo aggressivo-delirante. Piuttosto, di una tormentata reazione individuale e collettiva ai mali del tempo che, separandosi traumaticamente dal presente, ricerca febbrilmente il futuro nel passato delle profezie. Proprio per questo, il presente la sconfigge duramente. Il Flagellante non è saturo di se stesso, come a tutta prima si potrebbe supporre; al contrario, è talmente privo di sé che solo fuori di se stesso colloca e costruisce un pieno di vita. Come differisce il tempo dal presente al futuro profetico, così proietta e stabilisce fuori di sé e della storia, nel regno millenario, la sua interiorità. Ma la fuga dal tempo e dalla propria interiorità trova nell'indigenza di quell'età storica e della vita personale di sterminate masse una delle cause scatenanti. Le aberrazioni dello spirito, del resto, avvengono sempre nella "grande selva" delle passioni umane e delle ingiustizie della storia. Atteggiamenti "folli", spesso, sono il contrappeso di opzioni gelidamente "razionali": si attraggono irresistibilmente, come due poli magnetici di segno contrario.

Così stando le cose, non sorprende che l'ipertrofia etica del messianismo egualitario e di quello elitario si rovesci in un ordine morale atrofico che, anziché rigenerare il mondo e l'umanità, produce figure etiche ossessionanti e ossessionate, in cui fa singolarmente primato proprio un'estrema povertà morale. Non si contano gli avventurieri, i ciarlatani, i malfattori, ecc. nella genia degli pseudo-messia che hanno riempito le cronache dei movimenti messianici medioevali, sottoponendo ricorrentemente grandi masse di poveri al culto assoluto del loro proprio potere pseudo-divino. Ma, di nuovo, non assistiamo a comportamenti collettivi "folli" e irrazionali. Piuttosto, siamo di fronte a legittime istanze di rivoluzione e cambiamento dell'ordine storico-morale esistente, incanalate verso scelte perverse e dispersive e, a volte, disperate che, pur non assicurandone la soluzione, segnalano l'esistenza dei gravi problemi in cui versano la società e l'individuo. L'errore presente nella risposta fornita dai movimenti messianici non elimina l'esistenza dei problemi di cui sono espressione; così come la loro sconfitta non equivale, di per sé, alla soluzione dei bisogni da cui prende origine la loro formazione.

4. Libertà e schiavitù

Se il dualismo si regge sulle contrapposizioni irredimibili dei contrari, la dialettica assume, invece, proprio il movimento conflittuale e riconciliativo dei contrari come criterio cosmico regolativo e principio d'ordine morale. In questo senso, fondatore della dialettica (totalità = ordine regolato dal conflitto) non può che essere ritenuto Eraclito di Efeso, operante nel VI-V secolo a. C. [17]. Per Eraclito, la verità delle cose umane e mondane sta nel movimento profondo e indecifrabile della loro anima nascosta (Frr. 45, 101). La vita che si mostra alla superficie è solo apparenza: solo il dormiente può incorrere nell'errore di scambiarla per vita vera. Il saggio, per avvicinarsi alla verità, deve ritrarsi dalle apparenze dormienti, entro la cui tela rimangono irretiti i più. Nella profondità abissale e fluida del destino umano e cosmico, la vita e la morte, la pace e la guerra, la giustizia e l'ingiustizia, la felicità e la sofferenza, la malvagità e la bontà trapassano inesorabilmente e incessantemente l'una all'interno dell'altra.

Il Tutto illimitato di Anassimandro non esclude qui l'onnicomprensività dell'Uno di Senofane [18]. Ma, ora, proprio "scorrendo" l'uno verso/e dentro l'altro, entrambi perdono la loro vecchia identità e la loro stessa unità epistemologica. Non sono più elementi dati una volta per tutte e rigidamente escludentisi; all'opposto, sono in continua tensione e ridefinizione: sempre in vita e continuamente di fronte alla morte, mobili eppur osservabili ed esperibili. Famosi sono gli assunti eraclitei (i) intorno alla "tensione" come vera ed effettiva realtà (Fr. 51) e (ii) sulla differenziazione costante tra l'unicità del contesto e la molteplicità in movimento dei suoi mutevoli contenuti (Fr. 49). Il fatto è che, sostiene Eraclito: “Tutto è governato attraverso tutto” (Fr. 41). Ecco perché “l'intima natura delle cose ama nascondersi” (Fr. 123). Essa va incessantemente ricercata, aprendosi dall'Uno al Tutto e facendo ritorno dal Tutto all'Uno, per il tramite di un pensiero e di un cammino che siano istantaneamente e simultaneamente dimoranti nel Tutto e nell'Uno. Questo è lo schema euristico e, insieme, ermeneutico della filosofia di Eraclito. Esso consente di strappare dall'oscurità e rendere intelligibili alcuni enunciati eraclitei centrali, particolarmente vicini al tema che in questo capitolo dobbiamo sottoporre a investigazione:

