L’epicureismo teologico di Gassendi

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L’epicureismo teologico di Gassendi

I - II

Carlo Tamagnone

Vi proponiamo, per gentile concessione, il capitolo dedicato a Pierre Gassendi,
tratto da un saggio pubblicato nel 2008 in 2 voll., L'illuminismo e la rinascita dell'ateismo filosofico
(Teologia, filosofia e scienza nella cultura del Settecento)

 del filosofo Carlo Tamagnone, che si occupa da molti anni di ontologia e di gnoseologia

Il pensiero di Pierre Gassendi (1592-1655) rappresenta sicuramente una delle più importanti voci di una vera filosofia sullo scorcio della prima metà del Seicento, ma per noi italiani un vero e proprio “caso” di colpevole ignoranza. Gassendi è stato, infatti, quasi del tutto ignorato in Italia sino a tempi recenti, e ciò, probabilmente, per la nota barriera di una cultura idealistica, antiempiristica, antisensistica, antimaterialistica e, cosa più grave, sostanzialmente antiscientifica. D’altra parte, è in considerazione dell’opposizione di Gassendi a Cartesio che in un’immaginaria bilancia sui cui piatti essi siano posti in Italia Gassendi sia ultra-leggero e Cartesio ultra-pesante. L’interpretazione di ciò è facile: l’idealismo (e sostanziale platonismo) di Cartesio ha trovato nel nostro paese un terreno fecondo per svilupparsi come”autorità” venerata e coltivata relegando on un angolo il suo più coerente oppositore. Gassendi, appunto, lasciato nell’ombra quale elemento turbativo di quella sublime aura dello Spirito che Croce e Gentile hanno radicato nella cultura italiana e i cui tentacoli sono ancora tra noi in una prolifica progenie più o meno camuffata. Si aggiunga che la scarsezza delle traduzioni italiane di opere gassendiane è veramente impressionante, e che nella manualistica Gassendi sia liquidato in pochi tratti. Sono assai rare trattazioni serie, come è dato cogliere nel buon sunto che ne dà Gianni Paganini nel Capitolo XVI del III volume della Storia della filosofia 1 (Laterza 1995) curata da Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano (non a caso due dei pochi storici della filosofia non-idealisti). Va anche ricordato l’ottimo saggio di Tullio Gregory Scetticismo ed empirismo, Studio su Gassendi, uno dei pochi importanti lavori analitici sul Nostro.

È doveroso precisare subito che non solo Gassendì non è materialista, ma è anzi un teologo cristiano (ordinato prete nel 1617) i cui scritti hanno per scopo primario la glorificazione di Dio. La sua colpa secondo la maggior parte degli idealisti? Aver voluto riabilitare Epicuro reinterpretandolo in senso cristiano, andando in rotta di collisione con una cultura imperante che relegava l’atomismo edonistico del greco negli empi sotterranei del libertinismo irreligioso. Poiché, in realtà, proprio di questo si tratta, essendo il Nostro null’altro che uno spirito indipendente (e solo in questo senso “libertino”) che vuole affrancare la cultura filosofica dai lacci della tradizione aristotelica e da quelli del dualismo cartesiano per arginare un materialismo ateo incipiente che vedeva come un grande pericolo per la fede. Ci si domanderà allora come si possa conciliare la lotta al materialismo con una rivalutazione dello studio di una filosofia materialistica come quella epicurea. Ebbene, proprio qui sta il più interessante aspetto del pensiero di Gassendi; quello di essersi reso conto dell’insostenibilità del pensiero metafisico applicato alla realtà e di aver cercato un nuovo sbocco alla conoscenza che potesse conciliare empirismo, sensismo, osservazione e sperimentazione scientifica, astronomia e cosmologia post-copernicane, con la fede cristiana.

Il background culturale di Gassendi è abbastanza complesso e vede tra i suoi autori preferiti Vives, Charron, Ramo e Giovan Francesco Pico, ma ciò che emerge fin dai suoi primi tentativi teorici è l’attenzione allo scetticismo di Pirrone di Elide quale assertore del primo indirizzo filosofico che oppone al dogmatismo metafisico il primato dell’esperienza diretta degli enti e dei fenomeni. Non fa difetto tuttavia anche una buona conoscenza di autori antichi come Orazio, Giovenale, Luciano e Lucrezio, tenendo presente che gli ultimi due dalla cultura dominante appartenevano al piccolo perverso gruppo di atei antichi tenuti in buon conto dai libertini. Ricordiamo che sia Vives che Ramo erano stati tra i pochi a combattere l’aristotelismo e che Charron aveva assunto lo scetticismo come il più alto grado di una sapienza profana. L’opposizione del Nostro all’aristotelismo, ritenuto «ozioso ed inutile» e «sostituente le cose con le parole», insieme con l’adesione allo scetticismo empiristico ed esperienziale, lo porta su posizioni abbastanza vicine a quelle di Bacone. Del progetto gnoseologico dell’inglese egli si sente in qualche misura un prosecutore e di lui dice nel Syntagma: «Con un atto di audacia veramente eroico Bacone ha osato difendere una nuova via e ci si deve attendere che tenendosi con forza e con diligenza nella sua via, si possa finalmente fondare e possedere la nuova filosofia.» 2 Significativo il fatto che nella prefazione alle Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos del 1624 asserisse, non senza ferocia, che sulla metafisica aristotelica «è difficile non fare satira » 3 e che il maggiore responsabile della creazione del “mito” dello Stagirita è stato Averroè 4. Ma non è tutto: seguire Aristotele è come «chiudersi in un carcere» 5 e il cumulo di errori del suo pensiero è diventato «quasi un diritto ereditario che passa dal maestro ai discepoli » 6

Dopo questo primo assaggio dell’atteggiamento di Gassendi, diamo un occhiata alla sua produzione, caratterizzata da una prima fase (sino al 1644) che potremmo definire anti-aristotelica, anti-esoterica ed anti-cartesiana, e da una seconda, filo-epicurea, dove la prima costituisce la pars destruens del suo pensiero, la seconda la construens. Ma va rilevato che gli interessi per la filosofia di Epicuro risalgono, in realtà, al 1626 7. I suoi primi scritti sono il già citato Exercitationes paradoxicae del 1624; l’Epistolica dissertatio in qua praecipua principia philosophiae Fluddi deteguntur del 1630. Seguono le Objectiones (1641) e le Instantiae (1642) contro la metafisica cartesiana, poi confluite nella Disquisitio metaphysica seu dubitationes et instantiae adversus Renati Cartesii metaphysicam del 1644. Il De vita, moribus et placitis Epicuri è del 1647, le Animadversiones in decimum librum Diogenis Laertii e il Syntagma philosophiae Epicuri sono entrambi del 1649. Ad esse si aggiungono importanti opere di astronomia, come l’Institutio astronomica del 1647 e il Thichonis Brachei, Copernici, Peuerbachi et Regiomontani vitae del 1654. La sua opera più complessa e corposa, il Syntagma philosophicum, la definitiva pars construens del suo pensiero, uscirà tre anni dopo la sua morte, nel 1658.

