Aristotele

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ARISTOTELE (I - II - III - IV)

LA LOGICA

Come noto, Aristotele classifica i possibili giudizi in base a due variabili: la quantità (universali o particolari) e la qualità (affermativi o negativi), le quali vengono combinate in quattro modi diversi:

  1. universali affermativi (p. es. "tutti i corvi sono neri");
  2. particolari affermativi ("alcuni corvi sono neri");
  3. universali negativi ("nessun corvo è nero");
  4. particolari negativi ("alcuni corvi non sono neri").

A ben guardare però gli universali affermativi contengono meno informazione, o meglio, meno spinta a cercare nuove informazioni, degli universali negativi, proprio perché se è vero che "tutti i corvi sono neri", diventa irrilevante sapere altro; ma se è vero che "nessun corvo è nero", si lascia impregiudicato il colore degli altri uccelli.

Il primo giudizio affermativo è apodittico nel senso che afferma in maniera categorica, tassativa, esclusiva e pone l'accento sulla sostanza (i corvi). Invece il secondo giudizio negativo è si apodittico, ma non è tassativo per quel che è altro da sé, proprio perché pone l'accento sul predicato (il colore nero).

Questo per dire che se si vuole fare una affermazione apodittica con pretesa di universalità, è meglio farla al negativo: si sbaglia di meno e si è più tolleranti. E' una questione psico-logica, non solo logica. Peraltro noi non possiamo avere certezze apodittiche per questioni di carattere universale, salvo casi molto limitati e che riguardano da vicino la natura umana o l'ambiente in cui essa vive (p.es. la gravitazione universale). E anche in questo caso dovremmo camminare coi piedi di piombo, poiché da quando sono nate le civiltà antagonistiche, noi non abbiamo certezze universali neppure su noi stessi, in quanto non sappiamo più chi siamo né quale sia il nostro ruolo nei rapporti con la natura.

Viceversa il particolare affermativo è più utile del particolare negativo, in quanto lo include come un sottinteso, che, proprio per questa ragione, non si avrebbe bisogno di specificare, e il farlo è retorico. Se "alcuni corvi sono neri", è evidente che altri possono non esserlo.

Quindi dovrebbero esserci solo due tipi di giudizio: quelli universali negativi, che lasciano campo aperto alla diversità, ad altre possibilità non contemplate o previste; e quelli particolari affermativi, che danno concretezza ai giudizi, evitando inutili sofismi. Nell'universalità si deve essere aperti, disponibili alla molteplicità; nella particolarità invece si deve essere precisi, onde evitare i giri di parole o la falsa dialettica.

Che i sofismi siano sempre dietro l'angolo lo si comprende anche dal rapporto di subalternità tra l'universale affermativa e la particolare affermativa. Se io dico che "tutti i corvi sono neri", diventa pleonastico sostenere che "anche alcuni corvi lo sono". Se è vera la prima, la verità della seconda è inutile. E se è vera la seconda, la verità della prima va dimostrata, ma allora il particolare è superiore all'universale e quindi non ci può essere dipendenza gerarchica.

Dunque delle due l'una: o rinunciamo ad affermazioni universali in positivo e ci limitiamo a quelle in negativo, oppure facciamo soltanto affermazioni particolari in positivo.

Bisogna stare attenti a queste cose, perché poi può venir fuori un sofista come Popper, che, pur di negare una qualunque affermazione universale, pensa che sia sufficiente utilizzare anche la più piccola eccezione. Per lui la verità non esiste, in quanto tutto può essere falsificato; anzi, arriva addirittura a dire, con fare irrazionalistico, che se un enunciato non è falsificabile, di sicuro è falso. Quindi è vero soltanto l'enunciato che falsifica ciò che pretende d'essere non falsificabile. Insomma la verità sta nell'attimo: l'attimo dopo è già falsa.

I SILLOGISMI

Il sillogismo metafisico è la disgrazia principale della logica occidentale. Aristotele l'aveva studiato in buona fede, pensando che da certe premesse, solo per il fatto d'averle poste, potessero seguire, di necessità, determinate conclusioni logiche. In ogni caso i suoi sillogismi sono una diretta conseguenza del pensiero matematizzante di Platone.

Nella sua filosofia il principio di non-contraddizione o quello d'identità o anche quello del "terzo escluso", sono un'ingenuità che si può facilmente tollerare. In fondo Aristotele non aveva la concezione della libertà e del libero arbitrio dell'ideologia cristiana, per cui non poteva comprendere sino in fondo la complessità della natura umana.

Tuttavia, oggi non possiamo considerare alcuna premessa come inconfutabile, né possiamo più credere che da una determinata premessa provengano, "logicamente", precise conseguenze. Le premesse possono essere inconfutabili in via del tutto "formale", relativa, cioè a condizione di porre determinate condizioni (spazio-temporali) cui esse facciano preciso e dovuto riferimento. Ma nessuna premessa può rimanere inalterata al di fuori di tali condizioni, o al mutare di queste stesse condizioni.

Così pure, se da certe premesse sono necessarie talune conclusioni, non è detto che tali conclusioni costituiscano una prova sicura della "verità" di quelle premesse. A tal fine sarebbe necessario che non vi fossero assolutamente altre premesse: il che non può essere stabilito a-priori.

Talune premesse possono rappresentare un giudizio di fatto, vero in quanto tale (cioè nel contesto astratto del sillogismo, che pur presume di rifarsi a una realtà concreta), ma ciò non significa ch'esse lo siano per come la realtà dovrebbe essere. In altre parole una premessa che si presume desunta dalla realtà non è per questo più vera di una premessa desunta da un'ipotesi di come la realtà dovrebbe essere.

Oggi siamo arrivati alla conclusione che sia nel porre una premessa, che fra una premessa e l'altra, e persino nel dedurre le conclusioni ultime, ciò che gioca un ruolo rilevante è l'interesse del soggetto (agente). Con ciò naturalmente non si vuole affermare che la logica non esiste, ma solo che non esiste una logica che non tenga conto della natura degli interessi.

Esistono sillogismi di "classe" e sillogismi "universalmente validi". Si può dimostrare il classismo di un sillogismo partendo, direttamente, dall'inconsistenza teorica della premessa maggiore o, indirettamente, dall'inefficacia della conclusione, oppure, dialetticamente, da entrambe le cose. In ogni caso, i sillogismi vanno sempre discussi: non possono essere presi come oro colato.

Oggi siamo addirittura arrivati a credere che la scientificità di un sillogismo non sta nella sua logicità, cioè nella sua verità a-priori, quanto nella sua applicabilità. La verità o l'attendibilità di un sillogismo può essere dimostrata solo dalla prassi, cioè dal modo come si realizza. Quindi l'azione non scaturisce dalla coerenza intrinseca del sillogismo: chi pretende di fare questo è un idealista.

Nessun sillogismo è mai abbastanza coerente da determinare una prassi efficace. Il sillogismo è vero solo se è un riflesso della realtà e, poiché la realtà è mutevole, il sillogismo è vero solo in quanto si lascia mutare dalla realtà.

Il sillogismo quindi non può essere un dogma (come in Aristotele o in Hegel), ma una semplice guida per l'azione, destinato ad essere riveduto e corretto in qualunque momento dell'azione stessa, quando le circostanze lo richiedono. Il sillogismo cioè oggi è diventato un suggerimento, un'ipotesi di lavoro tutta da verificare. E anche quando tale ipotesi viene verificata, mai e poi mai si deve avere la pretesa di considerare il sillogismo come un dogma inconfutabile.