  1. "Non si riconoscerebbe la parola giustizia, se non esistesse l'ingiustizia” (Fr. 23);
  2. “Tutto è a un tempo concordia e discordia” (Fr. 51);
  3. “Polemos di tutte le cose è padre, di tutte re; e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi” (Fr. 53);
  4. “L'armonia invisibile val più della visibile” (Fr. 54);
  5. “Si deve sapere che la guerra è comune e che la giustizia è contesa, e che tutto accade secondo contesa e necessità” (Fr. 80).

V. Subilia, basandosi sull'ammonimento di Isaia: “Guai a quelli che chiamano bene il male e male il bene” (Isaia, 5, 20), riduce quella eraclitea ad una filosofia della “negazione del male”, a cui assimila, per sequenze successive, filoni che vanno dagli stoici a Spinoza e Leibniz, dall'idealismo allo storicismo, passando per Hegel [19]. Non possiamo, ovviamente, seguire criticamente Subilia nella sua argomentazione. In questa sede, concentreremo l'attenzione su un corollario della sua tesi: l'“insensibilità morale”, la “mancanza di giudizio morale” e di “reazione morale al male” inaridirebbero le filosofie della “negazione del male” [20]. Localizzeremo il corollario, applicandolo alla dialettica eraclitea.

La dialettica eraclitea — a dire il vero: la dialettica, in generale [21] —, risolve il male nel bene; e viceversa. Più esattamente, non li dicotomizza, ma scava nelle loro viscere, cercandone i punti di confluenza, di attrito e di metamorfosi. Il suo, pertanto, non è lo statuto della negazione; bensì degli incroci che si biforcano. Questo movimento sprofonda nelle vertigini delle verità della vita, del mondo e dell'anima. A queste profondità, tutto dialoga e si scontra con tutto e ogni cosa si combina e separa vorticosamente dalle altre, in un moto che non ha mai fine e che non è mai lo stesso. Non è possibile distinguere, se non anche procedendo ad associazioni; non è dato associare, se non disponendosi contemporaneamente a distinguere. Il caos, pur esistendo, è più una metafora dell'apparenza che una movenza della verità. L'ordine, per contro, non è mai trama compatta, univoca e definitiva; bensì connessione e tensione, figura e movimento. Risiedono qui l'ineguagliabile densità tematica, la profonda finezza epistemologica e la intensa carica spirituale-esistenziale della filosofia di Eraclito.

Eppure nella dialettica eraclitea — e nella dialettica, in generale — si celano insidie assolutamente non trascurabili. Prima tra tutte l'oggettivazione estrema del flusso della vita e del gioco delle soggettività. Il circolo eracliteo privilegia il movimento delle oggettualità, sospingendo in secondo piano le soggettualità e le loro sfere morali. Polemos si ammanta di un'aura tragica ed epica, fino a configurarsi come un preordinato e imperscrutabile destino a cui ogni cosa vivente non deve far altro che uniformarsi. La dialettica vertiginosa di polemos contrae le sfere della libertà soggettiva e della libertà del mondo. Polemos si ipostatizza come physis e, allo stesso tempo, subordina a sé natura e forma del creato; si dilata all'estremo, fino a rivendicare la propria sovranità sul non ancora creato.

