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La Mettrie: contro il rimorso, il terribile e inutile “boia privato”

I - II

Giuseppe Bailone

Cartesio ha indicato nell’anima l’elemento che distingue radicalmente l’uomo dagli animali: i corpi degli uomini e degli animali sono macchine, ma l’uomo ha anche l’anima, sostanza spirituale, pensante e libera. Il materialismo deterministico di La Mettrie non nega l’esistenza dell’anima, ma la considera materiale come il corpo, meccanica come tutto il resto del mondo fisico; mette l’uomo sullo stesso piano degli altri animali e della piante e gli nega il libero arbitrio. L’uomo è una macchina, dotata di sensibilità e di movimento, come tutti gli altri esseri viventi. Ha solo una maggiore complessità meccanica.

Julien Offroy de La Mettrie nasce nel 1709 a Saint Malo, in Bretagna, in una famiglia di ricchi mercanti. Studia medicina e filosofia. Dopo la laurea a Reims, va alla scuola del celebre medico olandese Hermann Boerhaave (1668-1738), che, sulla base della nuova scienza galileiana e cartesiana e della scoperta della circolazione sanguigna, interpreta le funzioni organiche in senso meccanicistico, mediante analogie con l’idraulica. Diventa chirurgo militare. Osservando su se stesso le conseguenze psichiche di una malattia organica, registra una stretta relazione tra anima e corpo. Ne scrive, nel 1745, in Storia naturale dell’anima, rendendosi la vita molto difficile in Francia. Fugge, quindi, in Olanda, dove nel 1747 pubblica la sua opera fondamentale, L’uomo macchina, che suscita una reazione molto negativa delle autorità olandesi. Si rifugia, allora, in Prussia, accolto alla corte di Federico II. Nel 1748 pubblica L’Anti Seneca o Il sommo bene (intitolato anche Discorso sulla felicità), il libro che gli sta più a cuore. Nel 1751, lo riprende in mano e lo ripubblica. Muore nello stesso anno.

L’uomo, scrive in quest’opera, è “una macchina pensante che non è montata da lui: una macchina analoga a quella degli animali, dalla quale essa si distingue solo per qualche grado d’intelligenza in più”.1

La filosofia deve studiare questa “macchina meravigliosa” e indicare la strada che, senza compromettere il buon ordine sociale, porta alla felicità.

Su questa strada c’è un grande ostacolo: è il rimorso, il senso di colpa. Va eliminato, senza timori per l’ordine pubblico. Infatti, come la filosofia può spiegare, smentendo un pregiudizio universale e profondamente radicato, esso non è naturale. È un prodotto culturale, un pregiudizio, che avvelena l’anima e non funziona affatto come freno del male. La battaglia illuministica contro i pregiudizi, pertanto, non può non prenderlo di mira.

“Ho cercato – scrive La Mettrie – di diminuire la somma dei mali, come gli stoici, bandendo i rimorsi ed i puerili e falsi timori di un avvenire chimerico, che ci impediscono di godere in pace le dolcezze di questa vita, e di conseguenza sono dei veri mali, che dico! Dei veri tormenti!

Ho voluto come Epicuro, o come i suoi seguaci, aumentare la somma dei beni, seminando dappertutto il gusto delizioso dei piaceri, degli amori, e in una parola di tutte le voluttà. Ma, proscrivere i rimorsi, perfino dal cuore dei criminali, non significa invitare al crimine e favorire ogni sorta di licenza? […] Una cosa è scuotere il giogo dei rimorsi in filosofia, la quale non risparmia nessun pregiudizio, per quanto sacro e rispettato esso sia: altra cosa è scuotere il giogo da libertino o da scellerato: la sfumatura è rilevante; ma i nostri buoni cristiani non la vedono o non la vogliono vedere”.