I sillogismi di Aristotele possono andar bene per una dimostrazione matematica o geometrica (come un teorema di Euclide), ma non hanno senso in una dimostrazione politica, etica o sociale. Non a caso, quando Aristotele ha cercato di elaborare il sillogismo scientifico, che portasse cioè a conclusioni non solo logiche ma anche vere, egli è stato indotto ad affermare che nelle premesse da cui partire bisogna credere per intuizione immediata, cioè quasi per "fede"!

Col sillogismo induttivo Aristotele ha cercato di superare questo stallo anti-scientifico, ma è caduto nella tautologia; mentre col sillogismo dialettico egli ha definitivamente rinunciato al tentativo di "dimostrare" qualcosa, e si è limitato al compito di "persuadere", cadendo così nella retorica.

Mappa concettuale della logica (pdf)

L'ESISTENZA DI DIO

La prova dell'esistenza di dio, in Aristotele, cioè il cosiddetto "motore immobile", riflette adeguatamente il suo idealismo e sta a testimoniare che una qualunque posizione metafisica, se non si traduce in un impegno politico attivo a favore delle masse, sfocia, prima o poi, nella teologia.

Nell'approfondire la metafisica, cioè nel tentativo di trasformarla in una scienza esatta, onnicomprensiva, Aristotele è arrivato a teorizzare l'esistenza di un principio religioso che Platone non avrebbe mai ammesso. Paradossalmente era più ateo il Platone dedito alle idee astratte del "cielo", che non l'Aristotele scienziato e amante della natura.

Il fatto è che il naturalismo di Aristotele non ha mai raggiunto l'ortodossia di quello ionico, ma è sempre stato viziato da un'impostazione metafisica. Aristotele s'è sforzato di recuperare la tradizione del materialismo naturalistico, ma l'ha fatto all'interno del discorso metafisico elaborato da Platone e da lui perfezionato. Di qui il continuo declassamento della "fisica" rispetto alla "metafisica".

Le sostanze sensibili - dice Aristotele - sono dotate di movimento; siccome il movimento dev'essere "mosso" da qualcos'altro, se ne deduce ch'esista un motore immobile, privo di potenza, vero "atto puro". Un motore che tutto muove e che da nulla è mosso: oggetto, non "soggetto", dell'amore universale.

E' stata appunto questa sottovalutazione della materia che ha portato l'idealista Aristotele a negarle il principio dell'automovimento. Piuttosto che accettare tale principio, Aristotele è stato disposto a introdurne un altro assolutamente indimostrabile, la cui collocazione spazio-temporale è fuori da ogni spazio e da ogni tempo.

Interessante però è il fatto che Aristotele abbia cercato di risolvere questa aporia, dicendo che il movimento dell'universo è eterno, in quanto, nella sua totalità, l'universo non è soggetto né a creazione né a distruzione. Un principio, questo, che può portare dritti all'ateismo.

Effettivamente in Aristotele convergono due istanze: una metafisica e l'altra scientifica, che non marciano parallele (cosa che di per sé sarebbe assurda), ma che si condizionano a vicenda. Aristotele avrebbe potuto superare questa difficoltà valorizzando maggiormente la storia, l'economia, la società, la politica..., ma sarebbe stato difficile farlo in presenza dell'impero ellenistico, ch'era una forma di dittatura.

LA METAFISICA

Il primo a dare il nome di "metafisica" alle opere più astratte di Aristotele, quelle più somiglianti, per i contenuti, alla filosofia platonica, è stato Andronico di Rodi (I sec. a.C.), che curò la prima edizione completa dei suoi scritti. Gli mise questo nome perché, nell'ordine, i testi venivano dopo quelli dedicati alla fisica. Quindi, nell'intenzione del curatore, voleva essere soltanto un titolo convenzionale, meramente tecnico: metà tà fisikà voleva appunto dire "dopo la fisica".

Invece la parola "metafisica" ha avuto in Europa occidentale una grande fortuna e ha cominciato a indicare tutta quanta la filosofia più astratta, dedicata ai temi dell'essere, dell'essenza, della sostanza ecc.

Aristotele invece usa il termine di "filosofia prima", cioè quella che viene prima della fisica, della matematica, delle scienze naturali e persino della logica. che sono "filosofie seconde". Questa "filosofia prima" per lui è una sorta di teologia, cioè la scienza che studia l'essere in sé e per sé, il quale, ad un certo punto, si identifica con dio, chiamato anche "primo motore" o "motore immobile".

Tuttavia la sua metafisica non può essere definita "teologica", come una teologia vera e propria, in quanto l'elaborazione del concetto di "dio" avviene in maniera filosofica e solo alla fine di un ragionamento filosofico, che sarebbe meglio dire "ontologico".

Nel XVII sec. si distinguerà nettamente, nell'ambito della metafisica, la teologia, cioè lo studio dell'essere in quanto dio, dall'ontologia, cioè lo studio dell'essere in quanto essere, lasciando in sospeso se identificarlo con una divinità. Oggi, sempre nell'ambito della metafisica o della filosofia astratta, la parola "ontologia" prevale nettamente.

Il concetto di "filosofia prima"

Aristotele ha intenzione di superare tre scuole di pensiero:

  • i filosofi della natura, che coi loro arché non hanno mai avuto una base metafisica vera e propria;
  • Parmenide, che con la sua teoria unilaterale dell'essere escludeva ogni forma di movimento;
  • Platone, che con la sua teoria delle idee, poneva l'essere al di fuori dell'uomo e della natura, pur accettando la realtà del divenire.

Aristotele è alla ricerca di un concetto di "essere" che soddisfi tutte le condizioni poste dai filosofi precedenti e dica anche qualcosa di innovativo. Le definizioni ch'egli ha dato di "filosofia prima" sono sostanzialmente quattro:

  1. esamina le cause e i principi primi;
  2. esamina l'essere in quanto essere;
  3. esamina la sostanza;
  4. esamina la divinità come sostanza immobile.

La definizione che Aristotele ha sviluppato di più è stata la seconda.

I significati dell'essere e la sostanza

Per capire l'essere in quanto essere, secondo Aristotele bisogna privarlo di tutte le determinazioni specifiche (movimento, grandezza, colori ecc.), quelle che permettono all'essere di manifestarsi in modi infiniti, e ridurlo a qualcosa di essenziale, che accomuni tutte le cose di una determinata specie in un'unica categoria fondamentale. Questa categoria viene chiamata da Aristotele col termine di "sostanza".

L'essere è quindi, in primo luogo, la sostanza delle cose, e in secondo luogo è tutto ciò che attiene alla sostanza (i suoi predicati). Quando p. es. nella Logica Aristotele parla di "categorie", quella della sostanza è la più importante di tutte, poiché le altre vengono soltanto presupposte (qualità, quantità, tempo, luogo, relazione ecc.).

La sostanza è ciò che è in sé e che non ha bisogno di altro per sussistere (p.es. Socrate può essere bambino o adulto, ma ciò non aggiunge nulla al fatto che sia Socrate).

Al contrario l'essere come accidente è qualcosa di casuale, di fortuito, che non può appartenere a una sostanza (p.es. Socrate può essere allegro e triste, ma se non lo fosse non si toglierebbe qualcosa al fatto di essere Socrate).

Sostanza e accidente sono dunque due modi in cui l'essere si esprime, ma solo il primo merita d'essere preso in considerazione.

