GEORGE BERKELEY

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GEORGE BERKELEY (1685-1753) E LA LOTTA CONTRO I FREETHINKERS

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Quel gran clericale di George Berkeley (1685-1753), vescovo anglicano irlandese, sin dall'inizio prese le mosse contro i deisti inglesi dicendo che per colpa della loro idea di voler fare della materia una "sostanza" vera e propria, paragonabile a una sorta di divinità, si era finiti (già con Vanini, Hobbes e Spinoza, ma ora anche con Leibniz, Bayle, Locke e tanti altri minori), con l'estromettere dio dalla realtà, innalzando così - son parole testuali - "gli empi sistemi dell'ateismo e dell'irreligione".

In altre parole Berkeley era arrivato alla conclusione, mostrando una certa perspicacia, che se si considera la material substance come eterna e infinita, è abbastanza logico arrivare poi a sostenere che dio o non esiste o, se esiste, non è più importante della materia increata e a lui coeterna.

Nel suo famoso Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) arriva persino a dire, pur di scongiurare l'ateismo implicito nel deismo, che se non si vuole affermare che la materia è stata creata da dio, perché evidentemente non lo si può con una dimostrazione scientifica, si dica almeno che dio è "assolutamente altro" rispetto al mondo; in tale maniera (che è poi quella della teologia apofatica) qualunque considerazione si possa fare della materia non potrà mai pregiudicare il giudizio sulla realtà divina.

Per lui ateismo era sinonimo di cinismo in campo morale, scetticismo in campo filosofico, determinismo in campo scientifico, insomma uno stile di vita che nel suo insieme risaliva a Epicuro.

Quando nel 1732 pubblicò Alcifrone disse espressamente che deismo in ultima istanza voleva dire "ateismo", e contro l'ateismo bisognava riaffermare, senza tema, il principio di autorità e di magistero ecclesiale. Metteva in guardia gli ingenui dal non farsi illusioni sulle vere intenzioni dei deisti: quando il cosiddetto "libero pensiero" comincia a disquisire sui misteri del cristianesimo o a difenderlo in nome di una vaga religione naturale, stiamo pur certi che l'ateismo è alle porte.

Aveva studiato così bene i deisti della sua epoca che per lui il semplice fatto di porre sullo stesso piano le varie confessioni cristiane, col pretesto che credono tutte nel medesimo dio, era non meno pericoloso che considerare equivalenti tutte le religioni monoteistiche.

D'altra parte era difficile dargli torto: Collins, che nel suo Discorso sul libero pensiero (1713) fondava il diritto laico di pensare liberamente; Toland, che nel suo Cristianesimo senza misteri (1696) aveva avuto il coraggio d'affermare che tutti gli aspetti cristiani non conformi a ragione erano stati creati a bella posta dal clero; l'esule italiano Alberto Radicati, conte di Passerano, la cui Dissertazione filosofica, edita a Londra nel 1733, sosteneva la tesi che morale e religione sono fondate su abitudini e convenzioni sociali; ma anche Tindal, Mandeville, Shaftesbury..., erano tutti studiosi e filosofi (peraltro non impegnati in ruoli accademici o universitari) giunti non solo a credere nel relativismo delle religioni ma addirittura nella loro subordinazione alla scienza, alla morale naturale e alla filosofia.

Fra gli intellettuali progressisti del Settecento (olandesi francesi inglesi in primis) l'ateismo (sotto qualunque veste si professasse) era una realtà acquisita, "la perfezione del libero pensiero". In quel momento di occupazione mondiale delle colonie, non potevano certo lasciarsi condizionare da scrupoli di ordine religioso, anzi avevano tutto l'interesse a far sembrare la fede cristiana una questione puramente formale, utile giusto per schiavizzare le popolazioni indigene, mentre la "sostanza anticlericale" doveva restare appannaggio alle élite affaristiche, anche se per non aver grane coi poteri costituiti si cercava spesso di dissimulare le proprie convinzioni.

