La Città del Sole di Campanella

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TOMMASO CAMPANELLA (1568-1639)

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La Città del Sole di Campanella

Giuseppe Bailone

Campanella nasce a Stilo, in Calabria, nel 1568, da famiglia poverissima. Entra giovanissimo nell’ordine domenicano e si forma nella filosofia aristotelica. Ha un temperamento irrequieto e focoso, una memoria prodigiosa, coltiva con passione ogni tipo di scienza e pratica, con straordinaria sensibilità, la poesia. Volta presto le spalle all’aristotelismo, in cui vede una filosofia arida e libresca, per aderire al sensismo del conterraneo Bernardino Telesio che sviluppa in modo originale. Si scontra presto con il potere dell’Inquisizione e sul finire del 1593, a Padova, prova il carcere e la tortura. Il Sant’Uffizio ne ottiene i trasferimento a Roma, nel carcere in cui si trova anche Giordano Bruno. A differenza di Bruno, la cui posizione filosofica e religiosa è in radicale opposizione al cristianesimo, Campanella si riconosce nel cattolicesimo controriformista, ma a modo suo, con molta irrequietezza e originalità.

Nel 1597 rientra in Calabria dove matura il disegno di una rivolta contro il potere spagnolo e per una riforma sociale e politica universale. Scoperto e incarcerato nel 1599 a Napoli, viene processato per eresia e sedizione. Si salva dalla condanna a morte fingendosi pazzo sotto la tortura.[1] Nel carcere di Castel Nuovo compone molte delle sue opere. Riesce a scrivere anche nei lunghi periodi passati nella “fossa del coccodrillo”, sotterranea, buia e molto umida, di Castel Sant’Elmo. Liberato nel 1626, dopo solo un mese, viene ripreso e trasferito a Roma a disposizione del Sant’Uffizio. Qui trascorre due anni di blanda detenzione. Viene liberato  per intervento del papa Urbano VIII, “che aveva saputo guadagnarsi dettando un erudito commento alle poesie latine del pontefice e confutando vittoriosamente gli astrologi che ne predicevano la morte imminente”.[2] Interviene nel 1633 a favore di Galileo, per il quale aveva già scritto nel 1616, in carcere, l’Apologia pro Galilaeo.[3] Nel 1634, sospettato di legami con i capi di una congiura antispagnola scoperta a Napoli, sfugge alla nuova cattura e, con l’aiuto dell’ambasciatore francese, ripara in Francia, dove, accolto a corte con grandi onori, può trascorrere in serenità gli ultimi anni, in un convento di Parigi, dove muore nel 1639.

Sul naturalismo sensistico di Telesio, Campanella costruisce una grandiosa metafisica: il mondo è caratterizzato dall’animazione universale e governato da tre principi fondamentali che egli chiama “primalità”: la potenza, la sapienza e l’amore, ricavati dall’idea che solo Dio può, sa e vuole tutto, mentre negli altri esseri queste tre attività hanno livelli di perfezione inferiori e fra di loro diversi. L’anima conosce perché, prima e a fondamento della sensazione delle cose, ha la sensazione di sé, sente di sentire, ha la coscienza di sé e delle proprie sensazioni. L’autocoscienza non è solo umana, ma di tutti gli enti naturali in quanto dotati di sensibilità. E’ sensus sui, che nell’uomo rende possibile la conoscenza e il pensiero.

Come in Agostino questo sapere di sé è ciò che rende evidente l’autocontraddizione dello scetticismo, ma avvia, non a una metafisica spiritualistica come in Agostino, bensì a una metafisica naturalistica. Quest’autocoscienza è stata avvicinata anche al cogito cartesiano, ma a Campanella è del tutto estranea la cartesiana problematicità del reale: egli non pensa affatto che la vita possa essere solo un sogno; la realtà delle cose per lui è scontata.

