Pavel Vasilevic Annenkov (Mosca 1813 - Dresda 1887): critico e pubblicista liberale russo,
visse con Gogol' a Roma (che gli dettò il primo volume di Anime morte) e
fu amico di Turgenev. Negli anni 1853-56, insieme a Nekrasov e Turgenev formò
una specie di triumvirato che gestiva le sorti della letteratura pietroburghese,
collaborando alle principali riviste del tempo: "Annali patri", "Il
Contemporaneo". "Annali patri" fu il più autorevole periodico democratico e
occidentalista russo, in continua polemica con i giornali conservatori slavofili.
Scrisse la prima biografia su Puškin: Puškin nell'epoca di Alessandro I (1875),
poi anche Problemi storici
ed estetici del romanzo "Guerra e pace" di L.N. Tolstoj (1868), Lo
straordinario decennio 1838-1848 (1880, memorie).
Conobbe Marx durante i suoi viaggi all'estero. Qui Marx risponde alla lettera di Annenkov del 1 novembre 1846 (cfr. MEGA III/2, p. 316), in cui questi gli chiedeva un giudizio sull'opera di Proudhon, Système des contradictions économiques. Annenkov rispose a sua volta a Marx, per ringraziarlo, con la lettera del 6 gennaio 1847 (cfr. MEGA III/2,
pp. 321-322).
* * *
La lettera di Marx è stata scritta originariamente in francese il 28/12/1846
a Bruxelles: trattasi di un parere, un'impressione generale, sul libro di
Proudhon, La filosofia della miseria, contro cui, tra la fine del 1846 e
il giugno del 1847, scriverà Miseria
della filosofia. Annenkov avrà
quindi modo di leggere in anteprima le critiche di Marx al testo di Proudhon.
Marx si era trasferito da Parigi a Bruxelles nel
febbraio del 1845, dopo l'ennesima espulsione. Generalmente si fa
risalire al 1846 l'inizio della sua (e di Engels) attività politica vera e
propria.
Infatti il Comitato di Corrispondenza comunista (la prima organizzazione
politica creata da Marx ed Engels) fu costituito a Bruxelles (sede di molti
rifugiati tedeschi) nel febbraio di quell'anno, allo scopo di tenere collegati
tutti i comunisti europei e soprattutto quelli tedeschi.
In quello stesso anno Marx romperà non solo con la Sinistra hegeliana e
Feuerbach, ma anche con Weitling, Kriege e soprattutto con
Proudhon (forte la critica anche contro la Lega dei Giusti, con sede a Londra).
Ciò che non sopportava assolutamente erano tutte le idee di socialismo
artigianale, filosofico, sentimentale, neocristiano... Marx ed Engels volevano
una "rivoluzione violenta e democratica", fondata su conoscenze economiche molto
approfondite, sebbene in Germania non esistesse ancora un partito organizzato e
attivo. Il partito doveva nascere dal basso verso l'alto e non doveva essere una
"società segreta" né qualcosa che assomigliasse al partito giacobino, favorevole
a un colpo di stato. Notevoli, in tal senso, erano le simpatie nei confronti del
Cartismo, specie per la sua ala radicale.
Proudhon, sebbene fosse stato favorevole alla rivoluzione all'inizio degli anni
'40, aveva smesso di crederci: di qui la critica di Marx.
* * *
Annenkov sembra essere convinto che il libro di Proudhon, Filosofia della
miseria, pur essendo molto limitato sul piano filosofico, possa essere
ritenuto valido su quello economico. Marx invece ribalta la cosa dicendo che
Proudhon offre "una teoria filosofia assurda perché è incapace di comprendere
l'odierna situazione sociale nel suo engrènement..."(p. 217), cioè nel
suo "ingranaggio". Quindi Proudhon non è solo un mediocre filosofo (nella
lettera a Schweitzer del
1865 Marx dirà che "Proudhon sta a Saint-Simon e a Fourier press'a poco come
Feuerbach sta a Hegel"), ma anche un pessimo economista.
A Marx era piaciuto, sia nella "Gazzetta Renana" che nella Sacra Famiglia,
un altro libro di Proudhon: Che cos'è la proprietà?, ma già nei
Manoscritti del '44 aveva iniziato a prenderne le distanze, giudicando
Proudhon debitore di Fourier.
