IL CAPITALE COMMERCIALE

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


IL CAPITALE COMMERCIALE

I -II

(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 20)

Premessa

Quando Marx prende a esaminare il capitalismo in chiave storica non lo fa da "storico" ma da "economista". Dà per scontato che il passaggio dalla fase del servaggio al capitalismo fosse necessario e anche quello dal comunismo primitivo alle civiltà. Sicché quando analizza il rapporto tra valore d'uso e valore di scambio, non mette mai in discussione la superiorità di quest'ultimo. Lo fa sino al punto da sostenere che là dove esiste solo valore d'uso (o valore di scambio basato su semplici eccedenze, al netto dell'autoconsumo), la comunità è molto rozza e primitiva.

In altre parole quando esamina il valore di scambio non vede le contraddizioni in rapporto al passato, ma in rapporto al futuro, in quanto collega il valore di scambio allo sfruttamento del lavoro, ch'egli vuole abolire. Così facendo non si rende conto che del capitalismo non si può accettare il valore di scambio rifiutando lo sfruttamento del lavoro: vanno rifiutati entrambi, poiché l'uno è conseguenza dell'altro, in maniera intercambiabile.

Questo per dire che l'analisi storica va fatta in chiave "storiografica", non semplicemente "economica", poiché è sul piano olistico che bisogna individuare il momento in cui si è deciso, culturalmente e materialmente, di porre lo scambio al di sopra dell'uso.

Il capitalismo non è un sistema sociale "superiore" allo schiavismo e al servaggio. È soltanto un sistema diverso, che si basa su presupposti differenti, il primo dei quali è la formale libertà giuridica dei lavoratori, mentre il secondo è l'impiego di macchine nel rapporto di lavoro, proprio in conseguenza di questa libertà.

Per tornare all'autoconsumo come sistema di vita si devono mettere sul piatto della bilancia tutti i sistemi sociali che fanno dello sfruttamento del lavoro altrui il perno della loro esistenza, siano essi basati sulla proprietà di beni mobili o immobili.

Dal capitale commerciale a quello industriale

Nel libro III del Capitale (pp. 436-56) il cap. 20 "Notizie storiche sul capitale commerciale" è, per quanto provvisorio e sintetico, chiarissimo, e merita d'essere commentato, in quanto aiuta a capire la genesi del capitalismo sul piano strettamente economico.

Marx afferma che il capitale commerciale fa parte della natura del capitale industriale e, come quest'ultimo, genera plusvalore, cioè sfruttamento. È semplicemente "la più antica forma d'essere libera del capitale" (p. 438).

La merce non esiste solo nel capitalismo, ma anche nello schiavismo o nel servaggio e persino nella comunità primitiva soggetta a tributi statali, ammesso che quanto si produce sia destinato a essere venduto sul mercato. Anche l'eccedenza, in presenza di autoconsumo, è merce. La differenza sta nel fatto che, nell'ambito del capitalismo, "il prodotto viene fabbricato solo come merce, non come mezzo di sostentamento immediato" (p. 439).

D'altra parte è la presenza stessa del commercio che porta "a fabbricare prodotti in eccedenza, destinati a entrare nello scambio, per aumentare i godimenti o i tesori dei produttori (i proprietari dei prodotti)" (pp. 439-40).

Marx dice questo per far capire che il capitalismo si forma là dove esiste il valore di scambio. La differenza tra un sistema e l'altro sta nei volumi degli scambi e naturalmente nella principale finalità di ciò che si produce, che nel capitalismo riguarda unicamente il profitto.

L'importante è che esista una figura sociale specifica che funga da intermediaria tra chi compra e chi vende: il commerciante. Esiste capitalismo là dove esiste denaro che, in virtù dello scambio, aumenta di valore. Se il denaro svolge solo la funzione di metro di misura per lo scambio, i valori d'uso hanno un primato su quelli di scambio. In tal caso il commercio avviene tra gli stessi produttori e non si può parlare di capitalismo commerciale. Tant'è che là dove esiste autoconsumo, in quanto i mezzi produttivi sono primitivi, viene considerato capitale per eccellenza proprio il capitale commerciale. Ecco perché Marx insiste nel dire che "il capitale commerciale è la forma storica del capitale prima che questi abbia compenetrato la produzione" (p. 441).

