LA FILOSOFIA DEL MERITO

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Mikos Tarsis

LA FILOSOFIA DEL MERITO

Tra Rousseau, Marx e della Volpe


Premessa

 

 

 

Galvano della Volpe (1895-1968) ha un modo orribile di scrivere, lontanissimo da quello odierno. Immagino sia stato un vero incubo per ogni traduttore, alle prese con le sue infinite aggettivazioni e sinonimie e parentesi tonde e subordinate che in ogni frase prendono un’intera pagina. E pensare che dal 1921 al ’38 aveva fatto anche l’insegnante liceale prima di finire all’Università di Messina. Don Milani l’avrebbe bacchettato sulle mani per tutta questa ridondanza.

Comunque lo perdòno, sia perché romagnolo come me (Imola non appartiene all’Emilia, anche se quella volta era una provincia di Bologna), sia perché comunista (alcuni dicono anche “troppo” al tempo del socialismo togliattiano filo-gramsciano). Non è possibile trascurarlo. Almeno un’opera gli va dedicata, anche perché negli anni ’50-’60 fu un’autorità sul piano della filosofia marxista italiana, tanto che ebbe discepoli di rilievo: Umberto Cerroni, Lucio Colletti, Alessandro Mazzone, Nicolao Merker, Armando Plebe, Ignazio Ambrogio, Franco Moretti, Carlo Violi... Di questi probabilmente il più noto è stato Colletti, che però già nel 1964 era uscito dal Partito comunista e 30 anni dopo fece un bel salto della quaglia presentandosi come parlamentare in Forza Italia!

Poiché ho studiato con un certo interesse gli Scritti politici di Rousseau, prenderò in esame il saggio dell’autore intitolato Rousseau e Marx, che si trova nel tomo 5 delle Opere complete pubblicate dagli Editori Riuniti nel 1973 (a cura proprio di Ignazio Ambrogio). Fu un testo innovativo, che ebbe una certa fortuna.

Mi comporterò come ho sempre fatto in precedenza con altri autori: usare un testo per fare considerazioni astratte sul mondo moderno, che possono anche non c’entrare nulla coi contenuti in oggetto. Non andrò qua e là nella lettura, scegliendo le pagine a caso, ma procederò in maniera progressiva, avendo di fronte a me tante pagine vuote da riempire e tutto il tempo necessario per farlo.

Per quanto possibile, cercherò di non ripetere le cose su Rousseau che si trovano in altri due libri: Da Cartesio a Rousseau e Rousseau e l’arcantropia. Spesso però le cose si ripetono involontariamente, come se fossero un segno della vecchiaia. Possono essere state scritte molto tempo fa, ma nell’inconscio si sono come sedimentate, ed è sufficiente stimolarle con qualcosa, perché vengano in superficie come la lava dell’Etna.


Laicismo e religione, democrazia e socialismo

 

 

 

Della Volpe inquadra Rousseau (1712-78) nei termini seguenti, che sono alquanto generali e in riferimento al Contratto sociale: l’uomo nasce buono perché è a immagine di Dio; e quindi la morale dipende dalla religione; la religione è basata sul sentimento, che è un istinto sociale; il sentimento offre più certezze della ragione, che spesso c’inganna, tant’è che in società si sentiamo nemici, quando invece nello stato di natura non lo eravamo. Come superare questa inimicizia? Con un contratto, stipulato liberamente, in cui tutti si rispettano nei loro diritti primordiali (incluso quello alla proprietà, che però non deve mai essere troppo grande). Tale rispetto può essere realizzato solo in un regime politico di democrazia diretta (locale), in cui ognuno ha un voto, e le decisioni prese sono vincolanti per tutti.

Come noto, Rousseau era il teorico della democrazia piccolo-borghese (quella commerciale, artigianale, del piccolo produttore autonomo, ecc.). Della Volpe lo qualifica addirittura come “padre spirituale della democrazia moderna” (p. 201), cioè come il teorico della rivoluzione francese di marca giacobina.

 

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Ora, se guardiamo l’odierno occidente, è difficile trovare dei luoghi in cui sia esercitata la democrazia diretta; e là dove esistono (come per es. in Svizzera), è impossibile non avere l’impressione che la democrazia sia piuttosto formale, non avendo di “socialistico” quasi nulla.

Cos’è quindi che non ha funzionato nell’ideologia politica di Rousseau? Semplicemente una cosa: la borghesia non vuole mai restare “piccola”, ma vuole ampliarsi, diventare grande, sempre più grande, fino al punto che desidera dominare il mondo intero. È da sciocchi non tener conto di questo suo impulso irresistibile, che il marxismo, peraltro, riteneva inevitabile, in quanto oggettivamente strutturale al modo di produzione capitalistico, che se non si espande, muore, in quanto i singoli imprenditori (o i loro trust) non vogliono essere rovinati dalle leggi mercantili della concorrenza, dai monopoli delle multinazionali straniere, dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, dalla progressiva obsolescenza del capitale fisso, dall’emancipazione delle colonie che non vogliono più essere sfruttate, dalla diminuzione dell’esercito industriale di riserva, dall’arroganza degli Stati militarmente più forti e da altre perle artificiali che questo stesso sistema crea a profusione, spargendole sull’intero pianeta, in cui, peraltro, si vanno formando sistemi sociali autonomi dal capitalismo privato occidentale.

E quando la borghesia pretende di diffondersi ovunque, generalmente è “ideologica”, cioè l’anglosfera (USA, UE, ecc.) esige che gli altri, gli “stranieri”, i “diversi” credano nella sua cultura, politica, etica, soprattutto nelle sue regole giuridiche internazionali, che lei stessa, peraltro, non le rispetta, quando non le conviene, quando le cose si mettono male per i suoi interessi.

Questo tipo di evoluzione dipende forse dal fatto che la borghesia ha smesso sempre più d’essere “religiosa”? Per rispondere a questa domanda, ci si dovrebbe prima chiedere se l’aumento considerevole del benessere materiale può far diminuire l’interesse per la religione.

Infatti una fede religiosa rappresenta, in nuce, la speranza di ottenere in una dimensione ultraterrena ciò che non si è potuto ottenere su questo pianeta. Ma se su questa Terra si è sufficientemente soddisfatti, a che pro essere credenti? La fede diventa, più che una convinzione, un atteggiamento rituale, del tutto convenzionale, come quando i presidenti degli Stati Uniti giurano sulla Bibbia (Trump l’ha fatto su quella di Lincoln) di rispettare la Costituzione, senza rendersi conto che se il soggetto eletto fosse di religione islamica, potrebbe chiedere di giurare sul Corano, e soprattutto senza sapere che nei vangeli è vietato giurare, in quanto un buon cristiano dovrebbe essere sempre sincero nelle sue parole. Insomma, al massimo dovrebbero dire: “M’impegno a far rispettare la Costituzione e, se non lo faccio, autorizzo il popolo a insorgere contro di me”.

È difficile che la borghesia dichiari apertamente il proprio ateismo. Neppure Rousseau l’ha mai fatto. Neppure Cartesio o Spinoza, che pur ne avevano posto le basi teoriche. Semplicemente perché temevano d’essere eliminati: il primo rischiò d’essere avvelenato, mentre il secondo scampò per miracolo a un attentato. Di regola, se si veniva accusati di ateismo, si ritrattava (come per es. Galilei, Kant, Fichte…), oppure si finiva giustiziati (come per es. Bruno o Vanini), a meno che non si vivesse in un Paese rivoluzionario e non si beneficiasse di solide protezioni, come per es. l’Olanda di Ugo Grozio.

Infatti la borghesia, anche se pratica la democrazia diretta, sa bene d’aver bisogno di qualunque appoggio esterno contro chi, da posizioni proletarie, rivendica dei diritti sociali, fino al punto d’essere disposto a compiere un’insurrezione nazionale.

Oggi, in occidente, la borghesia che domina incontrastata è quella soprattutto finanziaria e, sul piano produttivo vero e proprio, quella monopolistica delle multinazionali. Uno può essere intelligente quanto vuole, ma, prima o poi, si scontrerà coi poteri forti e dovrà scendere a compromessi. L’odierno capitalismo è il trionfo dell’individualismo associato, cioè quello di chi sa costruire alleanze per espandersi a livello globale, uccidendo la concorrenza. Nessun borghese si riconoscerebbe in Rousseau, anche perché la democrazia prevalente è quella delegata, e gli Stati, divenuti elefantiaci, sono preposti a fare gli interessi soprattutto della grande borghesia, la quale non si fa molti scrupoli a impoverire quella piccola e media.

Tuttavia è interessante oggi porsi un’altra domanda: quando il socialismo mercantile dell’area asiatica prevarrà sul capitalismo privato di stampo occidentale, che fine farà la religione cristiana? Naturalmente verrà travolta. Il destino di tutto il cristianesimo borghese è strettamente correlato a quello del capitalismo privato. Il socialismo mercantile sarà fondamentalmente laico o addirittura ateistico; e l’attività affaristica verrà in qualche modo regolamentata dallo Stato, almeno a livello intenzionale o in ultima istanza.

Il mondo come lo vediamo adesso sarà molto diverso. Vi sarà meno bisogno di singole menti altamente illuminate, capaci di contrapporsi tra loro. Il progresso tecnico-scientifico sarà il prodotto di unità collettive, in cui ognuno lavorerà in un progetto comune e nessuno riceverà una medaglia d’oro.

 

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Vorrei fare però una precisazione, a scanso di equivoci.

Il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto, è stato sicuramente il credo più idoneo allo sviluppo del capitalismo, benché delle tre classiche confessioni (suddivise in ordine cronologico) – ortodossa, cattolica e protestante – solo quest’ultima sia riuscita a universalizzare quella “corruzione” che nel cattolicesimo si viveva a livelli sociali più ristretti.1

Dal cattolicesimo italiano è nata la borghesia comunale, antesignana di quella del moderno capitalismo industriale. Quella era una classe sociale che sapeva bene di non poter essere contestata da un papato altamente corrotto, per cui non aveva bisogno di criticarlo duramente, come invece facevano i movimenti pauperistici (detti “ereticali” dall’integralismo clericale).

Tuttavia il vero trionfo della classe borghese poteva avvenire solo in maniera rivoluzionaria, eliminando il potere politico del papato e della nobiltà terriera. Cosa che in Italia non si riuscì a fare, se non nella seconda metà del XIX sec. E ancora oggi, peraltro, abbiamo a che fare con uno “Stato” del Vaticano indipendente dallo Stato italiano.

Ebbene, se la fine del capitalismo privato occidentale comporterà la fine del cristianesimo borghese, sia esso cattolico o protestante, ciò non vuol dire che il capitalismo non potrà continuare a sussistere nell’ambito del socialismo mercantile (come per es. quello cinese), ove sicuramente prevarrà un’ideologia più laicistica.

Noi dobbiamo ragionare col criterio della “lunga durata” (la longue durée di braudeliana memoria). Schiavismo (privato e statale) e paganesimo (ideologia ad esso corrispondente) sono durati circa 4000 anni. Il capitalismo, che presuppone la persona giuridicamente libera in quanto portatrice di diritti naturali inalienabili, non poteva nascere sotto lo schiavismo pagano, in cui non esisteva neppure il concetto di “persona”, se non quello strettamente correlato a una “cittadinanza” e, all’interno di questa, a una proprietà particolare (statale o privata) dei mezzi produttivi.2

Occorreva il cristianesimo a dare al concetto di “persona” una valenza cosmopolitica, universalistica, andando oltre le particolarità etnico-tribali e nazionali, e naturalmente non senza passare attraverso la giustificazione moralistica della schiavitù, poi del servaggio e infine del lavoro salariato libero e sottopagato, quello che produce plusvalore.

In Asia, in Africa, in Sudamerica, in Oceania il capitalismo e il cristianesimo sono stati imposti con la forza dagli europei. Anche quando è avvenuta la decolonizzazione, si sono conservate le modalità coloniali di esistenza borghese e di credenza cristiana (salvo le eccezioni islamiste e quelle delle varie correnti asiatiche di tipo filosofico o religioso).3

Oggi assistiamo a questa situazione: l’unico Paese al mondo a professare ancora il politeismo pagano è l’India, ove il capitalismo autoctono (non quello importato con la forza dagli inglesi) è ancora primitivo, mercantilistico. Tale arretratezza è dovuta al fatto che, dopo aver cacciato gli inglesi, non si è fatto del cristianesimo la religione dominante. Si è rimasti legati a un paganesimo primitivo, che ancora prevede differenze di luogo e di casta. L’India è un Paese irrilevante sul piano politico-internazionale, nonostante l’enorme demografia.

Politicamente inconsistenti sono anche i Paesi islamici, nonostante quelli petroliferi abbiano un’enorme importanza sul piano economico, almeno finché le loro riserve strategiche non saranno esaurite e finché il mondo intero non sarà uscito dall’uso del fossile. L’aver associato l’islam alla decolonizzazione non ha aiutato questi Paesi a entrare nell’orbita del capitalismo avanzato, neppure sul piano della democrazia politica, in quanto i loro Stati restano fondamentalmente teocratici (salvo eccezioni naturalmente). Non li ha fatti diventare neppure dei Paesi socialisti.

L’unico Paese che somma in sé le caratteristiche più avanzate del capitalismo, sottoponendo quest’ultimo a controllo statale, e quelle più avanzate del laicismo (importate dall’Europa tramite l’ideologia del socialismo scientifico e sviluppate internamente da filosofie sostanzialmente più egualitarie di quelle induiste), è la Cina, strettamente alleata con quelle nazioni del sud-est asiatico che si sono liberate del colonialismo occidentale.

Ora, visto che il cristianesimo è riuscito a sopravvivere per 2000 anni (pur tradendo l’originario messaggio del Cristo, ch’era di tipo ateistico e politicamente eversivo), sarebbe del tutto naturale aspettarsi che il capitalismo associato al laicismo (che in Cina si esprime come “socialismo mercantile”) duri almeno un altro migliaio di anni. Forse ci vorrà un tempo del genere prima che ci si accorga che l’adozione del laicismo e il controllo statale dell’economia borghese non possono costituire una vera alternativa al capitalismo privato occidentale e al corrispondente cristianesimo borghese.

Esistono infine altre due nazioni i cui destini vanno ipotizzati: la Russia e il Giappone. La prima, con lo stalinismo, ha tradito il leninismo (ch’era socialista e laico); la seconda ha fatto dello shintoismo una specie di calvinismo a favore del capitalismo, associando un tardo feudalesimo a un capitalismo avanzato, nell’illusione di non perdere le proprie tradizioni.4

Tuttavia, essendo uscito sconfitto dall’ultima guerra mondiale, il Giappone è diventato una colonia americana. Ha smarrito la propria identità, la propria dignità, il proprio onore; e, quel che è peggio, continua a conservare inimicizia nei confronti della Cina. Il suo destino è segnato. Quando la Cina vincerà gli Stati Uniti, assorbirà anche il Giappone. La Cina non può scordare il tanto dolore subìto a causa dell’imperialismo nipponico, e ha aspettato invano delle scuse ufficiali, moralmente riparatrici (come d’altra parte non le ha ottenute lo stesso Giappone dagli Stati Uniti per l’uso delle due armi atomiche sui civili).

Quanto alla Russia, bisogna dire che ha fatto un passo avanti e due indietro. Rispetto al periodo bolscevico ha sicuramente fatto bene a liberarsi con decisione dello stalinismo e del socialismo statale, ma ha fatto molto male a smettere d’essere laica e di cercare una via più democratica del socialismo. Oggi, col putinismo, è tornata a tutelare un nazionalismo religioso, come al tempo dello zarismo, di orientamento ortodosso, con l’aggiunta di una sorta di capitalismo controllato dallo Stato (assai diverso da quello neoliberista inaugurato da quello sciagurato di El’cin, che portò il Paese alla bancarotta dopo averlo consegnato agli affaristi statunitensi).

Se la Russia venisse sconfitta dall’occidente euroamericano, anche la sua confessione ortodossa subirebbe un colpo devastante. Ecco perché questo enorme Paese deve ritrovare la strada che ha perduto, quella laico-socialista. Se non lo fa, non riuscirà a tenere unite così tante etnie e nazionalità pluriconfessionali. La Siberia vorrà staccarsi dall’area europea: non vorrà più essere “colonizzata”, anche se rischierà d’esserlo da parte della Cina, che dispone di un numero sufficiente di abitanti per popolare l’enorme distesa, per lo più disabitata, della Siberia.

Non è possibile tenere unito un Paese così grande e complesso in nome di una religione (patriottica), che pur delle tre confessioni cristiane è la più democratica (anche se non la più laica). E poi non è possibile che lo faccia l’area europea (quella più ortodossa), utilizzando le risorse naturali della Siberia, che è una regione per molti versi somigliante a tante regioni del Sud globale, dove, più che la religione, conta il contatto con la natura e il riferimento a tradizioni molto antiche.

 

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Naturalmente di tutte queste cose della Volpe non sa nulla, né poteva saperle, in quanto i suoi interessi andavano in tutt’altra direzione. Non gli interessavano le differenze sostanziali tra le tre confessioni cristiane. Vedeva solo il cristianesimo in sé e lo criticava dal punto di vista ateistico come una forma di alienazione.

Stranamente però, pur avendo afferrato bene che il cristiano-borghese era sostanzialmente borghese e solo formalmente cristiano, non arriva a capire che anche Rousseau rientrava in questa categoria sociologica, e che quini tutti i suoi riferimenti alla fede erano fatti senza alcuna vera convinzione: servivano solo per non aver noie coi poteri costituiti.

Non solo, ma all’autore sfuggono anche i rapporti storici tra cattolicesimo romano e borghesia comunale, e non ha mai affrontato (come invece Max Weber) quelli tra protestantesimo e capitalismo industriale. Ritiene, peraltro giustamente, che il formalismo della democrazia borghese sia dovuto a un riferimento tangibile alla religione cristiana (incorporata nel diritto civile). Con ciò, tuttavia, non riesce a ipotizzare che la democrazia borghese sarebbe stata formale anche se fosse stata atea. Anzi, sotto lo stalinismo, che ideologicamente era senza dubbio su posizioni ateistiche, persino il socialismo statale esprimeva una democrazia del tutto fittizia, che non fu certo superata né dal disgelo inaugurato da Chruščëv né dalla glasnost di Gorbačëv, per quanto fossero state poste basi utilissime.

 

Morale e lavoro

 

 

 

Della Volpe prosegue con un lungo e denso paragrafo dedicato al moralismo kantiano, probabilmente per far vedere che tra le concezioni giusnaturalistiche di Rousseau e quelle di Kant, essendo entrambe impostate su basi religiose, non vi era molta differenza.

In astratto è vero, ma Kant non parla mai di democrazia diretta. Per lui lo Stato prussiano era sufficiente, anche se non gli attribuiva, come invece l’hegeliana Filosofia del diritto, una particolare importanza. Hegel faceva presto a dire, in nome degli interessi statali, che la morale kantiana era formale e soggettivistica, ma evitava di associare questi limiti al cristianesimo, proprio per non essere infastidito dai poteri costituiti. Anzi proprio lui fu così servile da sostenere che la prova ontologica dell’esistenza di Dio, formulata da Anselmo d’Aosta, era psicologicamente accettabile, in quanto Dio può anche “esistere” se la coscienza lo sente, lo intuisce, si autoconvince. In fondo che male c’è? Doveva piuttosto essere Kant – secondo Hegel – a darsi una regolata nell’affrontare questioni così esistenziali con “arie di superiorità” (sic!).

L’analisi dellavolpiana dei limiti kantiani in merito alla seconda Critica è impeccabile: l’imperativo categorico è tanto più elevato, nella sua astrattezza, quanto meno è fattibile. È in sostanza una forzosità: il soggetto umano si deve “sforzare” di agire in maniera etica o morale (Kant non pone differenza – come invece Hegel – tra questi due termini), preoccupandosi di non farsi condizionare da nulla. Come se vivesse in un pianeta diverso da quello terreno! Come se noi non fossimo soggetti a influenze esterne dalla culla alla bara! L’unico modo per liberarsi dei condizionamenti negativi dovrebbe essere quello di lasciarsi determinare dai ritmi della natura, che ha leggi universali e necessarie, il cui mancato rispetto costituisce una minaccia per una qualunque autentica moralità umana. Ma chiedere questa cosa a due figli dell’Illuminismo, come Kant e Rousseau, che scrivevano da mane a sera, sarebbe stata fatica sprecata. Kant addirittura si chiedeva perché mai la natura, il cui fine era la razionalità umana, c’impedisse d’essere felici. E comunque l’Europa aveva smesso dal tempo dei Romani di rispettare la natura: si pensi solo al fatto che per costruire strade molto diritte, finalizzate a soldati e a mercanti, tutte le colline che s’incontravano andavano livellate.

In tale profonda limitatezza kantiana (che è poi un’illusorietà di purezza intenzionale) fa bene della Volpe a vedere tracce, laicizzate, della teologia cristiana; e fa ancora più bene a sostenere che la morale kantiana è, in ultima istanza, soltanto “una retorica che si crede innocente” (p. 206), in quanto basata su una sorta di verginità primigenia, su una innocenza disarmata, come quella dei bambini più piccoli.

Tutto quello che pretende d’essere aprioristico, è affine a una visione religiosa (platonico-cristiana) della vita. Tutti i postulati kantiani sono una riformulazione di princìpi o massime evangeliche: da “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, a “Fai in modo che la tua azione abbia un valore universale”. Idee, queste, che verranno riprese da Husserl, salvo questa differenza, che per quest’ultimo doveva bastare la sola intenzione, in quanto l’azione morale vera e propria non poteva essere esercitata in società altamente conflittuali come quelle europee. Di conseguenza qualunque riferimento alla religione sarebbe stato del tutto inutile: non è con la “fede” che si risolvono gli antagonismi sociali.

Forse della Volpe tende un po’ a esagerare quando attribuisce a Kant una sorta di “malizia borghese” che, in un accademico come lui, così chiuso in se stesso, estraniato dalla società, difficilmente si sarebbe potuta riscontrare. Che la sua morale si ponesse in maniera “classista”, come qualunque etica cristiana, andava sicuramente oltre qualunque consapevolezza che Kant potesse avere, anche perché la Prussia della sua epoca, in questo, non lo favoriva affatto. A quel tempo la religione era un fenomeno sociologicamente rilevabile: il luteranesimo era addirittura una Chiesa di Stato, cioè lo Stato era confessionale.

Sono espressioni forti, benché giuste in sé, quelle in cui della Volpe parla di “utilitarismo surrettizio, in quanto teologico” e di “narcisismo etico, in quanto spirituale” (p. 211). Ma per convincere un filosofo astratto come Kant della fondatezza di tali contestazioni, lo si sarebbe dovuto, anzitutto, togliere dall’Università e dai suoi studi teorici, per poi coinvolgerlo in un’esperienza davvero significativa, a contatto con istanze e bisogni sociali da soddisfare.

Tuttavia non è su questo che si vuol fare un appunto a della Volpe. È un’altra l’affermazione che ci lascia molto perplessi. Questa: “la dignità dell’interiorità pura” non può essere dissociata dalla “convivenza o socialità tipica del lavoro” (ib.). In caso contrario la morale diventa particolaristica o individualistica, quella dell’uomo “comune-borghese”.

Questo modo di considerare il lavoro – bisogna dirlo con molta franchezza – è non meno astratto e aprioristico della morale kantiana. Questo perché il lavoro in sé non produce valori morali ma solo beni materiali, cioè valori economici. Il lavoro in sé è, in un certo, avalutativo o eticamente ambiguo, nei cui confronti il giudizio dovrebbe essere sospensivo, almeno di primo acchito. Il lavoro, qualunque esso sia, non può essere – avrebbe detto Hegel – “per sé”, cioè autoconsapevole.

Certo il lavoro di un ladro o di un killer di professione o di una prostituta, ecc., possono anche essere considerati “indegni” in sé e per sé, ma sarebbe incredibilmente ingenuo o pretestuoso, prima di giudicarli, non sottoporre ad analisi il pregresso motivazionale, i vari tipi di condizionamenti pratici che possono aver indotto a compiere una determinata scelta professionale (non è forse il vangelo matteano a sostenere che le prostitute avrebbero preceduto nel regno divino gli ipocriti farisei?). Inoltre chi avrebbe il coraggio di sostenere che, a confronto di questi lavori, quello degli operai assunti in aziende militari che sostengono guerre ingiuste, molto pericolose, da non farsi assolutamente, risulta pienamente legittimo, in quanto non sono loro che finalizzano l’uso delle armi che fabbricano? Chi potrebbe dire che gli operai impiegati in aziende che inquinano gravemente l’ambiente o lo desertificano o ammalano le persone che lo abitano, sono più morali di un truffatore incallito o di uno stupratore seriale o di un usuraio senza scrupoli?

Non è il lavoro in sé che dà senso alla vita, né si può pensare che abbia senso vivere per lavorare. Il lavoro ha senso all’interno di una comunità che vive di valori etici che precedono l’attività lavorativa.

Bisogna anzi dire che tutta questa importanza attribuita al lavoro fa parte, essa stessa, della cultura borghese, in quanto è stata proprio la borghesia ad associarlo alla ricerca del benessere materiale, a finalizzarlo alla ricchezza individuale o familiare, alla produzione di valori (di scambio) mercantili. In tal senso non basta abolire il “lavoro salariato” per costruire un socialismo davvero democratico: è lo stesso concetto in sé di “lavoro” che va decisamente ripensato.

 

Giusnaturalismo borghese e comunità pre-classista

 

 

 

Della Volpe è durissimo nei confronti del giusnaturalismo, sia kantiano che russoiano. Lo giudica di un’ipocrisia eccezionale, in quanto vuol far passare per “naturale” qualcosa che è assolutamente “storico”, cioè il processo di affermazione della borghesia, la quale si vanta di dire che il diritto alla proprietà privata dei mezzi produttivi è un diritto universale, aprioristico, pre-sociale.

La borghesia, i giusnaturalisti – osserva della Volpe – sono sommamente falsi quando fanno dipendere la libertà da un’uguaglianza astratta e quando fanno coincidere tale uguaglianza con l’indipendenza del singolo individuo, che è poi quello appartenente alla stessa classe borghese. Reputa il contrattualismo fra pari una solenne buggeratura, in quanto viene escluso il proletariato, che non possiede nulla, e che quindi – quando firma contratti – lo fa per essere riconfermato nella propria sostanziale precarietà, a prescindere dalla propria volontà.

Ora, è indubbiamente vero che nella società borghese “la mera libertà politica” è solo una “traduzione aposteriori delle libertà naturali o apriori” (p. 213), che sono quanto di più artificiale esista, soprattutto quella alla proprietà privata. Della Volpe fa comunque bene a riconoscere a questo giusnaturalismo astratto, di matrice cristiana, la funzione polemica, contestativa, nei confronti dell’assolutismo ereditario, di diritto divino, dei sovrani.

Tuttavia, secondo noi, il vero problema è un altro, e lo diciamo a prescindere totalmente dalle tesi dellavolpiane. Vogliamo qui fare un discorso più generale.

Anzitutto è sbagliato sostenere che una società pre-classista sia un’invenzione di qualche teorico del diritto. Una società del genere non può essere definita “naturale” in opposizione a “storica”. La storia non inizia con lo schiavismo, e il concetto di “preistoria” non ha alcun significato concettuale. L’unica preistoria sensata è stata quella in cui il pianeta si stava formando per ospitare l’essere umano (e ci ha messo 4,5 miliardi di anni).