Se abbiamo dato conto nel dettaglio della produzione gassendiana è perché intendiamo seguirne passo passo l’evoluzione, dalla contestazione di Aristotele e Cartesio, all’interesse per Epicuro ed infine ad una reinterpretazione (ma quasi una rielaborazione) della filosofia del greco in senso cristiano. Inizieremo quindi col prendere in considerazione le Exercitationes paradoxicae (in sei Libri) con le quali Gassendi nel sottolineare il dogmatismo del pensiero aristotelico intende contrapporgli un atteggiamento critico su base scettica (pirroniana) tale da rendere evidente l’inconsistenza della pretesa metafisica di conoscere astrattamente “per cause” allo scopo di sostituirvi un conoscere basato sull’esperienza e sull’analisi dei fenomeni reali, come si evince dal seguente passo delle Exercitationes:

Se dicessi che l’esperimento è l’ago della bilancia con il quale deve essere ponderata la verità di qualche cosa, come sarebbe il fuoco, caldo o freddo? Il sole splendente od oscuro? Non lo negherei davvero; questo infatti è un Indicatore, o come dicono i Greci κριτήριον che fra i molti sembra debba essere scelto; ma l’esperimento appartiene al senso, o alla facoltà naturale, non certo alla Dialettica. 8

Non solo il metodo dialettico non porta a nulla, neppure la matematica può essere posta come disciplina capace di fondare ogni conoscenza, e quindi: «Ciascuna scienza deve conoscere il vero come proprio, nello stesso modo ha proprie regole di conoscenza. La geometria ha il suo quadrante, l’aritmetica i suoi calcoli, la fisica il senso e la Teologia la rivelazione.» 9 L’accusa fondamentale che egli muove all’aristotelismo è di prodursi in una sostanziale eristica, un’abilità discorsiva che non persegue il vero, ma la “dimostrazione”. La metafisica, dunque, se non decisamente ingannatrice, quanto meno oziosa, senz’accesso al reale, che solo con un approccio diretto all’oggetto primario della conoscenza, i fenomeni, diventa possibile. Anziché perseguire «la perizia nel disputare» si tratta infatti di cercare: «la conoscenza della verità, e, una volta ottenutala, vivere bene e felicemente goderne.» 10

Per quanto all’epoca delle Exercitationes (inizio anni ’20) il Nostro fosse ancora molto lontano da Epicuro, il riferimento ad una conoscenza da conseguire per «vivere bene e felicemente goderne.» è già vicino alla concezione epicurea, e si può ritenere che anticipi una congenialità che andrà via via crescendo, sino a portarlo più tardi, nel Syntagma philosophicum, a creare un “suo” Epicuro cristianizzato. Fatto non trascurabile al fine di comprendere il pensiero gassendiano è che egli non solo fu seguace di Galileo, ma anche eccellente astronomo che “in proprio”, avendone ripercorse le scoperte; dalle macchie solari alle irregolarità della superficie lunare ai satelliti di Giove. E se egli fu un deciso sostenitore dell’esistenza del vuoto non era per una posizione preconcetta, ma perché ne aveva verificata l’esistenza con i suoi esperimenti e con la determinazione del peso dell’aria nella colonna di mercurio. Così come aveva dato una formulazione del principio di inerzia più precisa di quella dello stesso Galileo e si era costantemente dedicato ad osservazioni di vario genere, ponendosi anche il compito di contribuire allo sviluppo della nuova cosmologia, attenta alla dinamica terrestre, al sistema solare e all’universo nella sua infinità. In altre parole, la sua specificità di pensatore rispetto ai metafisici dell’epoca sta nel fatto di aver accompagnato costantemente le sue riflessioni filosofiche con la pratica scientifica, e di aver basato il suo pensiero, per quanto possibile, su “dati” reali.

Per quanto Gassendi contaminerà egli stesso l’atomismo con la teologia cristiana 11 rimane un assertore della rigorosa separazione della filosofia dalla fede, vedendo nel cristianesimo gravi contaminazioni aristoteliche 12. Imputabili, ovviamente, specialmente alla Metafisica, che egli disprezza, mentre consiglia una maggiore attenzione ad opere come gli Economici, i Politici e la Storia degli animali 13. Da un punto di vista ontologico va rilevato che Gassendi apporta modifiche non di poco conto dell’ontologia epicurea poiché è proprio il problema dell’essere ad assumere particolare rilievo. Se per il greco la realtà dei corpi era data da una sostanziale identità tra il soggetto percipiente e il percepito, in quanto sensazione emergente nel soggetto conoscente stesso nel suo rapporto sensorio con l’oggetto, per il francese la realtà sta nell’esser corpo indipendentemente dal venir percepito. Nella lettura che Gassendi dà della Lettera ad Erodoto, a proposito del vuoto, dei corpi e degli atomi, tali elementi dell’ontologia epicurea assumono una realtà concreta su cui Epicuro aveva sorvolato, essendo il suo orizzonte gnoseologico limitato al “modo di darsi” del conoscibile e non al suo essere. In Epicuro l’atomòs era un seme-potenza, che, attraverso le aggregazioni operate dal casuale movimento nel vuoto, produceva i corpi reali; per Gassendi è invece un corpuscolo-base della materia creata da Dio in attuazione del suo progetto creazionale. Ma la Creazione non è necessariamente opera conclusa al sesto giorno (Genesi, 1-2), essa pare continuare. Scrive Gassendi nel Syntagma che la materia è corpo esteso reale 14 e che: «[Dio] creando la massa di Materia solubile in corpuscoli, e anzi composta di corpuscoli, quali particelle minime ed ultime, abbia concreto insieme con quella questi stessi corpuscoli.» 15 Singoli elementi e totalità del mondo sarebbe stati un frutto contemporaneo della volontà di Dio; vuoto, atomi e corpi, da oggetti di percezione per Epicuro, diventano per Gassendi sostanze reali 16.