Qui si potrebbe aggiungere - senza forzare in alcun modo il testo - che è illusorio pensare di poter ovviare alle gravi contraddizioni del capitalismo industriale limitandosi a tutelare quello commerciale; né ha senso pensare di poter fermare l'evoluzione del capitale o di far tornare indietro la storia del capitale in maniera del tutto naturale.

Nel capitalismo industriale il capitale commerciale svolge la funzione di agente, cioè del docile servitore. Viceversa, quando esso dominava sul mercato, la produzione in realtà gli era estranea. Finché la circolazione delle merci non si impadronisce della produzione, non si forma il capitale industriale. E questa appropriazione in Inghilterra fu definitivamente acquisita, anche sul piano legale, quando nel 1846, sotto il governo di Robert Peel, il capitale commerciale e l'aristocrazia finanziaria furono costretti a riconoscere il primato assoluto del capitale industriale accettando l'abrogazione dei dazi sul grano. Fino a quel momento il capitalismo commerciale aveva parteggiato non per gli imprenditori ma per l'aristocrazia terriera e finanziaria.

Che esista un ampio sfruttamento anche da parte del capitalismo commerciale, Marx lo ribadisce ricordando l'attività dei mercanti veneziani, genovesi, olandesi..., che svolgevano funzioni da intermediari, mettendo in contatto comunità non sviluppate sul piano industriale. In tal modo potevano sfruttare sia le comunità che vendevano sia quelle che compravano. E i loro capitali erano del tutto separati dalle sfere della produzione.

Il loro monopolio del commercio di intermediari venne meno nella misura in cui le comunità cominciarono a svilupparsi sul piano industriale. Sarà anzi proprio lo sviluppo dell'industria che soffocherà i commerci di Venezia, di Genova e degli stessi olandesi e portoghesi.

Il capitalista commerciale aveva potuto arricchirsi perché trattava con "la barbarie dei popoli produttori" (p. 446). È stato questo capitalismo commerciale che ha distrutto le comunità basate sull'autoconsumo, in quanto non si è impadronito soltanto delle eccedenze, ma ha influenzato l'intera produzione, arricchendosi in maniera del tutto truffaldina e spesso molto violenta, senza tenere in alcun conto dello scambio degli equivalenti.

Come sia stato possibile che in una comunità avanzata il capitalismo commerciale si sia trasformato in capitalismo industriale, mentre in un'altra sia rimasto solo commerciale, Marx non lo spiega: si limita ad affermare che vi devono essere state "altre circostanze" (p. 449). Infatti egli sa bene che non basta la separazione dell'industria cittadina da quella rurale: "già nell'ultimo periodo della repubblica - egli osserva - l'antica Roma sviluppa il capitale commerciale a un livello prima ignoto, senza che si registri il benché minimo progresso industriale" (pp. 449-50).

Come faccia però a dire che "in Corinto e in altre città greche d'Europa e d'Asia minore lo sviluppo commerciale s'accompagna a un'industria grandemente sviluppata" (p. 450), non è dato sapere; meno ancora là dove dice che "lo sviluppo del capitale commerciale risiede anche presso popoli nomadi" (ib.). È vero, i mongoli erano dediti ai commerci, ma da loro non sarebbe mai potuto nascere il capitalismo industriale, e neppure dalla ricchissima Bisanzio, e certamente non per mancanza di mezzi o di intelligenza.

Marx qui sembra lasciar intendere che "il concorso di altre circostanze" che ha permesso la nascita dell'industria, è stato piuttosto casuale. Ma ciò non è vero. È stata piuttosto la mancanza di un'analisi culturale, autenticamente storiografica, a impedirgli di capire che il caso qui non c'entra nulla.