L’uomo cosiddetto “primitivo”5 era sociale per natura, per cui bisogna escludere a priori che fosse un individuo isolato o appartenente a piccolissimi gruppi clanico-parentali.

Piuttosto dovremmo dire che l’individuo è “isolato” nella società borghese, in quanto ricerca un proprio benessere materiale in maniera indipendente da una comunità originaria e quindi in opposizione alle stesse persone che incontra nella società mercantile. È isolato perché si è dissociato da un pregresso comunitario, che ne sia consapevole o no, che l’abbiano fatto i suoi antenati o lui stesso. Il borghese non è il figliol prodigo dei vangeli, ma l’affarista nella parabola dei talenti. Non è uno che si guarda indietro e si chiede da dove viene. Preferisce guardare avanti, calpestando quante più persone possibili.

In secondo luogo non è pensabile che la comunità pre-classista avesse l’istanza per rivendicare concetti come libertà, uguaglianza, giustizia… Il senso del “diritto” doveva esserle del tutto estraneo. Là dove si vive un rapporto naturale con la natura, il rapporto è naturale anche tra esseri umani. La socializzazione è una conseguenza della naturalità: al di fuori di questa naturalità si può parlare al massimo di “socievolezza” o di “naturalezza”, che però sono finzioni sceniche, forzature relazionali. In tale dimensione arcaica le caratteristiche della socializzazione e della naturalità vengono date per acquisite da una tradizione consolidata.

Sono gli antenati che garantiscono la giustezza del proprio vissuto contemporaneo, e, nel presente, la generazione ha cura di lasciare ai posteri una situazione il più possibile immutata. Cioè qualunque modifica all’ambiente non può essere ereditata dalle generazioni successive come un peso, come un problema da risolvere. Il progresso deve essere conservativo; e se, in taluni aspetti, vuole essere innovativo, non può esserlo in maniera da sconvolgere le fondamenta della comunità.

In ogni caso da della Volpe non è possibile aspettarsi una sensibilità etnoantropologica. Quando, alla fine della sua vita, parla di Lévi-Strauss, non ha nessuna parola di riguardo. Secondo lui l’antropologia era solo “una parodia di scienza umana moderna” (p. 411 del vol. n. 6, ed. cit.), una specie di “canto del cigno” di una cultura borghese in decomposizione.

 

Il giusnaturalismo di Locke

 

 

 

Fa bene della Volpe a criticare il giusnaturalista inglese John Locke, quando questi afferma la seguente assurdità: “Tutto ciò che l’uomo impiega di attività operante per procacciare conforto e sostegno alla propria esistenza […] appartiene interamente a lui e non è già patrimonio comune a tutti” (cit. a p. 216). Dove sta l’assurdità? Nel definire questo tipo di lavoro, tipicamente borghese, un diritto innato o naturale.

Locke è vissuto tra il 1632 e il 1704. L’Inghilterra, fatta la rivoluzione, si accingeva a diventare una potenza colonialistica, rivale di Spagna, Portogallo e Olanda, che da tempo avevano inaugurato il colonialismo europeo in Africa, Asia e America Latina.

I racconti sulle comunità primitive da colonizzare con tutta la forza e l’astuzia possibile erano già noti. Locke conosceva sicuramente anche l’Utopia di Thomas More. Come poteva avere una visione del lavoro così antistorica? Oggi sarebbe impensabile, e non perché l’occidente non voglia continuare a dominare le popolazioni che giudica “inferiori”, ma perché una sfilza di etnologi e antropologi direbbero che si sta guardando il passato con gli occhi del presente, oppure che si stanno mettendo a confronto realtà tra loro completamente diverse. E questo benché, al giorno d’oggi, quelle realtà cosiddette “primitive” siano in procinto di scomparire, mentre alla fine del ’600 erano ancora molto numerose. È proprio vero – come qualcuno ha detto – che quando si iniziano ad allestire musei o monumenti storici o centri di ricerca a favore di certe popolazioni, vuol dire che le abbiamo già tolte di mezzo.

Eppure Locke è considerato un teorico della democrazia moderna, un borghese molto liberale, un nemico giurato dell’autoritarismo politico, una mente molto illuminata. Proprio quando era consigliere per il commercio nelle colonie inglesi (traendo lui stesso grandi profitti dallo schiavismo praticato in Africa), scrisse i Due trattati sul governo contro l’assolutismo di origine divina. Quale studente di Scienze politiche potrebbe laurearsi senza conoscere le sue opere e senza apprezzarle?

È stato un peccato che della Volpe non avesse delle basi storiche, altrimenti – considerando i suoi continui riferimenti ai classici del marxismo – avrebbe scritto pagine molto interessanti, senza rischiare d’essere così ripetitivo.

Infatti, un altro critico, al suo posto, si sarebbe chiesto: da dove viene fuori uno come Locke? Qual era la cultura che, nel mentre lo faceva sentire indipendente dall’autoritarismo degli Stuart, non gli permetteva di vedere che nelle colonie africane si stavano sottomettendo, in nome di interessi borghesi, delle comunità ancestrali, anzi intere civiltà pre-classiste, che avrebbero potuto costituire un modello alternativo a qualunque società antagonistica formatasi in Europa o nel Mediterraneo, a partire da quella classica del mondo greco o egizio?

Locke rappresentava una borghesia individualistica e affaristica, lontana dal sentire aristocratico (tardo feudale) del casato degli Stuart (ma si pensi anche alla durissima guerra delle Due Rose, tra le dinastie York e Lancaster nel periodo 1455-87). Aspirava non a vivere di rendita sfruttando la proprietà privata della terra e il servaggio dei contadini, ma ad arricchirsi tramite il commercio degli schiavi. Se non fosse stato così “intellettuale”, avrebbe sicuramente messo in piedi un’attività aziendale, che gli avrebbe assicurato dei profitti basati sullo sfruttamento della manodopera altrui, salariata o persino schiavile, visto che il cristianesimo, al di fuori dei confini europei, non guardava in faccia a nessuno. Alla borghesia europea pareva normalissimo essere democratica in patria e schiavista nelle colonie.

Dunque da dove vien fuori una cultura del genere? Quando Locke tuona contro l’aristocrazia autoritaria e gaudente (che dopo la rivoluzione di Cromwell diverrà essa stessa “borghese”), la mentalità razzista, individualistica, antagonistica caratterizzava già il popolo inglese (almeno la parte che contava), come ben documentano le opere di Shakespeare. La borghesia (soprattutto quella puritana, calvinista6) non ha fatto che riempire di un nuovo contenuto un medesimo contenitore: non più (o non tanto) la terra, quanto soprattutto il denaro, la ricerca di capitale da investire in attività produttive industriali.

Infatti in quell’isola emarginata dal continente europeo (soprattutto dopo la perduta guerra dei Cent’anni contro la Francia nel periodo 1337-1453) spunterà fuori, mezzo secolo dopo la morte di Locke e grazie al carbone e al ferro, quella rivoluzione industriale che ancora oggi nessun Paese al mondo ha avuto il coraggio di mettere in discussione. Tutti vogliono arricchirsi a discapito della natura. Che il capitalismo sia privato o statale o rivestito di una patina di socialismo; che si basi su energia fossile o rinnovabile o nucleare, sembra non fare alcuna differenza. Se anche dovessero pagare le generazioni future per centinaia o migliaia di anni, indietro non si torna. Dovrebbe accadere qualcosa di così catastrofico da obbligarci a rispondere a una semplice ma cruciale domanda: “In che cosa abbiamo sbagliato?”.

 

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Detto questo, bisognerebbe analizzare meglio la tesi lockiana secondo cui “la difesa di ogni bene privato è legge di natura”. Una frase di questo genere potrebbe avere un qualche significato (ovviamente polemico) in uno Stato socialista ove tutto fosse nazionalizzato. Senonché, anche in questo caso, non si potrebbe parlare di “legge di natura”. Al massimo è “naturale” che ognuno possieda degli oggetti personali di uso quotidiano o un orticello dove coltivare degli ortaggi, ma se la proprietà privata si riferisce ai mezzi produttivi che alimentano un’intera comunità, o se si pretende di sostenere, visto che la natura non ci fa tutti uguali, che chi ha più capacità, ha diritto ad avere più beni materiali, allora non solo non ha senso parlare di diritto “naturale”, ma neppure di “diritto” in generale.

Qui bisognerebbe essere assolutamente chiari, onde evitare spiacevoli malintesi quando si andrà a costruire un socialismo davvero democratico. La proprietà privata dei mezzi produttivi ha senso solo nella misura in cui tali mezzi non sono prevalenti, prioritari, fondamentali per l’autosussistenza di una comunità locale. Non ha neppure senso (perché sarebbe sostanzialmente moralistico o paternalistico) che si edifichi un’istituzione che, dall’esterno (ad extra) delle comunità territoriali, controlli che tale proprietà privata non sconfini oltre i limiti del consentito o del lecito.

La comunità locale deve assolutamente autoregolamentarsi, deve cioè “far politica” a se stessa, senza delegare a terzi, a illusori organi indipendenti o equidistanti la soluzione di problemi gestionali che possono sorgere all’interno (ab intra) della stessa comunità. Nell’interesse di se stessa, del proprio futuro e quindi del proprio destino, la comunità deve prendersi le proprie responsabilità, amministrando come organo decisionale tutto quanto riguarda quella va chiamata “democrazia diretta”, possibile solo a livello locale, tra soggetti che si conoscono personalmente o che comunque possono abbastanza agevolmente controllarsi a vicenda. Questo tipo di democrazia non è solo “politica”, ma anche sociale e culturale (e nel sociale va incluso l’economico, così come nel culturale vanno incluse le opinioni su qualunque argomento).

Indubbiamente non si può impedire a qualcuno di usare la propria intelligenza per migliorare le condizioni di vita di se stesso, dei propri familiari, del gruppo o della comunità di appartenenza. Infatti non ha alcun senso “imporre” un livellamento sociale in cui l’uguaglianza sia così misera da risultare deprimente. Pensare di realizzare una sorta di “socialismo della miseria” per impedire qualunque forma di invidia o di gelosia è da mentecatti. I sentimenti più bassi o sono uno stimolo per migliorarsi o è meglio evitarli come moralmente degradanti, nonché inutili sul piano produttivo.

Se un agio o una comodità può essere messo a disposizione di tutti gli appartenenti di un gruppo, non c’è alcun motivo (almeno in teoria) per impedirne la diffusione. Semmai si dovrebbe dire che su questo pianeta non siamo noi umani che decidiamo quando i limiti non possono essere oltrepassati. È la natura che ce lo impone. La Terra è un globo geograficamente limitato, i cui confini sono determinati, ben circoscritti: non siamo più ai tempi di Cristoforo Colombo, quando si pensava d’essere sbarcati nelle “Indie” e non in un continente mai visto dagli europei (anche se conosciuto dagli asiatici 15-20.000 anni prima). Quanto più si allargano i commerci e i mezzi di comunicazione, tanto più avvertiamo il bisogno di uscire da questo involucro, somigliante al sacco amniotico per il feto materno. Non stiamo vivendo in uno spazio infinito, in un cosmo illimitato, come l’ápeiron del filosofo Anassimandro. Quando lo faremo, saranno altre le condizioni di vivibilità che dovremo porci o che ci verranno date.

Rispettare su questo pianeta la natura vuol dire non metterla in condizioni di desertificarsi, cioè di considerare il genere umano come il suo peggior nemico. Se non riusciamo a ottimizzare il nostro rapporto con l’ambiente, sarà impossibile stabilire una vera uguaglianza sociale; oscilleremo sempre tra due estremi che si oppongono senza conciliarsi: individualismo e collettivismo.

 

Democrazia politica e separazione dei poteri

 

 

 

Storicamente è risultato scontato, in ogni tempo e luogo, che quando la borghesia riesce a costruirsi un consistente potere economico (e in Europa occidentale l’ha fatto all’interno del feudalesimo), ad un certo punto essa stessa pretende un adeguato o corrispondente potere politico. Che questo potere lo rivendichi contro una monarchia assolutistica, ereditaria, concepita per diritto divino, al fine di affermare una monarchia costituzionale o una repubblica parlamentare; o che, al contrario, lo pretenda proprio appoggiandosi a una tradizionale monarchia per limitare di molto i poteri locali-regionali dei signori feudali, del ceto nobiliare (sia esso laico o ecclesiastico), non fa molta differenza. In Europa occidentale abbiamo visto di tutto.

Agli interessi economici di una borghesia può far molto comodo, per agevolare al massimo i suoi scambi commerciali, un potere monarchico centralizzato, capace d’imporsi a livello nazionale, capace quindi di uniformare pesi, misure, monete, dazi, tributi ecc. Poi, col tempo, tale potere verrà tenuto sotto controllo tramite una Costituzione. Se in Francia il re l’avesse accettata subito, probabilmente la monarchia avrebbe continuato a esistere come in Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi ecc.

Per la borghesia è del tutto indifferente che a livello istituzionale sia in vigore la monarchia o la repubblica: l’importante è che sia lei a comandare. Negli Stati Uniti il presidente sembra addirittura un sovrano assoluto per diritto popolare, eletto unicamente sulla base di un voto quadriennale. I votanti effettivi, che sono circa la metà degli aventi diritto (per cui il presidente viene eletto con circa il 25% dei voti legittimi), gli concedono (persino per un doppio mandato) un potere incredibile, soprattutto sul piano militare, che può essere contrastato solo da enormi poteri privati di tipo economico e finanziario. Che poi alla fin fine sono proprio questi stessi poteri che comandano, e il presidente non fa che rappresentarli.

È difficile pensare che una classe del genere, quale quella borghese, non abbia storicamente costituito, quanto meno sul piano politico, un’istanza di superiore democraticità. Nell’ambito del Medioevo tutti i poteri sovrani erano di tipo “monarchico”, cioè affini a una forza di tipo militare, che diventava economica (agraria) solo come conseguenza diretta. La terra era frutto di conquiste militari, quelle delle popolazioni asiatiche al tempo dell’impero romano. Imperatori, re e signorotti locali erano esperti nel campo delle armi e si fregiavano di titoli nobiliari e di ampi appoggi ideologici da parte del clero (per es. le popolazioni germaniche erano tutte cristiano-arianiche grazie al vescovo Ulfila). Si accontentavano di rendite feudali, basate sul servaggio dei contadini e sui tributi imposti a città e villaggi.

Paradossalmente esisteva più democrazia sociale là dove, come nel Medioevo, esisteva meno democrazia politica. Nessuno infatti veniva cacciato dalla terra, a meno che il proprietario feudale non si fosse “imborghesito”, cioè non avesse iniziato a trasformare gli arativi in prativi, al fine di vendere sul mercato la preziosa lana degli ovini alle aziende tessili.

Gli aristocratici furono nettamente influenzati dalla borghesia: non erano preparati a essere sconfitti su un piano che non fosse quello militare. L’espulsione dei loro contadini dalle terre sarà una prassi consueta quando i nobili cominceranno a sentirsi attratti dalle merci esotiche e costose che la borghesia vendeva sui mercati. Quella espulsione sarà così imponente che determinerà forme di brigantaggio irriducibile, criminalità più o meno organizzata, emigrazioni di massa, anche oltreoceano, e così via.

La borghesia riuscì ad avere più democrazia politica proprio nel momento in cui imponeva una propria dittatura economica. Nella sovrastruttura tutto diventava molto formale, convenzionale, quasi rituale. Le monarchie potevano anche sussistere, ma come un retaggio del passato, privo di vero potere politico: erano un guscio vuoto.

In una situazione del genere avevano ragione Locke e Montesquieu a parlare di democrazia rappresentativa e quindi di separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), oppure avevano ragione Rousseau, Marx, Lenin a sostenere la sovranità popolare, cioè la “non rappresentatività” della democrazia diretta?

Fa specie che della Volpe metta sullo stesso piano un fanatico stalinista come Vyšinskij e i classici del marxismo. Ma tant’è, prendiamolo come un limite del suo tempo, cercando piuttosto di capirne le ragioni. A suo merito va comunque il fatto che, quando Chruščëv subentrò a Stalin, egli evitò di parlare di “revisionismo”, come invece fecero i maoisti.

Una cosa appare subito evidente: laddove esiste uno “Stato nazionale”, come prodotto della borghesia, che si oppone a Signorie o Principali locali-regionali, è giocoforza sostenere l’idea di un parlamento altrettanto nazionale, che risiede in una capitale centralizzata.

Dopodiché è non meno evidente che la presenza stessa di un parlamento impone la divisione dei tre classici poteri, a meno che, per qualche ragione, non si sia costretti ad accettare una soluzione dittatoriale, naturalmente in via provvisoria.

In presenza di una dittatura politica, il legislativo e l’esecutivo sono coincidenti, mentre il giudiziario viene politicamente ridotto al silenzio, nel senso che non si vedrà mai un magistrato accusare un politico di qualche reato senza il consenso di altri politici. Generalmente i dittatori risolvono privatamente le situazioni per loro imbarazzanti. Un politico che rischia d’essere incriminato o inquisito per qualunque reato, viene sostituito, cioè trasferito a incarichi meno prestigiosi, o addirittura eliminato.

In situazioni normali (e per la borghesia la democrazia è più normale della dittatura) la separazione dei poteri viene data per scontata: è il migliore esempio di democrazia politica, ovviamente sempre nell’ambito delle finzioni. In apparenza l’esecutivo dipende dal legislativo, ed entrambi possono essere soggetti a controlli giudiziari, sulla base delle regole costituzionali e dei due codici fondamentali, cioè civile e penale. Poi starà ai parlamentari se accettare di difendere il proprio collega incriminato (almeno finché resta in carica), o se impedire che si avvalga (da subito) del privilegio dell’immunità.

Tuttavia Rousseau, quando parlava di sovranità popolare, non aveva in mente uno Stato “nazionale”. In effetti democrazia diretta vuol dire non delegata, a meno che non lo debba essere per uno scopo preciso e quindi per un tempo limitato. Di regola l’aggettivo “diretta” suppone una comunità locale, come poteva essere una pólis greca o un Comune italiano, dove tutti si conoscevano, fatta salva la precisazione che nel mondo schiavistico e feudale ben pochi potevano pretendere di “comandare”.

Se democrazia vuol dire “governo del popolo”, tutti devono poter comandare, e tutti sono tenuti a obbedire, a prescindere, in genere, da qualunque altra cosa. Neppure Rousseau è mai arrivato a tanta radicalità. Per averla, abbiamo dovuto attendere la Comune di Parigi e i soviet al tempo della rivoluzione bolscevica: due esperimenti politici che purtroppo ebbero vita breve.

Semmai è un’altra la questione che dovremmo porci (e della Volpe non lo fa: lo si capisce anche dal fatto che non smaschera l’ipocrisia di Vyšinskij): in presenza di un socialismo statalizzato ha senso parlare di separazione dei poteri? Secondo gli stalinisti ovviamente no, ma poi si è visto com’è andata a finire. Una rivoluzione “proletaria” si è subito trasformata in una dittatura “burocratica”, dove lo Stato si era completamente sostituito alla società civile.

Ora chiediamoci: la separazione dei poteri avrebbe potuto impedire tale svolgimento dei fatti, o almeno ridurne la drammaticità?

Sinceramente parlando, crediamo di no, e non perché optiamo per soluzioni anarchiche, quanto perché lo Stato è un ente astratto, che per definizione non può rappresentare istanze o interessi popolari. Lo Stato non diventa democratico o autoritario a seconda di chi lo gestisce. Lo Stato è un organo oppressivo di per sé, alieno alla società civile.

Una società è “civile” non perché accetta la formale democrazia politica della borghesia, ma perché è in grado di autogestirsi, anzi di autogovernarsi: questo è un diritto che neppure il socialismo statale ha mai voluto riconoscere.

Una separazione dei poteri è un controsenso a livello locale, ove si esercita la democrazia diretta, poiché essa presuppone una mancanza di fiducia reciproca tra persone che si frequentano abitualmente.

Al massimo, quando si deve giudicare una persona, sarebbe bene, dopo averla debitamente ascoltata per farsi un’idea sufficientemente chiara della vicenda, oggetto d’indagine, che non si discutesse sulla pena da infliggere in sua presenza. Quando si tratta di decidere sulle sorti di un imputato, il voto dovrebbe essere segreto, cioè di coscienza, e ci si dovrebbe limitare a prenderne atto, senza discutere oltre, a meno che non subentrino nuovi elementi che richiedono la riapertura del caso.

 

Diritto, lavoro e bisogni

 

 

 

Il paragrafo 7 del capitolo II (pp. 230-7) è talmente denso che meriterebbe d’essere analizzato in un libro a parte. Anche perché, nonostante sia stato scritto negli anni ’60, è abbastanza attuale.

Infatti siamo ancora lontanissimi dall’aver realizzato uno dei princìpi cardine del marxismo classico: il diritto, così com’è, qualunque esso sia, va abolito, in quanto “consiste nell’applicazione di una regola unica a uomini differenti, che, di fatto, non sono né identici né uguali” (p. 230).

Da un lato il diritto è sorto per regolamentare delle differenze di proprietà, di interessi, che, senza una qualche forma di conciliazione, potrebbero portare a scontri pericolosi. Dall’altro però lo stesso diritto si limita ad attenuare queste differenze, non potendo in alcun modo eliminarle.

Infine, non volendo far vedere la propria impotenza fattuale, che alla radice non può risolvere alcun vero problema conflittuale, il diritto ha la pretesa di far vedere a tutti che è imparziale. Infatti si dice, mentendo oggettivamente, cioè a prescindere dalle proprie intenzioni, che la legge è uguale per tutti, o che di fronte alla legge si è tutti uguali, e altre sciocchezze del genere.

Non solo si mente, poiché si sa benissimo che, sul piano pratico, questo principio non può essere applicato con coerenza in alcun caso (basta vedere la differenza, solo per fare un esempio, tra avvocato privato e avvocato d’ufficio); ma si finge anche di non sapere che se davvero si applicasse questo principio con coerenza, si rischierebbe facilmente di fare un danno ancora più grande. Infatti, anche se esistesse la giustizia sociale, resterebbero sempre tutte quelle diversità imposte dalla natura o dalle circostanze fortuite (malattie, incidenti…).

Lo sanno tutte le persone di senno, intellettualmente oneste, che la vera uguaglianza è determinata dalla diversa soddisfazione dei bisogni, non dall’uguale soddisfazione dei diritti. Per es. un malato ha più bisogni di una persona sana, un bambino rispetto a un adulto, un anziano rispetto a un giovane, e così via. Anche se fingiamo di non accorgercene, ognuno può vederlo tranquillamente coi propri occhi. Chi ha più bisogni, dovrebbe avere più diritti: un diritto generico, valido per tutti, non ha senso, non può e non deve esistere.

Ma se questo è vero nei confronti delle diversità imposte dalla natura o da circostanze imponderabili, indipendenti dalla propria volontà o non debitamente calcolate, è vero anche in tante altre situazioni, dove la volontà gioca un qualche ruolo. Per es. il furto compiuto da un povero non dovrebbe subire la stessa pena di quello compiuto da un ricco; un immigrato che delinque non ha le stesse opportunità di un residente per non farlo. “Il diritto – diceva Marx nel lontano 1875 – dovrebbe essere non uguale, ma disuguale”.

Oggi, a sentir frasi del genere, si obietterebbe, unanimemente, che siamo nel più puro utopismo, o che una condizione di vita del genere, in cui vengono rispettati tutti i bisogni, poteva al massimo esistere in una società primitiva, ove non aveva senso difendere una proprietà privata dei mezzi produttivi, in quando questi stessi mezzi non andavano oltre l’arco e le frecce.

Eppure il socialismo scientifico ambiva a non essere confuso con quello utopistico. Infatti ammetteva la presenza del diritto nella fase della ripartizione uguale dei prodotti del lavoro, cioè nella fase socialista, diversa da quella comunista. Pur non essendoci sfruttamento di manodopera, il diritto borghese avrebbe continuato a esistere per un certo tempo.

Ora, devo dire che questo modo di ragionare mi lascia un po’ perplesso, semplicemente perché nessuno è in grado di stabilire quando il socialismo finisce e quando inizia il comunismo. E siccome nessuno può farlo, né con molta né con poca sicurezza, e meno che mai se si è in presenza di un socialismo statalizzato, sarebbe bene che l’obiettivo di questa transizione non fosse rimandabile a un futuro imprecisato, cioè bisognerebbe pensarci quanto prima, finalizzando ogni attività del presente al suo conseguimento nell’arco di una generazione, al massimo due.

In altre parole non credo proprio che la transizione possa dipendere da una crescita notevole delle forze produttive, in modo che a tutti possa essere garantito un certo benessere. Qui il problema, più che economico, è politico. Se una trasformazione del genere la si vuole per davvero, si è anche disposti a sacrificarsi sul piano materiale, però coi sacrifici bisogna vedere dei risultati tangibili, altrimenti, alla luce di quanto accaduto nel passato, la percezione di un’illusione, di una presa in giro, sarà inevitabile.

Analizziamo questi tre princìpi, su cui – molti lo pensano – si potrebbe costruire il socialismo.

“Chi non lavora, non mangia”. È giusto opporsi a chi vuol vivere di rendita o sfruttando il lavoro e le risorse altrui. Ma è orribile pensare che chi è malato o bambino o anziano o menomato non debba mangiare come le altre categorie di lavoratori. Il concetto di “persona” va al di là delle sue mansioni o funzioni operative.

Ora vediamo questo: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”. Anche questo principio è molto limitativo, poiché la soddisfazione dei bisogni vitali non può essere in proporzione alle proprie capacità lavorative, né si può lasciare a una famiglia nucleare il compito di distribuire al proprio interno il compenso ottenuto dal lavoro profuso, a meno che non si voglia disincentivare l’incremento demografico.

Se a uno piace lavorare molto, da mane a sera, è affar suo, è un suo “problema”. Ma la distribuzione dei prodotti deve avvenire sulla base dei bisogni. Se uno pretende che avvenga così, è evidente che capirà da solo che non può starsene con le mani in mano, non può oziare, sapendo di dover produrre. Il lavoro diventerà una sua attività spontanea, quotidiana. Ma se uno pensa di poter vivere il lavoro in maniera tale da ledere altri aspetti della sua vita, quali l’amicizia, l’assistenza, la passione per un interesse intellettuale o artigianale, allora qui si sconfina nella patologia. Vivere per il lavoro, trascurando tutto il resto, non è normale.

Terzo principio: “Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”. Ottimo! Questo è il vero comunismo! Aggiungerei che i bisogni vanno soddisfatti a prescindere da ciò che uno può dare agli altri. Cioè in una comunità, in cui tutti si conoscono, chiunque vede quali sono i lavori da fare, e sarà una sua soddisfazione personale sentirsi utile per gli altri, ma a nessuno dovrebbe venire in mente che i bisogni vanno soddisfatti solo perché o quando si “produce” qualcosa di utile per la comunità. Questa filosofia utilitaristica è l’anticamera della civiltà borghese.

In fondo che esigenze ha una persona? Sono minime: nutrirsi, vestirsi, ripararsi… Non c’è bisogno di produrre ogni giorno qualcosa per poterli soddisfare. Dobbiamo ragionare pensando più alle necessità quotidiane che al lavoro. Noi non abbiamo bisogno di produrre “ricchezza”, ma di vivere sulla base di una relativa sicurezza esistenziale. Se avvertiamo che la nostra vita è seriamente a rischio, se percepiamo di essere gravemente minacciati da qualcosa, inevitabilmente perdiamo l’obiettività del giudizio e finiamo col compiere scelte avventate.