Nella lettera ad Annenkov la prima critica di Marx è relativa al fatto che
siccome Proudhon capisce poco di economia, è costretto a spiegare le
contraddizioni più complesse ricorrendo al misticismo.
Marx qui delinea molto sinteticamente la sua concezione della storia
(concezione economica della storia o concezione della storia economica?).
Gli uomini ereditano dalle generazioni precedenti determinate forze produttive
("energia umana pratica", "materia prima per una nuova produzione", p. 219). "La
storia sociale degli uomini non è altro che la storia del loro sviluppo sociale,
ne siano essi coscienti o no"(ib.).
Dopodiché aggiunge: "I loro rapporti materiali sono la base di tutti i loro
rapporti". In che senso la "base"? E' importante saperlo perché è "base" di
tutti i rapporti.
Poco sopra aveva scritto: "Scegliete stadi particolari di sviluppo della
produzione e avrete un'organizzazione corrispondente della famiglia, degli
ordini e classi..."(p. 218). Dunque i "rapporti materiali" sono i rapporti
strettamente connessi a ciò che in ultima istanza dà un senso alla materialità
della vita: la proprietà.
Sulla base della tipologia e dell'uso di questa proprietà si può dedurre la
tipologia della famiglia, delle classi, dei ceti... in una parola il rapporto
antagonistico che gli uomini vivono nelle società, nelle civiltà. Non si può dar
torto a Marx su questo: in effetti, da quando son nate le civiltà è la proprietà
il criterio utile per cercare di capirle.
Tuttavia Marx astrae da ciò che non è "economico". Egli infatti sostiene che
sono i rapporti "materiali", quelli connessi al concetto di "proprietà", che
costituiscono la "base" di tutti i rapporti. Cioè i rapporti sociali
non si autorappresentano, poiché all'interno di questi rapporti Marx ha
bisogno di estrapolare un aspetto particolare: quello economico,
ponendolo al disopra di tutti gli altri.
E non solo riduce il rapporto sociale a rapporto economico o
materiale, ma isola questo rapporto dalle altre due sfere che gli sono
strettamente connesse: il culturale e il politico. A dir il vero
la sfera culturale (sostanzialmente la filosofia e la critica della religione)
ha interessato Marx fino al maggio 1846, data in cui ha chiuso la stesura con
Engels dell'Ideologia tedesca. Mentre per quanto riguarda la politica, va
detto che quella attiva vera e propria lo riguarderà sino a quando emigrerà a
Londra, mentre quella in senso lato lo interesserà tutta la vita.
Max insomma non vede l'uomo come una sintesi dei tre aspetti, come un tutto
unico e integrato, ma vede sostanzialmente solo i rapporti di proprietà, i quali
danno un senso a tutto il resto.
Qual è la differenza tra questa concezione e quella borghese? E' la stessa
che passa tra il sistema hegeliano e il metodo hegeliano della dialettica: il
primo è conservatore, il secondo è rivoluzionario. Se Hegel fosse stato coerente
coi principi affermati in sede filosofica, avrebbe dovuto lottare contro lo
Stato prussiano e non difenderlo sino all'ultima pubblicazione.
La differenza di sostanza sta nel fatto che per la borghesia i rapporti di
proprietà privata sono un totem da adorare; per Marx invece da distruggere. Egli
infatti sostiene che la necessità di "mutare tutte le forme sociali
tradizionali"(p. 219) serve per adeguare i rapporti produttivi alle
forze
produttive ed egli è altresì convinto che il modo migliore di utilizzare le
forze produttive acquisite grazie al capitalismo sia quello di realizzare dei
rapporti sociali ove la proprietà non sia privata ma pubblica o sociale. E' la
logica dell'interesse, non quello per il profitto privato ma quello per il bene
comune, che deve far scattare la rivoluzione.
Ovviamente anche la borghesia fa continuamente un discorso di adeguamento dei
rapporti alle forze produttive, ma lo fa senza mai mettere in discussione i
limiti della proprietà privata dei mezzi produttivi. Anche la borghesia è mossa
da un interesse, ma è quello privato dei profitti.