La passione politica, presto bloccata nelle sue possibilità di realizzazione, trova espressione letteraria nella stesura, in carcere nel 1602, appena un po’ risanato dopo l’orribile tortura praticata per accertare la sua finzione di pazzia, di un “dialogo poetico”, La Città del Sole, che, nella cornice della letteratura dei viaggi oceanici, delinea un mondo politico ideale, modellato sull’ordinamento metafisico del mondo di Campanella.

Tutto il potere a chi sa tutto più di tutti

Al vertice della struttura piramidale del mondo politico ideale di Campanella c’è il Sole, chiamato anche Metafisico, il cui “offizio è perpetuo, mentre (= fino a che) non si trova chi sappia più di lui e sia più atto al governo”.

Ma, viene da chiedersi, sapere e saper governare sono la stessa cosa?

Se lo domanda anche Campanella, convinto che “non può saper governare chi attende alle scienze”. La risposta viene dagli stessi Solari.

“Più certi semo noi, che un tanto letterato sa governare, che voi che sublimate l’ignoranti, pensando che sieno atti perché son nati signori, o eletti da fazione potente. Ma il nostro Sole sia pur tristo in governo, ma non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno un chi tanto sa. Ma sappiate che questo è l’argomento che può tra voi, dove pensate che sia dotto chi sa più grammatica e logica d’Aristotile o di questo o di quell’autore; al che ci vol sol memoria servile, onde l’uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma i libri, e s’avvilisce l’anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e gli usi della natura e delle nazioni. Il che non può avvenire al nostro Sole, perché non può arrivare a tante scienze chi non è scaltro d’ingegno ad ogni cosa, onde è sempre attissimo al governo. Noi pur sappiamo che chi usa una scienza sola, non sa quella né l’altre bene; e colui che è atto a una sola, studiata in libro, è inerte e grosso. Ma così non avviene alli pronti d’ingegno e facili ad ogni conoscenza, come è bisogno che sia il Sole. E nella città nostra s’imparano le scienze con facilità tale, come vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o quindici tra voi, e mira in questi fanciulli”.[4]

Campanella, che si batte per una profonda rivoluzione sociale e politica, pensa, come Platone, che cambiando il sapere e l’educazione si apra al rimedio radicale di tutti i mali della società. Infatti, insiste sul carattere non libresco della cultura dei Solari, che educano i bambini, tutti i bambini, non in classi e in banchi scolastici, ma in rapporto diretto con le cose e intorno alle mura della città, sulle quali è illustrato tutto il sapere. Descrive una pedagogia della concretezza, della spontaneità e di sano esercizio fisico, con molta attenzione alle attitudini dei bambini.

In una città in cui tutti hanno accesso alla cultura, la selezione dei vertici culturali avviene nell’universale processo di formazione di tutti. E’ lì che può emergere chi sa tutto e più di tutti.

Ecco perché al controllo democratico, popolare, attraverso elezioni, è sottoposto solo il potere dei funzionari, mentre i vertici controllano se stessi.

Le cariche sono, infatti, tutte elettive, meno quella del Sole e dei suoi diretti collaboratori, Pon, Sin e Mor, evidente espressione politica delle tre primalità metafisiche, potenza, sapienza e amore, i quali, come il Sole, cedono, “per consiglio fatto tra loro”, il potere a chi sia riconosciuto “saper più di loro, ed aver più purgato ingegno”. Perché, assicura Campanella, “son tanto docili e buoni, che volentieri cedeno a chi più sa ed imparano da quelli”, ma, aggiunge, “questo è di rado assai”.[5]

Se l’eccellenza nel sapere equivale all’eccellenza umana si può star tranquilli.

Occorre, invece, controllo democratico del potere esecutivo, quello dei funzionari di una struttura amministrativa imperniata sulla tripartizione. I tre ministri, infatti, hanno ciascuno al loro servizio tre ufficiali ciascuno dei quali, a sua volta, ha tre dipendenti.

Pon si occupa delle forze armate, della guerra e della pace, Sin presiede a tutte le scienze e Mor governa la generazione e la nutrizione.