Le Exercitationes sono un contributo per ridare alla filosofia il suo diretto rapporto col “dato” reale, contro le astrazioni di un “pensato” metafisico fittizio; da ciò i suoi interessi con frequenti riferimenti all’operato di categorie di lavoratori come i tagliapietre e gli orafi, alle esperienze dirette di botanici e zoologi. In altre parole, è la pluralità dell’esperienza in ogni singolo campo che produce conoscenza, e non certo una generale e generica conoscenza aprioristica basata sul “pensato” meta-fisico; poiché è la fisica la base sicura di ogni speculazione sul reale. Nel Secondo Libro si afferma: «ciascuna scienza, come ha il proprio oggetto vero da conoscere, così ha anche le proprie regole di conoscenza.» 17; quindi, la metafisica aristotelica, che si pretende “fondamento” della scienza, è scienza falsa. Ogni autentica scienza deve infatti partire dal particolare per giungere al generale e mai viceversa, ed il procedimento sillogistico è del tutto ozioso poiché non si dà deduzione corretta se non da induzioni corrette sul “reale”. Le costruzioni logiche sono del tutto sterili e l’Organon aristotelico (che all’epoca domina ancora il sapere ufficiale) produce schemi artificiali, inconsistenti, fuori della realtà. Da ciò la considerazione:

Nelle categorie non sono racchiuse le cose in se stesse, ma soltanto concetti e nomi […] Credimi, queste categorie non le troverai né sopra il cielo, né al centro della terra, né in aria, né altrove, ma le potrai vedere soltanto in quanto vengono concepite dalla mente o espresse dalla voce, o tracciate sulla carta. 18

Asserzione profonda, che delinea in modo chiaro l’orizzonte gnoseologico a cui egli guarda, in riferimento a quello che definisce un «naturale desiderio di sapere » che non può venire confuso con il «costruirsi un sapere» su basi metafisiche. Pur limitando la sfera di azione della filosofia al fenomenico nell’atteggiamento gassendiano non vi è nulla di rinunciatario, ed ancora meno il rammarico di non poter sapere ciò che sta aldilà dell’apparenza; ed allora: «non si può sapere di qual sorta sia una cosa in se stessa o per sua natura, ma soltanto come essa appaia agli uni o agli altri.» 19 Frase provocatoria ed in parte incoerente, contrastante con altre che riconoscono alla fenomenicità non soltanto certezza conoscitiva, ma anche che ogni rinuncia è un’espulsione. Provocazione voluta, per evidenziare che ogni rinuncia a conoscere l’ignoto pensandolo inconoscibile significa negarlo, poiché la conoscenza è progressiva e mai conclusa. La scienza autentica, quella di Galileo, che si istituisce come sapere esclusivamente fenomenico, che non pretende di fornire verità definitive, ma “cerca”, è l’unica che può garantire certezze cognitive. Appena si esce da tale ambito, si inquina la scienza con la menzogna metafisica e si perde ogni legame con la conoscenza.

La consapevolezza che la base del sapere stia nella ricerca su una realtà pluralistica e mutevole, fa sì che siano molteplici le discipline che vi concorrono, tutte con pari dignità, ed essa porta Gassendi a colpire duramente la logica quale fondamento per il conseguimento della verità. Essa è ciò che altrove ha chiamato “scienza delle parole” al posto di quella delle ”cose”, e contro la quale così si esprime: «La scienza è concepita da Aristotele come conoscenza certa ed evidente che si acquista tramite dimostrazione; essa consiste nel procedimento sillogistico che muove dai primi e universali principi (definizioni).» 20 Tale procedere è errato, poiché:

La definizione non può far conoscere la natura dell’oggetto perché definire implica il ricorso a concetti sempre più generali, fino al generalissimo ens che non rimanda ad altro e del quale, proprio per questo, non può darsi definizione; e se l’ens resta sconosciuto, non si avrà conoscenza neppure dei generi inferiori. 21

Col sillogismo vanno perdute tutte le fondamentali «differenze specifiche» tra enti particolari e individuali, producendo un formalismo astratto privo di alcuna utilità gnoseologica. Il sillogismo non fa conoscere assolutamente nulla e diventa una mera «petizione di principio» 22 priva di alcun fondamento nella realtà.

L’aspirazione a conoscere il mondo in cui viviamo è profondamente radicata nell’uomo, costituendosi come un «naturale desiderio di sapere » che è così spiegato:

Finché vogliono conoscere molti oggetti per mezzo dell’esperienza e in quanto essi appaiono, gli uomini manifestano un desiderio che ha per guida la natura; ma non appena desiderano oltre a ciò conoscere le nature intime e le cause necessarie, attingono un genere di scienza che spetta alla natura angelica, o anche a quella divina, ma non a povere creature umane. 23

Gli angeli possono accedere allo spirituale meta-fenomenico, ma noi dobbiamo accontentarci del materiale, il fenomenico. Abbiamo qui l’assunzione di una posizione che anticipa quella di Kant, ma mentre questi la vedeva come una carenza Gassendi la pone a base del conoscere stesso, che è sempre e solo conoscenza di fenomeni. La sfera del meta-fenomenico, sottintende Gassendi, è da cogliere solo nei testi sacri e nelle verità delle sante dottrine, del contenuto dei quali si dà “credenza” e non “conoscenza”. La consapevole auto-limitazione che il teologo si dà non è patita qui come un vulnus intellettuale, ma come la corretta de-limitazione di un certo ambito operativo, fuori del quale si può dare solo un’“invenzione” logico-dialettica arbitraria che non ha nulla a che fare con la conoscenza. Con l’anima si può entrare in rapporto con Dio, ma solo con la ragione si entra in rapporto col mondo. Ed allora: « Con il raziocinio non è consentito di andare aldilà di conoscenze, che a loro volta siano oggetto di esperienza e delle quali si possa mostrare qualche apparenza sensibile.» 24 Gassendi pare radicalizzare ancor più di Bacone l’indispensabile legame conoscenza-esperienza, fuori del quale si dà solo invenzione; ma tale radicalizzazione (l’avevamo già vista nell’inglese) mette un po’ in ombra la matematica, la quale (come aveva ben visto Galilei) è indispensabile elemento di ogni sapere scientifico che oggettivi il sapere sottraendolo alla soggettività del discorso. La formula matematica, come aveva reso evidente Huygens, è l’unico modo di fissare in maniera non equivoca il modo con cui funzionano gli enti dell’universo e le leggi che lo governano.