Come si può notare sembra non esistere una differenza abissale tra Marx e la
borghesia. La differenza sta piuttosto nella "forma sociale" con cui Marx
vorrebbe che fossero gestite le forze produttive. Egli infatti non mette in
discussione il valore, la legittimità, la tipologia di tali forze, ma piuttosto
l'involucro in cui vengono utilizzate, che è quello dell'industria privata.
Qui siamo nel '46 e da quello che dice pare che Marx voglia sperare di
convincere la borghesia ad accettare in maniera indolore, come una "necessità
storica", la transizione dal capitalismo al socialismo. Lui stesso d'altra parte
nella lettera è disposto ad accettare come cosa necessaria la transizione dal
feudalesimo al capitalismo. Infatti, il feudalesimo permise, seppure in maniera
nascosta, non ufficiale, l'accumulo di capitali, il commercio transoceanico, la
fondazione delle colonie, e quando queste realtà si svilupparono -dice Marx-, il
feudalesimo non fu più in grado di opporvisi, e se lo fece con la forza, con la
forza venne distrutto (p. 220).
Marx ragiona in termini hegeliani, anche se ha tolto all'hegelismo ogni
sovrastruttura mistica. Proudhon non capisce l'economia perché non sa applicare
ad essa la categoria hegeliana della necessità storica.
Marx non ragiona mai col "se ipotetico", non si chiede mai cosa sarebbe
potuto accadere se fossero state fatte scelte diverse. Lui si considera come uno
scienziato che prende le cose come un dato di fatto, dopodiché le analizza a
fondo sul piano economico per riuscire a proporre il modo migliore per farle
funzionare. In un certo senso si comporta come uno scienziato della natura, con
la differenza che l'oggetto dei suoi studi è l'homo oeconomicus.
Ecco perché vede Proudhon come un hegeliano vecchia maniera, che spiega la
realtà partendo dalle idee, invece di andare a cercare nella realtà stessa le
ragioni del suo sviluppo.
Tuttavia i metodi di Marx erano troppo radicali perché una qualunque
borghesia li potesse accettare. Persino negli ambienti del socialismo utopistico
risultavano inaccettabili.
In effetti, di diverso tra Marx e gli ideologi borghesi (e i socialisti
utopistici) è soprattutto il modo di concepire l'adeguamento dei rapporti alle
forze produttive. Marx crede poco ai processi spontanei o pacifici, anche se non
li esclude a priori. Anzi, il Capitale è in fondo un gigantesco tentativo
di dimostrare la necessità di un processo che se fosse avvenuto in maniera
spontanea sarebbe stato un bene per tutti, in quanto avrebbe fatto risparmiare
innumerevoli sofferenze.
Tuttavia in questo periodo (1846-49) Marx è tutt'altro che un politico
tollerante e la lettera ad Annenkov lo dimostra. A suo giudizio Proudhon
rappresenta in Francia la quintessenza del tradimento degli intellettuali di
sinistra, che da rivoluzionari sono diventati al massimo riformisti. Ecco perché
in luogo di una transizione indolore, Marx preferisce pensare a un "grande
movimento storico che sorge dal conflitto tra le forze produttive già
conquistate dagli uomini e le loro relazioni sociali, che non corrispondono più
a queste forme produttive"; a "guerre terribili che si preparano tra le diverse
classi entro ciascuna nazione e tra nazioni differenti"; all'"azione pratica e
violenta delle masse che è l'unica via attraverso la quale questi conflitti si
possono risolvere"(p. 229).
La "violenza" rivoluzionaria come "unica via" - Marx è esplicito, e non solo
in questa lettera privata, anche perché ha già sperimentato su di sé il
fallimento del compromesso della Sinistra hegeliana con la borghesia liberale
tedesca. Marx è stato non solo espulso dalla Germania ma anche dalla Francia.
Per questo non voleva farsi illusioni. E crede fermamente nella necessità di un
"movimento politico" popolare, di massa, che risolva le contraddizioni tra
capitale e lavoro. Cioè non vuole più un compromesso tra proletariato e
borghesia, tra società civile e Stato politico. Vuole una rivoluzione come
quella francese dell'89, dove però il protagonista non sia la borghesia ma il
proletariato.