Il comunismo

Il regime economico e politico è comunistico: non c’è proprietà privata, neppure dei vestiti e dei beni di consumo più personali, e non c’è la famiglia. Evidentemente, Campanella s’ispira a Platone, ma radicalizza il modello in senso egualitario. Se Platone limitava la comunione dei beni e l’abolizione della famiglia ai filosofi e ai militari, per avere una classe dirigente unita come una sola famiglia, Campanella estende il regime a tutti i cittadini. Non ci sono classi sociali o ceti privilegiati, non c’è clero né aristocrazia. Non ci sono professioni nobili e mestieri ignobili: conta l’utilità sociale di ciò che ciascuno fa e come lo fa, perché il solo titolo di nobiltà è servire bene gli altri.

“Le arti fatigose ed utili son di più laude, come il ferraro, il fabricatore; e non si schifa nullo a pigliarle … Le speculative son di tutti”.[6]

Tutti lavorano quattro ore al giorno, più che sufficienti a provvedere a tutte le necessità, come dimostra il confronto con Napoli, dove su trecentomila abitanti solo cinquantamila lavorano, anzi “patiscono fatica assai e si struggono; e li oziosi si perdono anche per l’ozio, avarizia, lascivia ed usura, e molta gente guastano tenendoli in servitù e povertà, o fandoli partecipi di lor vizi, talché manca il servizio pubblico”.[7]

Tutti i bambini sono affidati ad assistenti e a maestri statali per un’educazione unica, ugualmente curata, ma attenta alle attitudini individuali.

Si dorme in pubblici dormitori e si mangiano cibi semplici ma sostanziosi, decisi dalla dietetica scientifica, in mense comuni.

C’è stato un passato vegetariano, ormai superato.

“Or essi mangiano carne, butiri, mele, cascio, dattili, erbe diverse, e prima non volean uccidere gli animali, parendo crudeltà; ma poi vedendo che era crudeltà ammazzar l’erbe, che han senso, onde bisognava morire, consideraro che le cose ignobili son fatte per le nobili, e magnano ogni cosa. Non però uccidono volentieri li animali fruttuosi, come bovi e cavalli”.[8]

“Vivono almeno cento anni, al più centosettanta o duecento al rarissimo”.[9]

I vestiti sono uniformi, uguali per uomini e donne, cambiano di colore secondo l’età e di spessore secondo le stagioni. Sono fabbricati, lavati e custoditi da funzionari statali.

“Molto più realista di More, Campanella non crede nella perfezione naturale dell’uomo, al disinteresse altruistico spontaneo, e non lascia perciò che ogni cittadino prenda liberamente quanto gli può necessitare nei magazzini pubblici incustoditi. Tutta l’educazione della Città del Sole mira a sradicare dall’animo umano l’egoismo, ma si vuole per di più stroncare ogni possibilità di cadere in fallo; una rigida gerarchia elettiva regola perciò tutti gli aspetti della vita sociale e incarichi, assegnazioni, onori, compensi vengono dall’alto, secondo una disciplina autoritaria”.[10] Ministri per ogni virtù (Liberalità, Magnanimità, Castità, Fortezza, ecc.) vigilano, controllano ed educano. 

L’eugenetica

Come Platone, Campanella, affida alla sua città ideale l’impegno eugenetico.

Mor “ha cura della generazione, con unir li maschi e le femmine in modo che faccin buona razza; e si riden di noi che attendiamo alla razza dei cani e dei cavalli e trascuramo la nostra”.[11] L’attenzione è capillare.