Gassendi intende mettere in opera una nuova scepsi, che passi in rassegna ed analizzi ogni forma di dogmatismo al fine di evidenziarne le manchevolezze gnoseologiche e gli aspetti aprioristici che l’infirmano. In questo orizzonte si staglia anche l’Epistolica dissertatio in qua praecipua principia philosophiae Fluddi deteguntur (1630) con la quale il Nostro affonda il suo bisturi nella famosa Utriusque cosmo […] historia (1618) di Robert Fludd, opera nella quale il fantasioso medico-teologo esoterico inglese esponeva la sua concezione del mondo ispirata al neoplatonismo, ma anche alle più recenti teologie massonico-rosacrociane. La teoria di Fludd poneva un mondo reale, definito “typicus”, fatto ad immagine di Dio quale Mundus archetypus, in cui materia e vita erano un prodotto emanativo di un Dio “origine e modello”. Un Dio che trovava conciliazione con la dottrina cristiana e l’approccio al quale poteva avvenire attraverso una rielaborazione delle dottrine cabalistiche, con un cospicuo condimento di pratiche magiche e alchemiche che attraverso una dialettica luce/tenebre e simpatia/antipatia conduceva alla conoscenza del divino. Contro questa pretesa Gassendi si era direttamente impegnato, ma contemporaneamente egli affrontava anche il De veritate, prout distinguitur a revelatione […] del poeta-teologo Herbert di Cherbury (1583-1648) col quale erano poste premesse, su base platonica, per una conciliazione tra la religione naturale e la rivelazione ebraico-cristiana, sì da apparire come il primo esempio di teologia deista. Ciò che il Nostro trovava intollerabile in Herbert era la pretesa di fondare dogmaticamente una via alla conoscenza del mondo prescindendo sia dalla realtà di esso e sia dai limiti della mente umana. La tesi di Gassendi e che l’uomo, per sua natura, ha accesso conoscitivo a ciò che in qualche modo gli riesce di riprodurre, ovvero che la mente che pensa e la mano che lavora sono connesse. Ora, solo gli aspetti più materiali e fenomenici del mondo possono dar luogo ad imitazioni umana, mai le essenze, la conoscenza delle quali è propria dell’onniscienza di Dio la cui onnipotenza è riuscita a produrle. Il francese operava qui una distinzione che, mutatis mutandis, sarà poi la stessa di Kant.

Ma anche nei confronti del poco più giovane Cartesio il Nostro non è meno duro, ma nelle Obiectiones del 1641 (che egli scrive su sollecitazione di Mersenne) egli si rivolge a Descartes con circospezione:

Io le propongo [le Obiezioni] dunque, ma senz’altro disegno che quello di una semplice proposizione che io faccio, non contro le cose che voi trattate, e che vi siete accinto a dimostrare, ma solo contro il metodo e gli argomenti di cui fate uso per dimostrarle. 25

Ciò che il Nostro contesta è proprio “quel metodo” famoso, apparentemente inconfutabile, e non gli oggetti cui esso si applica. E d’altra parte un punto di frizione con Descartes sta nel fatto importante che per Gassendi l’anima dell’uomo è materiale ed ha la stessa sostanza di quella delle bestie 26. Egli giudica intollerabile il tono assertorio delle conclusioni cartesiane, che nelle Instantiae egli non esita a definire come una sorta di ipse dixit presuntuoso e arrogante 27. Ancora nelle Obiectiones egli domanda a Descartes:

Diteci, vi prego, quale distinta conoscenza voi avete della vostra natura; poiché, dicendo solamente che siete una cosa che pensa, voi alludete a un’operazione che tutti conoscevamo, ma non ci fate conoscere qual è la sostanza che agisce, di quale natura essa è. 28

Gassendi si limita a rilevare che un’asserzione di quel genere non spiega un bel nulla. Infatti:

Quel che a noi manca, e che desideriamo raggiungere, è il conoscere e il penetrare all’interno di quella sostanza la cui prerogativa è il pensare. Ecco perché, siccome è questo ciò che cerchiamo, sarebbe più opportuno che voi ci diceste non già che siete una cosa che pensa, ma in che consiste questa cosa che possiede la capacità di pensare. 29

Sia guardando alla realtà dei fatti e sia alla correttezza delle premesse, l’identificazione della res cogitans col cogito è inconsistente; e non già perché sia valido il concetto aristotelico della forme sostanziali, ma perché, non esistendo nessuna possibile “esperienza” oggettiva sia del pensare come azione e sia del pensiero come fatto, la “cosa pensante” è data illegittimamente per conosciuta dal “pensatore” sulla base della percezione dei propri “pensati”. Gassendi smentisce così Cartesio, il quale, con l’identificazione di sostanza pensante e pensiero nella res cogitans e di sostanza estesa ed estensione nella res extensa, riteneva di aver superato le aristoteliche forme sostanziali eliminando la difficoltà teorica che esse ponevano. In realtà, Descartes, facendo ciò, era soltanto ritornato a Platone, ripristinando quel rapporto diretto tra anima umana e sfera del divino che Aristotele riteneva troppo misticheggiante.

Ciò che preme a Gassendi è ribadire che del pensiero non si dà alcuna esperienza e che la relazione autoreferenziale pensante-pensamento-pensato non permette in alcun modo di metterlo sullo stesso piano concettuale dell’estensione. Egli ritiene pertanto che Cartesio abbia assunto acriticamente il dualismo platonico, presupponendo (e non già dimostrando) l’esistenza del pensiero e teorizzando l’esistenza dell’estensione senza alcuna indagine e senza alcun elemento probatorio 30. Tale dogmatismo astratto fa dire al Nostro: «Mi stupisco come voi osiate dire che, dopo aver spogliato la cera di tutte le sue forme, né più né meno che delle sue vesti, concepite più chiaramente e più perfettamente quel che essa sia.» 31 E circa un concetto di corpo esteso che intende prescindere dalle modalità del suo presentarsi attraverso i suoi attributi Gassendi domanda:

Questa specie d’estensione non potendo essere indefinita, ma avendo i suoi confini e i suoi limiti, non la concepite anche come in certo modo figurata? Poi, concependola in tal modo che vi sembri di vederla, non le attribuite voi qualche sorta di colore, benché oscurissimo e confuso? 32

Per il Nostro è inaccettabile pretendere di porre ciò che nella realtà esiste solo col corredo dei propri attributi come ancora esistente dopo averlo spogliato di essi. Ma rimane anche il problema di come Descartes abbia potuto teorizzare che l’anima stia nella ghiandola pineale, poiché questa è sempre un corpo; come può un corpo produrre pensiero, l’extensa produrre cogitans 33? Qual è, domanda Gassendi, la relazione ontologica tra la ghiandola pineale e l’anima? 34