Ora, visto che i bisogni sono minimi, non si capisce perché si debba attendere che la società diventi molto agiata, prima di sentirsi soddisfatti di sé, sufficientemente liberi. L’edificazione del comunismo va considerata del tutto indipendente dal livello di benessere materiale che può raggiungere una comunità locale o anche un’intera nazione.

Ecco perché il comunismo, una volta eliminato lo sfruttamento, va realizzato il più presto possibile. Chi compie una rivoluzione, non può accontentarsi di un successo politico: vuole vedere anche un risultato pratico. Anzi, non solo va eliminato lo sfruttamento del lavoro altrui (cosa possibile dopo aver socializzato la proprietà dei mezzi produttivi), ma anche lo sfruttamento della natura. La natura va utilizzata, non sfruttata. E al lavoro altrui si partecipa con convinzione e passione, in quanto si condivide un percorso comune, anzi un destino comune. Non c’è bisogno di “imporlo” come un dovere. Chi lo sente come un dovere, cui potrebbe sottrarsi con una certa astuzia, dimostra di non aver capito niente dello spirito collettivo.

 

Libertà e uguaglianza

 

 

 

Come noto, Hegel criticava Kant quando questi, avendo orrore della realtà del suo tempo, si rifugiava nella buona volontà del “dover essere”, cioè in se stesso.

Per Hegel invece, che in questo sommava Parmenide a Spinoza, l’essere è e non può non essere, e se la realtà ci sembra contraddittoria, dobbiamo comunque accettarla per quello che è, stoicamente, come la migliore possibile, adeguando ad essa la nostra volontà. Assumere la pillola quotidiana della “necessità”, rende meno alienati; anzi, per l’ottimista Hegel, che credeva in una sorta di “provvidenza divina” (che lui chiamava “astuzia della ragione”), quella pillola rendeva addirittura felici, soddisfatti di sé.

Era un ingenuo, lo sappiamo, come tutti gli idealisti, però aveva avuto il merito di porre la questione in termini chiari: se l’essere non piace, bisognerebbe cambiarlo; ma se non vi si riesce, bisogna cambiare se stessi, giustificando l’essere per quello che è (il che per lui voleva dire permettersi un’interpretazione meno religiosa di quella dominante).

Ecco, in tal senso, mentre si realizza una società socialista, bisognerebbe subito mettere in chiaro che libertà e uguaglianza o si giustificano reciprocamente o sono false entrambe. Se essere e dover essere coincidono, togliamoci dalla testa che, delle due, uguaglianza e libertà, una possa prevalere sull’altra.

Sotto il cosiddetto “socialismo reale” si diceva che la libertà personale veniva momentaneamente e parzialmente sacrificata in nome della giustizia sociale. Ma era una falsità, sia perché la giustizia era quella voluta da un partito di fanatici che aveva statalizzato tutto, sia perché la libertà coincideva con la paura, come in tutte le dittature (al massimo la si difendeva col sotterfugio, la menzogna, il carrierismo, il cinismo…).

Quando si sostiene, sotto il socialismo, che l’uguaglianza tende a sacrificare la libertà solo perché non si è ancora nella fase comunista, bisogna diventare cartesiani ed esercitare la facoltà del dubbio. Infatti nel socialismo statale non esisteva una vera “uguaglianza” (impossibile senza libertà), ma solo una sorta di livellamento forzato della stragrande maggioranza della popolazione, mentre una piccola minoranza, ossequiosa e malata di piaggeria, fruiva di grandi privilegi.

Fare una rivoluzione, che comporta enormi sacrifici, per poi ridursi come schiavi statali nel volgere di pochissimo tempo, è un controsenso. Se le proprie speranze si trasformano in grandissime illusioni, possiamo star certi che le generazioni successive saranno più disincantate, più scettiche e menefreghiste.

Col che, beninteso, non si vuol certo sostenere che l’affermazione borghese della libertà sia un’alternativa migliore. Con la sola libertà individuale (che è poi quella di frodare nel commercio o di sfruttare con l’industria o la finanza) non si arriva mai a nessuna uguaglianza sociale. Al massimo nascono nuovi borghesi, che, per imporsi sugli altri, devono vivere una vita senza scrupoli, costringendo anche chi borghese non è, ad averne sempre meno.

Lo vediamo tutti i giorni che anche nel capitalismo la stragrande maggioranza della gente vive nella paura che le possa accadere qualcosa di irreparabile, un macigno talmente pesante e inaspettato da metterla sul lastrico. Solo esteriormente si finge indifferenza, nella convinzione che per scongiurare casi del genere non si possa fare assolutamente nulla. Il che resta comunque più comprensibile rispetto a chi, invece, pensa di difendersi da questa paura vivendo al di sopra delle proprie possibilità, come fanno gli americani, i quali, non avendo il senso dello Stato, pensano che sia giusto redistribuire le proprie disgrazie anche a chi ha cercato di vivere con più parsimonia.

Ecco perché sostengo che liberà e uguaglianza possono coincidere se le esigenze non sono eccessive, cioè se ci si limita a quanto basta per sopravvivere; e se proprio si ha la possibilità o la volontà di progredire in qualcosa, bisogna che le decisioni in merito (riguardo a mezzi e metodi) vengano prese all’unanimità.

Essere contrari al progresso non ha senso. Non esistono nemici ipostatizzati. L’unico vero nemico è la proprietà privata dei mezzi produttivi, quelli che garantiscono la sussistenza di un’intera comunità.

Bisogna essere contrari alle decisioni arbitrarie, quelle che si prendono furtivamente, all’insaputa della maggioranza. Le regole comuni si rispettano, e se qualcuno ha delle osservazioni da fare, le sottopone al giudizio di un consiglio direttivo, di un’assemblea pubblica.

Democrazia diretta non significa che ognuno si regola come meglio crede, ma partecipare a un’esperienza comune. Il che non vuol dire che chi ha a cuore il destino della comunità in cui vive, farà di tutto per tenerla in piedi. Nella parola “tutto” non possono essere comprese azioni che vanno a ledere la libertà di coscienza. Quando non si va d’accordo, ci si separa, non ci si uccide. Se l’uguaglianza viene imposta, è una falsità, ma se la si nega, si è ugualmente falsi.

 

Colpo di stato o rivoluzione popolare

 

 

 

Per passare al socialismo occorre una rivoluzione politica o se ne può fare a meno? Di sicuro, a una domanda del genere, non si può dare una risposta schematica, aprioristica. Al massimo si può dire, con certezza, che una rivoluzione popolare è una cosa, mentre un colpo di stato militare è tutta un’altra.

In genere i colpi di stato (o golpe o putsch) avvengono tra una parte dei militari contro un’altra parte. Chi vince, impone la dittatura, punisce gli avversari e inizia a cercare consensi tra il popolo. Dopodiché, quando vede che le acque si sono calmate, trasferisce progressivamente i poteri ai civili, riservandosi una qualche forma di controllo in ultima istanza. Questo perché le dittature militari non possono mai essere “popolari”. Al popolo piace la democrazia, perché si sente più libero. Rinunciare a parte della libertà per avere più sicurezza, può essere accettato provvisoriamente. Poi, quando si sarà ottenuta la sicurezza, inevitabilmente ci si chiederà perché non ottenere maggiore libertà.

In genere un colpo di stato viene sostenuto (economicamente, militarmente e mediaticamente) da una o più potenze straniere. Un golpe non ha nulla di democratico, anche se viene fatto contro una democrazia fasulla o contro un’insopportabile dittatura. Potrebbe avere qualcosa di democratico se, subito dopo averlo fatto, i militari rinunciassero al loro potere, affermando una specie di governo provvisorio, in attesa di nuove elezioni popolari. Ma in tal caso i militari chiederebbero di non essere processati per gli eventuali crimini compiuti, mentre erano intenti a rovesciare il governo in carica. Le amnistie sono fondamentali per trovare un punto d’incontro, una mediazione, anche se nei confronti di taluni delitti non si dovrebbe transigere (per es. la tortura, il massacro arbitrario di civili indifesi, lo stupro, ecc.).

Diciamo quindi che una rivoluzione popolare è sempre meglio di un colpo di stato, non foss’altro perché non ha bisogno di particolari appoggi esterni alla nazione. Semmai è chi sta al potere che, temendo d’essere rovesciato, li va a cercare. È facile infatti rendersi conto che, quando si riceve un significativo aiuto esterno, si può essere ricattati. Una rivoluzione popolare dovrebbe essere fatta senza interferenze di alcun genere: al massimo si potrebbero accettare delle mediazioni diplomatiche o degli aiuti umanitari. Ecco perché diciamo che la rivoluzione popolare sarebbe la soluzione migliore, quella più democratica, in grado di coinvolgere il maggior numero di persone.

È importante questo, poiché è molto difficile pensare che le classi dominanti rinuncino spontaneamente al loro potere. Anzi, faranno di tutto per conservarlo, cioè non avranno scrupoli nell’usare qualunque mezzo o metodo per terrorizzare la popolazione.

Quindi è bene che i rivoluzionari vengano messi in grado di difendersi; anche perché in questa maniera è più facile che gli indecisi si sveglino dal loro torpore. Non c’è niente di più convincente di un proprio concittadino che s’immola per difendere un ideale di giustizia e libertà. Naturalmente sapendo bene come farlo, cioè facendo attenzione a non mettersi dalla parte del torto. Questo perché i mezzi di comunicazione dei poteri dominanti sono abituati a travisare la realtà, anzi sono preposti a far vedere che il bianco è nero e viceversa.

Una rivoluzione popolare ha il merito di responsabilizzare i cittadini. Ognuno si sente parte di un progetto comune, e s’impegna a realizzarlo in prima persona, qualunque sia il suo ruolo. Quando si è in tanti a pensarla così, è difficile essere sconfitti.

Naturalmente queste son tutte considerazioni astratte, generiche, in quanto il sottoscritto non ha mai fatto nulla di concreto per favorire o realizzare una rivoluzione socialista. Qui sono state suggerite da un’affermazione che della Volpe pone come ipotesi, messa tra parentesi: non si esclude affatto – così scrive – “l’alternativa di una pacifica presa del potere da parte del proletariato mediante il consenso della maggioranza popolare” (p. 232). Cosa, peraltro, che in Russia avvenne perfettamente, tant’è che il governo fu preso completamente alla sprovvista e i morti si contarono sulle dita di una mano. La carneficina avvenne solo dopo, quando la reazione scatenò una guerra civile.

Ecco perché quando si fa una rivoluzione, bisogna essere sufficientemente sicuri che la popolazione si tenga pronta al peggio. L’ideale sarebbe che la rivoluzione fosse preceduta da manifestazioni di protesta pacifica così imponenti da indurre i poteri dominanti a non assumere atteggiamenti aggressivi. In tal caso però i governi in carica andrebbero disarmati e i principali ministri sostituiti. Cioè nel momento in cui le istituzioni vengono colte di sorpresa, non si può permettere loro di reagire, di correre ai ripari, di organizzare una resistenza, servendosi dei militari.

Bisogna anche assolutamente evitare che i leader rivoluzionari usino la popolazione per una specie di “gioco al massacro” (il famoso “tanto peggio tanto meglio”), come quando sperano che l’intera popolazione, sdegnata, si sollevi con furore di fronte al governo che non interviene per impedire massacri di civili innocenti. Questi atteggiamenti estremistici fan sempre il gioco della reazione.

 

Proprietà privata e personale

 

 

 

Qual è la differenza tra proprietà privata e proprietà personale dei mezzi produttivi? Apparentemente sembra facile dirlo: la differenza sta nello sfruttamento del lavoro altrui.

Laddove s’impone una proprietà privata di mezzi produttivi (per es. la terra, tramite una conquista violenta), è facile che, presto o tardi, s’imponga uno sfruttamento del lavoro altrui. Tutta l’aristocrazia terriera medievale si fregiava di titoli nobiliari per nascondere le sue modeste origini, per dimostrare che aveva valori d’onore, magniloquenti, altamente etici, e per rifarsi quindi una certa verginità nei confronti di un proprio passato non lusinghiero, non meritevole di finire in una genealogia di persone rispettabili.

In realtà la nobiltà era predatrice per antonomasia, aveva il culto della forza fisica, della violenza, era esperta nel maneggiare armi di offesa, colonizzava terre altrui, anche a costo di guerre lunghe e molto sanguinose, praticava soltanto matrimoni d’interesse e faceva ereditare i propri beni solo al primogenito, affinché il patrimonio non si frantumasse ma anzi si allargasse sempre più e il nome del casato restasse nella storia. Le sue stesse divinità rappresentavano forze aristocratiche. L’Iliade è espressione dell’aristocrazia, mentre l’Odissea della borghesia.

Lo schiavismo prima e il servaggio dopo s’impongono perché qualcuno era in grado di dominare qualcun altro con l’uso della forza. Il rapporto economico di subordinazione viene dopo. In genere gli schiavi erano venduti sui mercati ad hoc, dopo averli sconfitti come cittadini liberi. E, una volta comprati, l’acquirente li utilizzava come meglio credeva. Un rapporto così duro, diretto, non esisteva nel Medioevo, ma solo perché le popolazioni asiatiche che distrussero l’impero romano occidentale non praticavano lo schiavismo come sistema economico-produttivo, anche perché spesso erano nomadiche, o comunque delle piccole etnie tribali.

Quando queste tribù dilagarono, non accontentandosi del ruolo di difendere i confini dello stesso impero, in cambio di privilegi, gli uomini più forti e valorosi si sostituirono ai latifondisti imperiali, e gli schiavi di questi ultimi vennero spesso liberati o, quanto meno, trasformati in servi, titolari di alcuni diritti.

In un rapporto feudale esistevano almeno tre tipi di proprietà: quella del feudatario, quella, molto più piccola, del contadino-servo (che doveva pagare qualcosa in natura e prestare delle corvées), e una proprietà comune, alle cui risorse tutti potevano attingere (come per es. un bosco, una foresta, un lago, un fiume, uno stagno ecc.).

La proprietà del contadino-servo, più che privata, avrebbe dovuto essere definita “personale”. Ciò in quanto veniva coltivata dalla stessa famiglia, numerosa, del contadino, senza sfruttamento della manodopera altrui (al massimo, tra una famiglia e l’altra, ci si scambiavano dei favori). Semmai era il feudatario che, volendo vivere di rendita, era costretto a sottoporre i contadini a varie vessazioni, le quali, comunque, in assenza del denaro, non andavano mai oltre un certo limite, che coincideva con le capacità di consumo di chi le pretendeva.

Tuttavia, quanto più s’imponeva nei centri urbani lo stile di vita borghese, che naturalmente all’inizio mirava ad avere come clienti di merci rare e costose gli stessi aristocratici, tanto più questi si mostravano esigenti nei confronti dei contadini. Dalle corvées in natura (lavoro e prodotti agricoli) si fece presto a passare ai tributi in denaro.

Per ottenere denaro, con cui pagare l’uso della terra, i contadini erano costretti ad andare nei mercati a vendere i loro prodotti. In quella maniera tutti venivano coinvolti, in un modo o nell’altro, nello stile di vita mercantile.

Perché accadde questa trasformazione economica? Semplicemente perché là dove esiste un conflitto di classe, cioè un antagonismo sociale oggettivo, non conciliabile, è facile che se ne formi un altro di natura diversa. L’aristocrazia non fu mai in grado d’impedire alla borghesia di arricchirsi in maniera fraudolenta o sfruttando la forza-lavoro altrui. La borghesia riuscì a portare via il potere economico alla nobiltà senza usare il potere delle armi, ma solo quello del denaro spendibile in un mercato. Solo dopo aver conquistato un grande potere economico, la borghesia poté pretendere anche quello politico e istituzionale.

Perché tutto questo discorso? Perché è quanto meno illusorio pensare che nell’ambito di un socialismo statalizzato possa esistere una libera proprietà personale di alcuni mezzi produttivi. Al tempo dello stalinismo una proprietà del genere (i cosiddetti “orti personali”) era ridotta al minimo e poteva essere tolta in qualunque momento. In presenza di uno Stato che nazionalizza tutti i mezzi produttivi, parlare di “libertà” non ha senso. Il potere politico può prevalere su quello economico in qualunque momento, e nella maniera più arbitraria possibile. La proprietà statale, eliminando totalmente quella privata, può eliminare anche quella personale, proprio perché lo Stato non capisce la differenza tra “statale” e “sociale”.

La proprietà sociale dei mezzi produttivi è collettiva solo nel senso che è afferente a una comunità locale, e riguarda soltanto i principali mezzi produttivi, lasciando facoltà al piccolo agricoltore o artigiano (che nell’alto Medioevo coincidevano nella stessa persona) di coltivare un piccolo orto o di allestire una piccola impresa produttiva o professionale. Qualunque famiglia contadina aveva nel Medioevo un piccolo telaio per le esigenze domestiche; poteva accedere a un mulino comune; faceva legna in un bosco comune, e così via.

Insomma, là dove s’impone l’uso collettivo dei mezzi produttivi, la proprietà può essere così fortemente socializzata che quella personale risulta insignificante. Ma questo non perché esiste uno Stato che la può requisire in qualunque momento, come avveniva sotto lo stalinismo. Al contrario: proprio perché il “sociale” è così ampio e profondo che non si ha bisogno di affermare un “personale”. Ci si fida reciprocamente.

 

Il socialismo dellavolpiano

 

 

 

Per quale motivo della Volpe fa un intelligente accostamento di Rousseau a Marx? Dicono che in Italia sia stato il primo, ma non ho modo di verificarlo.

Sicuramente aveva capito alcune cose di fondamentale importanza, come per es. la democrazia diretta, che va naturalmente estesa a qualunque categoria sociale, non solo a quella piccolo-borghese, come invece fece Rousseau. Lui la vede realizzata nei soviet della rivoluzione bolscevica. Quando scrive questo testo, cioè durante il disgelo kruscioviano (la prima edizione è del 1957), è convinto di scorgere qualcosa di analogo nel lavoro dei sindacati. Un po’ pochino, in verità. Aveva fatto di più altrove, parlando della Comune parigina.

Per fortuna che su questo argomento fa un ragionamento ulteriore. Perché – si chiede – al tempo dello stalinismo non si realizzò la democrazia diretta? Risposta (sbagliata): perché si era ancora in una fase “socialista”, non comunista. Come se il rispetto del principio kantiano, di cui tanto parla, e cioè “l’uomo va considerato come fine e non come mezzo”, avesse bisogno, per realizzarsi, di un livello superiore di socialismo!

E perché non si riuscì a passare alla fase comunista, come invece il Pcus si propose di fare proprio al tempo di Chruščëv, fallendo, peraltro, miseramente? Risposta (nuovamente sbagliata): perché la società sovietica non era sufficientemente agiata. Scrive a p. 236, chiosando, a modo suo, il Marx della Critica del Programma di Gotha: “solo quando tutte le sorgenti di ricchezza collettiva sgorgheranno in abbondanza potrà realizzarsi… quell’ideale morale democratico-russoiano del riconoscimento sociale proporzionale degli individui e quindi dei diversi meriti e forze”.7

Della Volpe è stato uno di quei comunisti abbagliati dal mito di Stalin. Tuttavia, dopo la destalinizzazione, riteneva che il socialismo russo potesse migliorare, soprattutto sul piano del diritto, della legalità socialista. In tal senso si sente in dovere di dar ragione a Norberto Bobbio, quando questi afferma che “la libertà come non-impedimento interessa tutti gli uomini” (cit. a p. 233). Cioè l’aver compresso la libertà individuale in nome dell’uguaglianza sociale non è stata una scelta indovinata da parte dello stalinismo, anche perché non esiste solo il processo che dalla libertà porta all’uguaglianza, ma anche quello inverso. E quando si verificano, contemporaneamente, entrambi i processi, alla fine deve valere una delle tesi di fondo del marxismo, quella secondo cui lo Stato si deve estinguere.

Vorrei qui precisare che “estinguere” vuol dire “sciogliere”, “evaporare”, e questo è possibile solo se lo Stato rinuncia progressivamente a tutti i suoi poteri (attributi, facoltà, diritti e privilegi). Il che non vuol dire che deve “trasferirli” ai suoi organi periferici, decentrati, “così come sono”, poiché non è affatto detto che “democrazia diretta” voglia dire che a livello locale si dovranno gestire gli stessi poteri dello Stato centralista.

Nel Medioevo il feudatario locale-regionale si comportava come un sovrano: era un despota di livello inferiore, che però spesso di sentiva in opposizione ai poteri centrali degli imperatori o dei monarchi.

Viceversa, nella democrazia diretta la comunità locale dovrà comportarsi in maniera completamente diversa rispetto allo Stato centrale e ai suoi organi periferici, in quanto non costituirà una sua emanazione. Lo stesso livello regionale dovrà porsi come semplice federazione di libere comunità locali.

Finché lo Stato non cessa di esistere, non potrà mai realizzarsi la libertà nella sua pienezza, cioè non basterà l’abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi.

In tal senso fa bene della Volpe a parlare di “proprietà socializzata dei mezzi di produzione” (p. 236): socializzata non statalizzata. Non so però fino a che punto avesse compreso che nell’URSS stalinista era stata proprio la crescente e forzata statalizzazione a rendere impossibile che il potere centrale accettasse una successiva socializzazione di tali mezzi (in Cina ancora oggi tutta la terra è rimasta nazionalizzata, ma per i dettagli vedi la nota in calce8).

Della Volpe fa bene a riprendere le tesi classiche del marxismo secondo cui nell’ultima fase, quella comunista, “le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico [sottinteso, conflittuale] e si trasformeranno in semplici funzioni amministrative, che assisteranno gli interessi della società” (sono parole di Engels citate a p. 234: si riferiscono al testo Dell’autorità, scritto nel 1872). Fa benissimo a dire che lo Stato dovrà estinguersi “nell’autogoverno sociale della società comunista” (p. 235, in nota). Non credo però avesse capito che per assicurare un processo del genere le basi vanno poste subito dopo aver compiuto la rivoluzione.

Le fondamenta della democrazia e del socialismo, ovvero del socialismo democratico, vanno costruite nel presente, affinché si possa sperare in un loro ampliamento e approfondimento nel futuro. Altrimenti si ricade nelle illusioni; anzi, peggio, nei raggiri o negli arbitrii che i poteri costituiti fanno pagare alla popolazione che crede in buona fede a chi la regge e governa.

 

Socialismo e democrazia

 

 

 

Non avendo mai fatto il politico di professione, della Volpe non rimase particolarmente scosso né dal rapporto segreto di Chruščëv, né dai fatti d’Ungheria del 1956. Restò dentro il Pci, contribuendo a un dibattito teorico per migliorarlo su molteplici e complessi argomenti.

Uno di questi temi è il rapporto tra socialismo e democrazia alla luce delle “vie nazionali al socialismo”, che Togliatti aveva indicato, al fine di superare l’autoritarismo della politica estera dell’URSS stalinista. Sembra un problema del XIX sec.; invece, considerando che ancora oggi un grande Paese come la Cina si dichiara pienamente “socialista”, pur coi propri distinguo, bisogna ammettere che una vittoria di questo Paese sull’ideologia e sulla prassi del mondo occidentale (e possiamo star sicuri che ciò avverrà), dovrà per forza riportare in auge un argomento del genere.

Quindi vediamo se, nel modo di affrontarlo, della Volpe può offrirci qualche spunto di riflessione valido per i nostri tempi, in cui ogni giorno che passa sembra avvicinarsi al momento fatidico di una terza guerra mondiale (una guerra calda, intensa, anche se breve, a causa dell’inevitabile uso del nucleare, essendo falliti tutti i negoziati per farlo sparire). Ribadiamo che questo non è un testo sul filosofo imolese, e neppure su Rousseau, e tanto meno su Marx (cui abbiamo già dedicato tre libri: Maledetto capitale, Il meglio di Marx e Marx economista). Questo è solo un particolare omaggio a un filosofo che non abbiamo mai trattato, cogliendo l’occasione per parlare d’altro, di argomenti più generali.

A proposito di ciò, vorremmo qui ricordare che nel 2022 è iniziato il conflitto, con armi convenzionali, in Ucraina, tra il cosiddetto “occidente collettivo” e la Russia di Putin, che non si dichiara più “socialista”, ma semplicemente democratica, avendo optato per un capitalismo statale, mentre l’occidente si è fermato, salvo talune forme di assistenzialismo, a quello privatistico (la fase del capitalismo statale si è conclusa verso la fine degli anni ’70).

Detto ciò, risulta evidente che della Volpe ritenesse più fattibile una coesistenza pacifica tra socialismo e capitalismo proprio perché il socialismo, dopo la fine della guerra mondiale, era diventato un sistema di Stati così ampio da indurre i Paesi capitalisti a una maggiore cautela, cioè a una maggiore disponibilità a cercare intese e compromessi. Stupisce però ch’egli avvalori questa convinzione ricordando che anche l’URSS nel 1949 aveva dimostrato di possedere armi atomiche. Un “filosofo” non dovrebbe far proprie le affermazioni politiche di cui a quel tempo si vantavano gli statisti, come appunto quella che vede il nucleare come arma di dissuasione o di deterrenza, ai fini di un certo equilibrio del terrore. In questa maniera dava l’impressione d’essere un po’ ingenuo a credere che col disgelo kruscioviano sarebbe finita la guerra fredda (che per lui infatti era durata dal 1945 al 1956).

In realtà gli anni che vanno dalla costruzione del muro di Berlino all’implosione dell’URSS furono una sorta di guerra mondiale sotto traccia, in cui gli USA non avevano alcuna intenzione pacifica nei confronti dell’URSS (e neppure nei confronti della Cina e del socialismo mondiale in generale). Basti pensare alle guerre scatenate in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, in Jugoslavia, in Iraq ecc., e ai tanti colpi di stato, omicidi politici ed embarghi commerciali compiuti in mezzo mondo. Gli USA han sempre preteso, dopo la fine dell’ultima guerra mondiale, di dominare l’intero pianeta, al punto che, dopo il crollo dell’URSS, a loro pareva che la strada fosse spianata.

Dopo la morte di Stalin (1953) gli intenti più pacifici non li ha avuti di sicuro l’occidente. Semmai è stato Gorbačëv che, nel breve periodo del suo governo, ha assicurato al mondo intero una certa stabilità e sicurezza. Finito però il suo mandato, gli USA han preteso di occupare economicamente la stessa Russia, al punto che nel periodo di quello sciagurato di El’cin, favorevole al neoliberismo, vi erano quasi riusciti, mandandola in bancarotta.

Oggi però la situazione è molto cambiata. A causa del primato concesso alla finanziarizzazione dell’economia, anche gli USA stanno per implodere, soprattutto perché la Cina li ha nettamente superati sul piano produttivo, impedendo loro di vivere di rendita.

Di fronte agli USA son sempre meno i Paesi che si lasciano facilmente sottomettere. Russia, Cina, Iran, Corea del Nord e tanti Paesi della nuova realtà multipolare, chiamata BRICS (cui oggi bisogna aggiungere un +) stanno diventando i nuovi protagonisti della storia mondiale, essendo disposti ad affrontare lo scontro, anche militare, con l’occidente.

Sul piano economico e finanziario gli USA, guidati dallo spaccone Trump, han già fatto capire di non volere in occidente dei Paesi amici o alleati paritetici, ma solo dei Paesi subordinati, disposti ad accettare, senza discutere, che gli USA tornino ad essere grandi come negli anni ’90.

 

*

 

Ma ora vediamo alcune particolari riflessioni di della Volpe espresse nel capitolo III (Socialismo e libertà).