Notevole è la sua descrizione del socialismo piccolo-borghese di Proudhon:
"In una società progredita e costrettovi dalla propria situazione, il piccolo borghese diventa da un lato socialista, dall'altro economista, cioè egli è accecato dallo splendore della grande borghesia ed ha compassione per le sofferenze del popolo. Egli è borghese e popolo al tempo stesso. Nell'intimo della sua coscienza si lusinga di essere imparziale, di aver trovato l'equilibrio giusto, che avanza la pretesa di essere qualcosa di diverso dal giusto mezzo. Un piccolo borghese del genere divinizza la contraddizione, perché la contraddizione è il nucleo del suo essere. Egli non è altro che la contraddizione sociale messa in azione. Egli deve necessariamente giustificare mediante la teoria ciò che egli è nella pratica, e Proudhon
ha il merito di essere l'interprete scientifico della piccola borghesia
francese; e questo è un merito reale, perché la piccola borghesia sarà una parte
integrante di tutte le rivoluzioni sociali che si stanno preparando"(p. 231).
Quindi Marx non esclude la possibilità di un'intesa politica con la
piccola-borghesia: non a caso, dopo la costituzione del Comitato di
Corrispondenza comunista, Marx cercherà proprio con Proudhon di costruire, per
la parte relativa alla Francia, la rete europea dei comunisti, ma dopo il
ripiegamento di quest'ultimo verso posizioni moderate, la rottura sarà
inevitabile e definitiva. Il giovane Marx non poteva accettare compromessi che
non giustificassero la necessità della rivoluzione. Persino un "largo settore"
del partito comunista tedesco -com'egli dice nella lettera ad Annenkov- lo
ostacola, poiché non sopporta le sue critiche alle "utopie" e alle
"declamazioni"(p. 232).
Oggi tuttavia, guardando le cose col senno del poi, ci chiediamo quali
garanzie di democrazia per il socialismo scientifico possa offrire una
trasformazione della proprietà da privata a sociale. Marx non dice
nulla su questo, almeno in questa lettera (però vedi la
Critica al programma di Gotha del 1875).
La trasformazione sembra essere uno slogan, o un compito da porsi non prima ma
dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico. Non a caso nella
Russia bolscevica si arrivò a fare coincidere "sociale" con "statale",
determinando la più grande illusione di tutto il socialismo reale.
Noi sappiamo che la grandezza di Marx sta nell'aver avuto il coraggio di
dire, dimostrandolo concretamente, che il capitalismo non può essere considerato
come una formazione sociale destinata a durare in eterno, e che le stesse
categorie dell'economia politica borghese sono destinate ad essere superate, e
sappiamo anche che a Marx non piaceva né la concorrenza (a questa preferiva
l'emulazione tra operai o imprese), né ovviamente il monopolio (come anche in
questa stesse lettera dice, cfr p. 226).
Per realizzare il comunismo ci vuole un progetto che indichi, a grandi linee,
non solo il modo di conquistare il potere, ma anche quello di gestirlo dopo
averlo preso, perché le questioni sociali, culturali, di valore, non sono meno
importanti delle strategie politiche e delle analisi economiche.
Altrimenti si rischia di condividere idee che di per sé sono inaccettabili,
come queste di Proudhon, che Marx riprende senza neppure criticarle: "La
schiavitù diretta, la schiavitù dei negri a Surinam, in Brasile, nelle regioni meridionali del Nordamerica...
è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il
credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria
moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le
colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la
condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie,
prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e
non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una
categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l'America del
nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale.
Si cancelli l'America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l'anarchia,
la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la
schiavitù vorrebbe dire cancellare l'America dalla carta delle nazioni. Così
pure la schiavitù, essendo una categoria economica, si trova presso tutti i
popoli fin dall'inizio del mondo. Le nazioni moderne hanno saputo semplicemente
mascherare la schiavitù nei loro paesi e introdurla apertamente nel Nuovo
Mondo"(p. 226).
* * *
Oggi possiamo dire che qualunque progetto relativo al socialismo democratico
non può prescindere da un riesame delle civiltà precapitalistiche e addirittura
primitive. Gli intellettuali marxisti non hanno mai apprezzato il
pre-capitalismo, e in questo sono figli dell'ideologia borghese, e
sostanzialmente non hanno mai messo in discussione il progresso scientifico e
tecnologico e quindi l'impatto ch'esso ha avuto non solo sugli uomini ma anche
sulla natura.