Ma vi sono altri arbitri teorici di Descartes anche più gravi, come quello (III Meditazione) per cui siccome Dio “deve” esistere, e in quanto Dio non ci può ingannare, questa è l’unica realtà “indubitabile” e quindi “certa” da cui partire. Gassendi rileva ancora nelle V Objectiones che tale certezza non può legittimamente essere posta sullo stesso piano di evidenza di una qualsiasi dimostrazione della geometria: «Poiché, in effetti, queste dimostrazioni [le geometriche] sono di una tale evidenza e certezza che senza attendere la nostra deliberazione, ci strappano da loro stesse il consenso ». Questo tipo di dimostrazioni non sono possibili per l’esistenza di Dio senza cadere in un circolo vizioso, per cui ciò che deve essere dimostrato diventa il dimostrante 35. Ciò che viene contestato è la pretesa di dare per “dimostrate” quelle verità di fede che sono doverosamente “credute”, e che tali debbono rimanere nella loro sacralità, senza essere portate sul piano di una ragione che nel pretendersi dimostrativa si rende automaticamente falsa. E’ solo come soggetti pensanti (nella nostra mente) e mai oggettivamente che possiamo immagine qualcosa di Dio e ancor meno della sua infinità, sicché: «Colui che dice una cosa infinita attribuisce ad una cosa che non comprende un nome [Dio] che egualmente non capisce.» E quindi:

Tutte quelle alte perfezioni che siamo soliti attribuire a Dio sembrano essere state tratte da ciò che ammiriamo ordinariamente in noi, come la durata, la potenza, la scienza, la bontà, la felicità e così via, alle quali avendo dato tutta l’estensione possibile la vediamo in Dio dicendo che è eterno, onnipotente, onnisciente, sovranamente buono, perfettamente felice e così via. 36

E ancora:

Tutti questi attributi che date a Dio non sono altro che un ammasso di certe perfezioni che voi notate in certi uomini o in altre creature, che lo spirito umano è capace di estendere, di unire, e di amplificare come gli piace. 37

Gassendi vede con estrema chiarezza che all’infuori di ciò che si deve credere di Dio (perché rivelato nelle Sacre Scritture) tutto il resto è frutto di fantasia, e resta tale qualunque sia il sofisma logico-dialettico che pretende di ratificarlo razionalmente. La conclusione: «Vi ingannate grandemente se credete avere l’idea della sostanza infinita, che non può essere in voi che di nome solamente, e nella maniera in cui gli uomini possono comprendere l’infinito, che, di fatto, è non comprenderlo.» Per un verso viene smascherata la presunzione cartesiana di assiomatizzare ciò che è problematico, e per altro verso viene anticipato persino Feuerbach, poiché il Nostro pare aver compreso chiaramente che nel concetto di Dio l’uomo estende e concentra le facoltà che egli scopre in se stesso, facendosene un “ideale” trascendente.

È nella Disquisitio contro Cartesio che Gassendi ci rende la migliore testimonianza del suo atteggiamento religioso a favore del finalismo divino, marcando così il suo distacco sia dal determinismo fisico aristotelico e cartesiano e sia dall’indeterminismo dell’atomismo epicureo e lucreziano:

Forse in un’altra occasione avresti potuto giustamente respingere l’uso delle cause finali dalla speculazione fisica; ma trattandosi di Dio è senza dubbio da temersi che tu [Cartesio] respinga l’argomentazione principale secondo la quale la divina sapienza, Provvidenza, potenza e perfino l’esistenza possono essere stabilite con il lume naturale. Lasciando da parte l’universo e il cielo e le sue altre parti principali, da dove mai, o in che modo sapresti dimostrare meglio che muovendo dal funzionamento delle parti nelle piante, negli animali, negli uomini, in te stesso (o nel tuo corpo), le argomentazioni che adduci a similitudine di Dio? […] Ma non potendo alcun mortale comprendere, né ancora esplicare quale agente formi e collochi, nel modo in cui ci risulta, quelle valvole disposte alle aperture dei vasi nella concavità del cuore […] qual motivo c’è per cui almeno non si ammiri quello straordinario meccanismo e l’ineffabile provvidenza che ha apprestato in maniera così appropriata alla loro funzione di valvole? Perché non è lodata, poi subito dopo deve essere necessariamente ammessa quella causa prima che avrebbe disposto queste e tutte le altre cose in maniera così sapiente e consonante con i suoi fini? 38

E tuttavia Dio avrebbe potuto anche operare la sua Creazione attraverso gli atomi in maniera differente, rendendo possibile persino una certa libertà di essi che avrebbe implicitamente negato sia il determinismo e sia il finalismo:

Niente vieta certo di supporre che alcuni atomi siano inerti e che non tutti siano dotati dello stesso grado di mobilità […] Si può quindi spiegare il motivo per cui alcuni dei corpi composti sono mobilissimi, come il fuoco; altri lentissimi, come la pietra; altri si pongono per così dire in gradi intermedi, come i vari generi degli animali. Niente però proibisce anche di supporre, insieme con gli stessi atomisti, che tutti gli atomi siano forniti di una grandissima e pari mobilità tra di loro; infatti, che i corpi composti mostrino maggiore o minore mobilità o inerzia, può dipendere dal fatto che gli atomi, a causa della loro forma e dimensione, siano più liberi e più indipendenti. 39

Come si vede col «Niente però proibisce anche di supporre» Gassendi sembra lasciare una porta aperta all’epicureismo autentico, poiché la parenklisis era posta un poco ambiguamente sia come frutto della casualità e sia come libertà dell’atomo di muoversi in modo non pre-determinato. Non caso il Nostro non riprenderà l’argomento, rendendosi probabilmente conto di quanto sarebbe devastante per la fede procedere oltre.

Con le giovanili Exercitationes e con i diversi lavori costituenti la Disquisitio metaphysica seu dubitationes et instantiae adversus Renati Cartesii metaphysicam del 1644 Gassendi aveva voluto colpire le discutibili autoritates di Aristotele e di Cartesio. Nel contempo egli operava quella riconsiderazione dell’atomismo antico che doveva portarlo inizialmente a scrivere e pubblicare nel 1647 il De vita, moribus et placitis Epicuri, cui seguono, sulla stessa linea di ricerca, i già citati Animadversiones e Syntagma philosophiae Epicurei del 1649. Segue un lungo periodo di riflessioni e studi che porteranno alla stesura del Syntagma philosophicum che lo terrà occupato sino alla morte e in cui Gassendi riassume il suo punto di vista gnoseologico in una formulazione definitiva e coerente. Va comunque notato che il progetto di occuparsi di Epicuro, e di “riformarlo” in senso cristiano, datava da molto prima, dal momento che in una lettera dell’aprile del 1631 egli scriveva ad un amico: «Devo ancora porre qualche nuovo ragionamento e qualche addolcimento nei punti che vanno a intaccare la nostra fede.» 40.