La Mettrie sa che la sua dottrina materialistica sull’uomo non è molto originale e scrive: “Esaminate attentamente tutte le opere dei filosofi che hanno scritto su quest’argomento, dai tempi più antichi fino ad oggi, e dovrete convenire che tutte le loro ipotesi sono riconducibili a una sola, da cui la nostra, benché in forma del tutto nuova, in fondo non differisce per nulla”.2 Sul tema del rimorso, in particolare, sa di muoversi sulla scia di Montaigne, quando scrive: “Tutte le mie azioni sono conformi a ciò che io sono, e alla mia condizione; non posso fare di meglio. Se dovessi vivere di nuovo, vivrei come ho vissuto, e non rimpiango il passato, né temo l’avvenire”.3 Rivendica, però, con orgoglio il merito di aver posto per primo il rimorso, e i tormenti che esso comporta, al centro dell’attenzione della sua filosofia morale, “dato che nessun filosofo ha prodotto nulla sull’argomento”.4

È un merito che gli costa caro. Non solo, infatti, gli procura l’ostilità totale dei difensori della religione e della tradizione; lo emargina anche nel movimento illuminista. Voltaire, Diderot, d’Holbach e gli altri filosofi dei lumi, infatti, impegnati a sostituire la morale tradizionale con una nuova morale, razionale, vedono nella critica del rimorso un grave pericolo per la loro impresa.

La Mettrie costruisce le sue originali pagine sul rimorso nel corso di una traduzione e commento di un’opera di Seneca, in cui critica la rigida concezione stoica della virtù, per il suo disprezzo del corpo.5

L’idea di tradurre il De vita beata di Seneca gliel’aveva suggerita Maupertuis, presidente dell’Accademia delle Scienze di Berlino, su indicazione di Federico II, il quale, temendo che La Mettrie producesse altre opere scandalose come l’Uomo macchina, pensava di contenere in quel modo la sua elaborazione filosofica personale e di proteggerlo anche da se stesso, impegnandolo in attività di traduzione e d’interpretazione dei classici. L’originalità, però, è difficile da contenere, e dal commento di un classico latino nasce la più scandalosa e la più personale delle opere di La Mettrie.

Apriamo, allora, queste pagine!

“I nostri organi sono suscettibili di una sensazione o di una modificazione che ci piace e ci fa amare la vita. Se l’impressione di questa sensazione è breve, è il piacere; più lunga, è la voluttà; permanente, si ha la felicità. Si tratta sempre della stessa sensazione, che differisce solo per la sua durata e la sua vivacità; io aggiungo questa parola, perché non vi è un sommo bene così squisito quanto il grande piacere dell’amore, che forse ne è l’elemento costitutivo. Più questa sensazione è durevole, deliziosa, carezzevole, ininterrotta, non turbata da nulla, più si è felici. Più è breve e viva, più si accosta alla natura del piacere. Più è lunga e tranquilla, più se ne distanzia, e si avvicina alla felicità.

Più l’anima è inquieta, agitata, tormentata, più la felicità la fugge. […]

Avere tutto secondo i propri desideri: felice organizzazione, bellezza, scienza, intelligenza, grazia, talenti, onori, ricchezze, salute, piaceri, gloria; questa è la felicità reale e perfetta”. 6

Col termine “organizzazione” La Mettrie intende l’insieme di quel che ogni individuo è per natura fin dalla nascita, cioè, la sua struttura corporea, il suo tipo di circolazione sanguigna, la conformazione del suo cervello, il suo carattere. Da questa “organizzazione” individuale dipende la sensibilità, la reazione agli stimoli interni ed esterni, per cui ognuno nasce predisposto in misura diversa alla felicità o all’infelicità.

La Mettrie filosofo si avvale dei suoi studi e della sua esperienza di medico. Affronta il tema della felicità con lo stesso materialismo meccanicistico che guida la sua pratica medica. Evita discorsi astratti e generici sulla natura umana. Pensa agli individui concreti e alla loro singolare “organizzazione”: ci sono, infatti, individui fortunati, che difficilmente vengono turbati dagli eventi esterni e che sono portati naturalmente a selezionare, più degli altri, le sensazioni piacevoli rispetto a quelle dolorose, e a goderne; mentre altri, in condizioni analoghe, cedono alle sensazioni dolorose e si tormentano.