Gli altri due modi in cui l'essere si esprime sono: l'essere come vero, cioè l'essere vero del giudizio che corrisponde alla realtà (di cui ha parlato nella Logica); e l'essere come potenza e atto, cioè quel che si può diventare e quel che effettivamente si è (la questione del divenire). Ma per il momento è sulla sostanza che bisogna concentrarsi, poiché la comprensione della verità e del divenire dipendono dalla comprensione della sostanza.

L'idea di sostanza

Per comprendere l'idea aristotelica di sostanza bisogna distinguerla da quella di essenza, anche se, nella lingua italiana, i significati sono equivalenti.

Secondo Platone l'essenza è ciò per cui una cosa è quello che è. Questa definizione sarebbe andata bene anche per chiarire il senso della sostanza, ma secondo Platone una cosa è quello che è soltanto nel mondo delle idee, che sono esterne alla cosa, in quanto ogni cosa è solo una copia sbiadita delle idee corrispondenti. L'essenza, per Platone, è soltanto un rapporto mimetico-imitativo della cosa con l'idea corrispondente.

Viceversa Aristotele vuol trovare la sostanza nelle stesse cose, in modo immanente. Per questo è costretto a dire che la sostanza (ousìa) non coincide con l'essenza.

Per Aristotele la sostanza è un composto (sinolo) indissolubile di materia indeterminata e di forma determinata, in cui quest'ultima è l'essenza immanente che dà un significato generale alla sostanza (p.es. Socrate è caratterizzato dall'avere una forma specifica, quella di "uomo", che organizza la propria materia - carne, ossa, nervi... in un modo determinato, che diventa individuale).

La forma umana è sì specifica, ma anche comune a tutti gli altri uomini, per cui è un'essenza, che diventa però sostanza quando si unisce alla materia, che è un principio passivo, in quanto deve appunto "prendere forma". Ricorrere a delle idee esterne non ha più alcun senso.

La sostanza è, se vogliamo, l'essere dell'essenza di una specifica materialità. Quindi la sostanza non è un arché di tipo naturale, come nei primi filosofi, e neppure una forma astratta come le idee platoniche, ma è l'universale presente nell'individuo, che lo accomuna agli individui della sua stessa specie.

Conoscendo le forme nella loro materialità, bisogna saper astrarre da esse l'essenza che le tiene unite (distinguendo p.es. gli aspetti sostanziali da quelli accidentali, le sostanze dai predicati...) e trasformare poi la loro sostanza in un concetto, al fine di trovare un'adeguata corrispondenza tra pensiero e realtà, elaborando così la scienza.

Non esistono forme più importanti di altre: l'indagine della natura pone tutte le scienze allo stesso livello, anche se ovviamente è la "filosofia prima" che offre a ogni scienza le basi metodologiche da cui partire.

Il mondo delle sostanze

Per Aristotele il mondo delle sostanze si distribuisce su tre livelli:

  1. sostanze sensibili corruttibili, soggette a ogni tipo di mutamento (p. es. la realtà del mondo terrestre);
  2. sostanze sensibili incorruttibili, che si muovono in moto circolare, senza mai nascere né morire (i cieli e i corpi celesti, il cui etere è incorruttibile);
  3. sostanze soprasensibili incorruttibili, cioè le intelligenze che muovono le sfere celesti, di cui dio è la sostanza per eccellenza, privo di materia, immobile, capace di muovere tutto attraendolo a sé.

I primi due tipi di sostanza sono oggetto della fisica; il terzo è oggetto della teologia.

La dottrina delle quattro cause

Aristotele afferma che tutta la teoria della sostanza deve servire per rispondere in maniera scientifica a quattro fondamentali interrogativi, relativi alla natura di una qualunque cosa:

  1. la causa materiale, ovvero ciò di cui una cosa è fatta e che rimane nella cosa (p.es. il marmo della statua);
  2. la causa formale, ovvero l'essenza necessaria di una cosa (p.es. la forma di statua impressa nel marmo);
  3. la causa efficiente, ovvero ciò che origina qualcosa e le dà un movimento (p.es. l'azione di uno scultore);
  4. la causa finale, cioè lo scopo cui una cosa tende (p.es. l'intenzione che muove lo scultore a fare proprio quella statua).

Nei processi naturali queste forme generalmente sono unite, mentre nei processi artificiali possono essere separate (p.es. la statua può essere una causa formale, ma l'artista una causa efficiente e il suo compenso una causa finale).

Potenza e atto nell'essere

  1. La teoria della sostanza risolve il problema del divenire, dimostrando che nel cambiamento la sostanza rimane identica a se stessa.
  2. Per Aristotele i tipi di movimento sono quattro:
    - locale (da un luogo all'altro);
    - qualitativo (da una qualità all'altra);
    - quantitativo (accrescimento/diminuzione);
    - sostanziale (trasformazione).
  3. Per Aristotele il mutamento delle cose non è mai casuale ma sempre finalizzato a qualcosa di preciso (teleologia) e lo si verifica nella forma che plasma la materia informe.
  4. Aristotele si chiede: com'è possibile che la forma sappia esattamente come evolvere, visto che può mutare completamente? Aristotele sostiene che la materia, in potenza (dynamis), ha tutte le forme in cui può evolvere, essendo appunto informe. Ma quando diviene atto (energheia o entelechia, cioè realizzazione), la forma che assume è finalizzata, è una sola. Quindi, anche se la potenza appare cronologicamente anteriore all'atto, sul piano metafisico è prioritario l'atto, perché è questo che da senso al processo di trasformazione, il quale quindi non può mai partire dal nulla, poiché dal nulla non nasce nulla (p. es. l'uovo è potenza, in quanto può trasformarsi in pulcino, cioè in atto: in questo caso il fine è il gallo, ma l'uovo senza la gallina sarebbe impossibile; se venisse mangiato subito sarebbe potenza per il cibo, che è atto, e in tal caso il fine sarebbe l'alimentazione).
  5. Esiste il divenire perché nella potenza manca qualcosa. Ciò che viene colmato produce qualcosa che, a sua volta, diventa potenza per un nuovo atto, all'infinito. L'atto induce la potenza a essere qualcosa di specifico, altrimenti sarebbe soltanto una possibilità astratta. Questo processo avviene in tutte le cose ed è, in fondo, necessario.

 Teologia

  1. Questo processo di atto e potenza, se si andasse a ritroso, potrebbe portarci a non sapere mai quale sia stato il punto di partenza.
  2. Ecco perché Aristotele ipotizza una materia senza forma e una forma senza materia. Una forma pura, priva di materia, non ha alcuna potenzialità, dunque è atto puro o atto in atto.
  3. Questo atto puro, non soggetto al divenire, viene detto "dio", che non può avere un inizio temporale, altrimenti sarebbe in movimento. Dio è una sorta di "motore primo immobile".
  4. Questo motore non muove tutto come causa efficiente, ma come causa finale, nel senso che ogni cosa gli gira attorno, sentendosi attratta da esso.
  5. Il concetto che Aristotele ha di dio è quello di un'intelligenza del tutto smaterializzata e senza forma: una sorta di pensiero che pensa a se stesso per l'eternità. Se pensasse a qualcosa di diverso da sé, sarebbe una mera potenzialità.
  6. Il dio aristotelico non è personale o triadico o provvidenziale o creatore, ma è un dio cosmologico che dà ordine all'universo, il quale tende verso di lui, sul piano etico e fisico.
  7. L'universo aristotelico è geocentrico, cioè formato da una serie di sfere concentriche, con la Terra al centro e tutte chiuse dal cielo delle stelle fisse, che sono l'unico motore mosso da Dio, senza che il movimento si trasmetta alle altre sfere, ognuna delle quali infatti ha un proprio motore, essendo diversa la velocità dei corpi celesti.