Il Syntagma è costruzione teorica che trova nel pensiero epicureo il suo fondamento e dal quale è desunta la concezione sensistica ed empiristica della conoscenza. Quarant’anni prima di Locke, e sia pure in maniera meno profonda, Gassendi pone l’origine delle idee nella sensazione. L’idea nasce come “anticipazione” di conoscenza immediatamente derivante dall’impressione sensoria o attraverso una successiva elaborazione mentale di tipo astrattivo-combinatorio. E tuttavia è quella primaria “immagine” anticipatoria resta la base irrinunciabile di ogni conoscenza della realtà fenomenica, quale “materia prima”, su cui il cervello opera le sue astrazioni e le sue combinazioni concettuali. L’idea che la deduzione sillogistica abbia carattere veritativo è decisamente contestato, ritenendo che anche alla base della deduzione vi sia sempre un’induzione, di cui la deduzione è costruzione finalizzata e mero camuffamento strumentale. Ciò che viene gabellato per un a posteriori è in realtà null’altro che un a priori espresso in premesse poste ad hoc per giungere alla deduzione voluta 41; da ciò nasce un criterio veritativo profondamente mistificatorio che si ammanta di cogenza logica. Va detto tuttavia che in quest’opera della maturità Gassendi intende andare oltre le considerazioni giovanili delle Exercitationes, per distaccarsi da uno scetticismo fenomenistico e nello stesso tempo da un riduzionistico attaccamento al dato empirico. Nasce così la teoria del “segno indicativo”, che si basa sì sul fenomeno, ma estende le sue induzioni alle possibili condizioni strutturali che lo rendono possibile. Ed è proprio in una ridefinizione dell’induzione che Gassendi, ponendosi sulla linea baconiana, può teorizzare l’esistenza degli atomi sulla base di un induzione logica di tipo esperienziale quanto razionale.

Il problema fondamentale resta comunque la conciliazione dell’atomismo epicureo, rivisitato e aggiustato, con la fede cristiana. È ovvio come l’operazione comporti una “manipolazione” dell’atomismo tale da riuscire a trovare una zona di conciliazione tra due posizioni teoricamente inconciliabili. Si comprende allora come, partendo da una posizione rigorosamente materialistica, il riuscire a “piegarla” ad ammettere l’esistenza di sostanze immateriali e spirituali non è impresa semplice. Gassendi però pensa alla costruzione di una nuova concezione del mondo che per quanto di tipo non dogmatico, in quanto basata sull’esperienza reale, non cancelli i concetti della metafisica ma li “integri” nella fisica, mettendo a fuoco:

[…] ciò che conviene a tutte le parti dell’universo, come per esempio, il luogo, il tempo, i princìpi materiali, le cause efficienti, i movimenti, i cambiamenti, le qualità, la nascita, la morte, e le altre realtà di questo tipo. 42

Vengono tuttavia, in qualche maniera, ricalcati gli argomenti che proprio Aristotele aveva fatto oggetto di trattazione nella Metafisica; da ciò si può cogliere anche un certo intento “sostitutivo” dell’autoritas che Gassendi vuol mettere in atto. Punti cruciali del Syntagma diventano però proprio i concetti di spazio e di tempo, i quali, sganciati da un sistema di relazioni di carattere metafisico, sia in quanto non oggetto diretto di esperienza sensibile e sia in quanto esterni ai “corpi” reali, diventano difficilmente definibili in termini sensistico-empiristici. Ma il Nostro sostiene: «Anche se non esistono dei corpi, resterebbero pur sempre lo spazio che sussiste e il tempo che scorre. Risulta pertanto che lo spazio e il tempo non dipendono dai corpi e non sono di conseguenza accidenti dei corpi.» 43 Gassendi si vede così costretto ad introdurre un tipo di concetti in qualche maniera aprioristici, ma l’aspetto importante è che egli coglie la stretta correlazione di immensità, stabilità, immobilità ed incorporeità. Per quanto essi siano in parte misurabili, sono del tutto impercepibili in quanto tali, poiché non sensisticamente ma solo psicologicamente noi abbiano l’impressione di ciò che possono essere l’estensione e la durata. Così anche il vuoto e gli intermondi epicurei non debbono essere considerati incompatibili con le postulazione dell’infinità di uno spazio immaginario-immaginabile. E da ciò un’asserzione piuttosto audace, dove si ipotizza che lo spazio e il tempo non siano nati, come sosteneva Sant’Agostino, al momento della Creazione del mondo, ma che gli preesistevano e gli sopravvivranno, infatti: « […] come esistevano prima che Dio creasse il mondo, così sussisterebbero se Dio lo distruggesse.» 44

Nel capitolo Sul principio materiale, ovvero la materia prima delle cose Gassendi procede ad una definizione della materia sulla base delle leggi galileiane. Una materia i cui ultimi termini sono ancora gli atomi di Epicuro, ma non più esistenti dall’eternità, bensì creati da Dio. Essi sono sì gli elementi fondanti la realtà materiale, ma sono stati creati non in numero infinito, ma finito (per quanto in numero enorme) secondo la volontà divina. Come si comprende bene il fine di Gassendi è di mantenere la struttura dell’universo materiale atomistico, ma deprivandolo di ogni elemento di originarietà, eternità ed infinità degli atomi, in quanto l’”origine” del tutto è solo Dio. Con Galileo egli tiene anche un’amichevole corrispondenza e gli si rivolge nei seguenti termini:

Non potendo l’umana perspicacia procedere oltre, tale è in te il candore dell’animo che sempre riconosci la debolezza della nostra natura. Per quanto le tue congetture siano assai verosimili, tuttavia per te non sono più che congetture; e tu, come sogliono invece i filosofi comuni, non inganni, né lo permetti. 45

Il Nostro ha fatto propria la meccanica galileiana, ma rimane convinto della validità dell’ontologia dinamica atomistica, poiché in natura tutto è movimento e mutevolezza e la materia non è per nulla un “inerte” rispetto allo spirito, ma è “per se stessa”, fondamentalmente e dinamicamente, attiva ed operante (la definisce actuosa). Riprendendo l’innovazione concettuale epicurea rispetto all’atomismo di Leucippo e di Democrito (per il primo il moto è “proprio” dell’atomo, per il secondo è causato dai vortici) gli atomi trovano nel peso o gravità non più solo un mero fattore densimetrico che li fa posizionare nel vuoto, bensì la vera causa di un dinamismo nel quale egli intende includere tutti i vecchi concetti, compreso quello di impetus, sì da scrivere:

La gravità o peso non è altro che una facoltà o forza naturale ed intrinseca, per cui l’atomo può muoversi da se stesso; o, se si preferisce, una propensione al movimento ingenita, innata, connaturata e ineliminabile, una spinta che è dall’interno, e un impeto. 46