“A parità di condizioni, alcuni sono più soggetti di altri alla gioia, alla vanità, alla collera, alla malinconia, e perfino ai rimorsi. Cosa sta all’origine di questo fatto, se non quella particolare disposizione degli organi che produce la mania, l’imbecillità, la vivacità, la lentezza, la tranquillità, la penetrazione ecc.? Ora, è tra tutti questi effetti della struttura del corpo umano, che io oso collocare la felicità organica. Questa è stata data a quei fortunati mortali che per essere felici hanno bisogno solo di sentire; a quei felici caratteri, a quei beati di cui si parla ogni giorno; la costituzione dei quali è tale che il dolore, la sfortuna, la malattia, i dolori di scarsa intensità, la perdita di ciò che si ha di più caro, in una parola tutto ciò che affligge gli altri, scivola sulla loro anima, che se ne lascia appena sfiorare”.7 La felicità “organica”, primaria, è come la naturale robustezza e salute che certi viventi hanno più di altri.

Si nasce destinati alla felicità o all’infelicità?

Non mancano passi in cui La Mettrie sembra rispondere di sì, come quello in cui, affrontando la questione della libertà, scrive: “Ho deciso di risolverla col fatalismo, sistema che mi è parso più probabile del suo concorrente; perché, a forza di osservare e di studiare l’uomo in tutti i suoi diversi stati, ho capito, o perlomeno mi è parso di capire, che nel mondo, come nell’ipotesi fatalistica, ciascuno recita la parte che gli fanno recitare gli ingranaggi di una macchina pensante che non è montata da lui”.8

La Mettrie vede, però, nella ragione che “si affida alla natura”, invece che ai pregiudizi, la possibilità di sottrarsi in parte al destino.

“Allora – scrive – l’esperienza e l’osservazione portano la fiaccola; se questa illumina, se ci fa vedere più lontano di quanto possano vedere i nostri occhi, si potrà procedere con passo deciso su questo percorso incerto, in questo tortuoso labirinto. Dedalo umano, che ha mille vie, e mille porte d’ingresso, e appena una di uscita; si potrà non perdersi sempre, e innalzare una parte della propria felicità sulle rovine del pregiudizio”.9

Guidate dalla ragione, l’educazione e l’azione coercitiva delle leggi ci possono essere d’aiuto nella ricerca della felicità: possono, infatti, creando nuove abitudini, agire sul meccanismo complesso delle persone. Tuttavia, sono azioni che non incidono in profondità e che agiscono per un tempo limitato: presto la natura riprende il sopravvento e annulla gli effetti dell’arte educativa. La virtù costruita con l’educazione e con le buone leggi è un artificio sempre esposto al rischio di rigetto.

“È tanto falso che l’idea della virtù ci è stata data con l’esistenza, che essa non raggiunge la stabilità neppure quando l’educazione e il tempo hanno sviluppato e ornato i nostri organi. È come un uccello sul ramo, sempre pronto a volar via. L’abitudine precedente si riforma con facilità: l’organizzazione riprende meccanicamente quel che l’educazione pareva averle sottratto, come se la perfezione e l’arte le dessero fastidio. Chi ignora il contagio delle cattive letture, il pericolo delle cattive compagnie? Un esempio cattivo, una sola conversazione torbida, distrugge sovente, per così dire, le attenzioni più belle dell’educazione, e la natura viziosa è ben felice di tornare ad esserlo. Si direbbe che essa si trovi più a suo agio, che zoppichi con piacere; come se fosse per lei una violenza o un dolore camminare diritto, sempre che vi sia un diritto”.

La Mettrie parla di “fragile incostanza della virtù, anche se si tratta di una virtù acquisita nel migliore dei modi, e radicata nel modo più saldo”; d’inclinazione al male “forte al punto che risulta più facile ai buoni diventare cattivi, di quanto non sia a questi ultimi migliorarsi”.10

Sul tema dell’educazione La Mettrie oscilla: passa dal pessimismo a un’apertura di credito limitata e incerta al suo potere, e non riesce, forse non vuole prendere una posizione definitiva.