Secondo lui la democrazia moderna ha due facce: una è quella “civile”, teorizzata da Locke, Montesquieu, Humboldt, Kant e Constant, che sarebbe propriamente “borghese”, in quanto favorisce la proprietà privata, l’habeas corpus (cioè la possibilità d’essere arrestati solo in forza di un esplicito provvedimento giudiziario), le libertà di coscienza, di culto, di stampa, ecc., la separazione dei poteri, il parlamentarismo nazionale (non pochi di questi diritti avrebbero valore universale).

Questa faccia non si preoccupa di valorizzare ogni persona, ma solo quelle capaci di produrre merci, di realizzare profitti. Qui la cosa strana è che della Volpe non riesce a vedere che la stragrande maggioranza dei princìpi giuspolitici della borghesia è strettamente correlata a una pratica economica che di umano e democratico non ha quasi nulla.

Nel suo percorso storico la borghesia non ha preventivamente teorizzato dei princìpi generici o generali, all’interno dei quali fosse possibile esercitare una prassi economica classista. Nella storia del capitalismo non esiste “prima” una filosofia o un diritto e solo “dopo” un’economia e una finanza. Semmai è l’inverso, anche se in genere le due cose procedono in parallelo.

La borghesia comunale italiana era partita con una rivendicazione economica (poter commerciare liberamente con Bisanzio, il mondo arabo e l’oriente asiatico), e solo col passare del tempo ha elaborato degli Statuti comunali e un diritto, una politica e una filosofia della politica sempre più specializzata: ciò al fine di garantire non solo una gestione nazionale degli affari, ma anche di promuovere il più possibile una loro estensione internazionale. Il problema principale della borghesia era quello di allargare continuamente lo spazio dedicato ai profitti, cercando, nel contempo, di contenere le inevitabili contestazioni sociali da parte dei lavoratori e le rivalità con le altre nazioni capitalistiche.

Questo per dire che quando in futuro si tratterà di costruire il socialismo democratico (quello autogestito), non è detto che si conserverà qualcosa di questa sovrastruttura borghese di tipo giuspolitico. Cioè non bisogna dare per scontato che lo scopo del socialismo sia quello di realizzare gli ideali del liberalismo, solo perché questi ideali (quelli migliori, quelli più etici e democratici) vanno ben oltre i loro riferimenti classisti.

La seconda faccia della democrazia moderna, delineata da della Volpe, lascia ancora più perplessi. Infatti vengono messi sullo stesso piano Rousseau, Marx, Engels e Lenin. Gli ultimi tre, in sostanza, sarebbero uno sviluppo concreto, realistico, del primo, che si era limitato, onde vincere la miseria, a proporre la valorizzazione dei meriti individuali di qualunque persona. (Quindi – chiediamoci – anche di quelle persone prive totalmente di mezzi di sussistenza? Falso!)

Tali accostamenti sono abbastanza curiosi. Sembra che qui della Volpe faccia riferimento all’art. 34 della Costituzione italiana, là dove vien detto che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Sicuramente un principio equitativo di notevole portata, ma paragonare i classici del marxismo a Rousseau solo per questo, ci sembra francamente eccessivo. Anche perché il marxismo non vuol premiare solo i “capaci e meritevoli”, ma proprio tutti, e non vuole esattamente “premiare” ma semplicemente garantire un’esistenza dignitosa.

Della Volpe avrebbe fatto meglio a insistere sul concetto di “democrazia diretta”, che in quei grandi classici del socialismo scientifico venne constatato solo in presenza della Comune di Parigi e nei soviet della Russia rivoluzionaria, dopodiché la sua definitiva realizzazione fu rimandata alla transizione verso il comunismo.

Al limite avrebbe potuto dire che il marxismo s’è posto come sviluppo e continuazione non tanto di Rousseau (che rappresenta comunque una democrazia borghese), quanto piuttosto del socialismo utopistico, che nelle opere di della Volpe è del tutto assente; oppure, se si voleva fare riferimento alla rivoluzione francese, ci si poteva agganciare alle testimonianze significative degli epigoni di quella esperienza epocale, come Babeuf e Buonarroti, che poi non avevano idee molto diverse da quelle di Morelly e Mably.

Se davvero della Volpe voleva essere originale, non aveva bisogno di dire che le teorie russoiane avevano trovato il loro migliore compimento non nel giacobinismo ma nel marx-leninismo. Avrebbe fatto meglio a mostrare dove Marx aveva scoperto l’importanza della democrazia diretta, dell’autoconsumo, del primato del valore d’uso su quello di scambio, prescindendo totalmente dalle tesi di Rousseau.

Nel suo libro, Ideologia e società (ed. Laterza, Roma-Bari 1975), Lucio Colletti riconosce al suo maestro della Volpe il merito d’aver accostato per primo Rousseau a Marx, ma non gli interessa minimamente il discorso sulla democrazia diretta. Colletti si limita semplicemente a dire che della Volpe era favorevole a un’uguaglianza non “livellatrice” come quella di Babeuf (sic!), ma a una che tenesse conto delle differenze (e quindi delle qualità, dei meriti) individuali, esattamente come il Marx della Critica del Programma di Gotha aveva prospettato si dovesse fare nella fase comunistica vera e propria.

Oltre a ciò, Colletti fa una precisazione condivisibile: contro il classismo della società aristocratica Rousseau premiava i meriti di chiunque, al fine di rendere democratica la società (che poi non di “chiunque” ma solo della piccola borghesia); Marx invece ritiene che l’uguaglianza sociale sia impossibile senza prima aver riconosciuto i differenti bisogni: il che vuol dire che proporzionare i beni al lavoro prestato non ha senso, in quanto verrebbe riconfermato il diritto borghese.

 

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Due cose ancora meritano d’essere sottolineate in questo denso capitolo III, che pur è molto riassuntivo di quello scritto un decennio prima, quando ancora ci si chiedeva, grazie alla svolta togliattiana di Salerno e all’amnistia quasi generalizzata per i fascisti, come costruire in Italia il socialismo senza fare una rivoluzione politica, analoga a quella bolscevica (non dimentichiamo che Togliatti morì nel 1964).

A quanto pare a della Volpe non preoccupava granché che il Pci non avesse approfittato della lotta resistenziale antifascista per rivendicare una società non soltanto democratica, ma anche socialista.

Dunque, dicevamo che due sono le novità che della Volpe mette in risalto:

- anzitutto che grazie al ritorno alla legalità socialista, in Russia si è smesso di parlare di religione come “oppio del popolo”, preferendo limitarsi a relegarla alle questioni insondabili della coscienza privata;

- in secondo luogo le posizioni bordighiane, che con la loro “astratta volontà rivoluzionaria”, negavano qualunque funzione positiva all’istituzione parlamentare, non hanno alcun senso nell’attuale fase internazionale della “coesistenza pacifica” fra capitalismo e socialismo.

Su questo farei solo due osservazioni.

1) È noto che col togliattismo, così preoccupato di evitare qualunque forma di anticlericalismo, gli studi teorici sull’ateismo scientifico, sull’esegesi laica del Nuovo Testamento, sulla storia della Chiesa e del cristianesimo in generale, furono ridotti al lumicino in Italia. Ancora oggi paghiamo le conseguenze togliattiane dell’inserimento dell’art. 7 nella Costituzione (quello relativo al Concordato fascista, parzialmente ridimensionato dalla revisione craxiana del 1984).

2) Un’opposizione meramente parlamentare al sistema capitalistico ha la stessa funzione negativa di un’opposizione meramente extraparlamentare, ed entrambe sono in contrasto con la lezione leniniana. D’altra parte se Togliatti non fosse stato molto accorto e opportunista, difficilmente sarebbe scampato alle purghe staliniste.

 

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Rispetto a questo capitolo cosa aveva di diverso l’articolo apparso su “L’Unità” del 6 ottobre 1956, riportato alle pp. 486-91 delle Opere n. 5?

Di diverso aveva soprattutto l’ultima parte, completamente omessa nella versione definitiva delle Opere complete. In essa si ribadiva:

1) la superiorità del leninismo rispetto a qualunque altra ideologia politica rivoluzionaria;

2) l’utilizzo del leninismo anche in contesti diversi da quello russo;

3) l’idea assurda di considerare la Costituzione italiana del 1948 come la via maestra alla realizzazione del socialismo (giustizia sociale e socialismo non necessariamente coincidono: questo perché anche i liberali e i cattolici vogliono, o dicono di volere, la giustizia sociale);

4) la “via italiana al socialismo”, inaugurata da Togliatti, non coincide con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi e quindi con la fine dello sfruttamento del lavoro, ma solo con la “via democratica” della borghesia, una via che bisogna cercare di rendere sempre più democratica, aumentando le riforme a favore dei lavoratori.

Ora, bisogna ammettere che, subito dopo la morte di della Volpe (1968), si scatenò un movimento di contestazione operaio-studentesca che avrebbe anche potuto portare a una rivoluzione socialista di tipo leninista. Tuttavia il Pci di Enrico Berlinguer non fu meno timoroso di quello togliattiano, sicché una nuova occasione andò perduta.

 

Quale livellamento sociale?

 

 

 

François-Noël Babeuf (1760-97), Filippo G. M. L. Buonarroti (1761-1837)9, Étienne-Gabriel Morelly (1717-78 circa)10, Gabriel Bonnot de Mably (1709-85)11: davvero queste quattro persone, ricordate da della Volpe, predicavano il “livellamento sociale”? Vediamo il primo, il più importante di tutti, la cui cultura, peraltro, si era formata proprio sui testi di Morelly, Mably, Marat e Rousseau.

Babeuf lavorò a un progetto di “catasto perpetuo” per determinare con esattezza la misurazione delle proprietà terriere e con equità la ripartizione delle imposte. Ciò in quanto i grandi patrimoni, per la loro vastità, non venivano mai misurati e quindi sfuggivano al fisco, o comunque l’inesistenza di un catasto o il suo mancato aggiornamento rendevano del tutto imprecise le attribuzioni delle imposte. Scopo dichiarato del catasto era di ovviare al disordine esistente, mentre lo scopo non dichiarato era quello di costituire la base di una ripartizione egualitaria dei fondi agricoli. Scrisse infatti che “proprio nella polvere degli archivi signorili avevo scoperto i misteri delle usurpazioni della casta nobiliare”.

Le usurpazioni, a quel tempo, erano in continuo aumento. Infatti, se in diverse regioni della Francia era in corso una certa trasformazione capitalistica dell’economia agraria, nella maggior parte del territorio nazionale il sistema feudale si stava addirittura rafforzando attraverso la riduzione dei cosiddetti diritti collettivi sulla terra, riservati alle popolazioni rurali, come il diritto di pascolo e l’utilizzo di beni comuni, e questo accentramento delle terre in grandi possedimenti fondiari non favoriva affatto l’occupazione dei braccianti agricoli e dei contadini, in quanto spesso venivano lasciate incolte.

Tuttavia Babeuf non credeva assolutamente che la “legge” avrebbe potuto risolvere il problema della disuguaglianza sociale, causata sia dai nobili che dalla borghesia. Secondo lui le leggi (delle classi vittoriose) non sono che la legittimazione dell’ordine esistente: da un lato “servono agli usurpatori come titoli legittimanti i loro saccheggi, e alle famiglie vinte come irrevocabili decreti di confisca delle loro spoglie”, e dall’altro impediscono a queste ultime “di sollevarsi da tale sorta di avvilimento”. In tal senso non si è mai limitato a definirsi “repubblicano”; la stessa definizione di “democrazia politica” gli sembrava vuota di contenuto.

Detto altrimenti, secondo lui chi, pur avendo il necessario, non pone limiti alla propria ambizione di possesso, deve essere riguardato come lo “spogliatore” di quanto appartiene legittimamente ad altri; chi non ha abbastanza per vivere, ha il diritto di chiedere e ottenere quello che gli è ragionevolmente necessario.

Aveva fatto anche questo calcolo: in Francia vi erano 24 milioni di abitanti, ma, di questi, ben 15 milioni non avevano alcuna proprietà. Aveva anche calcolato che vi fossero in tutto 70 milioni di jugeri (circa 17,5 milioni di ettari) di terreni coltivabili, per cui, sulla base di una divisione egualitaria, a ciascuna famiglia sarebbe stato giusto assegnare un podere di 11 arpenti (un arpento in Francia andava da 32 a 78 are, quindi corrispondeva a circa mezzo ettaro).

A Roye, il paese ove Babeuf viveva con la sua famiglia, il 19 luglio 1789 un’assemblea generale dei cittadini aveva deciso di non pagare più le tasse. Babeuf disse che le tasse devono essere pagate da chi è in grado di farlo e in rapporto a ciò che possiede. Propose quindi l’abolizione delle imposte indirette e delle gabelle, con la conseguente chiusura degli uffici delle imposte e il pagamento delle sole imposte dirette alla ricevitoria del Comune, che avrebbe poi trasmesso al Tesoro statale la quota di sua competenza. L’Assemblea Nazionale, per tutta risposta, lo fece arrestare: questo perché, se era vero che le imposte dovevano essere pagate in proporzione alle proprie entrate, quelle indirette dovevano restare uguali per tutti ed essere incamerate dallo Stato.

Babeuf aveva convinto altri 800 Comuni della Picardia e dell’Artois a comportarsi nella stessa maniera, sulla base dell’idea che il popolo è il solo vero sovrano, per cui ha diritto ad opporsi all’oppressione, anche quando viene esercitata dai deputati dell’Assemblea Nazionale. Inoltre Babeuf rivendicava il diritto di parola, la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni, tutti princìpi garantiti e non applicati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Babeuf fu imprigionato a Parigi, ma, grazie all’intercessione di Marat e di alcuni avvocati, fu liberato e poté tornare a Roye, acclamato dalla cittadinanza.

Tuttavia in questa cittadina non riuscì mai a farsi eleggere nel Consiglio municipale e neppure come Giudice di pace, in quanto incontrò sempre una strenua resistenza da parte delle autorità costituite, che lo ritenevano incandidabile a causa del suo precedente arresto. Venne eletto soltanto al Consiglio generale del dipartimento della Somme, ad Amiens.

Come giornalista cercava di denunciare la natura di classe della società. Lo fece soprattutto a proposito del dibattito avviato dall’Assemblea Nazionale in merito alle condizioni del censo necessarie per essere cittadini elettori ed eleggibili. I deputati stabilirono a grande maggioranza di distinguere i “cittadini attivi” dai “cittadini passivi”. Questi ultimi, i più poveri, non possedendo nulla, non avevano il diritto di prendere parte attiva alla formazione dei pubblici poteri. Gli altri potevano eleggere, in base alle loro disponibilità economiche, questo o quel rappresentante.

In definitiva, su 26 milioni di francesi e circa sette milioni di maschi maggiorenni, tre milioni erano i cittadini passivi e quattro milioni gli attivi, ma solo poche migliaia, i più ricchi, erano destinati a occupare i posti di maggiore responsabilità politica e amministrativa.

Babeuf protestò vivacemente, poiché gli pareva assurdo che pochissime persone agiate potessero rappresentare l’intera nazione, quando la stessa Dichiarazione dei diritti, votata l’anno prima, proclamava l’uguaglianza di tutti i cittadini. E così cominciò a dire che, se i poveri non hanno diritti, allora non hanno neppure il dovere di compiere il servizio militare e di provvedere a qualunque pubblica contribuzione. Per far valere le sue idee chiedeva che il proletariato e la piccola borghesia si alleassero politicamente contro la grande borghesia e l’aristocrazia. Ecco perché pretendeva il suffragio universale e il diritto di ammissione di tutti a tutti i ruoli e funzioni della società.

Propose anche che tutte le cerimonie religiose fossero gratuite, così come la sanità (medici, chirurghi e farmacisti andavano stipendiati con fondi pubblici), l’istruzione e l’amministrazione della giustizia (anche i magistrati dovevano essere statalizzati). Inoltre doveva essere istituita una cassa nazionale per l’assistenza dei poveri.

Per quanto riguarda l’esercito, chiedeva che ogni cittadino fosse messo in grado di difendere la propria libertà dai nemici esterni. Temeva l’esercito regolare e permanente, guidato da ufficiali nobili. Se proprio lo si voleva tenere, bisognava ridurlo di numero e introdurvi la regola della nomina di tutti i capi a maggioranza di voti, nonché l’eguaglianza nella paga per tutti i gradi. Inoltre andava impiegato, in tempo di pace, a lavori utili.

Lottò tutta la vita a favore dei diritti dei cittadini contro gli antichi privilegi rimasti in vigore malgrado la rivoluzione: per es. il diritto di pascolo e di raccogliere legna negli appezzamenti di proprietà del clero regolare.

Il suo pezzo forte resta la riforma agraria. Secondo lui, infatti, la terra non dev’essere alienabile; ognuno, nascendo, ha diritto ad avere una parte sufficiente di terra per poter vivere con sicurezza e dignità, così come ha bisogno di aria e acqua pulite; e quando muore, deve lasciarne erede la società intera, e non quelli che gli sono più vicini. L’inalienabilità della terra impedirebbe la possibilità di ristabilire col tempo le vecchie diseguaglianze. Naturalmente uno può anche dedicarsi all’artigianato o all’industria per i necessari scambi di servizi, ma l’importante è che non venga mai meno una risorsa fondamentale per soddisfare i bisogni.

Quando la Francia entrò in guerra contro l’Impero austriaco, cui si unì la Prussia, ebbe la netta impressione che dietro le quinte ci fosse il tentativo, da parte di certe forze reazionarie francesi, di far fallire la rivoluzione, per cui accusò di tradimento il direttorio della Somme, al punto che si procurò l’appellativo di “maratista”. E di nuovo rischiò la prigione.

Fu solo quando al potere andarono i giacobini che finalmente cominciò ad avere qualche sicurezza in più. Robespierre infatti, nel 1793, aveva proposto di modificare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 facendo della proprietà un carattere sociale a disposizione della collettività e non più semplicemente un diritto naturale intangibile del singolo individuo, nel senso che la proprietà poteva anche essere requisita per un fine di pubblica utilità. In ogni caso tutti avevano diritto di lavorare e di avere i mezzi di sussistenza se non erano in grado di farlo (bambini, vecchi, malati). Aveva poi stabilito un maximum ai prezzi delle merci di prima necessità.

Tuttavia la sicurezza durò assai poco: nel 1794 Robespierre e i suoi più stretti seguaci del Comitato di salute pubblica furono arrestati e ghigliottinati. Babeuf non se ne dispiacque granché, poiché era rimasto profondamente deluso da Robespierre dopo la repressione del movimento sanculotto; in particolare chiedeva che fosse inserita nella Costituzione la garanzia per tutti i cittadini di un’educazione uguale e di una sussistenza sociale sicura, anche nel caso in cui fossero in grado di lavorare.

Ingenuamente però pensava che il trionfo dei termidoriani aprisse la strada alla realizzazione della democrazia popolare e di un’autentica eguaglianza sociale. Invece il “termidoro” sancì la vittoria della borghesia che intendeva farla finita con la rivoluzione. Il fatto di schierarsi apertamente dalla parte dei sanculotti, chiedendo d’insorgere contro i reazionari, gli fu fatale.

Forse l’accusa di essere un “livellatore” proviene da talune sue affermazioni sull’uguaglianza sociale. Ma si tratta di un malinteso. Semplicemente chiedeva che tutti fossero produttori e consumatori insieme, nella proporzione in cui i bisogni fossero soddisfatti, con equilibrio e compensazione, finalizzando al bene comune i propri sforzi. Voleva privilegiare gli agricoltori e gli operai, gli artigiani, gli artisti e i dotti, impedendo ai commercianti di operare nel proprio esclusivo interesse. La stessa industria doveva perdere il suo carattere di privatezza, poiché solo l’associazione dei lavoratori poteva garantire che non si producesse né troppo né troppo poco, determinando altresì il numero necessario degli addetti a ciascun specifico lavoro. Non amava la concorrenza, perché voleva che la società potesse contare su una certa prevedibilità nella soddisfazione dei bisogni. Temeva l’uso del denaro, in quanto preferiva che ciascuno potesse scambiare il prodotto del suo lavoro con tutti gli oggetti reali che gli sono necessari. In tal senso si rendeva conto che il commercio estero avrebbe incontrato difficoltà insormontabili; però confidava nel fatto che la Francia fosse un grande Paese in grado di produrre tutto il necessario.

Per tutte queste cose la stampa termidoriana lo definiva un anarchico o un terrorista. Quando scrive il Manifesto dei plebei fa chiaramente capire che all’origine della disuguaglianza vi è la proprietà privata dei mezzi produttivi. Il diritto alla proprietà è in definitiva la legge del più forte. Diceva d’ispirarsi a Licurgo, che garantiva a tutti la sufficienza e a nessuno il superfluo. Ma trovava parole positive anche per Rousseau, Diderot, Robespierre, Saint-Just e altri, nella speranza di avere dalla sua i giacobini contro il Direttorio, che aveva abolito la Costituzione del 1793.

Soprattutto contava sui sanculotti, i nullatenenti, i moderni plebei, affinché organizzassero una “Vandea plebea”, sulla base di princìpi così semplici da apparire utopistici: la terra è di tutti (la sua alienabilità è un attentato “populicida”); l’eredità familiare è un “orrore”; tutto ciò che un membro della società possiede al di sopra della soddisfazione dei suoi bisogni è il risultato di un furto; per ottenere la sufficienza occorrono due cose: l’abolizione della proprietà privata e la gestione comune dei beni produttivi; la superiorità dei talenti è solo un’opinione utilizzata dai cospiratori contro l’eguaglianza.12

La congiura degli Uguali fu il primo tentativo storico di introdurre realmente il comunismo nella società. Era il 30 marzo 1796. Fu però scoperta tramite un delatore. L’anno dopo Babeuf ed altri 43 leader furono processati: 38 vennero assolti; Buonarroti e altri cinque condannati alla deportazione; per Babeuf e Augustin Darthé, invece, la ghigliottina. Jean Varlet sfuggì alla cattura e pubblicò “Explosion”, uno dei primi proclami anarchici.

Insomma Babeuf oggi appare un “livellatore” semplicemente perché la società borghese è diventata così complessa che una qualunque idea di uguaglianza che non tenga conto della diversità è inconcepibile. Non solo, ma a sinistra si fa fatica a considerarlo un anticipatore dell’ideologia comunista vera e propria, poiché si vuole che il socialismo scientifico parta esclusivamente da Marx ed Engels.

 

Davvero Marx era “marxista”?

 

 

Molto interessante il saggio “Marx e la società comunitaria” di  John Bellamy Foster, apparso sulla rivista “Monthly Review” che lui stesso dirige (n. 3/2025).13 Mi ci sono ritrovato completamente. Finalmente qualcuno arriva a dire che Marx non era affatto contrario, trattando del tema del socialismo, a concedere ampio spazio alle esperienze comunitarie precapitalistiche, anzi del comunismo primordiale, rivalutando quindi, sul piano economico, il valore d’uso.

L’autore sostiene che Marx avesse letto tutto quanto in latino era stato scritto sugli antichi Germani (da Tacito a Cesare), per cui non poteva non sapere che a quel tempo vi erano comunità che non conoscevano la proprietà privata. “Come studente dell’antichità classica, molto probabilmente era a conoscenza [anche] degli antichi resoconti di Nearco, ammiraglio di Alessandro Magno, sulle comunità domestiche indiane e sulla coltivazione comune dei terreni, raccontati da Strabone”.

Arriva persino a dire – ed è vero – che “residui dell’antica ‘marca germanica’ – sistema di proprietà comune e produzione collettiva della terra – sopravvissero durante la vita di Marx nella regione intorno a Treviri, dove egli crebbe”. Non solo, ma “i segni del diritto consuetudinario, che derivava dai commons [beni comuni] dell’epoca feudale, erano evidenti in tutta la Germania del primo Ottocento.” In effetti lo dimostra il suo primo articolo di economia politica, scritto nella “Rheinische Zeitung”, ove prende le difese dei contadini che andavano a prelevare legna morta nelle foreste, avvalendosi di un diritto consuetudinario su terreni comuni, che gli agrari però, protetti dallo Stato, si rifiutavano di riconoscere.

Conoscenze incredibilmente approfondite su tutti i campi dell’economia (non solo di quella capitalistica) Marx poté acquisirle presso la British Library di Londra, che frequentava quotidianamente. Qui infatti, secondo Foster, Marx poteva contare sui resoconti degli amministratori coloniali britannici e olandesi, per quanto “discutibili” fossero. Inoltre gli era nota (come documentano i Grundrisse e il Capitale) “la breve trattazione dei rapporti di proprietà comunitaria peruviana sotto gli Incas, contenuta in La conquista del Perù di William Prescott (1847)”: un’economia naturale ben impostata a livello di cooperazione e di divisione del lavoro, totalmente priva di denaro.

Gli studi etnoantropologici nella seconda metà del XIX sec. erano ancora alle prime armi, ma sappiamo bene che questo era un argomento che lo interessava parecchio. Foster s’accorge che già nell’Ideologia tedesca la prima forma di proprietà privata che Marx descrive è quella “tribale, associata alla caccia, alla raccolta, e alle forme più arcaiche di agricoltura… in cui la divisione del lavoro rimaneva poco sviluppata”. Era sì presente la “produzione o la proprietà comunitaria”, ma Marx fa riferimento solo a quella “patriarcale”, che prevedeva uno sviluppo della “schiavitù, latente nella famiglia”. Cioè il testo – si faccia bene attenzione a ciò che scrive Foster – “non contiene alcun riferimento al ‘comunismo primitivo [originario]’, un termine che né Marx né Engels hanno mai usato, se non in riferimento al ‘sistema comunitario asiatico’, alla forma slava di possesso fondiario, e, con maggior dubbio, ai precursori della marca germanica. Non applicarono mai tale termine alle società di cacciatori-raccoglitori. Queste ultime, pur basandosi su una forma organizzativa di tipo comunitario, non erano considerate veri e propri modi di produzione, bensì società di parentela-clanica. L’uso dell’espressione ‘comunismo primitivo’ per descrivere specificamente le società di cacciatori-raccoglitori fu adottato successivamente, introdotta nella Seconda e Terza Internazionale.”

Questa tesi è giustissima. Infatti solo l’ultimo Marx (1880-82), quello dei Quaderni etnologici, dirà che la proprietà privata della terra “nacque ‘in parte dallo svincolarsi dei diritti individuali dei gruppi di parentela o dei membri della tribù dai diritti collettivi della famiglia e della tribù... in parte dalla crescita e dalla trasformazione della sovranità del capo’. La proprietà privata della terra fu dunque inizialmente mediata dalla proprietà fondiaria comunitaria (ager publicus), e tuttavia finì col favorire l’introduzione di rapporti di classe che indebolirono l’ordine collettivo.”14

Prima di quei Quaderni, quando parla di “antica comune città-stato”, cioè di polis (“una comune urbana in cui la proprietà privata coesisteva con quella comunitaria”), ritiene che lo schiavismo fu assolutamente deleterio per le forme tribali e comunitarie solo a partire dal VII sec. a.C., quando viene inaugurato uno Stato vero e proprio e i rapporti monetari prevalgono su quelli dello scambio diretto dei prodotti. È la “ricerca sistematica della ricchezza fine a stessa che destabilizza i rapporti sociali precedenti”, scrive Foster.

Marx ha piena consapevolezza di questo. Nei Grundrisse appare evidente che “la produzione e la proprietà comunitaria costituivano l’economia naturale della società, prevalente nei livelli più bassi di sviluppo delle forze produttive. La proprietà privata emerse con la società di classe e la divisione del lavoro, diventando la forma dominante solo nei rapporti capitalistici di produzione.”