Questa realtà dinamica a base atomica si realizza sul piano della percezione umana con le “cose” visibili e tangibili, le composte res concretae che gli atomi formano per aggregazione. In esse lo stato di quiete si connota come una sorta di esito inerziale dell’aggregazione stessa. Per cui sussiste un livello elementare (atomico) dell’essere materiale caratterizzato da «conato perpetuo ed agitazione continua», ed uno secondario dove il movimento è provocato da un unico genere di causalità, quella “efficiente”, che determina il moto locale di trasferimento del corpo da un punto ad un altro dello spazio. Ma è il livello elementare a determinare ogni mutamento fisico, chimico e biologico sino al livello sensoriale ed emotivo, con la sola esclusione dell’anima e delle sue facoltà (ragione e senso di Dio) che non è originata dagli atomi ma dallo spirito divino. Si comprende bene la sostanziale incoerenza di questo sistema gassendiano, che nel voler aggiornare l’atomismo per conciliarlo con la fede ne distrugge ogni coerenza. Ma è significativo il fatto che il nostro teologo, che già intorno alla metà degli anni ’30 ha avviato tale rielaborazione, interrompa per quattro anni il lavoro (dal ’37 al ’41) per riordinare le sue idee al fine di meglio “teologizzare” il proprio sistema, ritenuto troppo fedele ad Epicuro e perciò troppo materialistico.

Gassendi riesce, dopo l’interruzione, a trovare la formula definitiva soddisfacente, introducendo quegli elementi finalistici che permettono all’atomismo di assumere una struttura compatibile non solo con la fede cristiana ma con ogni altra teologia. Potrà così scrivere, soddisfatto, di aver colpito le forme volgari di religiosità, ma di averne conservato l’essenza:

È vero che la fisica e lo studio delle cause naturali liberano la mente dai terrori provocati dalla superstizione, ma ciò non impedisce che dobbiamo religiosamente riconoscere l’esistenza di una causa prima e suprema, da cui dipenda la serie delle cause che investighiamo in fisica. Chi non ne ammette l’esistenza, non discaccia un padrone superbo, ma avversa un ottimo padre. 47

È evidente qui l’abbinamento dell’elemento ontologico con quello etico, ma con ciò gli atomi divengono mere “cause seconde”, che creano la realtà per conto di Dio. Tenendo conto dei termini del testo biblico in forza del quale il Nostro ha aggiornato l’atomismo, resta comunque la domanda senza risposta: perché nel libro della Genesi non vengano citati gli atomi come cause intermedie nella produzione divina degli enti mondani?

L’elemento etico ritorna nelle successive parti del Syntagma dove più pressante diventa l’elemento religioso, ma dove l’elemento “intellettuale” (proprio dell’anima) deve in qualche modo esser calato nel corpo e connesso all’apparato nervoso per dar conto dei vari toni e moventi della psiche umana. Per risolvere il problema Gassendi di vede costretto a porre due piani differenti sui quali la mente umana si trova ad operare. Uno “superiore”, quello che si pone in rapporto diretto con Dio e che opera su terreno della razionalità, ed uno “inferiore” dove vengono rimessi in gioco gli “spiriti animali” della tradizione metafisica, gli occulti agenti delle complesse funzione organiche. In questo modo egli si vede costretto a porre accanto all’anima sensibile e corporea (fonte della vita ed uguale per tutti gli animali) anche un’anima razionale incorporea 48 aprendo problemi di incoerenza non da poco. Ciò segna anche il distacco netto da un epicureismo diventato un fantasma ed il ritorno nell’alveo di una tradizione metafisica che gli fa rimettere in gioco le distinzioni platoniche e nel contempo lo porta vicino al poco più anziano Hobbes. Nel descrivere « la continua agitazione degli spiriti, che percorrono tanto il corpo intero quanto il cervello » il cervello appare ora come una struttura nettamente corporea (e quindi distinta da un’anima che torna “spirituale”) quale sede di un vasto campo di esperienze umane che si collocano al limite superiore delle corporee ed a quello inferiore delle intellettuali-spirituali. Questa struttura opera in modo associazionistico e può essere visto come «una carta capace di ripresentare innumerevoli pliche ben distinte, in base al loro ordine e successione » 49 Il fine di ogni operazione mentale è però sempre quello di conciliare il nostro pensiero con la realtà, e solo attraverso l’esperienza il pensiero ottiene una “ratifica” sulla base di un’”evidenza” sperimentale che autorizza l’assunzione della “certezza”, poiché: «Per la scienza si richiedono soltanto due condizioni, l’evidenza e la certezza.» 50

Accanto al cervello e all’anima quali strutture di elaborazione della sensazione, dell’emozione e del pensiero ai vari livelli Gassendi rimette anche in gioco il cuore, quale sede dei fenomeni più strettamente connessi alla sensibilità umana e alle facoltà immaginative. Più precisamente gli spiriti animali trovano tra cervello e cuore un percorso diretto e la loro azione genera in questo le varie forme del desiderio. In tale machina primaria pulsante, che si manifesta nella produzione di sistole e diastole come effetti attrattivi e repulsivi, Gassendi vede determinarsi «una certa espansione per l’immaginazione del bene, o una contrazione per l’immaginazione del male.» 51 A questo punto il Nostro rimette in gioco l’etica epicurea ponendo su base psico-fisiologica il rapporto piacere/bene e quello dolore/male, col quale l’aponìa diventa conseguibile attraverso il controllo dei diversi tipi di desiderio che si formano nel cuore, ma essendo in relazione con l’anima, quale caput divinum nell’uomo. A questo punto l’edoné epicurea si eleva di livello ed il piacere assume connotazioni morali conciliabili con la fede cristiana coincidendo con l’elevazione dell’anima, mentre, al contrario la molestia (il dispiacere) diventa un “avvilimento” di essa. Ma rientra anche dalla finestra il Summun Bonum aristotelico, l’aspirazione al quale si veste delle specie delle gassendiane philedonia (tendenza al piacere) e philautia (realizzazione di sé).