Un circolo vizioso

Si faccia ora attenzione a questo suo pensiero: "il sistema coloniale [nato nel XVI secolo] diede un sostanziale contributo alla distruzione dei limiti feudali della produzione. Malgrado questo, nel suo primo periodo, vale a dire nel periodo della manifattura, il modo di produzione moderno [quello industriale] si sviluppa solo laddove i presupposti indispensabili per esso erano già sorti durante il Medioevo" (ib.). Questi "presupposti" Marx non li spiega, non è in grado di individuarli. È anzi costretto ad affermare - non avendo fatto un'analisi culturale (olistica) - che il colonialismo ha favorito la nascita del capitalismo industriale soltanto là dove "il modo di produzione capitalistico già esisteva" (p. 451), e qui possiamo supporre ch'egli intendeva, aristotelicamente, qualcosa "in potenza".

È questo il circolo vizioso in cui egli si è dibattuto per tutta la sua vita. Il capitalismo si è sviluppato attraverso il commercio mondiale del colonialismo (poiché è nella sua natura diffondersi il più possibile sul piano geografico), e questo colonialismo ha indotto il capitalismo a trasformarsi da commerciale a industriale. Ma perché questo sia accaduto proprio in Europa occidentale e non, per esempio, in Cina, in India, in qualche paese arabo o nell'area bizantina, Marx non sa spiegarselo.

Ma c'è di più. Siccome egli afferma che "non è il commercio che rivoluziona l'industria, ma è l'industria che rivoluziona costantemente il commercio" (ib.), ora deve cercare di spiegare, con un esempio concreto, come sia possibile che un paese altamente commerciale come l'Olanda non diventi un paese altamente industrializzato come l'Inghilterra. Per uscire dal circolo vizioso, finisce col precipitare in un altro. Infatti lascia capire che un paese altamente commerciale  diventa industrializzato solo se lo era già! Almeno in fieri. Qui però, mettendo a confronto l'Olanda con l'Inghilterra, non spiega nulla. Si limita semplicemente a dire che "La storia della rovina dell'Olanda come paese commerciale predominante è la storia della subordinazione del capitale commerciale a quello industriale" (pp. 451-52).

Non solo, ma come si può sostenere una cosa del genere quando è storicamente noto che l'Olanda, con le proprie industrie tessili, si era sviluppata molto prima dell'Inghilterra, i cui produttori per molto tempo si erano limitati a fornire agli olandesi la materia prima per il tessile, senza essere capaci di trasformarla in un prodotto finito? Una cosa è dire - come fa più avanti - che gli inglesi distrussero completamente, coi loro prodotti tessili a basso costo, l'industria artigiana dell'India, costringendo i produttori locali a concepirsi in funzione delle esigenze della loro madrepatria colonialistica. Un'altra è fare i confronti tra due nazioni europee altamente sviluppate sul piano commerciale. È infatti evidente che sia in India sia in Cina il capitalismo industriale non poteva essere che un prodotto d'importazione, nonostante che in questi due paesi fosse presente da secoli il capitalismo commerciale. Tuttavia qui Marx resta molto lacunoso. Quanto meno avrebbe potuto dire che il capitalismo industriale degli olandesi fu enormemente ostacolato dagli inglesi.

Dal feudalesimo al capitalismo

Vediamo ora quale spiegazione generale egli dà per far capire la transizione dal feudalesimo al capitalismo. "Il produttore si trasforma in commerciante capitalista, lotta contro l'economia rurale naturale e il lavoro artigiano corporativo dell'industria urbana del Medioevo" (p. 453). Come possa fare il produttore a trasformarsi nel suo contrario, Marx non lo spiega, lo dà semplicemente per scontato. Non fa un'analisi della mentalità, dei valori culturali.

L'alternativa che propone a questa via di superamento del feudalesimo è ancora meno decifrabile culturalmente: "oppure il commerciante prende diretto possesso della produzione" (ib.). Come se anche questa cosa fosse la più naturale del mondo! Delle due comunque Marx considera più rivoluzionaria la prima, proprio perché la seconda può sussistere anche in condizioni di scarso sviluppo dei macchinari, e quindi facendo sopravvivere vecchi modi di produzione. È la macchina (soprattutto quella a vapore) che decide il passaggio al capitalismo industriale. Come se lo sviluppo del macchinismo non implichi, anch'esso, un processo culturale molto particolare!