LA FISICA

Premessa

"Fisica" viene da physis (natura) e, in tutti i testi di Aristotele, rappresenta la "filosofia seconda", subito dopo la "filosofia prima", che i curatori e i critici delle sue opere han sempre chiamato "metafisica", cioè "oltre la fisica". In questo senso la fisica aristotelica non coincide con l'odierna fisica, ma più genericamente con le "scienze naturali", a partire da biologia, zoologia, botanica, sino all'astronomia e alla fisica vera e propria, private però delle dimostrazioni matematiche, in quanto, per Aristotele, la matematica è soltanto frutto di un'astrazione, non necessariamente collegata alla realtà (qui è forte la differenza da Platone, per il quale comunque la fisica non avrebbe mai meritato d'essere considerata una scienza). La fisica aristotelica vuole essere qualitativa, non quantitativa.

Inevitabilmente quindi la fisica aristotelica si avvale soltanto del metodo deduttivo (dal generale al particolare): Aristotele preferiva questo metodo perché, secondo lui, alla sensazione si presenta come più immediatamente conoscibile l'intero che non le singole parti. Oggi, pur non avendo per i ricercatori delle scienze naturali alcun valore, il metodo deduttivo ha rappresentato un passo avanti rispetto alla filosofia platonica, che aveva negato la possibilità di analizzare scientificamente la materia, essendo questa solo una copia sbiadita delle idee assolute, poste nel iperuranio. Nell'ultimo Platone, al massimo, la materia poteva essere categorizzata per generi e specie.

Siccome invece Aristotele ritiene l'essenza delle cose intrinseca alle cose stesse, è possibile uno studio scientifico della natura. In particolare la fisica studia la materia in movimento, cioè non le cause ultime dell'esistente, ma solo le leggi che spiegano il funzionamento dei fenomeni. In tal senso Aristotele non assomiglia ai filosofi presocratici, per i quali la physis rappresentava, come arché, la totalità del reale e non solo una sua parte.

Vi è comunque un aspetto che avvicina Aristotele sia ai filosofi della natura (escluso Democrito) che a Platone: è la concezione finalistica della materia, quella per cui le cose sostanziali non possono essere attribuite al caso. Per Aristotele tutti i fenomeni naturali si manifestano in modo regolare, costante e secondo un ordine, proprio perché il loro scopo è l'armonia, l'equilibrio, il bene.

Tutti i fenomeni possono essere suddivisi in naturali e artificiali. Nei primi qualunque causa (materiale, formale, efficiente e finale) è sempre immanente (interna); nei secondi invece può essere anche trascendente (o comunque esterna).

Il movimento della materia

Aristotele ammette soltanto quattro tipi di movimento o mutamento della materia:

  1. locale (traslazione o spostamento nello spazio), p. es. la caduta di un oggetto;
  2. qualitativo (alterazione), p.es. passare dal freddo al caldo;
  3. quantitativo (aumento o diminuzione), p. es. la crescita di una pianta;
  4. sostanziale (generazione o corruzione), o. es. la nascita o la morte di un essere vivente.

Di questi quattro tipi di mutamento, il primo è il più importante nella fisica, perché consente di distinguere e classificare le varie sostanze fisiche. Infatti il movimento locale è di tre specie:

  1. circolare (intorno a un proprio asse),
  2. dal centro verso l'alto,
  3. dall'alto verso il centro.

Il movimento circolare non ha contrari, sicché le sostanze che si muovono in questa maniera sono immutabili, ingenerabili, incorruttibili (qui è evidente l'influenza di Pitagora). Per Aristotele l'unico elemento che si muove così si chiama etere (rilucente), che compone i corpi celesti (questa teoria verrà abbandonata per la prima volta da Nicolò Cusano nel XV sec.).

La cosmologia

Per spiegare l'intera struttura dell'universo sulla base del movimento della materia, Aristotele elabora la teoria dei luoghi naturali (da notare che la visione dell'universo è successiva agli studi di biologia, i quali vanno considerati molto più profondi, anche se, dopo la sua morte, ebbero più fortuna, lungo molti secoli, le concezioni cosmologiche).

Anzitutto va detto che per Aristotele la natura va divisa in due realtà: celeste e terrestre (o sublunare). La prima si estende dalle stelle fisse più lontane alla Luna ed è composta di etere, un elemento che non conosciamo, perché non ha un luogo specifico in cui stare.

Ognuno degli elementi fondamentali dell'universo (terra, aria, acqua e fuoco, che, a loro volta, contengono le quattro qualità: caldo, freddo, secco e umido, combinate a coppie) ha un luogo (spazio) che gli è stato assegnato per natura e che tende a raggiungere quando non viene impedito da cause esterne (la dottrina dei quattro elementi rimase immutata sino alla fine del XVIII sec.).

Questi quattro elementi si muovono in linea retta; l'etere invece (quinta essenza dell'universo) si muove di moto circolare e quindi non ha mai termine.

L'universo ha una forma sferica, geometricamente la più perfetta. Il sole, le stelle, i pianeti, la luna appaiono in movimento circolare intorno alla Terra, che è al centro dell'universo, essendo l'elemento più pesante.

I diversi corpi celesti non possono fluttuare nello spazio come vogliono, ma sono racchiusi da sfere composte di etere. Ogni astro non si muove di moto proprio, ma grazie a una sorta d'intelligenza divina.

Queste sfere sono tra loro concentriche e cristalline: p. es. quella della Luna è racchiusa in quella di Mercurio. Ogni sfera è mossa da quella che la racchiude, a sua volta mossa da quella più esterna (questo schema rimase in vigore fino al tempo di Keplero).

Ciò che non è mosso da nulla si chiama "primo motore", che muove tutto senza muoversi, e lo fa non come causa efficiente (altrimenti mancherebbe di qualcosa), ma come causa finale, sicché l'universo gli gira attorno per attrazione.

La sfera delle stelle fisse (un'enorme calotta sferica che ruota su se stessa, mantenendo le stelle tra loro sempre alla stessa distanza) chiude l'universo, che quindi è finito. Questa descrizione dell'universo fu rielaborata nel II sec. d.C. dall'astronomo egizio Tolomeo e rimase in vigore fino ai tempi di Copernico e Galilei.

Per elaborare questa teoria cosmologica Aristotele utilizzò il modello geometrico di Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), un matematico dell'Accademia platonica che aveva calcolato il movimento planetario degli astri come risultante dei moti circolari (differenti tra loro, ma regolari) di un sistema di sfere concentriche. Aristotele trasformò questo modello geometrico in una descrizione fisica composta di 55 sfere ruotanti in un senso o nell'altro, secondo orbite diverse, con al centro la Terra immobile, la quale però risulta meno perfetta dei cieli, avendo in sé un movimento prevalentemente rettilineo, non circolare.

Ciò che allora non si riusciva a spiegare era il motivo per cui attorno alla Terra i corpi celesti ruotassero tranquillamente, mentre sul nostro pianeta i corpi tendono a sollevarsi per poi ricadere. L'inspiegabilità di queste differenze di comportamento rimase un enigma sino a Newton. D'altra parte, ponendo una bipartizione gerarchica tra cielo e terra, Aristotele aveva rifiutato l'idea di Democrito secondo cui cielo e terra sono composti della stessa materia.