“Se non mi stanco – scrive – di ritornare all’educazione è perché essa sola può darci dei sentimenti contrari a quelli che avremmo avuto senza di lei. Questo è l’effetto della modificazione, o del cambiamento che essa procura al nostro istinto. L’anima educata non vuole, non persegue, non fa più quello che faceva prima, quando era guidata solo dall’istinto. Illuminata da mille nuove sensazioni, trova cattivo quel che prima trovava buono; loda negli altri quel che prima disprezzava in essi. Vere e proprie banderuole, noi giriamo dunque incessantemente al vento dell’educazione; e torniamo in seguito al punto di partenza, quando i nostri organi, ripreso il loro tono naturale, ci richiamano a sé, e ci fanno seguire le loro disposizioni primitive. Allora le antiche determinazioni rinascono; quelle che l’arte aveva prodotto si cancellano: infine, non si è neppure padroni di approfittare della migliore educazione quanto si vorrebbe, per il bene della società. Si degenera malgrado la propria volontà”.11

Si potrebbe forse dire che, mossi dal vento dell’educazione, giriamo come banderuole intorno a un asse determinato dalla nostra organizzazione.

“Questo materialismo merita dei riguardi: deve essere la sorgente delle indulgenze, delle scuse, dei perdoni, delle grazie, degli elogi, della moderazione nei supplizi, che si devono ordinare con rimpianto; delle ricompense dovute alla virtù, che non si accordano mai abbastanza di cuore; dal momento che la virtù è una specie di costruzione posticcia, un ornamento estraneo, sempre pronto a fuggire, o a cadere, in mancanza di un sostegno. Si può dire dei principi quel che ho detto altrove dei medici; che i migliori sono quelli che possiedono al meglio la conoscenza assoluta del meccanismo al quale perfino la nostra volontà è assoggettata. Senza dubbio se il colpevole di fronte alla società non è libero nelle sue azioni, ne segue chiaramente che non è stato libero di non essere colpevole; che lo è, come se non lo fosse; che lo è in un senso, e non lo è in un altro; nel senso delle relazioni arbitrarie, saggiamente stabilite; ma non in sé, non in senso assoluto, o filosoficamente parlando; diciamolo francamente, è chiaro che non lo è per nulla, e merita solo compassione. Anche quando punisce, un principe filosofo è addolorato di dover giungere a questo triste atto estremo; egli sa che le punizioni legali sono ingiuste in senso assoluto, come sono necessarie in senso relativo; e che di conseguenza, le ragioni politiche, che servono da fondamento alla legge del taglione, non provano che colui che viene impiccato, sia impiccato con giustizia o equità; infatti, quale equità, buon dio, vi è nel togliere la vita a un infelice, schiavo del sangue che galoppa nelle sue vene, come la lancetta di un orologio lo è dei movimenti che la fanno girare? E come ha pensato nel modo giusto quel famoso distruttore della libertà umana, quando ha osato dire che vi è più ragione che giustizia nel far morire i criminali!12

Dunque, benché il crimine non sia nulla in sé (dato che ogni atto, ogni moto dell’uomo è indifferente da un punto di vista assoluto), l’interesse pubblico merita tuttavia di essere consultato e preferito in tutto, perché bisogna pur incatenare i pazzi, uccidere i cani arrabbiati, e schiacciare i serpenti”.13

La conservazione della società esige la repressione dei comportamenti che la compromettono. La repressione, però, deve essere ragionevole e affrontare il delitto come offesa alla società, e non come trasgressione d’inesistenti leggi universali e divine; deve ispirarsi al criterio della sola utilità sociale, che non trae alcun sostegno dai tormenti dei sensi di colpa.

Il rimorso provoca nel colpevole un’inutile sofferenza, non compatibile con l’umana compassione che il pensiero materialistico di La Mettrie raccomanda:

“A chi sono mai serviti da bussola i rimorsi? […] Sono dunque inutili prima del crimine: ma mentre lo si commette, trascinati dalla propria passione, non si pensa assolutamente al sentimento che ci lascerà. Infine il crimine è già stato commesso, quando essi si levano, quasi volessero vendicare la società; e solo coloro che non ne hanno bisogno possono approfittarne; il tormento di quegli altri, la cui cattiveria è innata e organica, impedisce raramente (o mai) una ricaduta. Dunque i rimorsi sono in sé, filosoficamente parlando, inutili dopo, quanto durante e prima del crimine”.