In particolare Foster precisa che Marx era già in grado di capire le differenze, almeno nella loro sostanza economica, tra le forme asiatica, slava, antica e germanica della proprietà antica. “Con la forma ‘asiatica’ egli intendeva principalmente le comunità di villaggio in India e a Giava; con la forma ‘slava’, il mir russo, o comune contadina, ancora presente nel XIX secolo15; con la forma ‘classica antica’, i rapporti comunitari ancora evidenti nella polis greca; con la forma germanica, l’antica tradizione della marca, in cui la comunità trovava un riflesso nelle tribù germaniche che si ‘riunivano’ periodicamente su base collettiva, pur non ‘vivendo insieme’ stabilmente. Marx faceva riferimento anche alla proprietà comunitaria presso i Celti.” E si stupiva molto che i rapporti monetari fossero presenti, al massimo, nelle relazioni esterne di tali comunità, non nei mercati interni. In particolare – come anche Hobsbawm aveva notato – nell’analisi marxiana le forme orientali (asiatiche e slave) sono storicamente le più vicine alle origini dell’umanità, poiché conservano la comunità primitiva (di villaggio) funzionante all’interno di una sovrastruttura sociale più elaborata, e presentano un sistema di classi insufficientemente sviluppato.

Assai giustamente – scrive Foster – Marx era stato in grado di capire che nelle comunità naturali più antiche il carattere comune della produzione non è mediato dallo scambio di merci. Non c’è scambio tra valori di scambio ma tra valori d’uso e attività lavorative, quindi produzione e scambio erano determinati da bisogni e scopi comunitari, decisi a priori, nel senso che il carattere sociale della produzione era presupposto fin dall’inizio.

Quello che manca al capitalismo è proprio “un piano sociale definito”, scrive Marx nei Grundrisse (un testo, detto tra parentesi, che spesso presenta spunti molto interessanti, non sviluppati nel Capitale). Ci vorrebbe un piano in cui la qualità risulti più importante della quantità, e l’essere umano, coi suoi bisogni, non sia in funzione del tempo di produzione e scambio. Gli umani han diritto a occupare il loro tempo in attività che non riguardino strettamente l’economia.

Il testo di Foster è molto lungo, ma il riassunto qui riportato è sufficiente per capire che in Marx, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, l’interesse per il comunismo primitivo era strettamente connesso allo sviluppo del socialismo futuro.

 

Harold Laski: chi era costui?

 

 

 

Devo ammettere la mia ignoranza. Non conoscevo il pensiero politico del laburista inglese (di origine ebraica) Harold J. Laski (1893-1950), anche perché in lingua italiana si trova assai poco. In corpose “Storie del marxismo”, come quella di Predrag Vranicki (Editori Riuniti), o di Iring Fetscher (ed. Feltrinelli 1970) o quella in nove volumi curata dalla stessa Feltrinelli (1977) o nei fascicoli della rivista “Rinascita” (ed. Luciano Landi) non viene citato neppure una volta.

Della Volpe riprende alcuni passi dal libro sul Liberalismo europeo, nella traduzione francese. Le citazioni mettono bene in evidenza la discrepanza esistente nel liberalismo tra intenzioni democratiche (che secondo me sono, potrei aggiungere, un retaggio del cristianesimo debitamente laicizzato in senso borghese) e prassi classista, dovuta, quest’ultima, alla proprietà privata dei mezzi produttivi.

Marx sosteneva che gli economisti inglesi spesso non riuscivano a capire l’essenza dello sfruttamento del lavoro nel capitalismo proprio perché non si ponevano le domande giuste, essendo viziati in partenza da pregiudizi ben radicati sulla questione della proprietà. Laski, invece, almeno da queste citazioni, sembra sostenere che i teorici del liberalismo erano consapevoli di come avrebbe dovuto essere la democrazia, ma erano anche convinti che se essa fosse stata realizzata concretamente, avrebbero dovuto rinunciare alla loro vita agiata, al loro individualismo affaristico.

Detto altrimenti, il liberalismo pensa a delle libertà universali, sapendo in anticipo che dovrà smentirle nei fatti, anche perché il liberalismo non sopporta d’essere tenuto sotto controllo da parte dello Stato. Lo Stato è solo uno strumento per controllare chi contesta il liberalismo.

Laski fa capire chiaramente che il destino del liberalismo (giuspolitico) è strettamente legato al destino della proprietà privata. Se questa viene socializzata, non si potrà più parlare di “liberalismo” (oggi diremmo anche “neoliberismo economico”).

Dunque il liberalismo è favorevole alla democrazia finché la democrazia è avversa al socialismo. In caso contrario (cioè a mali estremi) opta per la dittatura. Quindi ognuno capisce da sé che il vero scontro è tra liberalismo borghese e socialismo proletario, al fine di realizzare una piena democrazia. Tuttavia quando della Volpe parla, per giustificare il socialismo, di “Stato collettivista”, non s’accorge di dire una cosa più vicina alla dittatura che non alla democrazia.

Laski diceva queste cose negli anni ’30-’40: è passato quasi un secolo e non è cambiato molto. Si sono solo approfondite le contraddizioni, in quanto gran parte dell’umanità non vuole più sopportare né l’imperialismo economico (oggi chiamato, più genericamente, “globalismo”) né il liberalismo politico.

Inoltre gli Stati capitalisti (soprattutto gli Stati Uniti) han pensato di poter continuare a dominare quasi il mondo intero, confidando nella loro superiorità militare e finanziaria (il petrodollaro). Han creduto che non fosse un problema, detenendo posizioni egemoniche, trasformarsi da potenza economico-produttiva a potenza finanziaria. Oggi però si sono accorti che è stato un grave errore, e pensano di porvi rimedio imponendo una politica tariffaria molto onerosa a tutti i Paesi che commerciano con loro o che vogliono vendere nei loro mercati le merci che producono. Si stanno scavando la fossa con le loro stesse mani. Perderanno inevitabilmente di credibilità, e i Paesi tenderanno a emarginarli, a tenerli chiusi nel loro guscio.

Da quando gli europei, nel XVII sec., sono emigrati nel Nuovo Mondo, gli Stati Uniti sono diventati la più grande disgrazia dell’umanità. Prima di loro erano gli stessi europei occidentali. Probabilmente il futuro di questi occidentali (più quelli che han popolato il continente australe) è segnato da un destino comune.

Sono processi lunghi, tormentati e tumultuosi, a causa dell’insipienza umana, che, dopo essersi abituata a vivere in maniera innaturale, non sa più come uscirne.

 

*

 

Di Laski sarebbe interessante tradurre The socialist tradition in the French Revolution, oppure Political Thought in England from Locke to Bentham. È stato invece tradotto nel 1955 Introduzione alla politica, ristampato da La Rosa, Torino 2002. È quasi l’unico dopo il 2000; l’altro è (scritto con altri quattro autori) L’evoluzione attuale del regime rappresentativo, ed. Il Mulino, Bologna 2011.

Nel lontano 1931 la Laterza stampò La libertà nello Stato moderno e nel 1935 Democrazia in crisi (che forse il fascismo strumentalizzò per giustificare la propria dittatura, come strumentalizzò il Pascoli per giustificare il proprio colonialismo). Sarebbe da leggere Le origini del liberalismo europeo, ed. La Nuova Italia, Firenze 1971 (Ia editio nel 1962). L’editore Einaudi si cimentò nel 1947: Fede, ragione e civiltà: saggio di analisi storica. L’anno dopo Mondadori: La repubblica presidenziale americana.

Difficile dire quanto fosse comunista, visto che una delle pochissime notizie che lo riguardano venne scritta da Amintore Fanfani, Come lavorava Harold J. Laski? (rivista “Economia e storia”, n. 2/1963, ed. Giuffrè, Milano). In realtà su di lui si può leggere anche Claudio Palazzolo, La libertà alla prova: Stato e società in Laski, ETS, Pisa 1979; Laura Bazzicalupo, Pluralismo e sovranità nel pensiero di Harold Laski (rivista “Nord/Sud”, Napoli 1990); e nel lontano 1950 due contributi, quello di Alessandro Passerin d’Entrèves, Harold J. Laski (1893-1950); e quello di Gaetano Tumiati, Harold Laski uno e due (rivista “Il Ponte”, n. 2/1950).

 

Kant e il liberalismo

 

 

 

Dire, come fa della Volpe, che Kant è “colui che ci ha dato il sistema filosofico del liberalismo” (p. 244), mi pare francamente eccessivo. Semplicemente perché il liberalismo non poteva nascere nella Prussia di allora, che a quel tempo non aveva ancora unificato tutte le regioni germaniche, anche se in quei territori era stata fatta, due secoli prima, la riforma protestante.

Al tempo di Kant il liberalismo era già nato in Francia, Inghilterra, Olanda, o comunque in questi Paesi poteva poggiare su solide basi giusnaturalistiche.

Kant stimava molto Locke e, per un certo tempo, aveva preso una sbandata persino per lo scettico Hume. Quando parla di libertà individuale, di Stato di diritto, di pace perpetua e di morale universale, non dice cose originali, semplicemente perché non poteva farlo. Tutto l’idealismo tedesco è un passo indietro rispetto alle ideologie borghesi dell’Europa occidentale, ivi inclusi gli Stati Uniti.

Quando si fa riferimento al liberalismo, non si può non ricordare Montesquieu e, più in generale, i teorici dell’Illuminismo, soprattutto quello francese (si pensi solo ai redattori dell’Enciclopedia). E quando si parla di giusnaturalismo, bisogna per forza chiamare in causa Grozio, Hobbes, Rousseau, lo stesso Locke, ma anche Thomasius, Pufendorf, Spinoza.

Kant certamente ha contribuito sia all’una che all’altra corrente filosofica, ma in misura limitata, cercando, più che altro, di produrre una filosofia laicizzata del cristianesimo luterano (come fecero tutti gli idealisti tedeschi). Il suo modo di affrontare i problemi della società del suo tempo resta piuttosto astratto, formalista, metafisico. Il diritto, la politica sono ambiti che tratta alla fine della sua vita; e quando lo fa, non dimostra di possedere un’etica superiore a quella evangelica. Anche quando si atteggia a “laico”, il suo modo di parlare di “noumeno pensabile ma inconoscibile”, era al massimo una forma di sponsorizzazione dell’agnosticismo, una teoria filosofica più arretrata rispetto all’ateismo che nel resto dell’Europa nordica ormai dilagava.

Se esaminiamo le opere dei teorici del liberalismo, vediamo una metodologia opposta: partono subito dalla politica e cercano di ricavare da essa delle massime filosofiche. Non hanno bisogno di ricorrere alla filosofia per rendere più universale la loro politologia. Sapevano a priori che le loro teorie politiche dovevano porsi al servizio non dell’intera umanità, ma della classe borghese; o, se si preferisce, al servizio dell’umanità attraverso gli interessi della borghesia. Che poi questa borghesia fosse “grande” (come in Locke e Montesquieu) o “piccola” (come in Rousseau), la sostanza non cambia, anche se al tempo della rivoluzione francese i giacobini vollero far vedere d’essere molto diversi dai girondini.

A della Volpe piace moltissimo l’aforisma kantiano, secondo cui “l’uomo è un fine, non un mezzo”. Eppure, magari senza volerlo, usa Kant proprio come un mezzo, al fine di distinguere il liberalismo sociale di Rousseau da quello individualistico e astratto dello stesso Kant. Cioè vuol far vedere che, anche quando il liberalismo si esprime nella maniera più etica possibile, resta sempre contraddittorio, incapace di realizzare i propri postulati, in quanto non può mai negare il primato della proprietà privata dei mezzi produttivi.

Rousseau invece, chiedendo di valorizzare le capacità di tutti, e non solo di premiare gli sforzi della borghesia, aveva saputo aggiungere un plus di democraticità alle teorie liberali. Secondo della Volpe, col suo concetto di “sovranità popolare” (realizzato nella Costituzione giacobina del 1793, che poi non entrò mai in vigore), Rousseau era a un passo dall’aver teorizzato delle idee socialiste. Quindi si può dire che per della Volpe esiste una linea di continuità, senza rotture traumatiche, tra giusnaturalismo, liberalismo, democrazia della piccola borghesia e socialismo scientifico.

Un modo di vedere, questo, piuttosto hegeliano, cioè ottimistico, anche se Hegel preferiva gli Stati ai popoli, soprattutto nella Filosofia del diritto, ove respinge senza tante remore tutto il giusnaturalismo (inclusa ovviamente l’idea di contrattualismo) e dove considera il liberalismo borghese (con la sua democrazia rappresentativa, il suo Stato di diritto e le sue Costituzioni) poco adatto allo Stato prussiano, così aristocratico e militaristico (peraltro già espressione, di suo, di un particolare “spirito popolare”).

Peccato però che la storia dell’Europa occidentale, dai tempi della conquista dell’America (anzi, ancor prima, dai tempi delle crociate), sia stata di una violenza inaudita, in cui, nel migliore dei casi, la pace, nell’ambito del perimetro geografico europeo, veniva pagata col duro sfruttamento delle risorse umane e materiali reperibili nelle colonie conquistate.

Peccato soprattutto che ancora oggi sia così, con la differenza che a fare da locomotiva al capitalismo mondiale non sono più gli inglesi e i francesi, ma gli statunitensi, i quali non solo hanno potenziato le loro armi, rendendole altamente distruttive, ma hanno anche affinato i mezzi economici con cui pretendono di dominare quanti più territori possibili.

Non ci sarà alcuna transizione pacifica dal capitalismo al socialismo, poiché è almeno da mezzo millennio che si permette alla borghesia di vivere sfruttando le risorse altrui. Non siamo più abituati a capire che la parola “sfruttamento” va cancellata da un dizionario davvero democratico. Sarà l’Asia a far capire al capitalismo privato occidentale che è giunta l’ora di farsi da parte. E chi pensa che con ciò sia “finita la storia”, s’illude come Fukuyama, anche se per motivi diversi.16

Infatti, finché non si tornerà al comunismo primordiale, non si farà altro che sostituire una forma di sfruttamento a un’altra. Come non basta, per passare alla democrazia, sviluppare le capacità di tutti e non solo quelle finalizzate alla conservazione della proprietà privata, così non basterà, per passare al socialismo, promuovere il collettivismo al posto dell’individualismo.

 

Merito e lavoro

 

 

 

Se si riducono all’osso le complicate, faticose e persino snervanti pagine di della Volpe, ci si accorgerà che su Rousseau dicono sempre le stesse cose. Il suo chiodo fisso è che, mettendo Rousseau e Marx sui due piatti della bilancia, quello del primo pesa molto di più, e questo, secondo noi, è obiettivamente fuorviante. Nel senso che il socialismo scientifico non può essere visto come una semplice aggiunta alle tesi del politologo ginevrino.

Indubbiamente della Volpe non avrebbe potuto agganciarsi a Rousseau per criticare il sistema borghese, trascurando il trionfo della rivoluzione bolscevica e del socialismo sovietico sul nazifascismo, ma questa, per noi, resta una magra consolazione. Rousseau va criticato a prescindere da ciò che ha fatto concretamente il leninismo. Non è un po’ bizzarro che i comunisti debbano fare un’impegnativa rivoluzione soltanto per permettere a ogni persona di esercitare pienamente le proprie capacità, i propri meriti individuali? Perché, in soldoni, è questo l’obiettivo finale che l’autore prospetta come conseguenza della proprietà privata abolita. La linea di continuità è tra Rousseau e lui, non tra Rousseau e Marx.

Se lotta di classe deve esserci – e inevitabilmente c’è là dove sussistono gli antagonismi sociali –, la sua conclusione operativa a favore di una transizione socialista, vedrà sicuramente attuata la questione del merito, ma questa non sarà così centrale, come pretendeva della Volpe, che parla di “merito-lavoro” come di “un binomio assiologico indissolubile e irrefragabile17” (p. 259). Anche in Giappone si valorizza il merito, come in nessun Paese occidentale, eppure siamo ben lontani dal socialismo. Anzi, lo stesso concetto di “lavoro” andrà ripensato in chiave comunista.

Il lavoro viene riconosciuto come un diritto in tutte le Costituzioni borghesi, anche per non essere da meno rispetto a quelle socialiste. Semmai è il dovere di lavorare ch’esse trascurano, in quanto l’industria ha bisogno, per tenere bassi i salari, di una certa quota di disoccupati sempre disponibili (naturalmente per mansioni più manuali che intellettuali, benché il sistema non si scandalizzi quando vede che un laureato si abbassa a fare lavori sottopagati).

Tuttavia non si può vivere per lavorare. Già Marx aveva detto che non solo dovrà scomparire la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma la stessa attività lavorativa, in presenza dell’automazione tecnologica, diventerà marginale rispetto a quella creativa e ricreativa, cioè sostanzialmente artistica e ludica.

Questo per dire che l’uguaglianza sociale non si misurerà tanto sul rispetto onnilaterale delle capacità o potenzialità di ogni singola persona, quanto sul fatto che ognuno dovrà essere lasciato libero di esibire tali abilità o di non esibirle affatto, accontentandosi di uno stile di vita frugale, modesto, in cui per es. il valore dell’amicizia viene ritenuto superiore a quello del lavoro.

Tutta l’importanza attribuita al lavoro, come fonte di ricchezza, nasce da una mentalità borghese, la quale, peraltro, pensava a un arricchimento come sfruttamento del lavoro o delle risorse altrui (sempre che, al tempo di Colombo, non avesse attorno dei teologi alla Bartolomeo de Las Casas, che storcevano il naso18).

Tuttavia in un regime socialista libertà e uguaglianza dovrebbero poter permettere a chiunque di scegliersi la mansione che vuole, secondo i ritmi che vuole. Là dove non esiste il denaro, che inevitabilmente rende illimitata la capacità di arricchirsi (per chi vi riesce), tutto dovrà diventare molto più semplice e lineare; gli stessi rapporti sociali dovranno essere fluidi, trasparenti, e nessuno si sognerà di non condividere il pane, ottenuto dal proprio lavoro, con chi in quel momento non avrà lavorato.

Della Volpe ha il terrore che in Europa il socialismo non verrà mai accettato, in quanto lo si paragona alle teorie livellatrici del socialismo stalinista o a quelle di Babeuf e Buonarroti. Sembra non capire che in un socialismo autenticamente democratico un certo livellamento è inevitabile, quando lo stile di vita non si affida alla tecnologia per svilupparsi. Se esistesse un rapporto equilibrato con la natura, sarebbe la natura stessa a imporlo.

Che poi, nell’ambito di una gestione collettiva dei mezzi produttivi, qualcuno possa emergere con delle particolari innovazioni, basate sul suo ingegno personale, è normale che avvenga. Ciò che andrebbe evitato è l’uso del progresso per minare le fondamenta del collettivismo egualitario. È l’ambiente che ci impone un determinato comportamento. È dentro un predefinito contenitore che dobbiamo dare un senso al suo contenuto. Evidentemente in una dimensione universale, non semplicemente terrena, saranno diverse le condizioni esistenziali.

Puntare tutto sul criterio del merito, per quanto generalizzato a tutti i cittadini, può essere molto pericoloso, in quanto tante categorie umane non sono in grado di lavorare o hanno smesso di esserlo e non per questo vanno giudicate di livello inferiore. Senza poi considerare che nella categoria del lavoro andrebbero inclusi tutti gli indici (o indicatori) possibili, non solo quelli quantitativi, come si è soliti fare nelle società borghesi, il cui materialismo – come ha sempre detto il marxismo – è volgare e meccanicistico.

Quante volte si è detto che il parametro del prodotto interno lordo non indica affatto il benessere dell’intera collettività nazionale? Quello infatti è un indice che, in presenza della proprietà privata dei mezzi produttivi, ha un valore statistico prossimo allo zero: se non venisse preso in considerazione, si sarebbe più onesti con se stessi.

Una donna in stato di gravidanza sta “lavorando” o no? Nelle società rurali di un tempo le donne facevano figli in tutto il loro periodo fertile. Oggi è la stessa cosa in tante aree del Sud globale. Come dobbiamo guardarle? Con ammirazione o commiserazione? E quando nel corso di epidemie, carestie o guerre questi figli morivano a frotte, si pensava davvero d’aver subìto un danno economico o si ringraziava il Padre eterno o il destino d’aver risolto, seppur in maniera brutale e momentaneamente, delle contraddizioni giudicate irrisolvibili? Ancora oggi, purtroppo, nell’ambito del capitalismo c’è chi parla di “depopolamento forzato”, in barba a qualunque “merito”, compreso quello della piccola borghesia russoiana.19

 

Rousseau, Montesquieu e Marx

 

 

 

Del Battista dicono i vangeli ch’era il maggiore dei profeti, ma che il più piccolo nel “regno dei cieli” era più grande di lui.

Di Rousseau si potrebbe dire la stessa cosa: era il più grande tra i teorici della borghesia, ma il più piccolo comunista è più grande di lui, naturalmente a partire da Babeuf e Buonarroti, che, sulla scia di Morelly e Mably, spiegarono ai giacobini dove avevano sbagliato.

A volte della Volpe dà l’impressione di non capire che la superiorità politica di Rousseau rispetto agli altri teorici illuministi e rivoluzionari francesi stava nella sua idea di democrazia diretta, l’unica che permette di fidarsi di chi viene eletto. Un’idea che gli era stata suggerita dalle esperienze dei primitivi nelle colonie francesi, per quanto la sua interpretazione fosse piuttosto riduttiva e fantasiosa (infatti, più che un esame etno-antropologico di quelle realtà, è lui stesso che vi si identifica per polemizzare col capitalismo francese).

Della Volpe trascura di approfondire tale argomento, in quanto, essendo un “togliattiano”, tende a dare maggior peso alla democrazia rappresentativa del parlamento nazionale, benché non sia reticente nel dire che l’esperienza rivoluzionaria dei soviet russi fu un esempio di alta democrazia, e che quando avverrà la fase del comunismo vero e proprio, lo Stato dovrà cessare di esistere (e con esso, si può presumere, qualunque parlamento nazionale: cosa su cui anche Togliatti non avrebbe avuto nulla da eccepire). Presumibilmente anche il concetto di nazione dovrà scomparire, poiché esso, storicamente, s’è formato in parallelo a quello di Stato, che è burocratico per definizione. Stiamo parlando di mezzo millennio fa.

Fatta questa premessa, passiamo a esaminare la seconda delle Appendici.

L’affermazione di Montesquieu riportata da della Volpe: “La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono”, in quanto “la libertà non può consistere che nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere costretto a fare ciò che non si deve volere” (p. 282), è un’affermazione che avrebbe potuto accettare anche Rousseau, ma a una condizione, che le leggi fossero promulgate dallo stesso popolo, e per “popolo” doveva intendersi, secondo lui, quello della comunità locale.

Infatti, presa in sé, l’affermazione è sommamente astratta, proprio perché non chiarisce chi sia il soggetto che emana le leggi, ovvero dà per scontato che debba essere un parlamento nazionale, la cui rappresentatività popolare era, per Rousseau, antidemocratica per definizione. Questo a prescindere dal fatto che Montesquieu, ben consapevole dei limiti delle democrazie nazionali, prevedesse, onde tenere a freno gli impulsi autoritari, una separazione dei tre fondamentali poteri, per un loro reciproco controllo. Una separazione che a Rousseau non piaceva affatto, in quanto riteneva che nell’ambito della democrazia diretta sarebbe stata una cautela del tutto superflua.

Come noto, Montesquieu era contrario alla democrazia diretta, in quanto riteneva il popolo incapace di autogestirsi. Il che, in astratto, potrebbe anche essere vero, ma solo perché, quando si ritiene il parlamento nazionale l’organo più rappresentativo di una nazione, è evidente che non si può permettere al popolo di esercitare alcuna vera sovranità. Lo si abitua a una dipendenza, che è esattamente quello che vuole l’impianto generale del suo Spirito delle leggi.

Quando si guarda una stessa cosa da prospettive opposte, si possono ottenere risultati molto diversi, e non è detto che uno abbia voglia di considerare relativo il proprio angolo visuale. Per pigrizia intellettuale, che è sempre molto forte in presenza del benessere materiale, le semplificazioni arbitrarie sono la normalità. Non a caso Montesquieu era uno strenuo difensore della proprietà privata. È singolare che dica, con nonchalance, che la comunanza dei beni è esistita solo nelle società pre-schiavistiche, mentre là dove si sono imposte le leggi, queste servono sempre per tutelare la proprietà acquisita. È singolare cioè che lo dica come se fosse una decisione storica irrevocabile, una forma di progresso incontrovertibile.

Nei suoi Discorsi antecedenti al Contratto sociale Rousseau mostrava d’avere un sapere divergente, in quanto non dava nulla per scontato.

Comunque su questa diatriba della Volpe ha pienamente ragione: Montesquieu è il teorico della media-grande borghesia (giustamente titolata a opporsi alla nobiltà e alle monarchie ereditarie e assolutistiche), nonché il teorico della democrazia esclusivamente politica. Con Rousseau invece si entra in un altro ambito: quello della democrazia sociale e della piccola borghesia radicale, per quanto egli, essendo morto un decennio prima della rivoluzione francese, non abbia mai fatto riferimento ad alcun partito politico.

Per il resto della Volpe continua a girare attorno alla questione del “merito” per dimostrare la superiorità di Rousseau, senza però capire che il vero “merito” del ginevrino stava molto di più nella sua idea di democrazia diretta, la quale, per quanto limitata alla piccola borghesia, costituisce il terreno su cui si può innestare con successo il superamento definitivo della proprietà dei fondamentali mezzi produttivi che fanno sussistere un’intera comunità locale.

Il fatto che della Volpe trascuri questo aspetto, lo induce a dar ragione a Rousseau in un’interpretazione, totalmente sbagliata, dell’uguaglianza tipica del comunismo primordiale. Rousseau infatti riteneva che la giustizia distributiva, basata sul merito individuale, fosse superiore non solo a quella commutativa (di origine aristotelica20) e a quella dello scambio degli equivalenti sul mercato borghese, ma anche “a quella uguaglianza rigida dello stato di natura” (p. 289).

È triste che della Volpe, sulla scia di Rousseau, definisca “mitico” lo stato di natura, che invece è esistito per un tempo infinitamente più lungo di quello che sta caratterizzando, da circa seimila anni, le civiltà antagonistiche. Fa specie che un comunista sia più seguace di Rousseau che di Marx, e si permetta di dire che nel comunismo primordiale vigeva una “anarchica indifferenza al valore originale e diverso di ogni individuo umano, di ogni persona” (p. 290).

Questa “anarchia” era dovuta al fatto che, quando in una comunità si è profondamente uniti, al punto che non si concepisce la propria esistenza a prescindere da quella degli altri, la valorizzazione del merito altrui viene data per acquisita: non vi è alcun bisogno di codificarla in un regolamento scritto, anche perché quello era un periodo in cui la scrittura neppure esisteva, sicché quando si prendeva una comune decisione, quella era “legge”, almeno fino alla volta successiva.

E comunque la forzatura più grave di della Volpe è stata quella di aver voluto far credere che la democrazia russoiana fosse tale semplicemente perché tutelava la realizzazione dei meriti individuali di ogni persona, e non anche perché tutelava il diritto della piccola borghesia a disporre di una certa proprietà privata dei mezzi produttivi.