È a questo livello di analisi che scopriamo lo statuto doppio del polemos eracliteo: ragione, fonte e forma del libero fluire del cosmo, del vivente e dell'emozionale e, nel contempo, vincolo, barriera e catena dell'essere e del non essere. Nelle vertigini della dialettica si celano e lottano le ragioni della libertà assoluta di contro alle ragioni dell'illibertà totale. Polemos è tanto fonte del progetto della libertà quanto matrice oscura della pianificazione dell'illibertà. Se nella concezione dualistica il sogno della libertà si frange sugli scogli di una escatologia millenaria, nelle vertigini della dialettica il sogno della libertà si inabissa e perverte nella pianificazione coatta del tempo e nell'architettura tirannica dello spazio. E ciò avviene non per la mancanza di un giudizio morale di fronte al male, né per un arretramento in confronto alla sua avanzata; bensì proprio per l'eccesso di infelicità collegato alla coscienza ed esperienza del male. La coscienza infelice del male è una coscienza disperata: quanto più il male avanza, tanto più essa tenta di fronteggiarlo e volgerlo in bene. Il conflitto tra male e bene diviene titanico e la dialettica deve risolverlo titanicamente: il bene deve risultare lo sbocco virtuoso di questo scontro. Niente polemos trascura, per preordinare questo esito, quanto più il male cresce e quanto più il bene devia verso il male.

La dialettica si compone di due movimenti:

  1. l'assecondamento del libero gioco dei contrari;
  2. la tensione verso l'unità dei contrari.

Da qui prende le mosse una terza e non intenzionale linea d'azione: il tradimento della dialettica ad opera della dialettica.

Per essere se stessa: fonte e libero gioco della libertà, la dialettica si trova a fare violenza su se stessa: posiziona l'unità come assioma teleologico necessario. Il movimento della libertà della storia e della libertà del singolo tende a caratterizzarsi finalisticamente: per questi tornanti, si arriva — come, in effetti, si è arrivato — a legittimare l'esistente storico-politico e l'esperienza individuale, a prescindere dai loro orizzonti di senso e dal loro profilo etico, proprio in quanto puro e scarno dato oggettivo. Se tutto si impernia e passa per polemos, ciò che da polemos esce vittorioso deve necessariamente ipostatizzarsi come il meglio di tutto il probabile e di tutto il possibile. I contenuti di eticità e di politicità vengono messi in secondo piano, se non fagocitati, dai contenuti dell'esistenza immediata vincente. All'esistenza immediata vinta o non ancora insorta non rimane altro che inanellare un'altra estenuante e infinita lotta, dalla quale o esce come nuovo metro di misura della tirannia sugli oggetti e sulle creature viventi, oppure nuovamente sopraffatta. La dialettica reca impressa entro il suo seno questa ineliminabile aporia, questa ambiguità di fondo che la fa essere contemporaneamente schiavitù e libertà, vita e morte. Il suo codice è internamente irrisolto tra questi due poli e colloca violentemente la libertà sul bilico della schiavitù. Le vertigini della dialettica sono esattamente le sue disavventure. In questo senso, pur conservandone la lezione, occorre prender congedo dal pensiero dialettico.

Note

(*) Si presenta un testo già comparso in A. Chiocchi, Rivoluzione e conflitto. Categorie politiche, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 1995.

[1] Su questo punto e sulle tradizioni filosofiche che da qui prendono corpo, cfr. l'agile, ma esplicativo V. Subilia, Il problema del male, Torino, Claudiana, 1987.

[2] Per un'efficace sintesi del pensiero di Empedocle, si veda la sua opera Poema fisico e lustrale, Milano, Mondadori, 1975; di grande aiuto sono l'introduzione e il commento all'opera di C. Gallavoli.

[3] V. Subilia, op. cit., pp. 15-18. Sui rapporti tra il platonismo e la filosofia cristiana, cfr. E. Hofmann, Platonismo e filosofia cristiana, Bologna, Il Mulino, 1967.

[4] P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Milano, Jaka Book, 1986, p. 289. A Ricoeur si debbono osservazioni penetranti sulla gnosi; ma i testi fondamentali sull'argomento restano, H. Jonas, Lo gnosticismo, Torino, SEI, 1973, 1991; H. Ch. Puech, Storia delle religioni, 8, Gnosticismo e manicheismo, Bari, Laterza, 1977; Id., Sulle tracce della Gnosi, Milano, Adelphi, 1985. Per analisi più recenti, si rinvia a due lavori di G. Filoramo: L'attesa della fine, Bari, Laterza, 1983; Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Bari, Laterza, 1990.