La repressione del male, a difesa della società, non deve mancare di pietà.

“La mia filosofia non è affatto costruita sulle rovine della società”, scrive La Mettrie, ma invita a distinguere nel malfattore l’uomo dall’autore: “Io non rendo i malvagi più arditi; li compiango per umanità, e li tranquillizzo seguendo la ragione. […] Se li allevio da un fardello pesante, non per questo non riconosco che essi sono un peso ben più oneroso per la società, davanti alla quale io non li giustifico affatto, come faccio davanti a loro stessi. La società ha i suoi costumi e le sue leggi; ha le sue armi, quando qualcuno li infrange; io non sono qui né per vendicarla né per sostenerla”.14

I rimorsi, inoltre, in molte loro manifestazioni, riguardano presunte colpe morali irrilevanti dal punto di vista della conservazione della società.

”Ma se essi nuocciono ai buoni e alla virtù, e ne corrompono i frutti, senza poter servire da freno alla cattiveria, non ne consegue che in generale essi sono quantomeno inutili al genere umano, e quasi il più funesto dono dell’educazione? Mi pare che il rimorso sovraccarichi delle macchine che sono altrettanto da compiangere quanto sono mal regolate, essendo trascinate verso il male, come i buoni verso il bene; delle macchine che hanno abbastanza timore (e forse troppo) delle leggi, nelle cui reti saranno prima o poi prese: reti necessarie, come lo è, in un altro senso, l’azione che conduce ad esse. Ora se io li alleggerisco di questo pesante fardello, essi saranno meno infelici e non più impuniti. Così io servo l’umanità senza sfiorare i vantaggi della società; infatti, poiché i rimorsi non rendono migliori i malvagi, se li privo di questo sentimento non saranno più malvagi; e di conseguenza non è pericoloso per la società liberarla dai suoi boia privati, purché essa ne abbia di pubblici. La buona filosofia si disonorerebbe in pura perdita, dando realtà a spettri che spaventano solo le persone più oneste; a tal punto l’onestà è sovente ingenua, invece di essere forte! […]

Eliminiamo dunque questi nemici domestici. Non facciamo la guerra a noi stessi, almeno non volontariamente; troppo spesso ci troviamo nostro malgrado in tale stato di guerra. Infine distruggiamo i rimorsi; che gli sciocchi (perlomeno tra le persone oneste) siano i soli ad averne: che non vi sia più gramigna mescolata al buon grano della vita, e che questo crudele veleno sia infine scacciato per sempre, soprattutto dalla mente di quelle persone amabili che si abbandonano solo alla più saggia voluttà”.15

Saggia voluttà è l’espressione che meglio esprime l’ideale di una morale che si regge sulla distinzione fondamentale tra il voluttuoso e il dissoluto.

Il dissoluto non fa che trasgredire compulsivamente le regole di una morale repressiva, interiorizzata nell’infanzia e di cui non si è mai liberato. Il piacere del dissoluto non è mai puro; è sempre compromesso della sua fissazione negativa alla morale in vigore; è il piacere "di un’immaginazione cui piace irritarsi"; è il piacere di cui si può mai essere pienamente soddisfatti. Il piacere del voluttuoso, invece, è “nudo”, è libero dai freni interiori e può arrivare alla piena e serena soddisfazione. L’edonismo di La Mettrie non è contro la morale in assoluto, bensì contro quella tradizionale innestata nell’anima con l’educazione nell’infanzia e sorgente del rimorso, veleno della vita. È, quindi possibile una nuova morale, veramente razionale e compatibile col piacere.