In un'altra sua importante opera, Saggio di una nuova teoria della visione (1709), Berkeley si rendeva conto che contro l'ateismo aveva poco senso usare semplici argomenti teoretici, opponendo tesi a tesi. Ecco perché inventò qualcosa di mistico, sperando di portare i deisti su un terreno a loro meno congeniale. La sua idea era quella secondo cui gli oggetti della vista (contemplati) sono segni nei quali è virtualmente contenuto un linguaggio (provvidenziale) cui va riconosciuto un valore superiore: l'intero universo ha la forza di presentare fenomeni che indicano in maniera diretta, evidente, a chi li sa cogliere, la presenza di una "Forza suprema come Mente attiva". Siamo quasi ai limiti dell'irrazionalismo.

Berkeley non vedeva l'ateismo né come una forma di progresso culturale rispetto alla fede religiosa, né riusciva a capire che se l'ateismo era l'espressione di uno stile di vita borghese (individualistico e materialistico), non poteva certo essere la "religione in sé" a modificarlo in senso umano e collettivistico. Lui stesso si trovò, a più riprese, a rimboccarsi le maniche per alleviare la grande miseria della sua Irlanda e alla fine dovette andarsene.

Non si diventa migliori sperando in un paradiso ultraterreno o temendo il giudizio universale o desiderando una ricompensa per le proprie buone azioni. Berkeley, che pur sembrava aver capito che l'ateismo era il fondo segreto di molti liberi pensatori, continuava a sostenere una posizione religiosa adatta giusto a intimorire gli sprovveduti. Non a caso cercò, invano per fortuna, di fondare nelle Bermude una università per la conversione dei selvaggi.

Naturalmente non poté certo impedire, col suo fervore apologetico, che le idee scettiche del deismo inglese confluissero in quel grande fenomeno europeo chiamato "Illuminismo". Paradossalmente, anzi, sarà proprio Hume che, richiamandosi alle critiche mosse dal vescovo contro le idee astratte o generali, eliminerà dalla coscienza ogni possibile riferimento alla realtà metafisica.

Berkeley infatti, pur di togliere alla materia la sua oggettiva indipendenza dalla percezione umana, aveva sostenuto che l'essere dei corpi materiali sussiste solo nella mente di chi li percepisce. La materia insomma, in sé non esiste, e se esiste a prescindere da ciò che possiamo percepire, allora esiste solo "nella mente di qualche spirito eterno", che è appunto per noi la fonte del mezzo che lega materia e idee. E' dio che ci fa capire le leggi di natura, a prescindere dalla natura stessa.

Hume invece arriverà a dire che se non esiste la materia in sé, non si capisce perché lo stesso ragionamento di Berkeley non possa essere applicato anche nei confronti della realtà divina. Tutto può diventare una semplice questione di impressione. Se l'essere è solo ciò che si percepisce, è l'essere stesso che oggettivamente non esiste.

IL FALSO EMPIRISMO DI BERKELEY

Berkeley fa un ragionamento che, a dir poco, è assurdo. Nega l'esistenza della materia in sé, dicendo che l'uomo non può percepirla come cosa in sé, ma solo in rapporto ai suoi attributi o qualità.

Tutte le qualità della materia, siano esse "primarie" (forme, movimenti, dimensioni, solidità) o "secondarie" (colori, odori, sapori, suoni...) dipendono da ciò che l'uomo percepisce, quindi sono soggettive, cioè non hanno delle leggi proprie, non essendovi nella materia alcunché di universale e necessario, indipendente da ciò che l'uomo può percepire.

La materia in sé non esiste. Esiste in quanto viene percepita. Ma siccome il soggetto non può dire che la materia non esiste solo perché non la percepisce individualmente nella sua essenza, allora deve esistere un dio al quale la materia, nella sua essenza, è sempre presente, in ogni momento. Se su questa terra l'uomo fosse eterno, sarebbe lui a creare e ricreare continuamente la materia.

Da un lato quindi Berkeley nega qualcosa che esiste in sé e per sé, in quanto è solo percepibile ai sensi; dall'altro afferma l'esistenza di qualcosa che però non è percepibile neppure ai sensi. Nega l'oggettività della materia, indipendente dalla percezione umana, per affermare l'oggettività di uno spirito (dio) che non si può affatto percepire.

Testi di Berkeley

La critica


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015