Oggi sappiamo che nelle civiltà primitive o primordiali (il "previous",
come si potrebbe definire), il vero progresso stava nell'assicurarsi facilmente
una riproduzione compatibile con la riproduzione della natura. E' da questo che
bisogna partire.
Se dovessimo decidere un criterio per determinare quando un mezzo tecnico è
davvero utile, dovremmo dire ch'esso lo è, anzitutto, quando è compatibile con
le esigenze riproduttive della natura, che dobbiamo conoscere
preventivamente, ancor prima di decidere qualunque tipologia di formazione
sociale.
Questo perché il progresso economico o tecnologico non è di per sé un indice
sicuro del miglioramento dello stile di vita di una società o civiltà.
Non ha senso sostenere che le rivoluzioni avvengono non per
abbandonare le conquiste ottenute, ma, al contrario, per meglio conservarle. Non
si può dare per scontato che il processo dello sviluppo materiale
(tecnico-scientifico, economico-produttivo) non possa essere messo in
discussione e che l'unico problema sia quello di decidere come gestirlo.
Noi dobbiamo abituarci a considerare l'economico come strettamente
subordinato al sociale. Il "sociale" è la vera dimensione che indica il
"benessere" di una collettività. Nel sociale l'economico è solo una parte, altre
parti sono, oltre al già citato rispetto della natura, il rispetto di
ogni persona, anche quella meno produttiva in rapporto a una media generale,
anche quella del tutto improduttiva, perché impedita da qualcosa; quindi il
rispetto della diversità: fisica, etnica, linguistica o di concezioni di
vita.
Se non si chiarisce che il sociale abbraccia molti più campi dell'economico,
si finisce col formulare degli enunciati che, a motivo della loro astrattezza,
genericità e ambiguità, risultano falsi in partenza o falsati nelle loro
immediate applicazioni.
Marx non si rende conto che il progresso tecnico-scientifico
può essere frutto di una deviazione dall'essenza umana e che non si
tratta semplicemente di gestirlo in maniera diversa ma proprio di superarlo
superando il concetto di civiltà che l'ha generato. Se il socialismo deve
servire a tenere in piedi, assicurandone la prosecuzione, un progresso
scientifico contrario agli interessi della natura, allora è meglio chiarire da
subito che un socialismo del genere non è molto diverso dal capitalismo che
vorrebbe superare.
Marx fa l'esempio della transizione dal feudalesimo al
capitalismo, e dice che se non ci fossero state le rivoluzioni borghesi del 1640
e del 1688 il feudalesimo in Inghilterra avrebbe continuato a sussistere per
molto più tempo, in contraddizione con lo sviluppo dei commerci oltreoceanici,
delle colonie, con l'accumulo dei capitali in generale.
Cioè egli dà per scontato che il feudalesimo qua talis
andasse superato. Eppure le conquiste tecnologiche-produttive che decisero la
fine del feudalesimo, in quel momento appartenevano a un'infima minoranza della
popolazione: la borghesia. Per quale ragione le esigenze di questa classe
sarebbero state in diritto di eliminare quelle di un'altra classe, di molto
maggioritaria, come quella contadina? Per quale motivo Marx ha sostenuto che
l'unico modo di far progredire l'economia era quello di abbandonare il
feudalesimo tout-court e di abbracciare il capitalismo? Per quale motivo
egli non ha pensato a una rivoluzione agraria, contadina, capace di trasformare
i rapporti produttivi (eliminando p.es. il servaggio e le rendite), senza però
mettere in discussione la natura di quelle forze produttive, ch'erano agricole,
in quanto legate al primato della terra? La sua analisi nei confronti del
feudalesimo non è stata forse viziata da un personale pregiudizio nei confronti
del mondo rurale? Marx ha giustificato la teoria dell'adeguamento dei rapporti
alle forze, prendendo come modello non le forze contadine ma quelle borghesi.
Marx ha mostrato di non essere interessato a un'analisi
culturale, valoriale, con cui pesare i pro e i contra di ogni civiltà; ciò
che gli preme è semplicemente la dimostrazione che il passaggio da una civiltà a
un'altra è necessario e se ciò, in rapporto al feudalesimo, ha voluto dire che
l'alternativa era il capitalismo, e non p.es. un socialismo agrario, significa
che il capitalismo era destinato a imporsi in Europa occidentale e che esso va
comunque considerato di gran lunga migliore di qualunque forma di feudalesimo.