“La voluttà non snerva sempre i suoi favoriti; le si sacrifica molto, ma non le si sacrifica tutto; e per quanto il suo potere sia grande, il dovere si allea così bene al piacere in un’anima ragionevole, che invece di nuocersi, si rafforzano reciprocamente”.16

I rimorsi, frutto avvelenato di una “costruzione posticcia”, di una morale fondata sul senso di colpa morale e su pregiudizi religiosi e metafisici falsi, in conflitto con il corpo e causa d’infelicità grave e insensata, richiedono molta riflessione filosofica per essere annientati.

La Mettrie, sempre incerto sul potere dell’educazione, non sembra, invece, avere dubbi sulla nefasta efficacia dell’educazione al senso di colpa.

“Torniamo alla nostra infanzia; (ahimè noi dobbiamo fare troppo pochi passi per raggiungerla, e quella del nostro spirito non è lontana) e vi troveremo l’epoca dei rimorsi. Dapprima era solo una sensazione, ricevuta senza esame e senza averla scelta, che si è impressa nel cervello, con la stessa forza di un sigillo nella cera molle. La passione, signora sovrana della volontà, può ben soffocare questa sensazione per un certo tempo: ma questa rinasce, quando quella si spegne, e soprattutto quando l’anima, restituita a se stessa, riflette a sangue freddo; perché allora i primi principi, quelli che formano la coscienza, quelli di cui essa è originariamente imbevuta, tornano, ed è ciò che chiamiamo rimorso, i cui effetti variano all’infinito.

Il rimorso è dunque solo una fastidiosa reminiscenza, una vecchia abitudine di sentire che riprende il sopravvento. È, se si vuole, una traccia che si rinnova, e di conseguenza un vecchio pregiudizio, che la voluttà e le passioni non riescono a sopire abbastanza bene, perché prima o poi non si risvegli quasi sempre. L’uomo porta così in sé il più grande dei suoi nemici”.17

Un nemico, il senso di colpa, che non ferma la passione e torna a tormentarci non appena la passione si spegne. Risorge sempre.

Nell’Uomo macchina, La Mettrie, aveva concepito il rimorso come un sentimento egoistico, che spinge a non fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi, una sorta d’istinto di conservazione salutare per l’individuo e per la specie. L’aveva attribuito anche agli animali, per non segnare una sostanziale differenza dell’uomo. Nella lunga riflessione di commento critico a Seneca, invece, mettendo bene a fuoco il senso di colpa, ne individua il carattere culturale e cita “fatti incontestabili” a sostegno della sua nuova tesi.

“Coloro che sul mare, prossimi a morire di fame, mangiano, tra i loro compagni, colui che è sacrificato dalla sorte, non hanno perciò più rimorsi degli antropofagi. Tale è l’abitudine, tale la necessità, per mezzo della quale tutto è permesso. Quando vedo i nostri boia impiccare, sottoporre al supplizio della ruota, bruciare, usare la tenaglia con i loro simili, sento in me qualcosa che si rivolta; credo di sentire una voce che grida sospirando al fondo del mio cuore: o natura! o umanità! Tu sei solo un nome vano, se non ti senti violata da questo, che dico, se non sei lacerata, obbedendo alle leggi. Ma no, i criminali hanno dei boia, questi ultimi non ne hanno; il loro cuore è chiuso al rimorso e al pentimento. Eppure sono degli assassini! Sì, ma assassini salariati, come gli idolatri erano e forse sono ancora degli assassini sacri. Si pagano gli uni, si incensano gli altri. […] Altra religione, altri rimorsi: altri tempi, altri costumi. Un tempo le donne arrossivano (di dispetto) di avere i loro ammiratori come rivali, mentre questi trionfavano con aria ironica disprezzando l’amore e le grazie. Aristotele favoriva la sodomia, per impedire che il numero cittadini divenisse eccessivo, senza preoccuparsi del precetto crescite, ecc. Un tempo si poteva avere un ragazzo esibendolo pubblicamente più di quanto oggi si possa fare con una ragazza […]. Licurgo faceva annegare i bambini deboli e ammalati, ed era soddisfatto della propria saggezza. […] Un flagello dell’umanità più terribile di tutti i vizi messi insieme, e che non è seguito da alcun pentimento, è la carneficina della guerra. Così ha voluto l’ambizione dei principi. A tal punto la coscienza che produce il pentimento è figlia dei pregiudizi”.18

Questi e altri dati che La Mettrie cita provano il carattere culturale del rimorso. La “scintilla di Caino” non è divina né naturale, è alimentata dai pregiudizi.19 Può, quindi, e deve essere spenta, per aprire la strada alla felicità.