Il luogo e il vuoto

Ogni corpo ha un luogo: se si sposta, il suo luogo viene occupato da un altro corpo. I luoghi possono essere o propri o comuni (condivisi con altri oggetti). Lo spazio è la somma di tutti i luoghi occupati dai corpi.

Quindi un luogo è il limite interno del corpo che lo contiene. Non può esserci un contenitore senza un contenuto. Non c'è luogo senza corpo, né corpo senza luogo. Lo spazio vuoto non esiste, in quanto, come minimo, esiste l'aria, che è anch'essa fatta di materia. Siccome l'aria resiste al moto (e fa cadere in basso un peso o gli fa diminuire la velocità), se si elimina l'aria, un corpo resterebbe immobile o si muoverebbe sempre con la stessa velocità iniziale: questo per Aristotele era un'assurdità e ci vorrà Torricelli (1608-1647) per dimostrare che il vuoto esiste, grazie al fatto che l'aria ha una massa e quindi è soggetta all'attrazione gravitazionale terrestre.

Solo l'universo non è contenuto da qualcos'altro, né ha un luogo ove possa andare. Può muoversi soltanto intorno a se stesso, di moto circolare.

Il tempo

Qualunque cosa si muova nell'universo è soggetta alle leggi del tempo. Il tempo è una proprietà del movimento, è il numero del movimento (in quanto può essere calcolato secondo il prima e il poi).

Tuttavia questo calcolo può essere fatto solo da un essere che ha coscienza di un prima già trascorso e di un poi che deve ancora trascorrere. Al di fuori di questa coscienza è impossibile calcolare ciò che non è più, sommandolo a ciò che non è ancora.

D'altra parte se il tempo fosse solo costituito dal presente, sarebbe soltanto basato su singoli istanti, sicuramente non misurabili.

Quindi se da un lato esistono oggetti in movimento, dall'altro il tempo del movimento può essere percepito soltanto dall'uomo con la sua anima. Infatti quando non avvertiamo movimento, diciamo che il tempo è fermo. Dunque mentre l'anima è la condizione soggettiva del tempo, il divenire ne è la condizione oggettiva.

L'universo tuttavia non è soggetto al tempo, essendo eterno, come eterni sono gli elementi che lo compongono (forme, generi, specie).

Aristotele è quindi contrario all'idea di evoluzione, poiché forme, generi e specie sono realizzazioni definitive di materie informi. Avendo la materia una finalità, non è possibile che l'atto acquisti finalità diverse durante la sua esistenza compiuta.

Il mondo è finito

Per Aristotele l'universo è perfetto, unico, finito, sferico, eterno. Più una cosa è fissa, più è perfetta, poiché non manca di nulla. Si può parlare di "infinito" non in atto ma in potenza, come nella serie potenzialmente infinita dei numeri o quando si pensa di poter suddividere all'infinito un segmento (vedi Zenone). Queste però sono astrazioni prive di riscontri effettivi.

L'infinito non è una realtà, ma al massimo un processo indeterminato, incompiuto, e quindi privo di perfezione. Il finito è l'intero, a cui non manca nulla. In tal senso le leggi dell'universo non sono esattamente commisurabili a quelle terrestri. La finitezza dell'universo, cioè il fatto che l'universo non è costituito da una molteplicità di mondi (come voleva Democrito), ma è chiuso, nel senso che solo il nostro mondo è possibile, rimase un assioma sino ai tempi di Giordano Bruno (1548–1600).

La biologia

Gli studi di biologia, anatomia, zoologia, botanica... son stati utilizzati fin quasi agli inizi dell'Ottocento. Tuttavia, più che per la sua idea finalistica secondo cui ogni causa meccanica, in natura, è sempre al servizio di cause finali, è stato per la sua idea di classificare tutte le cose che Aristotele ha avuto un grande successo. Col metodo delle differenze specifiche egli ha potuto usare i concetti di genere e specie per il mondo organico e inorganico, benché le diverse specie di esseri viventi (circa 540) le considerasse in ordine decrescente. Quando deve decidere come classificare, si avvale anche della continuità delle specie viventi, cioè attraverso l'anatomia comparata (di cui è fondatore) stabilisce l'affinità tra le specie.

Tutti gli esseri viventi hanno una forma interna di organizzazione rivolta a un fine: gli organi sono strumenti il cui scopo è la vita dell'organismo, quindi è la funzione che spiega l'organo. La modificazione di un organo produce profonde trasformazioni nell'intero corpo, in quanto esiste una profonda correlazione tra gli organi.

Aristotele aveva anche capito che la forma di una specie animale non si identifica con l'individuo singolo, ma con una certa varietà di individui che si rapportano a un tipo standard (idea, questa, che verrà ripresa da Ulisse Aldobrandi alla fine del XVI sec.).

Tuttavia Aristotele non sapeva nulla del sistema nervoso e neppure della funzione dei muscoli: non distingueva tra arterie e vene e riteneva che l'organo centrale del corpo umano fosse il cuore, il primo organo a vivere e l'ultimo a morire (in questo si credette fino al XVIII sec.).

* * *

Aristotele polemizzò efficacemente contro gli eleati, che negavano la realtà del movimento, ma la sua polemica contro l'atomismo di Democrito è molto meno efficace. In particolare non capì una cosa intuita da Democrito, e cioè che nell'universo esiste un moto inerziale costante. Secondo lui infatti un corpo si muove grazie alle particelle dell'aria, che gli si aprono davanti e gli si chiudono dietro.

Oggi è chiaro che nella natura non vi è alcun finalismo paragonabile a quello che l'uomo vive storicamente, cioè a quello che l'uomo dà a se stesso. Ma è altrettanto chiaro che nell'universo vi sono leggi eterne, assolutamente immodificabili, oppure modificabili entro determinati limiti. L'uomo influenza pochissimo queste leggi, praticamente inizia solo ora a farlo a livello planetario e, purtroppo, in modo del tutto deleterio (si pensi solo all'inquinamento). Forse in futuro riusciremo a realizzare delle "eccezioni" nei confronti di certe leggi della natura: in ogni caso non potremo abolire delle leggi che ci precedono dall'eternità, né mai riusciremo a crearne di nuove, che l'universo non poteva prevedere.

Tuttavia, tra Aristotele e Democrito andrebbe posto un "termine medio", cioè una sintesi in grado di valorizzare l'entelechia e il caso. Se la natura non avesse alcun fine, non sarebbe nato neppure l'uomo. Non dobbiamo infatti dimenticare che la materia è anteriore all'uomo e che la coscienza umana non è altro che il prodotto più significativo dell'evoluzione della materia.

Quindi, se si vuole evitare di parlare di finalismo naturalistico, si deve però ammettere che la materia procede verso un fine di perfezione, il cui significato (ultimo), per il momento, non ci è dato di sapere, in quanto, al massimo, possiamo intuirlo o dedurlo di volta in volta, oppure dimostrarlo volgendo lo sguardo verso il passato.

Ciò che l'uomo sa, con sicurezza, è che, per il momento, il fine supremo della natura è l'uomo stesso, poiché (nonostante le assurdità dettate dall'interesse privato) l'uomo rappresenta l'ente più razionale e più capace dell'universo, che ci resta comunque per tanta parte sconosciuto. Compito dell'uomo è quello di darsi delle leggi sociali compatibili con quelle naturali: non deve fare altro.