“Nulla femina si sottopone al maschio se non arriva a diciannove anni né maschio si mette alle generazione inanzi alli ventuno. …

Poiché quando si esercitano alla lotta, come i Greci antichi, son nudi tutti, maschi e femmine, li mastri conoscono chi è impotente o no al coito, e quali membra con quali si confanno. E così, sendo ben lavati, si donano al coito ogni tre sere; e non s’accoppiano se non le femine grandi e belle alli grandi e virtuosi, e grasse a’ macri, e le macre alli grassi, per far temperie (= equilibrio). La sera vanno i fanciulli e conciano i letti, e poi vanno a dormire secondo ordina il mastro e la maestra. Né si pongono al coito, se non quando hanno digerito, e prima fanno orazione, ed hanno belle statue di uomini illustri, dove le donne mirano. Poi escono alla finestra, e pregono Dio del Cielo, che li doni prole buona. E dormeno in due celle, sparti fin a quell’ora che si han da congiungere, ed allora va la maestra, ed apre l’uscio dell’una e dell’altra cella. Questa ora è determinata dall’Astrologo e Medico”.[12]

Dopo alcune indicazioni astrologiche, Campanella scrive di altre disposizioni.

“E gli offiziali, che son tutti sacerdoti, e li sapienti non si fanno generatori, se non osservano molti giorni più condizioni; poiché essi, per la molta speculazione, han debole lo spirito animale, e non trasfondeno il valor della testa, perché pensano sempre a qualche cosa; onde triste razza fanno. Talché si guarda bene, e si donano questi a donne vive, gagliarde e belle; e gli uomini fantastichi e capricciosi a donne grasse, temperate, di costumi blandi”.[13] Insomma, “la generazione è osservata religiosamente per ben publico, non privato, ed è necessario stare al detto (= decisioni) dell’offiziali”.

E queste decisioni degli addetti all’eugenetica non vanno mascherate, come pensava Platone, con estrazioni a sorte truccate.

Non è necessaria la menzogna del potere a fin di bene.

“Qui non bisogna far con inganno di ballotte (= con sorteggio truccato) per contentarsi delle brutte i brutti, perché tra loro non c’è bruttezza; ché, esercitandosi esse donne, diventano di color vivo e di membra forti e grandi, e nella gagliardia e vivezza e grandezza consiste la beltà appresso a loro”.[14]

E se arriva l’innamoramento?

“S’uno s’innamora di qualche donna, è lecito tra loro parlare, far versi, scherzi, imprese di fiori e di piante. Ma se si guasta la generazione, in nullo modo si dispensa tra loro il coito, se non quando ella è pregna o sterile”.

Insomma gli innamorati hanno bisogno del nulla osta dell’ufficiale eugenetico per far l’amore. “Però non si conosce tra loro se non amor d’amicizia per lo più, non di concupiscenza ardente”.[15]

Paolo e Francesca di Dante non trovano posto nella Città del Sole: restano dannati all’inferno.

Violentemente bandito l’amore omosessuale: “Se si trovano in sodomia, son vituperati, e li fan portare due giorni legata al collo una scarpa, significando che pervertiro l’ordine e posero li piedi in testa, e la seconda volta crescen la pena finché diventa capitale”.[16]

Il boia collettivo

Dei condannati a morte “nessuno può morire, se tutto il popolo a man commune non l’uccide; che è boia non hanno, ma tutti lo lapidano o brugiano, facendo che esso s’elegga la polvere (= decida di farsi bruciare con la polvere da sparo)[17] per morir subito. E tutti piangono e pregano Dio, che plachi l’ira sua, dolendosi che sian venuti a resecare un membro infetto dal corpo della republica; e fanno di modo che esso stesso accetti la sentenza, e disputano con lui fin tanto che esso, convinto, dica che la merita”.[18]

Il sonno della ragione genera mostri, ha scritto e dipinto Goya nel 1797, quasi a metà strada tra Campanella e noi, ma conviene stare attenti anche a certi momenti di veglia della ragione.

Torino 28 novembre 2011 


Note

[1] Di questa eccezionale prova di forza d’animo riporto la ricostruzione di Luigi Firpo.