È una battaglia fondamentale. Tuttavia, da buon illuminista, La Mettrie ha ben presenti i limiti umani.

“Questo è il criterio che seguo; è dolce, non ha nulla d’infernale, niente di caustico, niente che bruci o mandi in cancrena le carni vermiglie della vita. Chiunque lo applicherà a se stesso con fiducia, scrive La Mettrie, sentirà che la felicità è per la verità un uccello raro, che non è servito intero sulla tavola dei mortali: ma che bisogna essere ben infelici, per non poterne afferrare coscia o ala, per dir così; che si può senz’altro fare a meno, seguendo la ragione, di quel che non si ha, che anche in mancanza del godimento, ce ne uno, che una dolce speranza venga a divertire i nostri cuori: sentirà il gusto del piacere spandersi voluttuosamente fin nel midollo delle ossa: senza ambizione, senza avarizia, fuggendo perfino l’apparenza della costrizione, il vino, la buona tavola, la donne amabili, la buona compagnia, senza dimenticare quella delle Muse, saranno le delizie della sua vita, non conoscerà insomma altra saggezza, che quella dei piaceri. Tuttavia il suo dovere sarà prezioso per lui, perché lo compirà volentieri. Spogliandosi poco a poco dai suoi pregiudizi, valuterà la virtù per quel che è, arbitraria; ma la stimerà: pur considerando i rimorsi come frutti dell’educazione, non commetterà atti che provocano rimorso; infine, filosofo sia amabile che utile, vivrà per la felicità della società, come per la propria, e seguendo il mio esempio lascerà sbraitare gli ignoranti e gli invidiosi”.20

Culto del piacere e umana solidarietà.

Viene da pensare alla Ginestra di Leopardi: edonismo e pessimismo possono essere viste come strade diverse, che portano allo stesso umanesimo.

“Venuti al mondo nudi – scrive in chiusura – esposti a tutte le ingiurie del clima, abbiamo saputo proteggerci aiutandoci reciprocamente: dobbiamo allo stesso modo non risparmiare alcun mezzo per bandire le pene e le inquietudini di spirito alle quali la natura ci ha esposto non meno severamente. Che l’anima, corazzata come il corpo di fronte a tutto quello che può ferirla, si apra ai raggi della voluttà, e si corichi nuda, per così dire, solo col piacere”.

L’anima nuda, cioè liberata dai ceppi di una morale disumana e inutilmente repressiva, è l’anima del voluttuoso, capace di coniugare virtù e piacere. L’anima del dissoluto, invece, perennemente inceppata da quella morale, non riesce a incontrarsi “solo col piacere” e a saziarsene.

Note

1 Julien Offroy de La Mettrie, Il sommo bene, a cura di Marina Sozzi, Sellerio ed. 1993, p. 58.

2 Ib. p. 177.

3 Ib. p. 59.

4 Ib. p. 57.

5 “Ma forse l’anima degli stoici abita fuori dal corpo” scrive a p. 155.

6 Ib. pp. 66-7.

7 Ib. p. 71.

8 Ib. p. 58.

9 Ib. p. 82.

10 Ib. pp. 115-7.

11 Ib. p. 124.

12 Il riferimento è a Hobbes.

13 Ib. pp. 124-6.

14 Ib. pp. 174-5.

15 Ib. pp. 111-3.

16 Ib. p. 160.

17 Ib. p. 105.

18 Ib. pp. 106-

19 La scintilla di Caino è il titolo di un recente studio di Carlo Augusto Viano sulla coscienza, sui suoi usi e abusi nei duemila anni dell’era cristiana.

20 Ib. pp.197-8.

Torino 28 aprile 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Testi di Julien Offroy de La Mettrie


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015