Se l'uomo fosse stato un prodotto del "caso", non si spiegherebbe la sua continua evoluzione, la sua affermazione a livello mondiale su ogni altro essere vivente. D'altra parte, se il finalismo umano fosse identico a quello della natura, non vi sarebbe neppure il rischio dell'autodistruzione, che è frutto di una libertà (negativa, ovviamente) sconosciuta alla natura. Nella natura non vi è mai autodistruzione, ma solo perenne trasformazione da uno stato all'altro.

LA PSICOLOGIA

La psicologia, in Aristotele, è lo studio dell'anima (psyché), che è parte integrante della fisica e in particolare della biologia, nel senso che l'anima non è qualcosa di sovrannaturale, ma il principio delle funzioni vitali di tutti gli esseri viventi.

Ciò che distingue la materia inerte dalle piante, dagli animali e del genere umano è appunto l'anima, come forma (atto) di un corpo naturale, il quale ha vita solo in potenza. Senz'anima non c'è vita, ma senza un corpo in grado di ospitarla, non c'è neppure l'anima. Anima e corpo sono una unità inscindibile, complementare. L'anima non è una scintilla divina imprigionata nel corpo e non deve liberarsi del corpo mediante un processo di purificazione: questa visione platonica è nettamente superata da Aristotele, il quale rifiuta anche l'idea di giudicare negativamente le sensazioni e le passioni del corpo, poiché, secondo lui, non c'è alcuna conoscenza che non parta dai sensi. I sensi vanno semplicemente disciplinati dalla ragione.

L'anima è forma o atto (entelechia) di un organismo vivente, in quanto, nello stesso tempo è:

  • causa formale, cioè dà forma al corpo, rendendolo vivo;
  • causa finale, cioè dà un senso alla vita del corpo;
  • causa efficiente, cioè dà un movimento e uno sviluppo a tutto il corpo.

In base alle sue funzioni l'anima può essere suddivisa in tre livelli:

  1. vegetativa (di piante, animali e umani). E' preposta a nascita riproduzione nutrizione crescita, secondo delle regole proporzionali che soddisfano l'esigenza di un'esistenza fatta per essere eterna;
  2. sensitiva (di animali e umani). E' basata sul fatto che siamo capaci, in potenza, di ricevere sensazioni e percezioni, le quali diventano atto quando incontrano un oggetto sensibile. Tuttavia, mentre l'anima vegetativa assimila tutta la materia che le compete, in quella sensitiva si assimilano le forme. Vi sono infatti non solo i cosiddetti "sensibili" (odori, sapori, colori, suoni, sensazioni tattili), che corrispondono ai cinque sensi, sicché quando un senso coglie il proprio "sensibile", la sensazione è sicura; ma vi sono anche i cosiddetti "sensibili comuni", come p. es. il moto, la quiete, la figura, la grandezza, che vengono percepiti da un "senso comune" a tutti i sensi. Un termosifone, p. es., è freddo o caldo per il tatto, colorato per la vista, ma anche ingombrante se riferito alla percezione dello spazio.
    Dalla sensazione derivano la fantasia, che produce immagini, la memoria, che conserva le immagini, e l'esperienza, che nasce dall'accumularsi di fatti mnemonici. Anche gli animali, a loro modo, vivono questi aspetti: p. es. possono avvertire un desiderio verso le cose piacevoli o un timore verso quelle pericolose, sanno riconoscere un nemico se appartiene a una specie di cui hanno visto esemplari diversi. L'uomo è visto dall'animale come un bipede temibile a causa di una serie di esperienze negative e sicuramente vuole trasmettere alla prole questo timore, affinché diventi un atteggiamento istintuale. Per disabituarsi a questo comportamento, l'animale deve avere a che fare con degli umani la cui autorevolezza non sia avvertita come un pericolo. Ovviamente gli animali non sono in grado di produrre immagini liberamente, mediante la fantasia, ricavandole dalla memoria.
    Per Aristotele è comunque importante sostenere che l'anima sensitiva non è, come in Platone, dotata di conoscenze antecedenti alla sensazione, ma è una sorta di tabula rasa, nella quale inizialmente non vi è alcuna informazione;
  3. razionale (degli umani). E' quella in grado di collegare l'immaginazione alla sensazione producendo astrazioni, mediante le quali si possono ricavare le essenze delle cose, al fine di elaborare concetti di valore universale. L'essenza infatti, pur essendo nelle cose, non coincide con i dati percettivi, ma va ricavata per astrazione, mettendo in relazione soggetto e oggetto.
    Aristotele qui si chiede da dove venga nell'essere umano questa capacità di andare al di là delle cose o comunque di trovare tra le cose dei collegamenti che vanno ben oltre la semplice sensazione o percezione sensibile. Tuttavia su questo punto non è molto chiaro e l'ambiguità della sua esposizione scatenerà una ridda di polemiche nei secoli successivi tra i sostenitori dell'immortalità dell'anima e quelli contrari.
    In altre parole, se la nostra anima razionale fosse solo una tabula rasa che prende forma grazie ai sensi, alle sensazioni e all'esperienza sensibile (come avviene negli animali, che pur ne sono privi), non si spiega il fatto che essa stessa crea gli oggetti sensibili che la formano. In noi infatti non c'è solo un intelletto potenziale che diventa atto quando fa esperienza, ma c'è anche un intelletto agente o produttivo, che fa nascere quelle stesse cose che costituiscono la nostra esperienza.
    Gli animali hanno a che fare con un dato esterno chiamato natura e vi si adeguano con la loro anima sensitiva. L'intelletto umano invece sembra avere degli aspetti non condizionabili dalla realtà esterna, cioè irriducibili e che anzi condizionano questa stessa realtà in maniera decisiva. L'intelletto agente è sicuramente all'interno dell'anima razionale, ma è impossibile spiegare l'origine di questa presenza, in quanto, per come si pone, sembra provenire "dal di fuori". Se è vero che l'intelletto umano contiene potenzialmente tutti i concetti, è anche vero che per arrivare a comprenderli occorre un intelletto già universale, che vada al di là delle singole esperienze. La difficoltà per Aristotele era insormontabile, in quanto l'intelletto umano si pone contemporaneamente come potenza e atto.

Da notare che Aristotele non arrivò mai a comprendere che in ogni essere umano vi è qualcosa di superiore alla stessa ragione, che nessuna ragione è in grado di definire adeguatamente: è la libertà, di cui quella di coscienza è assolutamente la più profonda, la più insondabile. Egli inoltre non è mai stato in grado di spiegare perché, a parità di sensazioni e di potenzialità conoscitive, non tutti riescono davvero a comprendere l'essenza delle cose. Questo perché aveva una visione astratta della conoscenza, slegata dagli interessi materiali e sociali che la determinano.

L'ETICA

L'etica è una delle scienze pratiche: l'altra è la politica. Ha per oggetto il possibile, non il necessario. Riguarda l'individuo, non la collettività, per la quale invece occorre la politica, che Aristotele considera preminente, anche se dalla politica attiva esclude gli schiavi, le donne e gli stranieri.

L'etica è il regno del possibile o del contingente e non del necessario o dell'universale, per una serie di ragioni:

  • è indipendente dalla metafisica, cioè non può essere basata su un'idea astratta di "bene", come faceva Platone;
  • non è strettamente vincolata alla polis, ma piuttosto alla ragione;
  • si riferisce a una pluralità di beni e non a uno solo;
  • astrattamente il bene supremo dell'etica è la felicità personale, che varia da individuo a individuo.

