Leibniz: fisica e metafisica

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Leibniz: fisica e metafisica

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Giuseppe Bailone

La fisica moderna nasce liberandosi dalla metafisica di Aristotele.

L’idea galileiana che il mondo fisico, essendo scritto in caratteri matematici, si presti a una considerazione puramente quantitativa affascina anche il giovane Leibniz e lo avvicina alla concezione atomistica della natura proposta da Gassendi. Egli vede nell’atomo l’equivalente fisico dell’unità numerica in matematica: come i numeri sono costituiti di unità numeriche, così i corpi sarebbero costituiti di unità corpuscolari indivisibili e il rapporto tra il corpo e l’atomo diventerebbe omogeneo al rapporto quantitativo tra il tutto e la parte.

L’adesione piena alla matematizzazione della natura e al meccanicismo moderno, però, dura poco. Lo spirito di conciliazione, l’idea che la tradizione sia una ricchezza da valorizzare e le prime difficoltà teoriche portano Leibniz a non pensare il meccanicismo in alternativa al finalismo e a orientarsi verso una fisica meccanicistica integrabile nella metafisica aristotelica.

“Tutto si fa, al tempo stesso, meccanicamente e metafisicamente, nei fenomeni della natura, ma la fonte stessa della meccanica è la metafisica”, scrive Leibniz in una lettera del 1714.

La fisica meccanicistica moderna non basta a render conto del mondo naturale e la sua insufficienza rimanda proprio a quella metafisica aristotelica che essa ha respinto nascendo.

Studiando Cartesio, Leibniz si rende conto dei limiti della fisica moderna.

Cartesio concepisce la materia come estensione (res extensa) e il movimento come spostamento meccanico dei corpi materiali. Per lui, il mondo fisico è fatto di corpi in movimento, dei quali si possono rilevare le proprietà misurabili, mentre dei loro movimenti si possono ricercare le cause efficienti, abbandonando la ricerca delle cause finali.

Per Leibniz le nozioni cartesiane di estensione e di movimento non stanno in piedi da sole: rimandano ad altro. L’estensione dei corpi rimanda alla loro impermeabilità e alla forza inerziale. Ogni corpo, infatti, oppone resistenza alla presenza di altri corpi nel proprio spazio e resiste agli spostamenti.

Cartesio si è fermato al movimento, senza vedere la forza che lo determina. Ha detto che nell’universo si conserva sempre la stessa quantità di movimento, che egli definisce come il prodotto della massa per la velocità. Invece, sostiene Leibniz, ciò che si conserva è la forza, che si definisce come il prodotto della massa per il quadrato della velocità.

Per Leibniz, la vera natura della materia è la forza, l’energia dinamica, che egli chiama anche conatus. Essa è presente anche dove non si vede movimento: la quiete, infatti, è, per così dire, energia contratta, pronta a esplicarsi quando venga meno l’impedimento di un’energia contraria.

L’estensione e il movimento rimandano alla forza, di cui sono espressione, manifestazione. L’estensione e il movimento sono fenomeno, ciò che appare.

Leibniz non contrappone l’apparenza alla realtà: l’apparenza non è un’illusione, bensì l’apparire della realtà, così come l’arcobaleno è il modo in cui appare all’occhio l’insieme delle gocce di pioggia che riflettono la luce e la scompongono. La fisica moderna meccanicistica si ferma all’apparire. Recuperando la metafisica aristotelica, Leibniz pensa di arrivare al fondamento di quell’apparire.

La nuova distinzione tra apparenza fisica e sostanza metafisica vanifica la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie proposta da Galileo e fatta propria da Cartesio e da Locke. Le une e le altre qualità sono entrambe fenomeni, modi di presentarsi alla nostra percezione di sostanze che non sono estese, né colorate, odorose o sonore. Anche lo spazio e il tempo sono solo nella dimensione dell’apparire: lo spazio è l’ordine in cui i corpi si collocano, coesistono contemporaneamente; il tempo è l’ordine delle successioni, l’ordine in cui si dispongono i corpi uno dopo l’altro. Il tempo e lo spazio sono dimensioni fenomeniche e non assolute come, invece sostiene Newton. Lo spazio, ad esempio, non è la dimensione precostituita e vuota in cui trovano posto tutti i corpi particolari. È, invece, il risultato dell’interazione tra le cose: queste, infatti, essendo condensazione di forze e interagendo, determinano quel contesto di relazioni che è lo spazio.

Il mondo moderno si è aperto con la divaricazione tra il mondo animato di Giordano Bruno e il mondo-orologio, meccanico, di Keplero,1 ed ha proceduto accentuando la divaricazione, fino a farne un’alternativa. Leibniz ricompone l’unità con la visione di un universo fisico di enti che ai nostri sensi si presentano estesi, impenetrabili e collocati nelle dimensioni dello spazio e del tempo, ma che sono centri inestesi di forza, di energia. Un mondo vivo, dinamico e realizzazione del disegno intelligente divino.

Il mondo fisico non si spiega con i soli concetti di estensione e di movimento.

La lettura del mondo fisico in termini matematici, inaugurata da Galileo, non viene, però, abbandonata: serve a spiegare la realtà nelle sue manifestazioni fisiche spazio-temporali. Per capire quei fenomeni, però, per arrivare alla realtà che li determina, bisogna puntare sul concetto di forza, da intendersi in senso fisico e spirituale.

Come forza fisica, è misurabile e svolge, nella spiegazione meccanicistica, la funzione di causa efficiente. Come forza spirituale, apre alla metafisica e riporta in pieno vigore la forma sostanziale aristotelica e la spiegazione finalistica della realtà. Leibniz riprende da Aristotele anche il termine “entelechìa”, per indicare il principio di attività interna che anima le cose, lo stato di compiutezza di un ente che abbia raggiunto il suo fine intrinseco, attuando pienamente la sua potenza.

Fisica e metafisica, invece di contrapporsi in alternative, si collocano in continuità: è la fisica stessa che apre, sviluppando il concetto di forza, alla metafisica. In tal modo, il fenomeno meccanico trova in una visione spiritualistica la sua spiegazione profonda e compiuta.

A partire dal 1695 Leibniz recupera da Giordano Bruno il termine monade, di origine pitagorica e neoplatonica, e se ne serve per indicare ciò che, nella sua filosofia, unisce la fisica e la metafisica, le cause efficienti del meccanicismo e le cause finali dello spiritualismo.

Il mondo appare come una grande macchina, fatto d’infinite macchine che ne costituiscono le sue parti, ma sia la macchina-mondo sia le macchine-parti sono la realizzazione del volere divino, frutto della sua scelta del meglio.

Le macchine sono il prodotto della volontà creatrice divina, assolutamente libera e assolutamente buona.

Le monadi sono sostanze semplici, entità individuali, dotate di autonomia e di finalità interiore. Sono come gli atomi di Democrito, ma di natura spirituale.

L’atomismo materialistico giovanile si è fatto, nella maturità, spiritualistico.

Le monadi sono capaci di percezione e di volontà, quindi di azione.

Dio è la monade originaria e suprema. Tutte le altre, infinite, sono da lui create, secondo una gerarchia che, va dalle più umili alle più alte.


1 Su questo bivio della modernità rimando al n° 4 dei “Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino”, Viaggio nella filosofia. Da Duns Scoto a Giordano Bruno, pp. 119-120.


ANNO ACCADEMICO 2012-13 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 22 aprile 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

La critica

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015