Sia pure in riferimento all’anima, l’etica gassendiana resta comunque un eudemonismo, dove il comportamento virtuoso non è fine ma mezzo, e dove la saggezza si esprime in un saper valutare piaceri e rinunce in funzione di una felicità che intende conciliare le esigenze del corpo e quelle dell’anima. L’assenza di dolore, l’aponìa, e l’assenza di turbamento, l’atarassia, poste dall’epicureismo, si collocano così al vertice di un gerarchizzazione degli stati d’animo nell’uomo che tuttavia presuppongono la salute del corpo come elemento sine qua non, e non quella dell’anima secondo gli usuali parametri teologici. E tuttavia Gassendi va anche oltre l’edonismo eminentemente statico di Epicuro sostenendo che il piacere vero si colloca in una via di mezzo tra il piacere statico e quello violento, assumendo la caratteristica di un «placido movimento da un bene già acquisito verso un altro da ottenere » che si configura «come l’acqua di un fiume che scorre placido e senza rumore.» 52 Restiamo qui sostanzialmente nella sfera dell’etica edonistica epicurea, pur rivedendole i termini in senso più dinamico, ma mentre il greco sconsigliava la vita pubblica ed associativa, limitandosi a considerare il rapporto amicale come l’unico modo positivo di realizzare la socialità, il francese rivaluta i rapporti umani in senso lato.

La socialità per Gassendi è elemento ineliminabile dell’umanità ed in ciò egli aderisce all’opinione di Hobbes, che conosceva bene ed apprezzava, nel ritenere che «dal fatto di esistere l’uomo trae la facoltà di difendersi e di conservarsi, e pertanto di avvalersi di tutti i mezzi che sono necessari, idonei e utili a tale scopo.» 53 Ma una differenza non di poco conto sta nel fatto che mentre Hobbes guardava solo alla totalità statuale e ignorava totalmente la sfera del privato, Gassendi guarda alla sfera pubblica ma sempre tenendo presenti le esigenze dell’individualità. In altre parole, mentre a Hobbes preme l’utilità “pubblica”, a Gassendi, in ciò fedele ad Epicuro, interessa soprattutto l’utilità “privata”. I diritti dell’individuo, in termini di autoconservazione e di benessere, devono sussistere anche qualora il cittadino rinunci a una parte del “mio” a favore del “nostro”, ma qualsiasi forma collettiva dettata dal «comune consenso» resta subordinata all’utilità individuale di chi concede il consenso stesso. Gassendi opera così sul terreno giuridico-politico una curiosa fusione di Epicuro, Grozio e Hobbes, dove la mutualità e la collaborazione non sono meno determinanti dell’aggressività convertita al bene comune. E tuttavia il Nostro si stacca nuovamente da Epicuro (che non crede nello stato) quando sostiene:

Essendo il fine della società l’utilità sopra descritta, anche il vantaggio individuale è compreso in quello comune, a tal punto che il singolo non può ottenerlo in modo reale e sicuro se prima non sia stato assicurato quello collettivo, ciò che non può aversi se non in quanto ognuno, pago del suo diritto, rinunci a perseguire la propria utilità a danno del diritto altrui. 54

NOTE

1 Numerose nostre citazioni di frammenti gassendiani sono tratte da quest’opera, che utilizzeremo anche come traccia tematica, mentre altre sono desunte dall’ottimo saggio di Tullio Gregory Scetticismo e empirismo, Studio su Gassendi (Laterza 1961).
2 P. Gassendi, Syntagma, in Opera omnia, Libro I, Lione 1658, p.62
3 P. Gassendi, Exercitationes, in Opera omnia, Libro III, p.103.
4 Ivi, p.111 a.
5 Ivi, p.111 b.
6 Ivi, p.115 a.
7 Va tenuto presente che, per quanto si riferisse ad Epicuro, in realtà Gassendi aveva studiato più che altro Lucrezio, soprattutto per la maggior disponibilità del De rerum natura. Quest’opera aveva avuto tre edizioni in latino tra il 1600 e il 1700 e tre in francese tra il 1650 e fine secolo. L’opera lucreziana offriva così a Gassendi maggiori spunti polemici nei confronti del suo ateismo, più chiaro e radicale di quello di Epicuro. Ma il maggior motivo di dissenso con Lucrezio era costituito dal suo indeterminismo e dal suo pessimismo. Gassendi era convinto dell’ordine e dell’armonia dell’universo; e ciò, insieme alla predisposizione umana a concepirlo, una delle migliori prove dell’esistenza di Dio.
8 P. Gassendi, Exercitationes, in Opera omnia, Libro III, p.152
9 Ibidem.
10 Ivi, p.106 a.
11 La stessa operazione farà Robert Boyle trent’anni circa dopo, prima con The sceptical chemist (1661) e cinque anni dopo con On the origin of forms and qualities according to the corpuscolar philosophy. Data la sua convinzione della validità della tesi atomistica, ma consapevole della sua inconciliabilità con la dottrina cristiana, anche Boyle tenta una forzosa quanto improbabile conciliazione, tale da togliere di mezzo ogni elemento potenzialmente ateo.
12 P. Gassendi, Exercitationes, cit., p.108 b.
13 Ivi, p.123 a-b.
14 Ivi, Syntagma, pp.230 b – 231 a.
15 Ivi, p.280 b.
16 Si veda sull’argomento l’interessante saggio di A.Alberti, Sensazione e realtà, Epicuro e Gassendi, Firenze, Olschki 1988, Capitolo II, pp.61-89.
17 Ivi, p.152 a-b.
18 Ivi, p.169 b.
19 Ivi, p.206 a.
20 Ivi, p.182 a.
21 Ivi, pp. 183 b – 184 a.
22 Ivi, p.190 a.
23 Ivi, p.207 a.
24 Ivi, p.207 b.
25 Ivi, p.273 b.
26 Ivi, p.284 b.
27 Ivi, p.295 b.
28 Ivi, p.300 b.
29 Ivi, p.311 a.
30 Ivi, p.314 a-b.
31 Ivi, p.308 a.
32 Ivi, p.323 b.
33 Ivi, p.400 b.
34 Ivi, p.405 b.
35 Ivi, p.316 a.
36 Ivi, p.323 b.
37 Ivi, pp.335 b – 336 a.
38 Ivi, pp.358-359..
39 P. Gassendi, Opera omnia, cit., Libro I, p.343.
40 P. Gassendi, Lettres de Peiresc, vol.IV, pp.249-250. Cit in: T. Gregory, Scetticismo ed empirismo, Studio su Gassendi, Bari, Laterza 1961, p.135n.
41 P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, cit, I, p.116 b.
42 p. 130 b.
43 Ivi, p.182 a.
44 Ivi, p.182 b.
45 P. Gassendi, Opera omnia, cit., Libro VI, p.53.
46 P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, cit, Libro I, p.273 b.
47 Ivi, p.326 a.
48 Ivi, p.440 b.
49 Ivi, II, p.406 b.
50 Ivi, p.461 b.
51 Ivi, p.473 a.
52 Ivi, p.695 a.
53 Ivi, pp. 794 b-795 b.
54 Ivi, p.803 a-b.

Testi di Carlo Tamagnone

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015