La felicità, per Aristotele, è collegata alla propria attività pratica e professionale, cioè al proprio stile di vita. Gli stili di vita normalmente sono tre:

  1. quello di tanti, simili alle bestie e agli schiavi, perché interessati soltanto al piacere e al godimento;
  2. quello di pochi, che si sentono felici solo quando sono onorati e riveriti da altri, perché hanno potere politico o economico;
  3. quello di pochissimi, che non dipendono dal consenso di altri, ma sono felici quando vivono conformemente alla ragione (i filosofi).

Vivere secondo ragione vuol dire anzitutto abituarsi a compiere il bene e cercare sempre la verità. In questo stile di vita non occorre praticare l'ascesi, la mortificazione di tutte le passioni, ma semplicemente seguire il giusto mezzo.

"Giusto mezzo" o "medietà tra gli estremi" significa evitare ogni eccesso e ogni difetto. La giusta misura p. es. tra l'avarizia e la prodigalità è la generosità; tra la temerarietà e la viltà è il coraggio, e così via.

Bisogna abituarsi a questi comportamenti virtuosi proprio perché non sono innati. E bisogna farlo non perché costretti da qualcuno, ma per libera scelta, mettendo sempre in relazione la propria virtù con le circostanze della vita.

Tra i valori più alti Aristotele pone quello dell'amicizia tra persone virtuose e quello della giustizia, da usarsi soprattutto nella ripartizione dei beni materiali e nel riconoscimento dei valori morali della comunità.

In particolare Aristotele distinguere tre tipi di amicizia:

  1. quella fondata sull'utilità reciproca;
  2. quella basata sul piacere;
  3. quella disinteressata, che è la migliore, in quanto si ama l'altro per se stesso, per quello che è.

La giustizia è la virtù etica per eccellenza, inevitabilmente connessa alla polis e distinta in due campi:

  • quella distributiva o meritocratica, la cui proporzione è geometrica, essendo basata sul contributo specifico che ognuno dà al bene comune (diritto pubblico);
  • quella commutativa o egualitaria, la cui proporzione è aritmetica, in quanto non riguarda i rapporti tra società e cittadino, ma tra privati (diritto privato), usata p. es. sia nei contratti giuridici o commerciali (rapporti di tipo volontario), come la compravendita, il mutuo ecc., in cui ognuno deve avere quel che gli spetta; sia nei casi di furto, violenza, tradimento, falsa testimonianza ecc. (rapporti di tipo involontario), nei quali il giudice deve stabilire il giusto pagamento di un indennizzo alla parte offesa o un'equa pena carceraria al colpevole, pareggiando vantaggi e svantaggi.

Tuttavia per Aristotele superiori alle virtù etiche, legate alla pratica, sono quelle dianoetiche, legate alla conoscenza delle verità immutabili e al sommo bene. Le virtù dianoetiche sono cinque:

  1. sapienza (sophía), cioè la conoscenza di quelle realtà necessarie e universali che sono al di sopra dell'uomo (coincide con la metafisica, scienza del filosofo);
  2. saggezza (phrònesis), cioè la capacità di deliberare in modo corretto intorno al bene dell'uomo (coincide soprattutto con la politica, e non è detto che un buon filosofo sia anche un buon politico);
  3. intelligenza, cioè la capacità di intuire, per via deduttiva, i principi primi di tutte le scienze;
  4. scienza, cioè la capacità di sviluppare i principi primi di una determinata scienza, sempre secondo il metodo deduttivo (intelligenza più scienza danno la sapienza);
  5. arte (techné), cioè la capacità di realizzare adeguatamente ciò che si è appreso.

Infine Aristotele pone una netta distinzione tra "conoscere il bene" e "fare il bene". Il passaggio dall'una cosa all'altra non è affatto automatico. Per realizzarlo occorrono delle deliberazioni su quali e quanti mezzi servono per arrivare a conseguire determinati obiettivi. La scelta invece riguarda proprio gli obiettivi, i fini da perseguire.

La deliberazione di per sé non determina la bontà o la cattiveria di un'azione, perché questo è compito del fine. Quindi in realtà il fine non può essere "scelto", propriamente parlando, da una decisione comune, poiché il bene vero può essere riconosciuto solo dalla persona virtuosa, già predisposta al bene, grazie alla sua volontà. E' quindi il fine che indirizza la scelta, non è la scelta che determina il fine. Tant'è che Aristotele arriva a dire che, una volta diventati viziosi, è impossibile fare alcunché di bene.

LA POLITICA

Per Aristotele la politica è solo una scienza tra le altre e il filosofo, amante delle scienze teoretiche, dovrebbe astenersi dal praticarla, in quanto che essa appartiene alle scienze pratiche, come l'etica, nei confronti della quale il filosofo preferisce le scienze dianoetiche, la cui virtù è strettamente collegata alla conoscenza.

Delle 158 Costituzioni politiche di varie poleis greche e di altri Stati, analizzate da Aristotele, ci è pervenuta solo quella di Atene. Dallo studio di questi documenti Aristotele ha ricavato una classificazione delle forme dello Stato, proponendo delle caratteristiche generali preferibili, all'interno delle quali si parte da alcuni presupposti irrinunciabili:

  1. l'uomo è un animale sociale e politico, nel senso che non può vivere da solo: la virtù è realizzabile solo nella polis;
  2. la volontà dell'individuo è subordinata alla volontà della polis, che ha un compito educativo-formativo verso i propri cittadini;
  3. i cittadini sono poche categorie di persone: quelle che possono partecipare alle assemblee politiche o esercitare funzioni pubbliche (magistrati, sacerdoti ecc.) o difendere la città (quindi sono esclusi: schiavi, cioè in genere barbari prigionieri di guerra, donne, stranieri o forestieri, detti meteci, operai, contadini e commercianti, anche se liberi e greci);
  4. vi sono aspetti sociali che vanno considerati del tutto naturali, come l'inferiorità intellettuale, sociale e giuridica degli schiavi, dei barbari e delle donne (a quest'ultime viene riservato il governo della casa cioè l'economia domestica, da oikìa = famiglia+casa);
  5. se è vero che la prima unione naturale, in senso cronologico, è la famiglia e che più famiglie costituiscono un villaggio e che più villaggi costituiscono una polis, è anche vero che sul piano logico la polis è un insieme superiore alle singole parti;
  6. la proprietà, se è privata, viene curata dell'individuo ed è fonte di progresso; se invece è pubblica viene trascurata;
  7. il lavoro è indegno per una persona libera, che deve invece essere preposta a dirigere o comandare;
  8. la polis non deve essere né troppo popolosa né troppo poco (tutti i cittadini si devono conoscere tra loro) e il suo territorio deve essere grande quanto basta a soddisfare le necessità, senza produrre il superfluo. Vi sono beni da acquisire per la sopravvivenza e beni superflui (crematistica). Le merci hanno un valore d'uso e uno di scambio, ma, finché vigeva il baratto non c'era crematistica; quando invece è subentrata la moneta è prevalso il lusso: di qui la condanna del commercio da parte di Aristotele;
  9. l'organizzazione delle classi sociali è in funzione dell'età, onde evitare che i guerrieri s'impadroniscano della polis: sfruttando la loro forza, i giovani sono guerrieri; sfruttando la loro saggezza, gli adulti sono governanti e gli anziani sacerdoti;
  10. egli inoltre riconosce la necessità di un protettorato macedone sulla Grecia, anche se pensa che la polis vada salvaguardata, essendo un'associazione naturale.