[5] Sul complesso e intricato rapporto tra cristianesimo delle origini e filosofia, fondamentali rimangono: W. Jager, Cristianesimo primitivo e Paidea greca, Firenze, La Nuova Italia, 1966; M. Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze, Sansoni, 1969; E. R. Dodds, Pagani e cristiani in un'epoca di angoscia, Firenze, La Nuova Italia, 1970; A. Pincherle, Introduzione al cristianesimo antico, Bari, Laterza, 1978; H. A. Wolfson, La filosofia dei padri della Chiesa, Brescia, Paidea, 1978. Sul punto, cfr. l'agile, ma puntuale P. L. Donini, Le scuole, l'anima, l'impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino, Rosenberg & Sellier, 1982.

[6] Per l'approfondimento della tematica manichea, si rinvia a H. Ch. Puech, Storia delle religioni, 8, cit.

[7] Su questi temi, cfr. N. Cohn, I fanatici dell'Apocalisse, Milano, Comunità, 1976. Per la "tradizione mistica" ebraica, si rimanda specificamente a G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Milano, Edizione CDE, 1989.

[8] Per questo lato della posizione benjaminiana, cfr. soprattutto le Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1982. Su questo aspetto della riflessione di Benjamin si sono acutamente soffermati R. Solmi, Introduzione a W. Benjamin, Angelus Novus, cit.; G. Schiavoni, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Palermo, Sellerio, 1980; G. Agamben, Walter Benjamin e il demonico. Felicità e redenzione storica nel pensiero di Benjamin, "aut aut", n. 189-190, 1982. Questa linea di interpretazione del pensiero di Benjamin, unitaria e al tempo stesso articolata, si distingue dal ritratto critico che di lui hanno inteso tramandare G. Scholem e T. W. Adorno che, seppur su registri divergenti, separano traumaticamente il Benjamin "teologo" e "metafisico" dal Benjamin ‘politico’, il quale sarebbe stato ingenuamente vittima del comunismo e del materialismo storico (Scholem) e del marxismo adialettico, filtrato dall'infausta influenza che su di lui avrebbe esercitato Brecht (Adorno): sulla questione cfr. le belle osservazioni critiche di Schiavoni, op. cit., pp. 72-95.

[9] N. Cohn, op. cit., pp. 25-26.

[10] Ibidem, p. 29.

[11] Ibidem, pp. 31-32.

[12] Nell'alto Medioevo, in un contesto che media intensamente "cristianesimo primitivo" e "comunismo primitivo", il tema del dominio viene ripreso e coniugato in un rapporto di implicanza diretta con Dio da Wyclif. Cfr., sul punto, il pregevole Mariateresa Beonio-Brocchieri Fumagalli, Wyclif: il comunismo dei predestinati, Firenze, Sansoni, 1975. Il lavoro comprende anche una significativa serie di estratti dalle opere di Wyclif.

[13] Su questi due punti, cfr. N. Cohn, op. cit., pp. 58-136.

[14] Sul tema specifico della "guerra giusta" si rinvia alle considerazioni contenute nel primo capitolo di Rivoluzione e conflitto. Categorie politiche, cit.

[15] N. Cohn, op. cit., pp. 163-190.

[16] Sullo stoicismo greco, cfr. M. Mignucci, Il significato della logica stoica, Bologna, Pàtron, 1965; M. Pholenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1967. Sullo stoicismo romano, cfr. E. R. Dodds, op. cit.

[17] Per un'agile, ma esaustiva introduzione alla filosofia di Eraclito, si rinvia a R. Mondolfo-L. Tàran, Eraclito. Testimonianze e imitazioni, Firenze, La Nuova Italia, 1972; R. Laurenti, Introduzione a Eraclito, Bari, Laterza, 1974; M. Marcovich, Frammenti, Firenze, La Nuova Italia, 1978.

[18] Per un'introduzione alla filosofia di Senofane, si rinvia a M. Untersteiner, Senofane. Testimonianze e frammenti, Firenze, La Nuova Italia, 1967.

[19] V. Subilia, op. cit., pp. 25-40.

[20] Ibidem, p. 38.

[21] Per una disamina dei più rilevanti approcci alla dialettica, cfr. AA.VV. Studi sulla dialettica, Torino, Taylor, 1969; G. Sommavilla, II pensiero non è un labirinto. Dialettica e mistero, Milano, Jaka Book, 1981.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018