Della Volpe pensa di scongiurare questa interpretazione negativa del Contratto russoiano, sostenendo che si trattava unicamente di una proprietà di beni personali, non fondamentali per la sussistenza della comunità locale. Ma questo sì che è un “mito” del Contratto sociale! Rousseau vuole semplicemente che la piccola borghesia si accontenti di ciò che già possiede, ma, nel pretendere questo, non si rende conto che non è mai esistita da nessuna parte una borghesia che limita forzatamente i propri affari. Quando lui chiede alla piccola borghesia di mettere in comune ciò che possiede, promettendo che riavrà tutto come prima, lo fa solo per evitare che la concorrenza possa distruggere la comunità. Ma la concorrenza è un atteggiamento insito nell’essere individualistico della borghesia, per cui la sua richiesta era semplicemente illusoria.

Insomma, non esiste affatto una linea di continuità tra Rousseau e Marx, ma un salto che nessun borghese, piccolo o grande che sia, sarebbe disposto a fare spontaneamente. Devono essere le circostanze a obbligarlo.

Naturalmente della Volpe non arriverebbe mai a dire che essere a favore dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi, equivalga a essere “livellatori”. La sua posizione, in realtà, è un’altra: posta quella abolizione, la negazione del livellamento va fatta in nome della valorizzazione del merito. Il che però rischia di far credere che in nome di questa valorizzazione sia possibile realizzare la migliore transizione al socialismo.

 

Filosofia del merito

 

 

 

Un’etica basata sulla valorizzazione dei meriti o delle capacità di qualunque individuo, rischia di diventare utilitaristica. Anche perché della Volpe parla di “servizi resi allo Stato” (p. 296), cioè a un ente astratto, che, per quanto “comunista” possa essere (capace di valorizzare chiunque), potrebbe sempre porre delle graduatorie relative al merito. Ora i cittadini han forse bisogno di questa emulazione, o non piuttosto di vivere in pace con se stessi, affrontando insieme i problemi comuni?

Gli Stati sono esigenti, non sono delle semplici famiglie, in cui alla debolezza di uno supplisce la forza di un altro. Gli Stati han bisogno di una certa efficienza per mantenersi a determinati livelli di qualità. Se anche, nella fase iniziale del socialismo, non si guardasse alle differenze di abilità e capacità tra i cittadini, in quanto lo Stato socialista sarebbe da costruire ex novo, col tempo la situazione cambierebbe di sicuro.

Infatti delle due l’una: o si procede subito al progressivo smantellamento dello Stato a tutto vantaggio delle comunità locali, le quali si arrangeranno da sole a capire dove, quando e come valorizzare i meriti individuali di ciascuno; oppure si potenzia lo Stato, per non essere da meno degli Stati avversari. In questo secondo caso il merito verrà valorizzato sempre di più, ma non necessariamente in maniera equa (per es. sotto lo stalinismo si valorizzava la piaggeria, il servilismo, la capacità di eseguire gli ordini senza discutere, l’apatia nei confronti delle ingiustizie, la dissimulazione, il carrierismo… Ce n’era per tutti i gusti, se si accettava di professare l’ideologia ufficiale del partito, le sue direttive politiche ed economiche).

È utopico pensare che, nell’ambito di uno “Stato” (qualunque esso sia), il merito venga valorizzato adeguatamente. Anzi vi saranno tantissimi cittadini che, non avendo capacità per imporsi all’attenzione della collettività o delle istituzioni, si rassegneranno a non essere valorizzati come avrebbero voluto.

Semmai bisognerebbe dire che là dove esiste uno Stato, lì la democrazia è assente o è a rischio, e non ci saranno meriti in grado di tutelarla, a prescindere che la proprietà privata dei mezzi produttivi sia presente o assente. Infatti si è già visto che la proprietà statalizzata (cioè non semplicemente socializzata) viene percepita come proprietà di tutti e di nessuno, nei cui confronti ci si può comportare in una maniera tutt’altro che etica o democratica.

Tutto quanto si presenta come “statalizzato” tende a favorire l’irresponsabilità. L’idea dellavolpiana che il socialismo scientifico abbia ereditato, tramite Rousseau, la preoccupazione cristiana di valorizzare la persona (pp. 296-7), è un’incredibile sciocchezza, semplicemente per il fatto che, nell’ambito di uno Stato, il cittadino inevitabilmente si corrompe, indipendentemente dal fatto che il suo merito venga valorizzato o no.

Con ciò naturalmente non si vuol sostenere che l’etica kantiana fosse migliore di quella russoiana o di quella marxista. Di fronte a un principio sommamente astratto come quello del dovere per il dovere, uno Stato può arrivare a chiedere qualunque cosa ai propri cittadini. L’unica sua preoccupazione sarà quella di cercare di convincerli. Ma in questo il teorico nazista della propaganda, Goebbels, era un maestro: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.

In ogni caso resta poco spiegabile il motivo per cui, secondo della Volpe, il marxismo avrebbe ereditato da Rousseau il concetto cristiano di “persona”, quando poi lo stesso autore sostiene, peraltro giustamente, che il medesimo concetto, interpretato cristianamente, è quanto di più astratto si possa pensare. Forse a della Volpe è sfuggito il fatto che il cristianesimo ha origini ebraico-collettivistiche, ancorché spiritualizzate in chiave ellenistica. È stato in virtù di tali origini che ha potuto superare l’individualismo del paganesimo, che pur era associato ai ritmi della natura.

Quando iniziò a formarsi la borghesia di fede cristiana, essa volle collegare il proprio individualismo al paganesimo del mondo greco-romano, naturalmente all’interno di una cornice molto più smaliziata, quella appunto ebraico-cristiana. Quindi se Rousseau ha trasmesso un concetto di “persona”, l’ha fatto non tanto entro i limiti del cristianesimo (pur avendo avuto dei genitori ugonotti, è dubbio che Rousseau fosse davvero credente), quanto piuttosto entro i limiti dell’individualismo borghese.

 

Il socialismo democratico è una cosa seria

 

 

 

Alle pagine 300-301 vi è una lunga nota di della Volpe che merita d’essere commentata. È dedicata ad alcuni passi di Stato e rivoluzione, scritto da Lenin, da noi stessi analizzato nel libro Il grande Lenin (pp. 39-64).

L’autore fa questo ragionamento: l’uguaglianza sociale (non quella meramente politica della borghesia) non può realizzarsi nel socialismo ma solo nel comunismo, quando non esisteranno più né lo Stato né le classi contrapposte. Infatti nello Stato socialista vige ancora il diritto borghese, cioè il diritto uguale per soggetti disuguali; mentre in quello comunista dovrà affermarsi il principio “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Questo modo di ragionare mi convince, col passare degli anni, sempre meno. Supponiamo infatti che, al tempo dello stalinismo, la statalizzazione dei principali mezzi produttivi fosse avvenuta secondo metodi democratici, non autoritari, facendo cioè proseguire la NEP leniniana, con cui si sarebbe costretto lo Stato a dimostrare concretamente di essere artefice di una produzione più efficace di quella dei kulaki (agrari agiati). Cosa sarebbe successo? I lavoratori dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi statalizzati avrebbero dovuto prendere un salario o uno stipendio equivalente, mentre il kulako avrebbe fatto affari privatamente. Solo col tempo quest’ultimo sarebbe stato rovinato dalla concorrenza dei prezzi agricoli delle aziende statali, dotate di molta più manodopera e mezzi più avanzati. Cioè in maniera progressiva i kulaki avrebbero accettato di far parte di un’azienda collettivizzata e si sarebbero risparmiati d’essere eliminati fisicamente come classe sociale.

Dunque salari e stipendi più o meno uguali per tutti, a prescindere dal tipo di lavoro (eventualmente qualcosa in più per i lavori più pericolosi o faticosi). Anche gli intellettuali, i politici, i funzionari statali…: tutti con la stessa retribuzione. Sarebbe stato accettato? Pensiamoci bene, poiché nell’ambito del socialismo statalizzato sovietico, al tempo dello stalinismo, esisteva una classe, quella degli intellettuali (e, tra questi, la categoria degli stalinisti) che riuscì a imporsi su tutte le altre classi. Per quale motivo? È importante rispondere a questa domanda, poiché il socialismo scientifico ha sempre sostenuto che la scomparsa delle classi avverrà contestualmente a quella dello Stato.

In presenza dello Stato, che gli stalinisti vollero sempre più burocratizzato e poliziesco, non solo finirono per comandare gli intellettuali su tutte le altre classi, ma essi stessi stabilirono che gli agricoltori statalizzati dovevano sostituire completamente e con la forza quelli privati; inoltre che gli operai industriali avrebbero avuto un’importanza superiore a quella degli agricoltori, e in genere le persone urbanizzate avrebbero dovuto essere più importanti di quelle rurali.

Il socialismo statalizzato fu totalmente fallimentare sotto lo stalinismo, ma – chiediamoci – avrebbe funzionato sotto il leninismo? Probabilmente avrebbe funzionato solo a una condizione, che non ci si fosse limitati ad abolire le classi. Se ci si limita a questo e non si smantella progressivamente anche lo Stato, si forma inevitabilmente una nuova classe, quella appunto che gestisce le leve dello Stato. Questa classe di intellettuali avrebbe approfittato del livellamento di salari e stipendi per imporsi su tutte le altre classi.

Come noto, della Volpe è convinto che per scongiurare il rischio del livellamento sia sufficiente premiare, di tutti i cittadini, il merito individuale. Tuttavia questo rimedio, in presenza di una statalizzazione dei mezzi produttivi, è aleatorio, cioè non è affatto detto che la classe intellettuale egemone sia disposta a metterlo in pratica: probabilmente lo farebbe solo per corrompere proprio chi riceve un maggior riconoscimento del merito.

Secondo me il socialismo scientifico non è mai riuscito a porre le basi per un superamento effettivo dello Stato. In effetti, e per paradossale che sia, una presenza statale si potrebbe conservare anche dopo aver risolto il problema delle classi contrapposte. Lo Stato cioè potrebbe essere usato per controllare persone tutte uguali tra loro. A quel punto non servirebbe neppure una retribuzione in denaro; potrebbe essere fatta in maniera più irreggimentata o regolamentata. Cioè concedendo pochi soldi da spendere privatamente, mentre per le cose essenziali alla sopravvivenza dovrebbero risultare sufficienti dei rifornimenti contingentati, usando una specie di “tessera annonaria”, come nella seconda guerra mondiale.

Facciamo attenzione a queste cose, poiché non possiamo dare per scontato che il socialismo sia superiore o inferiore al capitalismo. Quando imposto, il collettivismo può avere dei problemi non meno gravosi di quelli dell’individualismo. E non è detto che il collettivismo abbia meno problemi solo perché lo Stato concede alla società civile il diritto di praticare un certo affarismo borghese, come sta avvenendo oggi in Cina.

Immaginiamo, per un momento, una soluzione in cui lo Stato riduce all’osso tutte le sue funzioni, mantenendo per es. solo quelle repressive, militari e, in parte, fiscali. Le altre le decentra ai suoi organi periferici, che così s’illudono d’avere più poteri. Persino buona parte delle entrate tributarie viene concessa agli enti decentrati. Scomparirebbero forse le classi a livello locale o regionale? O se ne formerebbero di nuove?

Il socialismo democratico è una cosa seria, e senza democrazia diretta delle comunità locali è impossibile da realizzare.

 

La sinistra e Rousseau

 

 

 

Nell’ambito della sinistra la rivalutazione di Rousseau e della possibilità che sulle sue teorie politiche si potesse innestare il socialismo scientifico fu un fenomeno che non coinvolse solo della Volpe e i suoi discepoli. Lo si trova anche in Iring Fetscher21, che però nega che in Rousseau vi sia stata una nostalgia per lo stato di natura dell’uomo primitivo. Secondo lui – e penso abbia ragione – lo stato di natura servì soltanto come pretesto per contestare la società borghese del suo tempo, le cui dinamiche concorrenziali portavano all’alienazione morale. In realtà Rousseau auspicava una repubblica piccolo-borghese autarchica.

Qui si potrebbe aggiungere che chi vede in Rousseau solo un campione di “filosofia morale” – come per es. Bronislaw Baczko – probabilmente ha capito poco delle sue idee politiche, che sono nettamente superiori a quelle etiche. Tant’è che il “male” non viene attribuito a un fantomatico “peccato originale”, ma alla disuguaglianza sociale presente nella società borghese. E solo nell’ambito di una società la contraddizione può essere risolta, come già Ernst Cassirer diceva fin dal 1932 nel suo Il problema Rousseau. Il piano morale dell’Emilio può essere realizzato solo dentro il piano politico del Contratto.

All’unisono con Fetscher la pensa Michel Launay, nel suo Jean-Jacques Rousseau écrivain politique, che vede il ginevrino rivolgersi al mondo socioeconomico degli artigiani, ai quali chiede di costruire una democrazia diretta, cioè qualcosa che non poteva essere condiviso dai philosophes che, vicini alle posizioni di Locke e Montesquieu, aprirono le porte alla rivoluzione francese.

Certo, fintantoché Rousseau sostiene che la società deve limitarsi a rispettare dei diritti naturali inalienabili, può apparire un giusnaturalista, ma nel momento in cui nega valore alla democrazia rappresentativa, diventa un’altra cosa.

Hegel fece male a contestarlo, sostenendo che lo Stato etico è più importante dell’individuo singolo: 1) perché la definizione stessa di “Stato etico” è una contraddizione in termini; 2) perché lo Stato prussiano difeso da Hegel era uno Stato autoritario, militaresco e aristocratico, che Rousseau non avrebbe mai potuto accettare; 3) perché Rousseau non opponeva il singolo ma la comunità locale allo Stato.22

Il limite di Rousseau era semmai un altro. La sua idea di “contratto” è conseguente al fatto che la società borghese nega qualunque vero valore allo stato di natura, salvo quello strumentale con cui essa opponeva qualcosa di naturale (un diritto inalienabile) a qualcosa di artificiale, come potevano essere i privilegi della classe aristocratica, ottenuti tramite l’uso della forza militare. Di fatto la borghesia non fece altro che trasferire l’antagonismo sociale da un settore (la rendita agraria) a un altro della società (il profitto capitalistico, che poi diventerà rendita finanziaria). E Rousseau non ha mai creduto che il comunismo primitivo potesse costituire, mutatis mutandis, un’alternativa alla società del suo tempo.

Secondo lui il “contratto” di reciproca protezione andava fatto tra persone che possiedono poco e che non vogliono perderlo per colpa di chi non pone limiti alla propria brama di ricchezza. A lui non interessa interfacciarsi né col proletariato (rurale o industriale) né creare un movimento con cui abbattere un potere costituito; inoltre s’illude di poter realizzare un’isola felice (per es. la Corsica) in un mare che la può sommergere in qualunque momento: un’illusione che troverà un prosieguo in tutto il socialismo utopistico del secolo successivo.

La sinistra ha capito questi limiti, ma, invece di valorizzare l’idea di democrazia diretta, l’ha classificata come un’esigenza piccolo-borghese di tipo utopistico. Di conseguenza è arrivata a dire che la soluzione contrattuale di Rousseau non elimina affatto la disuguaglianza ma la giustifica. Cioè da una critica giusta ha tratto delle conseguenze sbagliate. Invece di dire che la rivoluzione socialista avrebbe dovuto favorire le comunità locali e quindi la democrazia diretta, ha preferito sostenere che Rousseau era un anarchico simile a Proudhon. Essa stessa quindi non ha mai pensato che il socialismo futuro avrebbe potuto trarre insegnamento dal comunismo primitivo.

Ora, ci rendiamo conto che la teoria della sovranità di Rousseau predicava una cosa che solo nelle società primitive possiamo veder realizzata? La sovranità popolare non può essere rappresentata che da se stessa, in quanto essa c’è o non c’è. I deputati del popolo non possono essere delegati a fare qualcosa in autonomia, tant’è che Rousseau li chiamava semplicemente “commissari”, dando per scontato che avessero una funzione specifica, limitata nel tempo, e che non dovesse andare oltre il livello locale, altrimenti non avrebbero potuto essere tenuti sotto controllo.

Rousseau non avrebbe mai potuto accettare la separazione dei poteri né quella tra società civile e società politica, e tanto meno quella tra borghese e cittadino. Lo Stato andava semplicemente abolito, a prescindere dalla sua forma istituzionale, e andava fatto quanto prima.

 

Dieci note sul socialismo in generale

 

 

 

I

 

Il socialismo europeo non ha più niente di eversivo dai tempi della rivoluzione bolscevica. È praticamente più di un secolo (o, se si preferisce, da quando Lenin scrisse Che fare?) che non ha più saputo mostrare qualcosa di autenticamente anticapitalistico.

Questo è grave, perché è come se fossimo dei tossici assuefatti a una certa sostanza. Invece di credere che possiamo uscire dal tunnel, preferiamo aumentare la dose per ottenere gli stessi effetti illusori. L’irresponsabilità inevitabilmente aumenta. Perdiamo sempre più la percezione del pericolo, del danno che possiamo procurare agli altri e a noi stessi. Riusciamo soltanto ad autogiustificarci, come se tutto il mondo girasse attorno a noi. Una persona che considera le proprie convinzioni come una forma di droga, è praticamente autistica: i problemi degli altri non li vede. Il prossimo è solo un nemico da manipolare o persino da eliminare, se insiste nel sostenere una diversa versione dei fatti.

Naturalmente, vedendo il crollo dell’URSS nel 1991 e del socialismo mondiale affine al modello sovietico, i socialisti europei han potuto e ancora oggi possono dire di aver avuto ragione. In fondo qual era la loro motivazione principale per rifiutare la rivoluzione? Che non si sarebbe potuta fare finché il capitalismo non avesse esaurito tutta la sua forza propulsiva. In un certo senso si doveva attendere, quasi passivamente, limitandosi ad azioni riformistiche e parlamentari, la sua autonoma implosione.

Questa era anche la convinzione di Engels, quella cioè secondo cui la contraddizione tra produzione sociale e proprietà privata dei mezzi produttivi, sarebbe diventata, prima o poi, insostenibile. La stessa società, quindi, si sarebbe resa conto da sola che, se si voleva continuare a progredire, occorreva eliminare la proprietà privata, pena un inarrestabile declino.

Come noto, Lenin e gli altri bolscevichi avevano fatto un altro ragionamento. Si decisero a insorgere quando videro che il governo di Kerensky non era in grado di vincere la guerra contro la Prussia e stava portando il Paese alla catastrofe economica. A quel punto Lenin disse che se anche il capitalismo non era sviluppato in tutta la Russia come in Europa occidentale, sarebbe stato lo stesso partito comunista a far avanzare economicamente il Paese usando la stessa tecnologia occidentale.

In sé l’idea avrebbe potuto avere un esito positivo, se Lenin non fosse morto quasi subito dopo la fine della guerra civile, e se non fosse stato sostituito da una brutale dittatura che sponsorizzava l’idea di un mero socialismo statale, sommamente burocratico e autoritario. Probabilmente la Cina di oggi non è altro che l’applicazione su larga scala della NEP lanciata da Lenin, mentre la Cina di Mao non era che la variante agraria del socialismo industrializzato di Stalin.

Tuttavia la cosa più curiosa è un’altra. Il socialismo europeo, pur avendo visto che la Russia è tornata a una sorta di capitalismo statale, mentre la Cina ha sviluppato una sorta di socialismo mercantile, non si schiera affatto con questi due Paesi, ma difende a spada tratta il capitalismo privato dell’occidente, come se fosse la quintessenza del capitalismo in generale.

In pratica l’unica differenza tra questo socialismo europeo e i partiti più conservatori e democristiani sta solo nella diversa sensibilità nei confronti delle questioni religiose, nel senso che i socialisti provengono da tradizioni più laiche, e se anche non lottano per affermare l’ateismo scientifico, tendono ad assumere posizioni agnostiche o indifferenti, secondo la lezione kantiana (almeno quello della prima Critica).

L’ingenuità di tale socialismo europeo è quella di credere che la borghesia, a fronte di un possibile crollo del capitalismo, accetterà spontaneamente di cedere la proprietà dei mezzi produttivi, oppure di lasciarsi controllare dallo Stato. In realtà non avverrà niente di tutto questo. Quanto più il capitalismo acuisce la propria crisi, tanto più la borghesia s’incaponisce nel cercare di scaricarne gli effetti su qualcuno.

Abituata da un millennio di pratiche individualistiche, la borghesia occidentale è disposta a qualunque cosa, pur di sopravvivere in maniera darwiniana. Il “buonismo” socialista, mutuato dagli atteggiamenti più stoici del miglior cristianesimo, non porta da nessuna parte, come la storia ha ben dimostrato.

A ben guardare, infatti, il socialismo europeo, pur mostrando d’essere più laico rispetto alle altre correnti politiche di centro-destra, resta molto condizionato da un’ideologia religiosa, in quanto confida, ai fini di una soluzione pacifica degli antagonismi sociali, in una specie di magica “provvidenza”, in virtù della quale l’azione propositiva degli umani sia ridotta al minimo. Hegel avrebbe parlato di “astuzia della ragione”, la quale, per realizzare aspetti positivi, si serve di quelli negativi.

I socialisti non riescono neppure a immaginare che, se davvero la borghesia si troverà costretta a prendere soluzioni favorevoli a un maggior controllo statale dell’economia, lo farà servendosi di strumenti dittatoriali, che andranno ben oltre la democrazia formale di cui essa da tempo si fa portavoce. Questo poi senza considerare che un capitalismo statalizzato non è affatto l’anticamera del vero socialismo democratico, che può realizzarsi solo in assenza dello Stato. Cioè la borghesia sarà anche disposta ad assumere delle modalità “socialiste” di sopravvivenza, ma lo farà all’interno di una cornice assolutamente autoritaria, che non potrà essere messa in discussione da nessuno.

In fondo cosa sono stati il fascismo e il nazismo? Sono state due ideologie che, partendo dagli ideali para-socialisti della piccola borghesia, han saputo creare dei regimi dittatoriali favorevoli al grande capitale. Nulla impedisce che questi tentativi possano ripetersi, ovviamente sotto altre forme e modi.

Certo è che la definizione di “socialismo democratico” oggi è compromessa da un pregiudizio ideologico liberale che impedisce, letteralmente, d’immaginare un socialismo futuro completamente diverso da quello attuale. Avendo l’occidente il monopolio dell’interpretazione del termine “democrazia”, l’unico socialismo considerato accettabile è quello che difende gli interessi del capitalismo.

In questo momento il socialismo non ha neppure la forza per tutelare il Welfare State. Questo socialismo è in ritirata sin dalla fine degli anni ’70, e da allora non c’è più stata un’inversione di tendenza all’interno del cosiddetto “occidente collettivo”. Il che non ha fatto altro che allargare la forbice tra i pochi, ricchissimi, oligarchi, padroni assoluti di multinazionali industriali e di fondi finanziari, e il resto della popolazione, ormai ai limiti dell’incapienza. In quest’ultimo mezzo secolo è stata soprattutto la classe media a subire un declassamento così forte da avvicinarla al proletariato industriale.

L’opposizione a questa evoluzione oligarchica e finanziaria del capitalismo occidentale si è manifestata solo all’esterno, da parte di quei Paesi che non accettano più un ruolo subordinato, coloniale, nei confronti dell’occidente.

Tuttavia Paesi come Russia, Cina, Iran, Nord Corea, molti Paesi del cosiddetto “Sud globale”, pur avendo intenzione di creare un mondo multipolare, privo di un’egemonia occidentale a guida americana, non riescono a porre le basi per un superamento “socialista” del capitalismo. In nessuna parte del mondo s’intravede una dottrina sociale o un’ideologia politica che abbia in sé la forza di porsi come alternativa globale a un sistema produttivo “sviluppista”, basato prevalentemente sull’industria e nemico dell’ambientalismo ecologico.

 

II

 

L’idea di un socialismo realmente “democratico” non può essere sostenuta finché il Paese in cui la si vorrebbe realizzare è in grado di far valere un benessere non indifferente. Se non è la maggioranza della popolazione a soffrire le pene dell’inferno, è difficile che chi parla di “paradiso” venga ascoltato.

In un Paese in cui tutti i principali mass-media sono in mano ai poteri dominanti, qualunque evidenza può essere manipolata. Nel mondo romano si attribuivano ai “cristiani” e ai “barbari” le cause della crisi dell’impero. E la popolazione per molto tempo era convinta che, perseguitando duramente gli uni e combattendo militarmente gli altri, la situazione sarebbe progressivamente migliorata. Quando però ci si rese conto che i cristiani, invece di diminuire, aumentavano, e che vincere le tribù barbariche non era più facile come un tempo; e che gli antagonismi sociali, la crisi economica e l’autoritarismo statale e militare risultavano sempre più insopportabili – ecco che la consapevolezza cominciò a prendere una piega diversa.

Tuttavia, mentre nell’area occidentale dell’impero si dovette attendere che molteplici popolazioni cosiddette “barbariche” sfondassero le linee difensive e dilagassero ovunque; nell’area orientale, invece, fu sufficiente al potere politico trovare un abile compromesso con la Chiesa cristiana, decentrare molte, importanti, funzioni amministrative, realizzare coi “barbari” varie intese diplomatiche e assicurarsi un esercito più disciplinato (che si limitasse a obbedire all’imperatore, evitando di crearselo dopo aver eliminato il precedente), per riuscire a resistere un altro migliaio di anni.

Oggi la situazione è cambiata nel senso che l’oligarchia occidentale, per poter sopravvivere, tende a far credere che i nemici degli Stati Uniti e dell’Unione Europea siano Russia, Cina e, per quanto riguarda il solo Medioriente, l’Iran. In questa maniera la suddetta oligarchia può continuare a depredare le stesse popolazioni occidentali, sostituendo la faticosa e rischiosa economia produttiva con l’illusoria finanza, la quale però, di tanto in tanto, provoca dei disastrosi crolli borsistici; per non parlare del fatto che, per ripagare gli enormi debiti statali e i disavanzi commerciali con l’estero, l’oligarchia impone colossali sacrifici materiali, che portano i cittadini a impoverirsi sempre di più.

 

III

 

Quando si sviluppò il capitalismo in Italia, Paese agricolo per eccellenza, la situazione diventò catastrofica per le classi rurali e artigiane nel giro di poco tempo. La nascita delle idee socialiste, precedute da quelle anarchiche, fu inevitabile. Come se si volesse recuperare qualcosa che si era perduto in maniera irreparabile. Evidentemente mille anni di schiavismo e mille di servaggio non erano stati sufficienti per rassegnarsi.

Prima ancora dell’anarchismo ci furono le idee repubblicane di Mazzini, ma il suo era sostanzialmente un movimento borghese, privo di rapporti con la classe operaia e con scarsi rapporti con quella contadina.23 I cattolici avevano più presa sul mondo rurale, tant’è che per molto tempo riuscirono efficacemente a impedire l’unificazione nazionale, che avrebbe segnato un durissimo colpo allo Stato della Chiesa (il cui papato, nel Concilio Vaticano I, s’inventò, per difendersi, i dogmi più assurdi di tutta la sua esistenza).

Il socialismo fu invece un’esperienza degli operai industrializzati (famoso era il triangolo Torino-Milano-Genova), benché soltanto col leninismo si capì che, se si voleva fare una rivoluzione politica, occorreva anche il consenso dei contadini. In Russia lo si ottenne sulla base di due obiettivi: finire immediatamente il conflitto con la Prussia, uscendo in maniera unilaterale, senza chiedere il consenso agli alleati, dalla guerra mondiale (a dir il vero a molti bolscevichi non piacque per nulla la decisione di Lenin di cedere al nemico gran parte dei territori russi, ma poi si resero conto che, come al solito, aveva ragione, in quanto la rivoluzione appena compiuta doveva rafforzarsi nei confronti della inevitabile reazione degli anticomunisti interni). La seconda cosa, non meno importante, fu la distribuzione delle terre nobiliari ed ecclesiastiche a quei contadini che ne erano privi. In cambio i comunisti pretesero, e ottennero, la separazione dello Stato dalla Chiesa e della Chiesa dalla scuola. Senza l’appoggio dei contadini non sarebbe stato così facile abbattere il governo di Kerensky, o comunque resistere alla controrivoluzione. Poi, morto Lenin, i contadini furono traditi dallo stalinismo, ma questo è un altro discorso. Lo stalinismo, ovvero il socialismo statalizzato, fu in realtà una grandissima disgrazia per tutti.