Quando poi deve fare una sintesi di ciò che ha appena detto, scopriamo che le strade per diventare capitalisti industriali non sono due ma tre: "il commerciante diviene direttamente industriale" (pp. 454-55) [cosa tutta da spiegare, in quanto per nulla scontata e tipica solo del moderno capitalismo nato in Europa occidentale]. Marx qui fa l'esempio dell'Italia del XV sec., che importava da Costantinopoli le industrie del lusso, insieme alle materie prime e ai lavoratori. Tuttavia questo non bastò affatto a far diventare Venezia o Genova delle città industrializzate in senso capitalistico.

Secondo caso: "il commerciante trasforma il piccolo padrone in suo intermediario, oppure acquista direttamente presso il produttore diretto; nominalmente lo lascia indipendente senza toccare il suo sistema di produzione" (p. 455). Questo è il periodo della manifattura sparsa (putting-out system), che è l'anticamera dello sviluppo delle manifatture urbane, dove vengono concentrati gli operai davanti a macchinari più evoluti. Ma anche questa seconda strada verso il trionfo del capitalismo andrebbe spiegata culturalmente, poiché non può certo essere considerata come "naturale" nell'ambito del Medioevo, basato come era su autoconsumo e baratto. Non può essere considerato un caso il fatto che in pieno Medioevo il capitalismo commerciale abbia ripreso a funzionare a partire dall'Italia comunale e religiosamente cattolica del Mille.

Terza possibilità: "l'industriale si trasforma in commerciante e produce direttamente all'ingrosso per il commercio" (ib.). È questo - secondo Marx - il modo migliore per arrivare al capitalismo industriale vero e proprio.

In definitiva, "il commercio all'inizio era la premessa perché l'agricoltura feudale, l'artigianato familiare delle campagne e quello corporativo si convertissero in produzione capitalistica" (ib.).

Tuttavia il commercio è stato soltanto una premessa, non l'unica, altrimenti non si spiega perché il mondo greco-romano non sia mai diventato capitalistico, se non appunto in forma commerciale. Che poi, anche in questa forma, il capitalismo romano non si sviluppò mai sulla base delle vie tracciate sopra da Marx, poiché esse sono tutte vie che effettivamente preludono al superamento definitivo del sistema feudale, mentre nel mondo greco-romano tutto il capitalismo commerciale si è sempre basato fondamentalmente sullo schiavismo o, nel migliore dei casi, sul colonato, quando lo schiavismo cominciò a entrare in crisi per motivi militari.

È quindi sbagliato sostenere - come fa Marx - che quando "la manifattura, e ancor più la grande industria, giungono a un certo livello, esse si creano da sé il mercato, lo conquistano coi loro prodotti" (pp. 455-56). Questa è una spiegazione che non spiega nulla. Non si può passare da uno sviluppo di determinazioni quantitative a una nuova qualità senza che nessuno si renda conto di niente, senza che nessuno se ne chieda le ragioni o che protesti. Questo modo "hegeliano" di ragionare che aveva Marx porta a considerare i processi storici come necessari, assolutamente inevitabili. Si finisce addirittura col considerare "migliore" il capitalismo industriale rispetto a quello commerciale o quest'ultimo "migliore" del sistema feudale o schiavistico, senza fare altre considerazioni di natura extra-economica. Si finisce col credere, sempre in maniera ipostatizzata, che la "superiorità" stia semplicemente nel livello delle forze produttive o nella capacità produttiva in senso quantitativo.

Detto questo, può forse bastare sostenere poi che il socialismo è "migliore" del capitalismo in quanto elimina l'antagonismo sociale tra lavoro e capitale, nonché l'anarchia della produzione? Analisi di questo genere non garantiscono affatto che il socialismo si realizzi davvero in forme democratiche e compatibili con le esigenze della natura.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015