In realtà noi sappiamo che il discrimen che distingue una formazione sociale da un'altra è
proprio il carattere umano, democratico, conforme alle esigenze
della natura, che si è in grado di far valere. Una caratteristica del genere non
può essere patrimonio di una singola classe sociale: o appartiene all'insieme
del collettivo o è falsa. Cioè anche se è una classe che la fa valere, questa
stessa classe deve avere come obiettivo qualcosa di più generale.
Quando nell'antica Grecia si affermò la democrazia sull'aristocrazia o
sull'oligarchia o sulla dittatura, si trattava sempre di una conquista politica
ottenuta in un sistema sociale basato sullo schiavismo e sulle differenze di
classe. Considerare più utile al socialismo il concetto greco di democrazia che
non la democrazia praticata (non codificata da leggi scritte) dalla comunità
primitiva di villaggio, significa avere un concetto di democrazia non molto
diverso da quello dei teorici borghesi.
E' in tal senso da escludere a priori che il socialismo possa accettare
alcunché dal mondo borghese o da qualunque altra civiltà che non nasca da
esigenze specifiche dello stesso socialismo, le quali non possono essere dettate
dall'alto.
Si può ritenere possibile che una rivoluzione possa essere condotta con
l'aiuto di intellettuali professionisti o comunque di cittadini e lavoratori più
disponibili o più consapevoli di altri, ma è da escludere a priori che tali
soggetti, a rivoluzione compiuta, possano accampare più diritti del popolo
lavoratore.
Peraltro il modo deterministico di impostare il problema della
transizione, da parte di Marx, è sempre stato affrontato diversamente in Russia,
sin dai tempi del populismo. Lenin si sforzò di dimostrare contro i populisti
che Marx aveva ragione e che il capitalismo in Russia stava diventando una
realtà inevitabile. Ma poi, decidendo di compiere la rivoluzione nel paese più
feudale d'Europa, non arrivò forse a dimostrare che il determinismo economico
poteva essere superato dal volontarismo politico dei rivoluzionari?
E' assurdo pensare che le rivolte contadine o operaie, antiborghesi o
antifeudali, dei secoli precapitalistici siano fallite perché i rivoltosi erano
poco consapevoli delle contraddizioni sociali o dei loro interessi di classe.
Questa mancanza di consapevolezza esiste anche ai giorni nostri, nonostante sia notevolmente
aumentato il livello culturale generale.
Le rivoluzioni del passato non sono fallite perché mancava il "Capitale" di
Marx. Per realizzarsi, le rivoluzioni non avevano bisogno di trattati di
economia. E' vero che non può esistere "prassi rivoluzionaria" senza "teoria
rivoluzionaria", ma è anche vero che senza coerenza e determinazione
rivoluzionaria, da parte di intellettuali e masse oppresse, senza organizzazione
e divulgazione capillare delle idee rivoluzionarie, ogni definizione di "teoria"
e di "prassi rivoluzionaria" rischia di rimanere puro flatus vocis. Ecco
perché il marxismo non può fare a meno del leninismo.
Poiché la reazione controrivoluzionaria non si farà attendere, occorre sempre
una resistenza popolare: una rivoluzione che non si sa difendere, non
vale nulla, diceva Lenin.
Bisognerebbe trovare una legge che indichi la proporzione tra fallimento
della rivoluzione e consapevolezza rivoluzionaria necessaria per compiere la
rivoluzione successiva.
Tuttavia oggi il problema è quello di capire in che maniera
superare il concetto in sé di "forze produttive". Poiché è nel processo
stesso di produzione tecnologica che va rilevata una delle fonti
principali dell'alienazione umana, cioè di violazione delle leggi di natura,
precedenti allo stesso sfruttamento del lavoro altrui, noi dovremmo chiederci se
il crollo del cosiddetto "socialismo reale" non debba essere interpretato come
il fallimento dell'idea di credere possibile uno sviluppo del socialismo
salvaguardando gli aspetti tecnico-scientifici del capitalismo.
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