Ora, il problema più grave del socialismo italiano fu che non riuscì a impedire né le due forme di colonialismo: interno (quello del nord Italia nei confronti del Mezzogiorno) ed esterno (della nazione nei confronti di alcuni Paesi africani), e neppure l’ingresso dell’Italia nelle due guerre mondiali.

Il socialismo italiano aveva atteggiamenti politicamente molto ambigui (incredibilmente somiglianti a quelli gesuitici): per es., dopo non aver fatto nulla per impedire la penetrazione selvaggia del capitalismo nelle campagne, che determinò un’emigrazione di massa dei contadini verso le industrie del nord Italia, del nord Europa e in varie parti del mondo capitalistico, favorì la colonizzazione di alcuni Paesi africani col pretesto che i nostri contadini non potevano morire di fame e che, in fondo, “noi” eravamo migliori di “loro”, per cui saremmo stati “noi” a portare a “loro” il benessere economico (quello che l’impero ottomano non era riuscito a fare, né avevano voluto fare Francia e Inghilterra, ma anche Belgio, Olanda, Germania e Portogallo).

Dopo questo sconsiderato appoggio moralistico e paternalistico al colonialismo africano, arrivò il consenso all’ingresso dell’Italia nella guerra contro l’impero austro-ungarico per avere quei territori di confine che con le guerre d’indipendenza non eravamo riusciti a prendere e che consideravamo nostri a motivo del fatto ch’erano abitati da molti italiani. Invece di risolvere la questione per via diplomatica, si preferì ricorrere alle armi. Un concetto sbagliato di “patriottismo” ci portò ad avere 600.000 morti e a occupare un territorio chiaramente austriaco (il Sud Tirolo). In più il governo si rimangiò la promessa di concedere ai contadini, finita la guerra, tutta la terra che volevano.

La situazione nazionale, invece di migliorare, peggiorò drasticamente sul piano economico. E i socialisti si rivelarono un’altra volta degli inetti. Piuttosto che approfittarne per fare la rivoluzione, imitando i bolscevichi, si divisero a Livorno dai comunisti e permisero ai fascisti di prendere il potere. Non a caso nel fascismo c’erano molti socialisti delusi, il primo dei quali era Mussolini.

La lezione del fascismo quale fu? Che, quando si perde un’occasione, ci vuole poi molto tempo prima che se ne presenti un’altra. Nella fattispecie ci vollero circa 20 anni, e anche quella volta (non per colpa dei socialisti ma dei comunisti guidati da Togliatti) fallì l’occasione di realizzare un cambio di regime attraverso la resistenza partigiana.

Passati altri 20 anni dal momento in cui fu varata la Costituzione, si perse un’altra occasione, questa volta durante la contestazione operaio-studentesca: di nuovo per colpa del Pci, alla cui guida era Berlinguer, troppo spaventato dal golpe americano contro Allende.

Tutte queste occasioni mancate han fatto perdere ai comunisti enormi consensi, al punto che il partito ha chiuso i battenti, soprattutto dopo il crollo dell’URSS. Si è trasformato in un partito semplicemente socialdemocratico, cioè sostanzialmente borghese, i cui riferimenti al comunismo erano e sono ancora oggi del tutto scomparsi, mentre quelli al socialismo sono ridotti a ben cosa cosa. Infatti si continua a difendere,  con sempre meno convinzione, l’istruzione e la sanità pubbliche, l’assistenza e la previdenza sociale.24

Oggi il partito democratico non è capace di fare alcun discorso critico né nei confronti del burocratismo asfissiante dell’Unione Europea, né contro la pericolosità della NATO, né contro la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Anzi, si ribadiscono i luoghi comuni del mainstream dominante, secondo cui i peggiori nemici dell’Europa sono Russia, Cina e Iran. In pratica non vi sono differenze sostanziali tra la socialdemocrazia del Pd e il conservatorismo di tutti gli altri partiti del centro-destra, salvo forse una: la destra non riesce a vedere che Israele sta compiendo un’opera di colonizzazione e perfino di genocidio nei confronti dei palestinesi.

 

IV

 

Un aspetto costante di particolare rilevanza in Italia è la forte tensione anticomunista della Chiesa cattolica: cosa che non si può constatare, con altrettanta ostinazione, nei Paesi sudamericani, o comunque in quelli dove si sviluppò, molti anni fa, la teologia della liberazione o il cristianesimo per il socialismo, oggi praticamente inesistenti o irrilevanti, sostituiti, al massimo, da un certo interesse per la tutela ambientale (vedi per es. la posizione di Leonardo Boff).

Pur di dimostrare che anche il cattolicesimo nutre idee “socialiste”, la Chiesa s’inventò, col papa Leone XIII, nel 1891, una “dottrina sociale”, largamente ripresa e approfondita dal papa polacco Giovanni Paolo II, che cercò di dimostrare che il cattolicesimo costituisce una “terza via” tra capitalismo privato e socialismo statale.

Come noto, queste aspirazioni o pretese sono completamente fallite, e non perché non possa esistere una via di mezzo tra quei due estremi, ma perché non si è stati capaci di trovarla. Lo dimostra il fatto che tutti i Paesi ex sovietici hanno aderito al capitalismo privato: al massimo ambiscono ad assicurare allo Stato un certo ruolo da protagonista. D’altronde sia in Europa occidentale che in quella orientale non esiste uno Stato che sia riuscito a realizzare un socialismo davvero democratico.

Di fatto la Chiesa romana ha optato per il capitalismo privato (la decisione ufficiale fu presa al Concilio Vaticano II, e qualunque tentativo di smentirla, in occidente, s’è rivelato velleitario). Al massimo i pontefici si limitano a fare discorsi astratti sulla giustizia sociale e sulla pace, oppure chiedono di praticare l’assistenzialismo a favore delle categorie più marginali (sempre nella speranza di ottenere finanziamenti pubblici). Stessa cosa fa nelle ex colonie africane e sudamericane del mondo occidentale, dove peraltro non ha mancato di scomunicare i teologi troppo vicini al socialismo.

Perché quest’odio così radicato nei confronti del comunismo? Le ragioni sono due. I comunisti predicano l’uguaglianza sociale come i cristiani, ma non demandano la sua realizzazione nell’aldilà, per cui, se riescono a conseguire tale obiettivo con una rivoluzione popolare, le stesse proprietà private della Chiesa potrebbero essere soggette a esproprio; per non parlare del fatto che in un regime socialista resta impensabile la presenza di uno Stato all’interno di un altro Stato, non soggetto a nessun controllo pubblico, cioè in grado di fruire di una piena extraterritorialità (il che ha permesso di compiere e di coprire enormi scandali finanziari).25

Il secondo motivo sta nel fatto che i comunisti, in genere, non sono credenti, e anche se lo fossero, la religione, per loro, non può avere un ruolo politico, essendo una semplice questione di coscienza. In altre parole lo Stato dovrebbe essere, da subito, laico e aconfessionale. Non possono essere ammessi privilegi di sorta nei confronti di alcuna confessione.26

Un credente può anche aderire a un partito comunista, ma non può propagandare al suo interno delle idee religiose. La libertà di parola – diceva Lenin – è nei limiti della libertà di associazione. L’unica cosa che può fare un credente è quella di chiedere ai comunisti che venga rispettata la libertà di coscienza in materia di atteggiamento nei confronti della religione, un atteggiamento che ovviamente non può andare oltre i limiti della pubblica morale e che non può contraddire la stessa libertà di coscienza.

Quanto ai comunisti, è nel loro diritto sviluppare un’ideologia ateistica che, sul piano culturale, riveda la narrativa ufficiale del cristianesimo in merito alla figura di Gesù Cristo e alla storia bimillenaria dello stesso cristianesimo. Sarebbe impensabile che in nome della separazione tra Chiesa e Stato o in nome della libertà di coscienza, i comunisti accettassero che l’interpretazione che i credenti danno della loro religione sia l’unica possibile.

 

V

 

Poniamoci questa domanda: ai fini della realizzazione di un socialismo democratico ha più speranza di successo una graduale occupazione della società civile (sindacati, cooperative, enti locali, banche di credito cooperativo ecc.), per poi arrivare alla conquista vera e propria del potere politico, oppure è preferibile conquistare prima questo potere, organizzando la società civile, in senso socialistico, solo successivamente?

Anzitutto bisogna dire che non si può rispondere in astratto a una domanda del genere, poiché tutto dipende dalle circostanze. I bolscevichi non fecero in tempo a far nulla a livello di servizi della società civile, sia perché erano duramente perseguitati a causa della loro attività sovversiva extraparlamentare, sia perché si trovavano nel bel mezzo di una guerra mondiale. L’unica cosa che riuscirono a fare, per preparare la rivoluzione, fu quella di appoggiarsi ai soviet, sorti già al tempo della prima rivoluzione del 1905.27

Quando Lenin arrivò a sostenere la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”, aveva capito che una qualunque rivoluzione politica contro il governo di Kerensky sarebbe stata impossibile senza l’uso dei soviet, anche perché solo attraverso questi organi era possibile organizzare vasti e imponenti scioperi economici, che si trasformavano velocemente in scioperi politici. Cioè aveva capito che nel 1917 in Russia dominava un certo dualismo di potere: quello ufficiale, del tutto formale, e quello ufficioso, assai più sostanziale. Si trattava soltanto di occupare i gangli vitali del potere costituito, che si trovava nella capitale di San Pietroburgo, per diffondere poi a tutto l’enorme Paese le conseguenze politiche della rivoluzione, che tutti gli operai e gran parte dei contadini attendevano con ansia, essendo rimasti molto delusi dai socialisti rivoluzionari di Kerensky. Lenin ammoniva i compagni più stretti del partito che se avessero perso l’occasione di abbattere un governo debolissimo, quasi totalmente privo di credibilità, sarebbero stati sterminati tutti, poiché Kerensky non avrebbe avuto pietà di loro.

Supponiamo però che oggi la situazione non sia così critica, così esplosiva, e che quindi le forze a disposizione non abbiano bisogno d’essere concentrate a realizzare un obiettivo particolarmente urgente, assolutamente rilevante, che comporta persino una difesa armata in un’eventuale guerra civile, chiediamoci: fino a che punto si può pensare che un’egemonia progressiva della società civile (o del pre-politico) possa costituire una strategia idonea alla conquista del potere politico vero e proprio?

Di sicuro una cosa bisogna togliersela dalla testa, ed è l’idea che lo Stato possa essere conquistato pacificamente, attendendo che i poteri dominanti rinuncino spontaneamente alla sua gestione. Questi poteri possono decidere di arrendersi solo se hanno il timore che, se non lo facessero, scomparirebbero tutti in maniera cruenta. Tuttavia, per arrivare a una situazione del genere, dovrebbero essere colti alla sprovvista. Generalmente, infatti, quando hanno la percezione che per loro è finita, gli statisti fuggono dal Paese, cercando di organizzare dall’estero una controrivoluzione.

In ogni caso, una cosa è ampliare il consenso a livello sociale, soddisfando, per quanto possibile, le esigenze dei lavoratori; altra cosa è pensare che la borghesia non reagisca alla limitazione dei propri privilegi.

Oltre a ciò, c’è un altro aspetto da considerare. Una qualunque attività socialistica pre-politica, nell’ambito del capitalismo, è inevitabilmente soggetta alle influenze negative della classe dominante. Come ci si difende da queste influenze? L’attività sociale o pre-politica deve per forza darsi una veste direttamente politica, se vuole sopravvivere. La borghesia non regala niente a nessuno. Il suo ruolo è sempre stato quello di prendere il più possibile da tutti.

Se si pensa di poter resistere alla borghesia limitandosi a costruire “isole d’oro”, come fecero i socialisti utopistici, si finirà col cadere in vane illusioni. Il pre-politico può servire come palestra per esercitare la propria responsabilità personale, per capire come gestire collettivamente i bisogni sociali, ma la lotta politica vera e propria richiede capacità di intelligence, di lavoro clandestino, di addestramento militare o para-militare, di reperimento di fondi finanziari straordinari, ecc. Ci vuole un personale selezionato per condurre un’attività del genere. Lenin lo diceva chiaramente: per la politica rivoluzionaria ci vogliono militanti a tempo pieno, in un certo senso dei “professionisti”.

 

VI

 

Sarebbe incredibilmente ingenuo pensare di poter far partire una rivoluzione popolare soltanto dopo aver ottenuto una solida maggioranza parlamentare. Questo perché un partito può crearsi un ampio consenso anche se non è presente in parlamento, o comunque un consenso sufficiente perché occupi la capitale di una nazione. Quanti fascisti parteciparono alla marcia su Roma? 20-30.000? Gli iscritti al partito erano circa 306.000. Sono numeri ridicoli, che non avrebbero dovuto far paura a nessuno.

Per fare una rivoluzione è sufficiente che un partito organizzi manifestazioni, scioperi, conferenze, dibattiti culturali e politici e che si dia quante più sedi possibili a livello locale. E, in ogni caso, l’obiettivo non è quello di entrare in parlamento, ma quello di porre le condizioni perché si possa realizzare una democrazia diretta, tale per cui non sia necessario avere un parlamento nazionale, se non in casi molto particolari. Uno dei quali può essere quello di centralizzare le operazioni di difesa militare contro chi scatena delle guerre civili per abbattere il potere rivoluzionario, o contro quegli Stati che, dall’esterno, muovono una guerra vera e propria contro i militanti rivoluzionari al potere.

Il parlamento deve diventare soltanto uno strumento per lottare contro i poteri costituiti; oppure, fatta la rivoluzione, contro chi organizza una guerra civile per sabotarla. Dopodiché andrebbe sciolto o di molto ridimensionato.

Prima di fare una rivoluzione, non ci si deve preoccupare molto se in parlamento si ottengono pochi seggi, o nessuno. L’importante è ricercare degli appoggi tra gli eletti. Ancora più importante però è che, prima di occupare la capitale di una nazione, vi sia a livello periferico un certo consenso popolare. E queste periferie van tenute unite tra loro attraverso degli strumenti di comunicazione non controllabili, non censurabili dai poteri costituiti.

L’idea di porre un limite di due mandati in parlamento, onde evitare il rischio della corruzione, non ha molto senso, proprio perché anche in parlamento si ha bisogno di personale specializzato, che conosca i trucchi del mestiere. Semmai ciò che va tenuto sotto controllo è lo stipendio degli eletti. Visto che sono dei “delegati” da parte di comunità locali, è giusto riconoscere a queste ultime il merito d’aver lavorato bene, per cui una parte di quegli stipendi deve tornare a quelle comunità.

Il fatto d’essere parlamentare non può diventare occasione per un arricchimento personale. Anzi, con un’altra parte del loro stipendio bisognerebbe sostenere le spese della dirigenza nazionale del partito. Chi svolge la politica a tempo pieno, rinunciando alla propria professionalità lavorativa, ha diritto ad essere spesato, almeno per le sue esigenze basilari e fino a quando l’obiettivo non sarà stato conseguito.

Certo è che se uno non ha mai lavorato e si presta improvvisamente alla politica, un dubbio su di lui diventa legittimo. Approfittatori, spie, sabotatori, mestatori di ogni genere sono una costante in tutti i partiti che riscuotono un certo successo: i peggiori, ovviamente, sono i traditori, quelli che mandano all’aria il successo di un’operazione decisiva, o che compromettono l’esistenza o anche solo la reputazione di qualcuno. Ma per evitarli, non è possibile imporre un regime di terrore e di continuo sospetto reciproco all’interno del partito. Un certo margine di rischio è assolutamente inevitabile.

 

VII

 

Una delle cose più incredibili, che ancora oggi lascia piuttosto stupefatti, è stata l’incapacità dei partiti democratici d’impedire ai fascisti di Mussolini di andare al potere. Socialisti, comunisti e popolari (cattolici) e i radicali (o repubblicani) non avrebbero avuto alcuna difficoltà a coalizzarsi in nome dell’antifascismo; avrebbero trovato degli appoggi persino tra i liberali di Croce.

È quindi evidente che i diversi partiti democratici preferivano anteporre le questioni ideologiche a quelle politiche. Se si sommano i voti dei socialisti e dei popolari, acquisiti nelle elezioni del 1921, si arriva al 45%. I fascisti avevano lo 0,45% e due soli seggi alla Camera, cioè su 6,7 milioni di votanti, avevano preso 29.549 voti! Se avessero voluto tentare un colpo di stato, non avrebbero avuto scampo. I fascisti fecero la marcia su Roma convinti di avere l’appoggio della corona, di taluni ambienti conservatori e militari, ma evidentemente contavano anche sul fatto che l’opposizione democratica non sarebbe stata capace di creare un fronte unitario.

Il risultato di quella clamorosa impresa dovrebbe farci riflettere ancora oggi, poiché in quell’occasione la piccola borghesia ebbe la meglio sul proletariato. Tutti sapevano che i fascisti erano dei facinorosi, dei violenti privi di scrupoli, eppure tutti erano convinti che sarebbero stati soltanto i socialisti a rimetterci. Questo perché sembrava evidente che i fascisti fossero una scheggia estremistica dei socialisti, soprattutto di quei socialisti che non avevano saputo approfittare dell’occupazione delle fabbriche nel periodo del Bienno Rosso, al fine di organizzare una rivoluzione popolare. I fascisti erano considerati una specie di “giustiziere della notte” nei confronti dei pavidi e degli opportunisti guidati da Turati e soci.

L’indifferenza mostrata nei confronti di queste vergognose aggressioni si ripeterà, dopo qualche anno, nei confronti delle discriminazioni nazi-fasciste a carico dei cittadini di origine ebraica, considerati, arbitrariamente, dei privilegiati. Si pensa sempre che quel che accade a una categoria determinata di persone, non si estenderà ad altre categorie. Sono illusioni che si ripetono costantemente e si pagano tutte a caro prezzo.

La politica in generale sembra talmente lontana dall’etica, dal senso comune e dal buon senso, che fa perdere un valore fondamentale per la coesistenza democratica e pacifica: la reciproca solidarietà, la compartecipazione a problemi comuni.

Si pensa sempre che l’estremismo iniziale manifestato da un partito di pochi militanti, si ridimensionerà col tempo. Mandarono al potere i fascisti nella convinzione che, proprio governando la nazione, avrebbero dovuto per forza darsi una regolata, una calmata, anche perché sarebbero stati costretti ad allearsi con altri partiti. Non riuscirono a capire che, quando si impone una dittatura, l’importanza del parlamento diventa molto relativa. Si era convinti che lo stesso partito fascista al governo avrebbe dovuto emarginare, al proprio interno, gli elementi più esagitati. Tuttavia l’uso della polizia politica, delle spie e dei delatori, degli omicidi mirati, delle carcerazioni per motivi politici, delle censure e di tante altre cose che di etico e di democratico non avevano nulla, continuò sino alla fine del fascismo, soprattutto nel momento in cui era evidente che la guerra era perduta, come durante la Repubblica di Salò.

Si chiuse un occhio perfino sugli eccidi di massa che il fascismo compì durante il colonialismo in Africa. Non ci si oppose alla guerra di conquista in Albania, Jugoslavia e Grecia. Si era assolutamente convinti che l’alleanza coi tedeschi avrebbe fatto aumentare il potere della nostra nazione in Europa e nel mondo.

Tutto ciò ha dell’incredibile. Sembra che la politica non abbia nulla di razionale. Solo quando in Russia fu chiaro che la sconfitta militare era irreversibile, e che quindi non ci sarebbe stato nulla da fare né contro i sovietici né contro gli angloamericani in Africa e nello sbarco in Sicilia, ci si convinse che l’esperienza ventennale del fascismo italiano, andava chiusa definitivamente e al più presto, anche per evitare che la resistenza partigiana socialcomunista potesse compiere una rivoluzione popolare. In tal senso le istituzioni si affrettarono a consegnare il Paese agli Alleati, cioè in sostanza agli Stati Uniti.

In pratica la decisione di opporsi al fascismo fu presa dagli italiani soltanto dopo una sconfitta militare assodata. L’opportunismo fu talmente grande che tantissimi fascisti non ebbero difficoltà a entrare nella Democrazia cristiana e persino in qualche partito della sinistra. Poterono farlo anche perché ci fu l’amnistia voluta da Togliatti e soprattutto perché non fu mai imbastito un processo analogo a quello di Norimberga contro i nazisti arrestati.

D’altra parte gli imputati avrebbero sempre potuto dire che si sentivano traditi dagli esiti della prima guerra mondiale (si parlava di “vittoria mutilata”), o che non vedevano alternative alla loro miseria economica, o che erano affascinati, come milioni di persone, dalla retorica del duce, o che avevano obbedito a ordini superiori, e altre giustificazioni del genere. In effetti, più che dei processi giudiziari contro questo o quel colpevole, bisognerebbe fare dei processi storici contro determinate ideologie o culture, o contro determinate illusioni di massa, mettendo in guardia la popolazione dal non ripetere gli stessi errori, anche perché chi si sentiva tradito dal fascismo, o aveva subìto ogni sorta di angheria, spesso reagiva, quando vedeva di poterlo fare, con gli stessi criteri violenti dei fascisti.

VIII

 

Vi è una costante in tutti i tentativi rivoluzionari falliti: quella di addebitare ad altro da sé le motivazioni.

Al tempo di Gesù Cristo alcuni suoi discepoli s’inventarono una nuova religione, il “cristianesimo”, trasformando la parola “insurrezione” nella parola “resurrezione”.

Dopo la morte di Lenin lo stalinismo diede la colpa degli assurdi piani quinquennali, calati dall’alto, ai kulaki e s’inventò dei nemici all’interno del Pcus.

Perfino Marx ed Engels, dopo i fallimenti delle rivoluzioni proletarie europee nel 1848-49, dissero che il capitalismo non aveva ancora raggiunto la sua massima espansione, per cui insistere nel volerlo abbattere non avrebbe avuto senso.28 Marx disse di sé che si sarebbe dedicato agli studi economici sul capitalismo, dopo aver constatato solo implicitamente la propria inadeguatezza come politico rivoluzionario.

Anche Gramsci, dopo il fallimento del Biennio Rosso, s’inventò che, prima della rivoluzione politica, occorreva egemonizzare culturalmente la società civile. Se Mussolini avesse ragionato in questi termini, non avrebbe mai fatto la marcia su Roma: semplicemente perché sapeva benissimo che l’egemonia sociale e culturale può essere realizzata anche dopo. Lenin la pensava uguale: per lui non c’era un “prima” o un “dopo”, ma un’occasione che si può sfruttare o perdere.

In alcuni Paesi comunisti asiatici, tra cui la Cina, quando le cose non funzionavano, si tendeva a dare la colpa agli intellettuali.

Ma anche lo stesso Mussolini e Hitler, alla fine della loro esistenza, si sentivano traditi dall’interno dei loro rispettivi partiti.

Nessuno è mai capace di fare una vera autocritica, cercando di vedere la realtà in maniera obiettiva. Ciò induce a pensare che sia il modo di vivere la politica, oppure la gestione del potere, ad essere un pericolo mortale per l’etica umana e per la democrazia in generale.

Se esistesse la democrazia diretta di una comunità locale, un errore potrebbe essere facilmente corretto: non esisterebbero mai errori fatali o di capitale importanza. Ci si accorgerebbe in tempo dei rischi che si corrono. Ecco perché, appena compiuta la rivoluzione, va responsabilizzata l’intera popolazione nazionale, riconoscendole la capacità di autogovernarsi là dove essa risiede. Durante la rivoluzione francese i sanculotti chiedevano proprio questo, come i Livellatori (Levellers) e soprattutto gli Sterratori (Diggers) al tempo della rivoluzione inglese.

Certo, nel caso in cui dovesse scoppiare una controrivoluzione, è importante che la resistenza abbia una direzione centralizzata, ma è non meno evidente che gli ordini dall’alto saranno tanto più giusti, quanto migliori saranno le informazioni che si riceveranno dal basso. Se il vertice non dà fiducia alla base, la base si comporterà in maniera speculare.

La Russia poté aver la meglio sui nazisti solo dopo aver sacrificato 27 milioni di persone. Da allora non si è più ripresa a livello demografico. Queste non sono cose accettabili quando si va in guerra, anche perché, se alla fine si vince, è come se si fosse perso. Non è possibile non dare alcun peso alle vite umane. Lenin diceva che è impossibile non compiere degli errori, ma diceva anche che bisogna saper porre le condizioni per correggerli.

Il centralismo democratico deve essere “prima” democratico e solo “dopo” (cioè all’occorrenza) centralista. Questo perché la fiducia se la deve meritare, altrimenti la democrazia diventa una forma di paravento per mascherare la dittatura. Una volta raggiunto l’obiettivo, i militanti devono capire che è solo la democrazia che può decidere quando è il momento di centralizzare i poteri e quando invece vi si deve rinunciare.

 

IX

 

Togliere di mezzo, cioè eliminare fisicamente gli avversari esterni a un partito che, in maniera rivoluzionaria, è arrivato al potere, è una cosa incredibilmente stupida. Eliminarli internamente, sulla base di una linea politica o ideologica che si ritiene debba essere dominante, è ancora più stupido.

L’opposizione è inevitabile, è nella natura delle cose; anzi è bene che venga pubblicamente legittimata, poiché, se la si obbliga alla clandestinità, diventerà ancora più forte, rischierà d’essere incontrollata e, prima o poi, trionferà, e quando vi riuscirà, non è detto che dipenderà dalle sue maggiori verità, ma semplicemente perché si poneva “contro” qualcosa. Negli esseri umani è quasi istintivo attribuire ragioni più fondate a chi viene represso o perseguitato. Piuttosto si dovrebbe fare attenzione al fatto che il potere costituito può avvalersi dell’opposizione proprio per pretendere d’essere considerato indiscutibile.

L’opposizione è uno stimolo, mette alla prova, obbliga a rettificare, a precisare meglio le proprie tesi (il tarsiota diceva “oportet et haereses esse”). E in ogni caso, fatte le debite discussioni, bisogna obbligare tutti ad accettare le decisioni della maggioranza, prese per alzata di mano o per voto segreto. Naturalmente, quando e se occorre, le deliberazioni possono essere soggette a ripensamenti.

Infatti non è scritto da nessuna parte che la maggioranza ha sempre ragione. La verità è quella della maggioranza solo per una questione di probabilità. Se fosse “sempre” così, le rivoluzioni non si farebbero mai. In ogni caso le tesi che si sostengono van dimostrate come fattibili, con argomenti probanti, con scenari convincenti. Il popolo non va comandato ma convinto, al punto che deve arrivare a dire: “Nessuno ha mai parlato come costui”. Col rischio però che arrivi anche a dire: “Questo linguaggio è duro: chi può sopportarlo?”. È il popolo che deve decidere se sta ascoltando parole di verità o nuove mistificazioni. La verità può trasmettersi solo attraverso le parole. Quando si usa la forza, la verità si è già trasformata in falsità. Il che non vuol dire che, ad un certo punto, la forza non possa essere usata (negare continuamente l’evidenza diventa insostenibile), ma solo che una decisione del genere non può essere presa da un individuo singolo o da un gruppo di fedelissimi.