“Egli pone allora in atto un espediente sottile e fin dal 7 febbraio 1600, sottoposto a tortura, confessa gran parte delle colpe ascrittegli, per farsi credere incapace di resistere agli strazi. Subito dopo, ai primi di aprile, inizia con tenacia ostinatissima una simulazione di pazzia tanto abilmente condotta da lasciare dubbiosi i pur diffidenti giudici; posto a una nuova tortura il 18 maggio, la supera senza tradirsi, e per un anno intero, spiato giorno e notte, non dismette mai la finzione eroica cui si affida la sua ultima speranza di vita. Secondo i canoni, infatti, il pazzo non può essere ucciso, perché non avrebbe modo di pentirsi e l’anima sua sarebbe irreparabilmente perduta. Tra il 4 e il 5 giugno si venne alla prova legale risolutiva, il cosi detto tormento enorme della «veglia». In luogo della rituale mezz’ora, l’imputato doveva restare appeso alla fune con le braccia slogate ben 40 ore e, quando per il dolore atroce cadeva in deliquio, lo si calava a sedere su un legno tagliente che gli segava la carne delle cosce. Il verbale di quel supplizio, nel suo rozzo dettato cancelleresco misto di latino curiale, d’italiano e di termini dialettali calabresi, non si rilegge senza emozione profonda. Alla prima esortazione a confessare la propria finzione, Campanella rispose con follia poetica: «L’anima è immortale». Così di ora in ora, nell’alternanza di vaneggiamento simulato e di consapevolezza agghiacciante, assistiamo a quella lotta di un uomo solo e inerme contro la potenza terrena, il dolore cocente, la fine di ogni speranza. Un lungo giorno, una lunga notte: poi le trombe che suonano la sveglia sulla tolda delle galere ancorate nel porto, le candele che si spengono, il brivido freddo dell’alba che irrompe dalle finestre, e ancora un lungo giorno di sevizie su quel corpo ormai inerte che più non risponde agli stimoli della sofferenza. Alla fine, gli stessi giudici sfibrati ordinano che venga deposto dal tormento e condotto alla sua cella. L’aguzzino, divenuto un po’ ortopedico per lunga pratica, gli riduce le slogature, lo porta al tavolo del notaio, gli regge la mano inerte per segnare con un segno di croce l’atto formale che lo qualifica giuridicamente pazzo. Poi se lo reca in collo per riportarlo su chissà quale sordido giaciglio: ma sulla soglia l’indomabile ha come un guizzo e pronuncia – finalmente intoccabile e perciò rinsavito – una frase triviale e proterva: «Si pensavano che io era coglione, che voleva parlare!». Due anni dopo, proprio nella chiusa della Città del Sole, per smentire il determinismo degli influssi astrologici scriveva: «Se in quaranta ore di tormento un uomo non si lascia dire quel che risolve tacere, manco le stelle, che inchinano con modi lontani, ponno sforzare». Dal supplizio Campanella uscì dissanguato e ferito al punto da restare poi per sei mesi tra la vita e la morte, ma invitto”. (Introduzione a La città del Sole, Laterza 2008, p. XIV).

[2] Luigi Firpo, Introduzione a La città del Sole, Laterza 2008, p. XIX.

[3] Aveva conosciuto il giovane Galileo a Padova e ne era diventato amico. Nell’apologia sostiene l’autonomia reciproca della religione e della scienza, con l’argomento che esse si occupano di due libri, le Scritture e la natura, scritti entrambi da Dio, ma che richiedono diverse modalità di lettura e d’interpretazione. 

[4] La Città del Sole, Feltrinelli 2009, pp.41-42.

[5]Ib., p. 64.

[6]Ib., p. 58.

[7]Ib., pp. 50-51.

[8] Ib., p. 61.

[9] Ib., p. 61.

[10] Luigi Firpo, introduzione, p. XXXIII.

[11]Ib., p. 38.

[12]Ib., pp.45-46.

[13]Ib., p. 47.

[14] Ib., p. 49.

[15] Ib., p. 50.

[16] Ib., p. 45.

[17] Luigi Firpo propone, però, “si leghi” invece di “s’elegga” e in nota spiega: “Cioè, come spiega il rifacimento latino, si cingono dei sacchetti di polvere da sparo, che, infiammata, li uccide immediatamente”. A p. 42 dell’edizione  Laterza 2008.

[18] Ib., p. 65.


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Aggiornamento: 26-04-2015