Le possibili forme dello Stato

Tipo di governo

Per il bene pubblico

Per il proprio interesse

uno solo monarchia tirannide
pochi aristocrazia oligarchia
molti politìa democrazia (demagogia)
  • La politìa è un termine medio tra oligarchia e democrazia.
  • La democrazia è equivalente alla demagogia, ma può apparire anche come un socialismo ante litteram in quanto mira a favorire gli interessi dei più poveri, ritenendo che tutti siano uguali nella libertà e quindi anche nella proprietà. In tal senso è vista negativamente da Aristotele.
  • In astratto Aristotele preferisce monarchia e aristocrazia, ma in concreto accetta la politìa, che è il governo del ceto medio (piccoli e medi proprietari terrieri, padroni di schiavi che svolgono lavori rurali: sono numerosi, agiati e politicamente moderati).

L'educazione-formazione

Viene impartita dallo Stato, non dai privati. Non è prevista per le donne né per gli schiavi. Suo scopo è la stabilità dello Stato. E' una sola e uguale per tutti. La migliore è quella disinteressata (scienze teoretiche), cioè non utilitaristica, quindi quella finalizzata all'ozio (scholé), che è contemplazione. Materie fondamentali: lettere, matematica, ginnastica, musica, disegno (utili per controllare gli impulsi e contemplare il bello).

POETICA

Per la prima volta con Aristotele la poetica (in particolare la tragedia, ma il suo ragionamento si potrebbe estendere a qualunque espressione artistica) viene analizzata come un autonomo campo d'attività, con tale rigore e sistematicità che a queste riflessioni si fa risalire la nascita dell'estetica moderna. Non a caso esse conosceranno una straordinaria fortuna a partire dal Rinascimento.

L'arte viene trattata nella Poetica, di cui ci è giunto solo il primo libro, dedicato alla tragedia. Poetica deriva da "poiesis", cioè "produzione". Dunque si tratta di arti produttive, finalizzate alla produzione di cose sensibili.

Aristotele parte da Platone, il quale sosteneva che l'arte è imitazione (mimesis) della realtà. Platone però lo diceva in senso negativo, poiché per lui la realtà era soltanto una copia imperfetta delle idee assolute, quindi l'arte è solo copia della copia.

Per Aristotele invece, siccome l'essenza delle cose è immanente alle cose stesse, l'arte è legittimata ad esistere. Anzi essa ha la capacità di saper cogliere, nelle cose individuali, quelle caratteristiche che possono farle diventare un simbolo universale, nel senso che i personaggi o le situazioni rappresentate, a motivo della loro verosimiglianza con la realtà, possono essere una metafora di aspetti esistenziali, anche tragici o drammatici, che chiunque può vivere nella propria quotidianità. Lo spettatore, se vive quelle medesime vicende che vede rappresentate artisticamente, vi si può facilmente riconoscere, arrivando persino a comprenderle meglio.

L'arte è ovviamente finzione, poiché non è né storia né scienza, ma ha la capacità, proprio a motivo del suo modo particolare di trattare le cose, non basato su dimostrazioni logiche, di colpire la fantasia, l'immaginazione, i sensi, i sentimenti e le passioni. Secondo Aristotele non bisogna aver paura, come invece ne aveva Platone, che l'arte susciti forti passioni. La funzione educativa dell'arte sta proprio in questo, nel permettere di sublimare le angosce e le tensioni che si provano quotidianamente in emozioni pure, purificate, permettendo appunto di vederle rappresentate in una scena di carattere pubblico.

Proprio la tragedia, che permetteva di vedere, in forma estrema, ciò che nella realtà si viveva in forma attenuata e spesso incomprensibile, creava una particolare soddisfazione interiore, quasi un compiacimento psicologico, che Aristotele chiamava col nome di catarsi, una purificazione che si avvale soprattutto dei sentimenti della pietà e del terrore.

Le passioni interiori, le contraddizioni irrisolte, si trasformano a teatro in emozioni pure, in un piacere estetico e intellettuale, che va al di là del momento in cui si assiste alla rappresentazione, in quanto l'arte deve svolgere una funzione educativa che va oltre se stessa.

Se la verosimiglianza è efficace, l'arte può essere addirittura superiore alla storia, poiché questa è costretta ad essere analitica, dovendo esaminare i fatti particolari già accaduti. L'arte invece può essere sintetica, andando all'essenza delle cose in maniera simbolica.

Di più. Attraverso l'arte si può narrare ciò che potrebbe accadere. Nella storia i fatti hanno valore in quanto realmente accaduti. Nell'arte invece si tende a rappresentare l'universale, trasformando i personaggi trattati, che potrebbero essere anche mitologici, in simboli universalmente riconosciuti.

Tuttavia, perché le immagini sensibili usate (teatrali, poetiche, plastiche ecc.) possano pretendere di avere un significato universale, devono sottostare a precise regole espositive, in cui la forma abbia un'importanza decisiva. L'opera d'arte si deve presentare come una totalità, in cui le singole parti siano magistralmente tenute insieme in un tutto organico, capace di produrre effetti sensibili, emotivi, estetici.

Saranno i seguaci di Aristotele a formulare la dottrina secondo cui l'opera d'arte (in particolare la rappresentazione teatrale) deve rispettare sempre tre regole: l'unità di azione, di tempo e di luogo. Sono proprio queste regole che permettono di avere una forte immedesimazione con ciò che si vede rappresentato, in quanto le scene sembrano avvenire in maniera realistica, con pochissimi cambiamenti scenografici, pochi attori e utilizzando il tempo in maniera dilatata, senza interruzioni artificiose, che potrebbero far perdere allo spettatore il senso della continuità. Praticamente il tempo ch'egli impiega a vedere la scena è identico al tempo che le scene vogliono rappresentare. Ecco perché può facilmente immaginare d'essere un co-protagonista degli attori, immedesimandosi nelle loro vicende.

Solo verso l'Ottocento in Italia i drammaturghi rinunceranno a queste tre unità aristoteliche, confidando nel fatto che quando è in gioco la finzione lo spettatore può prescindere da una stretta aderenza a ciò che vede.

Tuttavia ciò che Aristotele disse a proposito della Poetica venne del tutto trascurato nel Medioevo, in quanto la chiesa preferì la lezione platonica. Questo si spiega molto semplicemente: Platone credeva ancora che attraverso la polis si potessero risolvere le contraddizioni sociali, per cui riteneva l'arte un inutile diversivo, anzi nocivo dal punto di vista etico; Aristotele invece ha smesso di credere nel futuro democratico della polis e pensa che l'arte possa essere uno strumento per poter meglio sopportare quelle stesse contraddizioni (ovviamente per il popolo, in quanto l'intellettuale deve avvalersi di mezzi più astratti). Da questo punto di vista Aristotele è più vicino all'ideologia borghese, mentre Platone a quella più esigente dell'ideologia ecclesiastica.

RETORICA

La retorica per Aristotele non ha per oggetto la verità, in quanto il sillogismo che essa usa (entimema) non è dimostrativo ma persuasivo, basandosi soltanto su premesse probabili e non da principi primi.

La funzione della retorica è quella di definire i procedimenti che servono per convincere gli altri, per cui è simile alla dialettica usata nella logica, là dove, nel sillogismo induttivo, ci si avvale di opinioni comuni o verosimili.

La retorica non può essere analitica, come una scienza, ma deve per forza essere sintetica, passando rapidamente dalle premesse alle conclusioni, saltando inutili passaggi logici. Spesso anzi la retorica si avvale di esempi e metafore, immagini figurate, confidando nell'intuito dell'interlocutore.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015