È assurdo espellere qualcuno dal partito, a meno che non si possa dimostrare che sia una spia del nemico. Se la gestione del partito è democratica, chi non condivide determinate decisioni, deciderà da solo di andarsene. Finché esistono idee contrapposte, finché le idee non si trasformano in atti terroristici, la repressione non ha senso. L’ideale sarebbe che non venisse mai decisa una linea ufficiale giudicata intangibile. È meglio prendere decisioni tattiche e strategiche di volta in volta, misurandosi sulla concretezza.

Le linee ufficiali dovrebbero essere di metodo, di comportamento, non ideologiche, anche perché un’ideologia invecchia nel momento stesso in cui la si formula. Lo stalinismo ci tenne ad elaborare una versione ufficiale degli avvenimenti della rivoluzione russa, e della lotta interna al Pcus tra le varie correnti e come aveva trionfato lo stalinismo. Ma che valore ha oggi il Breve Corso del 1938? Nessuna. È un testo chiaramente pieno di falsità, del tutto inutile per capire come andarono veramente le cose.

Quando si ha la pretesa di elaborare dei “vangeli”, quasi sicuramente si tratta di falsi patentati, come l’Iliade e l’Odissea di Omero, l’Eneide di Virgilio, la Donazione di Costantino, i Protocolli dei Savi di Sion, e così via. Persino le parti storicamente attendibili dell’Antico e Nuovo Testamento sono all’interno di una cornice di mera invenzione, quindi non così facilmente  individuabili.

Sono 6000 anni che si producono falsità, fatte passare per verità apodittiche. Ci vuole sempre un tempo molto lungo per individuare, in mezzo a tante assurdità, le mezze verità o quelle indirette, involontarie. Con questo non si vuole indurre, chi interpreta il passato, ad assumere un atteggiamento rassegnato. È sufficiente essere circospetti, a non fidarsi delle apparenze, ad abituarsi a credere che possono esistere anche interpretazioni opposte alle versioni ufficiali. Per guadagnare un briciolo di verità spesso ci vogliono due cose in contemporanea: tantissimo tempo e moltissimi sacrifici. La storia non regala niente alle “anime belle”.

Tutti i dogmi religiosi dei Concili ecumenici del cristianesimo, a prescindere dalla confessione che li ha formulati, che valore hanno oggi? Nessuno, proprio perché si partiva dal presupposto che esistesse un Dio onnipotente e onnisciente, e che il Cristo avesse una particolare o esclusiva natura divina. Non c’è un solo dogma che meriti d’essere preso in considerazione, almeno non da un punto di vista teologico.

Bisogna fare attenzione che, spesso, anche in ambito scientifico si pretende di avere la verità in tasca e non si accettano contestazioni. La verità scientifica oggi viene detta matematica, algoritmica, laboratoriale, fisico-astronomica… Siamo ai limiti della truffa. In realtà l’unica verità accettabile è quella olistica, cioè quella che considera l’insieme così com’è, e non come somma delle sue parti. Se l’insieme è sbagliato, non sarà modificando una sua parte che lo si aggiusterà (vedi l’espressione evangelica “toppa nuova su un vestito vecchio”). Tra struttura e sovrastruttura nessun aspetto può rivendicare un “primato”, né assoluto né in ultima istanza. Le cose vanno viste come un tutto integrato, interconnesso, in cui nessun aspetto può essere escluso.

 

X

 

Bisogna sempre fare attenzione al fatto che gli ideali di chi non possiede nulla, spesso possono essere molto simili a quelli di chi possiede qualcosa.

Si dice che la piccola borghesia sia una classe ambigua, che oscilla, a seconda delle situazioni o delle convenienze, a destra o a sinistra. Ma anche il proletariato non può essere definito, solo perché nullatenente, una classe affidabile. Che una classe non abbia da perdere nulla se non le proprie catene, non la rende di per sé più rivoluzionaria di altre classi. Certamente si dirà che una classe non può abituarsi alla fame, alla miseria, alla disperazione. Tuttavia dalla rassegnazione allo spirito combattivo esistono molti altri atteggiamenti: la vita è piena di sfumature di grigio.

L’esasperazione può far diventare aggressivi o insensibili, può indurre a fuggire dal proprio Paese e diventare criminali nei luoghi in cui si approda. Può portare anche alla tossicodipendenza, alla prostituzione, all’omicidio o al furto. Non è facile saper lottare per sopravvivere. Anche capire con esattezza chi è il proprio nemico, richiede una certa dose d’intelligenza, per non parlare dell’abilità che occorre nello scegliere i mezzi e metodi con cui combatterlo. Quanto meno uno dovrebbe cercare di non agire in maniera isolata, individualistica: si sarebbe sicuramente dei perdenti, alla Bonnie e Clyde, a prescindere da qualunque altra cosa.

Il proletariato, rurale o industriale, come qualunque altra classe, ha bisogno di leader che lo guidino, altrimenti si limita a semplici rivendicazioni sindacali. Semmai si può dire che anche un proletario, facendo leva sulle proprie capacità, può diventare un leader di partito. Questo perché la professione che uno, per qualche ragione, si trova a esercitare, non può essere considerata una specie di condanna. Premiare il merito non è una questione “borghese” o “proletaria”. È l’uso che se ne fa a essere soggetto a un’interpretazione del genere.

Dunque bisogna fare attenzione al fatto che non può essere considerato scontato che chi non possiede nulla, sia capace di mostrare dei comportamenti più umani o più democratici o più intelligenti. Le valutazioni non possono essere fatte in astratto, tanto meno se basate su pregiudizi o schemi precostituiti.

Avere un culto per il proletariato o ritenere che quello industriale sia migliore di quello agricolo, son cose indegne di un leader rivoluzionario. Esattamente come quelle di chi fa valutazioni sulla base del sesso, del colore della pelle, dell’origine geografica, dell’orientamento nei confronti della religione, della lingua che parla... Al limite si possono avere delle riserve nei confronti del lavoro che si svolge. Ma, anche qui, è solo sulla base di un rapporto personale che si può verificare quanto uno sia disposto a cambiare vita o, semplicemente, a contribuire, in qualche maniera, al successo della rivoluzione. La tipologia delle persone condiscendenti, promotrici, alleate, e così via, è piuttosto variegata. Quando Gesù Cristo chiamò alla sequela un esattore delle imposte, odiatissimo dai suoi conterranei perché lavorava per il nemico, i discepoli si stupirono parecchio, ma Matteo rinunciò al suo prestigioso incarico.

Se vogliamo, un leader dovrebbe considerare del tutto naturale che chi non possiede nulla, voglia riscattarsi agendo senza scrupoli. Sono le difficoltà che dimostrano chi è di provata virtù. Si deve arrivare al punto di credere che l’unica alternativa possibile è quella fra socialismo e barbarie. D’altra parte anche quando la borghesia volle fare l’unificazione nazionale, aveva un motto molto chiaro: “Qui si fa l’Italia o si muore” (pronunciato da Garibaldi a Calatafimi nel 1860, in risposta ai timori di Nino Bixio di rischiare la sconfitta nella battaglia contro i borbonici).

Non bisogna mai dimenticare che il capitalismo, per come lo vediamo oggi, ha messo le sue prime basi materiali, culturali e politiche circa mille anni fa nei Comuni italiani. È stato quindi un processo lunghissimo, in cui si sono dovuti superare ostacoli formidabili. Si è indubbiamente imposto il trionfo dell’individualismo, ma la borghesia ha agito come classe “sociale” contro tutte le altre classi e contro individui singoli. E ha messo in piedi un potere militare con cui oggi potrebbe distruggere il mondo intero.

Nel cosiddetto “occidente collettivo” non è possibile immaginare l’emergere di un’alternativa praticabile a un potere del genere. Le occasioni sono andate tutte perdute. Lo furono anche nel corso dell’impero romano (clamorosa quella dei Gracchi), che infatti ebbe un sistema schiavistico imponente, che poté essere distrutto soltanto dalle cosiddette “invasioni barbariche”. Solo nell’area bizantina si capì che se non si fosse risolto il problema in fretta, si sarebbe fatta la stessa fine dell’area occidentale, che si intestardiva a voler riconoscere ampi poteri agli agrari e al paganesimo (senza poi considerare che la Chiesa romana favoriva l’ingresso delle tribù barbariche, al fine di non essere tenuta sotto controllo dal basileus bizantino e di potersi differenziare quanto prima dall’ortodossia del primate di Costantinopoli).

Oggi solo nei Paesi asiatici sembra poter sorgere un’alternativa sufficientemente credibile; questo perché dispongono di millenarie tradizioni collettivistiche, le quali, se non hanno potuto impedire l’adozione di meccanismi produttivi provenienti dall’occidente, hanno però saputo gestirli con maggiore attenzione per le esigenze popolari.

Dobbiamo quindi aspettarci, in un futuro non molto lontano, che il capitalismo collettivistico di matrice asiatica sostituirà quello privatistico occidentale. Ovviamente il controllo dei poteri costituiti sulla popolazione sarà nettamente superiore, proprio perché si sfrutteranno le tradizioni collettivistiche in maniera strumentale.

Un’ultima osservazione. Uno può anche meravigliarsi che nel 2025 si usino ancora categorie sociologiche astratte come “borghesia” e “proletariato”.29 In fondo oggi in occidente siamo tutti “borghesi”: almeno al mainstream piace definirci così. L’unica “classe” di cui si parla è il “ceto medio”. Si evita di dire che questo ceto si va “proletarizzando”. La stessa classe operaia è assimilabile, in sostanza, alla piccola borghesia. Quando poi si constata che molti, di questa classe operaia, lavorano in aziende altamente nocive per l’ambiente, o in aziende che producono armi molto pericolose, vien da pensare ch’essa svolga un ruolo assai peggiore di quello della piccola borghesia.

Oggi non è più solo il capitalismo che va ripensato, ma anche l’industria in sé. Una popolazione o anche solo una cittadinanza non può più essere messa nelle condizioni di dover scegliere tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Che poi, nelle nostre società, basate soprattutto su servizi e finanza, si dà per assodato che la terziarizzazione abbia eliminato le “tute blu”, imponendo a tutti come divisa di lavoro il “colletto bianco”.

Oggi l’operaio lavora dietro a un computer, che gestisce processi automatizzati. Molti lavori sono connessi al mondo del web; tantissimi a quelli della logistica per le vendite online. La cosiddetta “intelligenza artificiale” sembra addirittura in grado di sostituire un’infinità di lavori. Non mancano ovviamente i lavori agricoli, ma, in questo campo, se si vuol stare sul mercato, bisogna specializzarsi in un settore particolare, con molti ettari disponibili, puntando decisamente sull’export.

Uno può facilmente diventare “imprenditore di se stesso”, anche partendo da un modesto investimento. Tuttavia è ridicolo pensare che non esista più la classe operaia. Il fatto che i mass-media non ne parlino, non vuol dir nulla. Se fra mille anni gli storici trovassero come uniche fonti per capire il nostro tempo le registrazioni dei telegiornali o gli archivi dei principali quotidiani, potrebbero forse formulare delle interpretazioni obiettive? Sarebbe come interpretare la vicenda di Gesù Cristo sulla base dei vangeli canonici! Che poi quelli apocrifi aiutano ancora meno…

Nell’intero pianeta la classe operaia è infinitamente superiore a qualunque altra classe, con la differenza che in Asia è collegata a sistemi produttivi molto avanzati, ereditati dall’occidente e sviluppati in autonomia, mentre nelle ex-colonie occidentali la classe operaia lavora in maniera meno avanzata, meno produttiva. Che l’imperialismo occidentale non abbia voluto permettere alle proprie colonie di svilupparsi autonomamente, è dimostrato dal fatto che al giorno d’oggi la stragrande maggioranza dei flussi migratori proviene proprio da quei Paesi.

 

Conclusione

 

 

 

L’aforista francese Jean de La Bruyère (1645-96) aveva detto: “Gloria e merito di alcuni è di scrivere bene; e di altri di non scrivere affatto”. Cosa voleva dire? Che chi non sapeva scrivere, aveva evitato di farlo per non sfigurare? Se è così, La Bruyère era un po’ razzista, e un altro suo detto lo dimostra: “Al mondo non ci sono che due modi di fare carriera: o grazie alla propria ingegnosità o grazie all’imbecillità altrui.”

Se invece voleva dire che il merito andava riconosciuto anche a chi aveva scelto di non scrivere nulla, limitandosi all’oralità, allora avrebbe dovuto spiegare cosa significa “scrivere bene”, perché se c’è una cosa che non si può fare è proprio questa. Non tanto a livello formale quanto proprio a livello di contenuto: infatti, appena si è finito di scrivere un libro, il tempo l’ha reso datato.

Davvero La Bruyère era razzista? E come avrebbe potuto uno che scriveva: “Provo una specie di vergogna ad essere felice alla vista di tante miserie”?

In questa conclusione, in realtà, si voleva sostenere un’altra cosa: l’intellettuale è una persona alienata, che non dovrebbe neppure esistere. La separazione del lavoro manuale da quello intellettuale è una sciagurata conseguenza della proprietà privata dei principali mezzi produttivi. Lui stesso lo fa capire quando dice: “I grandi disprezzano gli uomini di genio che non hanno nulla se non il genio; gli uomini di genio disprezzano i grandi che non hanno nulla se non la grandezza.”

Gli intellettuali sono pericolosi, poiché tendono a identificarsi con un ente astratto: lo Stato. Sempre lui, intellettuale parigino, lo dice: “L’uomo che conosce le cose di corte è padrone dei suoi gesti, dei suoi occhi, delle sue espressioni; è profondo, impenetrabile; dissimula i cattivi uffici, sorride ai nemici, controlla l’irritazione, cela le sue passioni, nasconde ciò che ha nel cuore, parla e agisce contro i suoi sentimenti.” Sembra una descrizione di Stalin, per il quale vale anche la massima: “Gli uomini arrossiscono meno per i loro crimini che non per le loro debolezze e vanità.”

Se invece avesse inteso riferirsi a un qualunque statista occidentale, avrebbe di sicuro detto: “La via più breve e la migliore per fare la vostra fortuna è lasciare intravedere chiaramente agli altri che è nel loro interesse sostenere il vostro.”

Insomma uno può fare l’intellettuale dopo aver lavorato manualmente per un certo periodo di tempo, e può farlo solo per organizzare un movimento o un partito con cui abbattere un governo autoritario, un sistema sociale antagonistico. Ma deve prepararsi bene, non deve aver fretta: “Sono quelli che fanno il peggior uso del proprio tempo che più si lamentano della sua brevità”, dice sempre il Tesoriere generale di Francia al tempo dell’Ancien régime.

Ecco perché, fatta la rivoluzione, un leader deve tornare a lavorare come prima, lasciando che la popolazione, liberata dall’oppressione, si gestisca da sola. In fondo “La modestia è per il merito quello che sono le ombre per le figure di un quadro: gli dà forza e rilievo.” Non si vorrà forse rischiare che “l’arroganza prenda il posto della grandezza; la disumanità quello della fermezza; e la furberia quello dello spirito”?

Chi pensa che il contenuto di questo libro si sottragga a questa constatazione sul ruolo degli intellettuali, non ne ha capito il significato. Si vada dunque a rileggere La Bruyère, soprattutto là dove scrive: “È la profonda ignoranza a suggerire il tono dogmatico.”

Io al momento più di così non posso dire: “Rendo al pubblico ciò che mi ha dato: da esso infatti ho preso a prestito la materia di quest’opera: ed è giusto che, dopo averla condotta a termine con tutto il rispetto della verità di cui sono capace e che esso merita da me, gliela restituisco.”


Indice

 

Premessa

Laicismo e religione, democrazia e socialismo

Morale e lavoro

Giusnaturalismo borghese e comunità pre-classista

Il giusnaturalismo di Locke

Democrazia politica e separazione dei poteri

Diritto, lavoro e bisogni

Libertà e uguaglianza

Colpo di stato o rivoluzione popolare

Proprietà privata e personale

Il socialismo dellavolpiano

Socialismo e democrazia

Quale livellamento sociale?

Davvero Marx era “marxista”?

Harold Laski: chi era costui?

Kant e il liberalismo

Merito e lavoro

Rousseau, Montesquieu e Marx

Filosofia del merito

Il socialismo democratico è una cosa seria

La sinistra e Rousseau

Dieci note sul socialismo in generale

I

II

III

IV

V

VI

VII

VIII

IX

X

Conclusione

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1  Nell’ambito del cattolicesimo la corruzione più forte era quella del papato teocratico. Tuttavia anche nelle campagne veniva fortemente esercitata dai feudatari, che col servaggio volevano vivere di rendita. In questi ambienti rurali erano molto forti, come tradizioni, prima della nascita dei Comuni borghesi, le cosiddette comunità di villaggio, dedite ovviamente all’autoconsumo. In tal senso è giusta l’affermazione di della Volpe, secondo cui “una società classista comporta in genere una concezione di diritti che sono in gran parte privilegi allargati” (p. 205), anche se è limitativo sostenere che tali diritti sono in realtà dei privilegi semplicemente perché “deducibili dalla dignità originaria di un individuo umano astratto” (ib.). Come se il laicismo, di per sé, fosse in grado di garantire molto di più!

2  Forse è il caso di ricordare che nel mondo greco-romano il concetto di “persona” non era neppure un “concetto”, ma un semplice riferimento alla maschera che usavano i teatranti; col tempo il significato si estese a indicare il personaggio stesso della commedia o della tragedia.

3  Va detto che la confessione ortodossa (bizantina o slava) s’è prestata molto meno a svolgere una funzione di puntello ideologico a pratiche violente di colonialismo. Sarebbero da studiare queste differenze intracristiane.

4  Da notare che i colonialisti olandesi (naturalmente calvinisti) esercitarono una certa influenza sul Giappone a partire dal XVI sec. In quel periodo la società, da centralista-imperiale, cominciò a sfaldarsi in realtà locali di tipo politico-militare. Negli ambienti rurali comandava una sorta di aristocrazia feudale, mentre in quelli urbani s’imponevano i mercanti, con un certo grado di autonomia e senza aver bisogno di scatenare scontri epocali tra potere temporale e spirituale. Tuttavia solo nel XIX sec. l’occidente fu in grado di obbligare il Giappone a uscire dal suo isolamento.

5  Sarebbe meglio usare la parola “primordiale” o “ancestrale” o “pre-classista” o “clanico-tribale”, poiché nella lingua italiana “primitivo” può anche voler dire rozzo, selvaggio, semi-animalesco. In tal senso anche l’espressione “comunismo primitivo” andrebbe evitata.

6  Non dimentichiamo che l’anglicanesimo è un mix di riti cattolici e di teologia calvinistica.

7  L’affermazione letterale di Marx è la seguente: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, – solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: – Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”.

8  In Cina negli anni ’90, facendo leva sulla differenza esistente tra legge scritta e legge applicata, si decise di affiancare il diritto di proprietà al diritto d’uso, nel senso che mentre il primo spetta allo Stato, il secondo può essere concesso a chiunque paghi questo diritto. L’affitto, in genere, è di due tipi: per allocazione (un usufrutto senza limiti temporali e per finalità pubbliche, su cui è prevista una tassa di acquisizione. Il diritto è intrasferibile e il terreno può essere espropriato dallo Stato in qualunque momento); per concessione (il diritto viene concesso per un tempo determinato: 70 anni per uso residenziale, 50 per uso industriale e 40 per uso commerciale. Entro questi anni il terreno è trasferibile e può essere espropriato solo per esigenze di pubblica utilità e solo dietro pagamento di un indennizzo).

9  Esponente politico-rivoluzionario del giacobinismo e del primo socialismo. Fondò “Il Giornale Patriottico della Corsica”, il primo giornale rivoluzionario scritto in lingua italiana. Sosteneva: 1) l’affermazione di una società agricola egualitaria; 2) l’evidenza della religione naturale; 3) l’educazione e l’istruzione come compito inderogabile dello Stato; 4) la condanna del commercio e dell’industria; 5) la volontà generale o sovranità popolare come fondamento della comunità politica; 6) l’elettività e temporaneità delle cariche; 7) il tirannicidio. Era contrario alla proprietà privata e partecipò alla Congiura degli Eguali, capitanata da Babeuf.

10  Abate, filosofo e politico. Collegato alla corrente ideologica più radicale dell’Illuminismo. Il suo pensiero si basa su tre princìpi: 1) niente nella società apparterrà singolarmente o in proprietà a qualcuno, tranne le cose di cui farà un uso abituale, sia per i suoi bisogni, i suoi piaceri o il suo lavoro quotidiano; 2) ogni cittadino sarà uomo pubblico, sostentato, intrattenuto e occupato a spese pubbliche; 3) ogni cittadino contribuirà da parte sua all’utilità pubblica secondo le sue forze, i suoi talenti e la sua età; è su ciò che saranno regolati i suoi doveri, conformemente alle leggi distributive. In quanto giusnaturalista, riteneva che lo stato di natura fosse un determinato periodo storico del genere umano, caratterizzato da una sorta di comunismo primordiale. La corruzione si sarebbe imposta con l’introduzione della proprietà privata. Viene considerato un precursore del moderno socialismo scientifico.

11  Abate, massone, filosofo e politico. Di idee comuniste e repubblicane. Sostenne l’abolizione della proprietà privata, che considerava incompatibile con solidarietà e altruismo, e stimolo degli istinti antisociali ed egoistici dell’individuo. Superò la dottrina liberale dell’egualitarismo politico-legale, sostenendo l’eguaglianza sociale, relativa ai bisogni.

12  Forse su questo aspetto della Volpe avrebbe scosso la testa. Tuttavia Babeuf aveva scritto nel suo Manifesto ch’era giusto destinare ogni uomo di talento alla professione che gli era più congeniale. Probabilmente una lettura più distaccata di quel testo avrebbe permesso di capire che anche Babeuf temeva l’assurdo livellamento: semplicemente non se la sentiva di predicare una filosofia del merito a prescindere dalla realizzazione dell’uguaglianza sociale, ch’era poi la stessa cosa che voleva della Volpe.

13  Fonte: monthlyreview.org/2025/07/01/marx-and-communal-society/

14  Tali Quaderni documentano una conoscenza di Marx relativa alle opere di Morgan, Phear, Maine e Lubbock, che si andavano ad aggiungere a quelle di Maxim Kovalevsky e William B. Money.

15  Famoso lo scambio epistolare che Marx ebbe con la rivoluzionaria Vera Zasulič.

16  Francis Fukuyama, politologo statunitense di origine nipponica, pubblicò nel 1992, subito dopo l’implosione dell’URSS, un saggio che fece molto scalpore: La fine della storia e l’ultimo uomo. Sosteneva che la democrazia occidentale avrebbe trionfato per sempre in tutto il mondo. Certamente una prassi di tipo capitalistico è andata diffondendosi ovunque, ma il modo di gestirla non può essere definita “occidentale”, in quanto il capitalismo privato o neoliberismo non è nelle corde dei Paesi asiatici e, più in generale, di quelli del Sud globale. Comunque nelle pubblicazioni successive rettificò il tiro.

17  “Irrefragabile” oggi non si usa più: sta per inoppugnabile, irrefutabile. Ma la Treccani aggiunge che l’aggettivo “insiste più sulla validità intrinseca della cosa che sulla possibilità di confutazione”.

18  Fu proprio questo teologo domenicano a originare il cosiddetto mito del “buon selvaggio”, che Rousseau non mancò di far suo per criticare il capitalismo francese del suo tempo.

19  Qui si chiude il testo di della Volpe: a p. 267 iniziano le Appendici.

20  La giustizia commutativa prescinde dal merito individuale, in quanto si preoccupa unicamente che il contratto stipulato venga rispettato alla lettera, per cui eventuali danni vanno sempre risarciti.

21  Cfr La filosofia politica di Rousseau, ed. Feltrinelli, Milano 1972.

22  Paolo Rossi, in un suo saggio introduttivo agli scritti russoviani pubblicati da Sansoni nel 1972, disse che tutte le teorie contrattualistiche di Rousseau non potevano essere applicate che in piccoli Stati, certamente non in quelli grandi, dove la democrazia è solo rappresentativa. In realtà la dottrina politica del Contratto sociale non si può applicare in alcuno Stato, ma solo in una comunità locale autogestita: lo Stato, quindi, come ente super partes, è già distrutto o comunque è del tutto assente. Semmai il problema sta nella gestione di questa comunità, che rischia di trasformarsi in una setta pseudo-religiosa. Indubbiamente il valore rivoluzionario di Rousseau sta nell’evocare potentemente, a metà Settecento, il tema della volontà popolare, quando il popolo era escluso dal potere in modo totale. La “sovranità popolare” viene da lui intesa come realtà omogenea, indifferenziata e non delegabile a singole parti o persone. Senonché in Rousseau non c’è spazio per il proletariato (rurale e industriale). C’è spazio solo per la piccola borghesia, che dichiara davanti a tutti di non voler diventare “grande” a spese degli altri. Il “contratto” non è altro che una dichiarazione d’intenti, una promessa che nessuna borghesia potrà mai mantenere.

23  Cfr il mio Le teorie economiche di Giuseppe Mazzini.

24  Non dimentichiamo, peraltro, che i classici del marxismo erano contrari allo Stato sociale all’interno del capitalismo, in quanto ritenevano insensato che i lavoratori sfruttati pagassero, con le loro tasse, i servizi pubblici alla borghesia.

25  Il privilegio dell’extraterritorialità è goduto anche dalle basi NATO e americane in Italia, il cui numero esatto nessuno sa con precisione.

26  In tal senso andrebbero immediatamente aboliti il Concordato e i Patti Lateranensi, nonché rivisto completamente l’art. 7 della Costituzione. Anche l’attribuzione dell’otto per mille andrebbe precisata meglio, onde evitare assurdi privilegi.

27  Non dimentichiamo che le rivoluzioni russe furono tre: 1905, febbraio 1917 e ottobre 1917. Lenin definì la prima una sorta di “prova generale”, in cui risultò che l’ideologia tolstojana fu completamente fallimentare. La seconda invece fu per lui l’occasione buona per fare la terza, visto che il governo Kerensky voleva continuare la guerra a oltranza e distribuire la terra ai contadini solo dopo averla vinta.

28  Per la loro Prussia avevano chiesto, in sostanza, le stesse cose di Babeuf: un’unica e indivisibile repubblica tedesca; l’introduzione del suffragio universale (per gli uomini che avessero raggiunto il 21° anno di età); l’eliminazione del vecchio esercito e l’armamento generale del popolo; la procedura giudiziaria gratuita; l’abolizione senza riscatto di tutti gli obblighi feudali; la nazionalizzazione delle terre dei principi regnanti e di tutti i possedimenti feudali, delle miniere, cave, ferrovie, canali; la creazione di grandi aziende rurali sulle terre nazionalizzate; la fondazione di un’unica banca statale; l’organizzazione di opifici nazionali per i disoccupati; l’assicurazione dei mezzi di sussistenza per gli invalidi; la separazione della Chiesa dallo Stato e l’istruzione generale e gratuita.

29  La definizione di “proletariato” che diede Engels nei Princìpi del Comunismo è la seguente: “Il proletariato è quella classe della società che trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un capitale qualsiasi”. Quindi non è uno schiavo propriamente detto (in quanto è giuridicamente libero) né un servo della gleba (in quanto non possiede nulla). “Il proletario si può emancipare solo eliminando la concorrenza, la proprietà privata e tutte le differenze di classe”.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015