TEORICI
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L'UMANO IN EDMUND HUSSERL (1859-1938) I - II Il filosofo moravo Edmund Husserl (1859-1938) visse in un periodo che per l'Europa può essere definito sia tragico che euforico. Tragico perché egli ebbe a che fare con la prima guerra mondiale e con la nascita del nazismo, che ovviamente, visto ch'era un ebreo, se la prese anche con lui, sospendendolo due volte dall'insegnamento accademico. Euforico perché gli inizi del Novecento vedono il trionfo della scienza e della tecnica e quindi della filosofia positivistica. Per lui però entrambi gli aspetti andavano visti in maniera tragica: infatti considerava la visione scientista (matematico-naturalistica) della realtà la principale responsabile del mito illusorio della prosperità indefinita, della riduzione dell'uomo ad oggetto, della povertà culturale, dell'assoggettamento al potere... Il compito ch'egli si pone è quello di riaffermare, in netta controtendenza, un primato della filosofia, intesa non come metafisica, bensì come scienza rigorosa, capace di trovare la vera essenza delle cose, ridando quindi significato all'esistenza umana. È così che nasce la fenomenologia, la scienza dei fenomeni: un termine usato per la prima volta nel 1764 dallo scienziato alsaziano J. H. Lambert, per criticare le apparenze sensibili, illusorie, cioè le fonti di errore. Husserl tuttavia non guarda i fenomeni come uno scienziato o come Marx, in chiave economica, ma lo fa in chiave filosofica e certamente non alla maniera hegeliana: di qui il suo costante riferirsi a Cartesio, Leibniz, Kant... A dir il vero egli prende le mosse da un autore poco trattato nei manuali di filosofia: Franz Brentano, suo maestro all'università di Vienna, un prete cattolico ch'era uscito dalla chiesa dopo aver rifiutato il dogma dell'infallibilità pontificia. Da lui mutua il concetto di "coscienza intenzionale", cioè tesa sempre verso qualcosa, in cui però non è implicita l'esistenza dell'oggetto cui si tende. Una relazione "intenzionale" è del tutto diversa da quella che si ha, p. es., in fisica, dove l'esistenza degli oggetti è essenziale al costituirsi della relazione. Husserl però temeva di finire in uno psicologismo fine a se stesso, per cui, ad un certo punto, preferì aderire alla teoria logica di Bernhard Bolzano, il quale sosteneva che la dimensione logico-soggettiva dell'esperienza umana è dotata di una propria validità, a prescindere dalla conoscenza soggettiva che se ne può avere: lo dimostravano le verità matematiche. Senonché anche di questa posizione Husserl comincia presto a vedere forti limiti. Infatti, secondo lui siamo così condizionati dagli schemi interpretativi dominanti che questi assumono la veste addirittura di "pregiudizi", per cui anche ciò che ci appare logico, in realtà è solo frutto di abitudini, di una disarmante ovvietà. Per arrivare all'essenza dei fenomeni egli ritiene si debba assumere un atteggiamento cautelativo, o meglio, sospensivo, che chiama epoché. Siccome però l'epoché ha radici greche e, in epoca moderna, cartesiane, egli deve cercare di spiegare dove sta la sua diversità. Dal greco Arcesilao di Pitane era facile distinguersi, poiché quello intendeva il termine in chiave scettica, per negare la verità, o meglio, per affermare l'impossibilità di una qualunque conoscenza al di fuori del dubbio. Dal dubbio metodico cartesiano si distingue invece dicendo che quando si afferma di pensare ("cogito"), ci si dovrebbe astenere dall'aggiungere qualsivoglia esistenza ("ergo sum"). Nel senso cioè che Cartesio ha fatto male a pretendere di desumere che quanto è conosciuto esista effettivamente nel mondo esterno. P.es. se si vede una mela, si vede non una mela in sé (poiché ciò potrebbe anche essere un'allucinazione o una qualche forma d'inganno), ma si vede solo il contenuto percepito del proprio vissuto (cioè pensiamo che sia una mela, in virtù di esperienze pregresse, ma non possiamo esserne sicuri). In questa maniera Husserl era convinto di poter porre un argine ai preconcetti e agli atteggiamenti naturalistici del senso comune. Lo spettatore deve guardare la realtà in maniera disinteressata, anche nei confronti della propria esperienza, tenendosi aperto a qualunque ipotesi interpretativa. Per descrivere le cose come sono occorre ridurle alla loro essenza, come faceva lo scultore rumeno Constantin Brâncuși, che non riteneva indispensabile, per la comprensione delle sue opere, delineare pienamente l'intera forma visibile. Anche le 11 litografie che Picasso dedicò al tema del toro (1945-46) si prestano a illustrare il procedimento della riduzione fenomenologica teorizzato da Husserl (oggi parleremmo di "stilizzazione", come quando p.es. la usiamo negli smiley). L'unica cosa che non può esser messa tra parentesi è la propria coscienza, che è una condizione trascendentale della realtà e non semplicemente l'io della psiche, oggetto di esperienza. La coscienza è intenzionalità, apertura alle cose, tensione verso qualcosa di diverso, che rimane ad essa irriducibile, è un processo in cui passato e futuro vivono nel presente e che ricevono appunto dalla coscienza il loro senso. Un senso - si badi bene - che può essere soltanto "intuito", in quanto qui non si ha a che fare con l'autocoscienza assoluta di Hegel, magistralmente delineata nella Fenomenologia dello spirito. La filosofia di Husserl è una scienza perché riguarda non tanto i fatti, bensì le essenze, che pur devono essere colte nei fatti (ridotti all'osso). Quanto al rapporto con gli altri, Husserl parla di empatia. Possiamo comunicare solo se ci mettiamo nei panni degli altri. La soggettività è, in fondo, una intersoggettività. Nella società il noi precede l'io. Una tesi questa ripresa da una sua allieva, Edith Stein, anch'essa ebrea (poi convertita al cattolicesimo) e morta ad Auschwitz. L'ultimo Husserl non manca però di sottolineare che il "noi" che si è venuto a imporre in Europa, essendo figlio di un galileismo mitizzato, cioè avendo fatto della scienza e della tecnica un culto "religioso", rischia di produrre fenomeni del tutto irrazionali, in cui la coscienza stessa scompare. Fonti
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